Finisce allo stesso modo, la stagione di Denise, ingenua moglie-bambina, modi affettati, vita facile e bei vestiti, e come l’onda lunga di un mare agitato si infrange sui sassi aguzzi di una spiaggia incolta.
Avere 20 anni ed essere in grado, così giusto per provare, stesa su un divanetto del soggiorno, un quaderno in una mano e nell’altra il campanello per chiamare la servitù, di “buttar giù due righe” e creare dal niente le figure grottesche e raccapriccianti, così vivide perché così reali, di signore attempate, desperate housewives dalle rughe profonde mascherate dal belletto sul viso umido di sudore, che, nell’ombra di locali fumosi, fino a notte fonda esorcizzano il buio e il silenzio dell’animo tra balli, musica, frastuono e alcool, cullando sui loro grembi avvizziti macabri pierrot di pezza e lustrini, feticci di quella bella “stagione della vita” ormai morta e sepolta.
Per tutto il resto c’è l’umiliazione di noi poveri lettori, costretti a confrontarci con un’autrice che dei corsi di scrittura creativa se ne sarebbe fatta un baffo. #Priceless.
L’animo di Yves è rigido e duro come la pietra e la terra dell’Europa corrotta dalla guerra, poco incline al sentimento e alla passione amorosa. Yves cerca la pace e la tranquillità dello spirito: un sospiro di quiete, un guanciale morbido, lindo, fresco di bucato su cui posare il capo, chiudere gli occhi e liberare l’animo dalle inquietudini del mondo, condividendone (cum-patior) con la persona amata i dolori, ma anche le gioie. Denise invece è il fuoco, è l’ardore dell’amore passionale, è desiderio cieco e febbricitante per tutto ciò che un marito lontano, ricco e distante, e – diciamocelo – pure un po’ fesso, non riesce a donarle.
Chissà che Yves non rappresenti l’uomo nuovo, per l’Irene come per la società moderna (e qui sta l’attualità del libro, dramma sentimentale a parte). L’epopea del selfmade man, che, affrancatosi da un’eredità familiare oramai altra, aliena da sé – vuoi di agiatezza e prosperità, vuoi di povertà proletaria – diviene artefice del proprio destino, riappropriandosi di quell’imperativo morale, categorico, che i tempi richiedono: una ri-assunzione di quelle responsabilità adulte che fanno di un giovane figlio un uomo maturo, virile, consapevole delle proprie forze ma anche delle proprie debolezze; un uomo in grado di affrontare le difficoltà della vita reinventando il proprio destino e il proprio ruolo nel mondo.
Tutto quello che il marito di Denise non è: perso in una nuvola fumosa da sigaro postprandiale fumato in biblioteca, un bicchiere di buon vino, è prosecutore passivo di una certa qual tradizione – e ricchezza familiare – fatta di industrie, affari, commerci (neppure gran che identificati, come ovvio), ruoli e posizioni sociali immutabili e indiscutibili nella loro essenza di diritti acquisiti, al di là del talento e dei meriti individuali.
La vita adulta, tuttavia, richiede un obolo in cambio. E lo chiede sia al maschio sia alla femmina: così come l’uomo, acquistando un nuovo ruolo all’interno della vita di famiglia (partecipe, presente, collaborativo – vedi il rapporto di Yves con la figlia di Denise), ma anche sociale e professionale, a contatto con le difficoltà pragmatiche del mondo perderà parte della sua indole passionale e romantica, tornando a ricercare nella donna e nell’intimità della famiglia quel porto sicuro fatto di tenerezza, sollecitudine e comprensione reciproca, così la donna, se desidera al proprio fianco un uomo dalla maturità completa e consapevole, dovrà essere in grado di abbandonare i sogni romantici di passione bruciante a favore di un amore (e non di un innamoramento) duraturo, condiviso, intimo ma di certo meno incline al romanzo sentimentale.