Jacob Marlowe è uno di quelli che se un sabato sera te lo presentano nel privè di una discoteca ci dovresti andare larga, perché l’istinto (sic) ti dice che la frequentazione assidua potrebbe portarti solo dei grandi guai.
Ce le ha tutte, nessuna esclusa: beve, fuma, se occorre si fa pure di amfetamine; non si innamora mai, fa sesso variegato (e pure, a sentir lui, di gran qualità) usufruendo unicamente, per altro, dei servizi ben remunerati di escort di comprovata esperienza & gnoccaggine estrema.
Tra società offshore e conti esteri cifrati, cambia spesso numero di cellulare e non si capisce mai dove stia, né di residenza né di domicilio.
A ciò aggiungi modi sopraffini, vestiario accurato e un certo non so che di snobismo un po’ dandy, così, nel modo in cui sceglie una bottiglia di whisky o in cui, bel principe tenebroso alla maniera della premiata ditta Charlotte, Emily & Anne Bronte, lo sorseggia appoggiato alla pietra di un caminetto scolpito, illuminato dalle ombre soffuse di un fuoco invernale scoppiettante, le spalle rivolte agli scaffali di una biblioteca antica e preziosa. Proprio uno di quelli che fanno la felicità (e l’infelicità) di noi ragazze perdute. Aridaje. (“E di peli | sul petto | ne ha un mar”, per citare quelli della Disney che, per una volta, ci avevano azzeccato; a voi scoprire dove).
Passato questo attimo di femminile smarrimento, proviamo a dedicarci anima e corpo all’analisi dell’opera, che si colloca giusto a metà strada tra il diario epistolare, il racconto horror, la spy story, la gothic novel, il trattatello filosofico e una raccolta di haiku. Tutto mescolato insieme, una mistura potente e venefica di subcultura pop che neanche Chuck Palahniuk nei suoi momenti migliori.
Jacob Marlowe è un tizio stanco. Anzi no; ne ha proprio le palle piene, triturate.
Che poi JM sia stanco dell’immortalità, è questione accessoria. E’ che oramai ha provato di tutto: ha abbracciato la filosofia stoica, ha affrontato con socratico candore le avversità della vita, si è dato alla pazza gioia del “Maiale Soddisfatto”. Eniente, lo scoglionamento, presto o tardi, arriva per tutti, altro che Edward, macchine di lusso, letture profonde, musica da camera, godimento interiore. Che dire, tanto vale farsi ammazzare. Peccato che poi “arriva sempre qualcos’altro” a rovinarti il progetto.
Via, ne ridiamo anche un po’, di questo “Jacke” (ohssì, ci viene in mente proprio “QUELLO LI’”, di Jacob, quello carino, tutto muscoletti cinematografici e buone intenzioni e sguardo da duro), che tra il serio e il faceto ce li distrugge tutti, i cliché del genere, uno per uno, uno in fila all’altro, senza preoccuparsene troppo, della nostra reazione di fronte al fattaccio (orrore e raccapriccio).
E comunque dovremmo rassegnarci visto che tutti sembrano, in un modo o nell’altro, averci preso gusto nell’inviarci messaggi neanche troppo subliminali sulla questione licantropi e vampiri, con buona pace di Stephenie Meyer.
Ché, alla fine, il licantropo è un pover’uomo neh. Non è così figo d’aspetto, non vola, non ha poteri soprannaturali. Insomma è un poveraccio che una volta al mese si ritrova, per sfiga ricevuta, prigioniero di un corpo che pur non appartenendogli fa innegabilmente parte del sé, un subconscio ingombrante e trattenuto a stento: tre metri di altezza, peli dappertutto, unghie e zanne fastidiosissime e purulente; privazione del linguaggio, fame pazzesca ed erezioni incontenibili. C’è di che compatirlo.
Anche i vampiri per altro non è che se la passino così bene. Possono pure essere glamour, stavolta, ma continuano ad essere lievemente infastiditi da tutta quella serie di piccole defaillance che hanno così tanto urtato la nostra SMeyer da farla capitolare sul più bello: luce del sole, paletti di legno, carenza di sesso, fame di sengue umano, insomma tutto l’armamentario.
Sicché, leggi di Jacob Marlowe e ti prende questo senso pungente di vendetta compiuta, sospiro di sollievo, catarsi dell’animo a sentire le sfighe di quest’uomo che, pur non essendo più tale, conserva in sé la presenza, forte, potente, ossessiva dell’Essere Umano – esemplificato dalle anime delle centinaia di persone uccise, massacrate, sbranate e poi divorate pezzo a pezzo che fanno capolino, di volta in volta chiamate in causa quasi fossero voci di coscienza perduta.
Jacob Marlowe è, e rimane, pur nella sua bestialità truculenta, un essere umano con tutte le sue debolezze e soprattutto con tutte le sue sfortune, che poi si identificano, guarda caso, negli incubi peggiori che attanagliano i sonni di noi comuni esseri umani: il terrore per la solitudine, la paura di perdere la persona amata o quella parvenza di serenità appena conquistata, magari dopo anni (…o secoli) di agonizzante fatica, l’angoscia per una vita di cui, alla fine (causa lavoro, vita privata, merde varie) potremmo divenire soltanto spettatori passivi.
Edward Cullen è un compromesso che la natura di Jacob Marlowe non può accettare: hai voglia a parlare, fino a che l’espediente letterario ti offre la possibilità di seguire una Vegandiet d’autore, massacrando cervi e caprioli in sostituzione della carne umana. Hai voglia a celebrare la vita da vampiro fino a che il tuo bellissimo incarnato risplende alla luce del sole mentre Eli, con la sua fastidiosissima autocombustione spontanea, è soltanto un vago ricordo, darwinianamente sepolto nei recessi della memoria storica di una letteratura che affonda le sue radici addirittura nel Satyricon di Petronio.
La questione più interessante è però l’origine di questa riaffermazione del sé, di qualsiasi sé si tratti. Che non viene direttamente dall’autore, ma nemmeno da un personaggio maschile. E’ Talulla Mary Apollonia Demetriou, che solo ad abbreviarne il nome si farebbe sacrilegio, ad indicarci la via, riappropriandosi di un carattere femminile fortissimo; l’intelligenza sicura, tagliente e la personalità consapevole di se stessa e del mondo circostante la differenziano inequivocabilmente dalle altre “eroine” del suo tempo.
La vita del licantropo (come quella del vampiro) non è fashion, e non lo può diventare, malgrado tutti gli sforzi – e le reinvenzioni letterarie – possibili.
E tuttavia, proprio perché non è degna di essere oggetto di scelta consapevole, diviene degna di essere vissuta.
E così è anche – e soprattutto – per la scrittura: il genere letterario, con tutti i suoi archetipi e topoi, rimane intatto, scevro da ogni rielaborazione successiva allo standard; ma proprio grazie a questo sostanziale principio di “autoconservazione” si ricontestualizza e diviene attuale, e crea da se stesso, senza alcun deux ex machina, quel principio della condivisione del sentimento che sta alla base dell’immedesimazione attiva, e riuscita, tra lettore, autore e personaggio.
Buona lettura 🙂
Buona lettura 🙂