E’ inutile. Da qualsiasi parte lo guardi, David Golder ti provoca sempre un senso di fastidio.
Il fatto è che non è solo fastidio, è proprio irritazione; e, francamente, della peggiore specie; via, altro che politically correct, evitiamo le balle e diciamoci la verità. Cioè, delle volte sei proprio lì lì per mollarlo, eh, al suo marcio destino, David Golder – ché tanto, lui, alla fine, ci arriva lo stesso e vuole per altro arrivarci da solo, quindi, tanto vale.
E un po’ ti incavoli anche con l’Irene, che con la consueta leggiadria e strizzatina d’occhio (ma che è, ci è o ci fa? – e il dubbio ti viene pure) ti mette lì sul piatto un personaggio di tal fatta a) di cui non te ne può fregare di meno perché cosa c’entriamo noi con un tipo del genere b) così fastidioso che se non riesce ad ammazzarsi da solo, quasi quasi avresti voglia pure di dargli una mano.
Ora. Questo tipo è vecchio. Brutto, tarchiato, segnato nel corpo da decenni di fatiche e stenti: denti marci, capelli un po’ di qui un po’ di là, rughe sparse; forse ha pure un po’ di gobba, così ce lo immaginiamo, tanto per quel che vale. Fuma sigari che immaginiamo puzzolentissimi, avrà, Gesù, un alito da spavento e quell’odorino acre e penetrante di chi si lava poco (visti i tempi…).
Per altro, è sì ricco sfondato, ma è talmente messo male che forse se lo trovassi in giro gli allungheresti pure qualcosa, per lo spavento. Palandrane scure, lise dagli anni, un portafogli di cuoio le cui due parti manca poco che rimangano insieme solo perché legate tra loro con un pezzo di spago; sguardo cieco piegato su candele morenti e libri mastri e carte indecifrabili, fino a notte fonda, nel freddo di una stanza mal riscaldata.
Per altro, la prima impressione non è certo fugata da quel che vien dopo.
Questo Golder pare un farabutto di prima categoria, uno che non esita, in nome di che cosa non si capisce, ad approfittare delle (evidenti) difficoltà, personali d professionali, del socio (ventennale) a cui non le manda sicuramente a dire. E siccome non c’è limite al peggio, quello, vittima della depressione, della sfavorevole congiuntura economica e della terribile conversazione notturna avuta con il sopracitato Golder, che – da gran signore – non gliene ha abbonata neanche una, tornato a casa pensa bene di ammazzarsi buttando all’aria famiglia e affari.
Ora, ricapitoliamo: brutto, vecchio, sporco, e pure una gran carogna, chè al funerale del socio (suicidio di cui si potrebbe definire il mandante) non fa altro che lamentarsi delle condizioni meteo maledicendo “la gran cavolata” – come definisce, twitterando, la bella idea del socio – che gli sta facendo perdere ore preziose, anzi preziosissime, per gli affari e le contrattazioni.
L’immagine edificante è completata da due vecchietti bavosi al pari suo che, chiusi nelle palandrane nere, non fanno che maledire funerale e pioggia e caro estinto il di cui ultimo scherzetto (postumo) – interpretazione delle più fantasiose – sarebbe la polmonite fulminante a cui avrebbe esposto i “cari” amici accorsi al sepolcro.
A questo punto non si salverebbe niente. Date le premesse, dicevamo.
Senonché, proprio, a smettere di leggere non ce la fai. E’ questione che ma sì, ancora un paragrafo, giusto per concludere. Sicché poi vai avanti ancora per una decina di capoversi e poi pensi che, data l’entrata in scena della Sig.ra Golder (toh, si capisce, poi, perché volevano trarne una trasposizione teatrale e pure cinematografica), allora è lecito continuare ancora per qualche altra pagina così da terminare il capitolo.
E’ che poi quando meno te lo aspetti arriva Joyce e il danno è fatto, non si torna più indietro. Così la rabbia monta e stai sempre peggio perché ti accorgi che l’Irene, ancora una volta, ha fatto il suo gioco e tu hai un bel dire, ad accampar scuse, sì il lettore protagonista, sì la scelta consapevole, sì la fruizione meditata del testo. La questione è che ancora una volta quella lì ti ha preso e rigirato come un calzino e tu non te ne sei neanche reso conto. O meglio, te ne sei accorto troppo tardi.
C’era quella storia in Harry Potter, quella dello specchio dimenticato. Quello specchio che ti faceva vedere, alla fine, quello che TU volevi vedere, e niente altro. O forse quello che NON avresti mai voluto vedere. Ecco perché David Golder ci sta proprio sull’anima, e però non possiamo fare a meno di seguirlo per vedere dove va a finire. Attrazione e repulsione.
David Golder non è interessato al denaro. Ne possiede? Probabile. Però lo prende e lo reinveste, buttandosi a capofitto in imprese disperate. Lo perde al gioco, turbinio di fiches impegnate, gettate via, riprese, rivendute, senza sosta, fino all’alba. Si circonda, per volere della moglie, di arrendamenti lussuosi, appartamenti e ville di cui non si cura e che non gli sono di nessun conforto né materiale né morale. Corre da un capo all’altro del mondo alla ricerca dell’affare perfetto; affare perfetto che non troverà mai, perché l’importante non è il fine, ma la corsa, che David Golder ha il terrore di abbandonare. Una malattia, l’infermità, finanche la morte, ecco l’uomo nero che attanaglia i disturbati sonni notturni di David Golder.
E non solo i suoi, a dire la verità, ma pure i nostri.
Noi, quelli che di fronte a quella terribile agonia di lacrime e solitudine non possiamo fare altro se non rabbrividire di orrore e raccapriccio, trascinati e persi (ah, il lettore consapevole, padrone di sé? Come no) nel profondo di una Russia atavica, crepuscolare e così definita, precisa, nei suoi rimandi letterari di Tolstojana memoria.
La miseria, da cui la moglie Gloria, vissuta la gioventù negli stenti e nelle privazioni, ora rifugge come la peste. La vecchiaia, la bruttezza, l’anonimato (anche sessuale – ovverosia l’essere non-desiderabile) per la figlia Joyce.
E’ questo, quello che la famiglia Golder scopre nel fondo dello specchio, osservandosi attentamente. E non si può dire che l’Irene qui non ne abbia per tutti noi. (vedi punto a sopra – che ci azzecco io con David Golder).
Come è per Gloria, nata e cresciuta nella miseria e nella fame, che antepone – interesse di vitale importanza – la creazione e la conservazione dello status symbol familiare (Mulino Bianco docet) a qualsivoglia forma di affetto sia filiale, sia coniugale, così è per Joyce che, abbandonata ogni peculiarità propria, intima, non diviene altro – spersonalizzandosi – se non una delle tante ragazzine, in tutto e per tutto identiche, di quelle che popolano le spiaggie più chic di Biarritz, alla ricerca di emozioni forti, uomini prestanti e avventure mozzafiato. Il terrore di tutte le anti-Bella Swan: la spersonalizzazione. Ma anche, al rovescio, lo spauracchio di tutte le cheerleaders del mondo: la pardita della popolarità e la discesa verso gli inferi dell’anonimato.
E poco importa che David Golder sia ebreo. “Casualmente”, è pure ebreo (e da qui tutta la querelle sul presunto antisemitismo del libro). Ma poco ci prende, giacché l’Irene quello aveva a disposizione, e mica altro, e quindi, di necessità virtù. Che alla fine, non è che Golder per altro sia così “ebreo” – se la vogliamo proprio vedere da questo punto di vista.
Anzi, forse è così messo male proprio perché in qualche modo vi ha rinunciato, all’ebraismo – o a qualsivoglia – che nome vogliamo dare, qui, alla questione – credo religioso, fede nell’Umanità? E sempre qui ritorniamo.
Fortuna, declino resurrezione e morte di uno speculatore – ebreo, manco a dirlo – di cui l’autrice (morta ad Auschwitz) descrive la vitalità incomprimibile e le relazioni umane inesistenti: amici, moglie, figlia, tutti rapportati sempre e solo al denaro e alla capacità di produrne ed erogarne.
Spessori psicologici scarsi, qualche pagina potente – quelle finali sulla trattativa da concludere ad ogni costo mentre l’angina pectoris stringe verso una morte dolorosa – e poco più. Scorrevole. Tutto sommato “facile”, pur nella sua durezza.
Balzac aveva già detto tutto, e la “scoperta” di Adelphi di questa scrittrice della prima metà del ’900 mi pare solo un espediente editoriale. Tralasciabile senza rimpianti.
http://stefanodesanctis.it/archives/641/david-golder-irene-nemirovsky/
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