Talvolta le fiabe ci raccontano di orchi e mostri paurosi nascosti sotto al letto. Sono brutti e cattivi, non ci si può sbagliare: hanno il naso a punta con un bel foruncolo sopra, come la befana, gli occhi maligni, l’alito mefitico e l’ascella pezzata. Magari hanno pure ali e zanne, sono sbudellatori pelosi, creature venute da un altro pianeta che sa di buio, freddo e crudeltà. E fanno le peggio cose: ti aspettano al limitare del bosco, ti saltano addosso e ti succhiano via tutto il sangue dal corpo; fanno la guardia sotto il materasso, acquattati nel buio tra libri e matite dimenticate, fiocchi di polvere e pezzettini di biscotto avanzato, per poi entrare a piedi nudi – scalpiccio di zampette umide – nei tuoi sogni di bambino e riempirli di incubi e sudori freddi.
Il problema è quando l’orco e il mostro pauroso hanno la faccia bella e pulita di un amico fidato, di uno zio o di un fratello. O peggio, di un figlio.
Succede quando le fiabe non sono più tali e ci raccontano il mondo che abbiamo intorno, un mondo di cui non ci siamo mai accorti, o che abbiamo fatto finta di dimenticare. Quando il male (e qui Biancaneve fa da apripista, con la sua strega cattiva che da matrigna bellissima agli occhi del padre, nell’antro segreto si trasforma in strega malvagia, ali di pipistrello e trucco bistrato, per poi cedere, per incantesimo, all’iconografia della vecchietta curva e zoppa, bisognosa di aiuto) muta forma e aspetto e da evidente e riconoscibile, pur senza cambiare sostanza, recupera il suo status di inganno e ambiguità.
Il male come scarto del punto di vista, come deficit dell’osservazione e della percezione sensoriale, un punto di non ritorno fisso al margine dello sguardo. E’ questo, a far più paura a noi grandi, più del mostro peloso, più del vampiro assetato di sangue.
E così il bravo Peter, fisico sportivo, reduce di guerra, sobrio, educato, a modo, falegname tuttofare, così affabile con i bambini tanto da ottenerne pure diversi in affido, non è altro che il mostro stupratore, il pedofilo incallito, il viscido energumeno che in un perverso gioco di ricatti e sensi di colpa si appropria della vita di quelle bambine, siano esse figlie naturali, in affido, o semplicemente vicine di casa, come Margaux, che abbiano la sfortuna di pestagli i piedi per strada. E così Michael, adolescente di ottima famiglia, educazione spartana e amicizie altolocate nella civilizzatissima Danimarca, patria dei diritti umani, dell’uguaglianza e dello stato di diritto, si rivela un delinquente di infima risma che, insieme al cugino coetaneo, passa le serate in giro per i quartieri di periferia a pestare e ammazzare barboni (e in certi casi, se tira il vento giusto, pure a dargli fuoco) filmandosi con il telefonino.
In entrambi i casi la paura per noi è atavica, perché non identificata. Non c’è mostro, non c’è vampiro, non c’è genio del male contro cui scagliarsi per una catartica, salvifica caccia alle streghe. Le colpe di Peter sono i fallimenti dei genitori di Margaux, della scuola e della famiglia; le colpe di Michael sono quelle della società moderna, dell’apparenza ad ogni costo, della politica come spettacolo quotidiano, scandalo sessuale, esaltazione del potere e del denaro fine a se stessa. Censo e status sociale non contano; da una parte, la depressione dell’enclave portoricana: disoccupazione, alcolismo, malattia mentale, prostituzione, droga, bande giovanili e desiderio di rivalsa. Dall’altra, upper class, ristoranti di lusso, professori universitari, politica, sport, attività filantropiche ma anche droga, violenza, prevaricazione.
Anello di congiunzione, una scrittura agile, veloce che:
– da una parte, (“La cena”) ha il merito di una sintesi feroce, da bisturi, più simile al canovaccio di un racconto lungo (l’arte del togliere e del sottinteso) che a quella di un romanzo; la trama prende forza da una narrazione serrata, costretta in poche ore e in uno spazio unico, teatrale: il palcoscenico buio, un tavolo apparecchiato al centro, illuminato (così com’è il ristorante, una scatola di vetro e acciaio che risplende adagiata nell’oscurità della natura circostante) da un cono di luce violenta. In scena 4 personaggi raccontano, ognuno, la propria verità, e le immagini scorrono su uno schermo alle spalle dei commensali: il video incriminato, riportato su youtube e in televisione; la campagna elettorale del Premier, i flashback della voce narrante. A finire, il marito, in piedi, solo, (il tavolo vuoto, in disordine, sparecchiato alla bell’e meglio) e immobile a raccontare l’epilogo.
– dall’altra (“Tigre, Tigre”), ha le fattezze di una scrittrice che ha studiato, imparato e messo a frutto l’arte e la perizia di JC Oates. Contestualizzazione massima, quasi maniacale: indicazioni topografiche, descrizioni di interni, e poi ancora, marche, stili e nomi: di accessori, di jeans, di scarpe, di gomme da masticare; titoli di libri, di films, di fumetti, di programmi televisivi, che non sono soltanto meri accessori al contesto – come se bastasse un’infilata di nomi per riesumare un’epoca – ma identificativi precisi, puntuali, caratterizzanti. Pagine che mantengono ritmo e unicità grazie alla struttura solida della saga familiare, intessuta di avvenimenti che coprono l’arco di più di un decennio, inframmezzata da momenti di grande lirismo e di crudissima lucidità, che non scade mai né nell’approssimazione, né nel vojeurismo, né nel pornografico.
La matrigna di Biancaneve (ma anche la strega di Hansel & Gretel, o il pifferaio magico) con la sua bellezza algida e perfetta ci spalanca le porte di un mondo alla rovescia in cui per sopravvivere occorre diffidare anche dei buoni – o almeno, di quelli che buoni per lo meno lo sembrano.