
“(…) esistono energie e tensioni che aiutano gli eventi a combinarsi tra loro alla perfezione, sì, e si dà il caso che queste forze non abbiano nome; e non c’è bisogno di scomodare parole grosse come ‘destino’ per spiegarle. Hanno l’aspetto delle coincidenze: ma non sono coincidenze, e non sono destino. Io le chiamo armonie: traiettorie poetiche che danno ordine e forma, per un tratto, al caos della vita.”
Nella loro disperata bellezza di ragazzi, Ettore, Bruno e Irene hanno il merito d’avermi riappacificata col romanzo familiare. O almeno con quella parte del romanzo familiare che si adopera per scrivere di famiglia tralasciando i cliché dei grumi di angosce, delle incomprensioni politico-generazionali, degli scandali a lungo taciuti; quella parte, insomma, che continua a occupare una posizione di nicchia rispetto ai grandi drammoni di casa nostra (che tendo ad affrontare con fatica sempre più improba).
In realtà, nessuno dei tre protagonisti una famiglia ce l’ha per davvero, in senso stretto; sicché, verrebbe da dire, “La vita anteriore” è un romanzo familiare fondato sull’assenza (che spesso è più voluminosa della presenza) e pure, al contrario, sulla fantasmagoria dei legami familiari allargati.
Ettore Maggio vive con la madre Marina, una pletora di zie non maritate, la nonna Anita e il nonno Ottavio dal momento che il padre – riguardo al quale nessuno degli adulti prova un granché di rancore o sentimento vendicativo – ha fatto perdere le proprie tracce a pochi minuti dal parto. Bruno Basanisi da quando era piccolo sta con gli zii perché i genitori sono morti in un gravissimo incidente stradale. Pure Irene Favelli, malgrado sia l’unica dei tre che anagraficamente possiede una madre un padre e perfino un fratello, ha le sue gatte da pelare: il padre manca presto, la madre si rifugia nei sonniferi e nell’alcool e a Irene tocca prendersi cura del fratello “ritardato”. “La vita anteriore”, quindi, non è soltanto un romanzo che racconta le vicende di queste tre famiglie radicate al Sud, tra il boom degli anni ’50 e i giorni nostri ma è il racconto di un’amicizia, di quelle che nascono e crescono seguendo strade misteriose e armonie imperscrutabili agli occhi dell’osservatore (perché proprio l’instabile e ombroso Bruno, baciato dal talento per il pianoforte, viene ad accompagnarsi a Ettore, figlio e nipote prediletto, l’indifferente, l’insofferente, lo scrittore bello e dannato? Perché gli occhi azzurrissimi di Irene nel mezzo e quel suo rimaner costretta nello spazio angusto del diventare adulta prima del tempo?).
“La vita anteriore” scappa via da ogni rischio di sbavatura grazie a un sostanziale equilibrio tra le parti che tiene a freno la materia dove necessario: i temi della famiglia non soverchiano quelli amorosi che tuttavia, a loro volta, non sono mai spinti a prendere il sopravvento su una narrazione che si vorrebbe definire, in certi punti, addirittura “corale”. A far da adesivo è quell’elemento fiabesco, intuito e mai spiegato, quel senso di accettazione dell’ignoto, mai messo in discussione, quelle minime distorsioni temporali che fondano il nucleo intimo del realismo magico.
“Esiste anche ciò che non si vede e non si sente, -”
Quella parte di realismo magico che qui si infila, fra i tratti postmoderni di una narrazione che senza tanto clamore riesce a mettere in evidenza le criticità di un particolare, altro approccio al sistema-romanzo, non è mai espediente per scavalcare nessi logici altrimenti ingiustificabili ma al contrario strumento attraverso cui rendere manifeste tante connessioni altrimenti perdute, perché invisibili agli occhi. La stramba, intermittente preveggenza di nonno Maggio, il talento musicale di Guido, esploso dopo la morte dei genitori, la bellezza azzurra di Irene, incantamento di serpente, le scelte di vita che paiono consapevoli ma che alla fine si risolvono su sentieri già definiti in partenza – tutta questa interpretazione del sussistente affonda le radici nella consapevolezza che alcuni doni e alcune sventure (sì, perfino la morte e di morte dentro a queste pagine ce n’è, come giusto che sia) accadono per via di certe coincidenze e che contro queste coincidenze non si può nulla, a parte l’accettarle.
“‘Quando si va via, facci caso, si va sempre al Nord,’ spiegò sua madre. ‘Uno, quando le cose vanno male, prende e se ne va al Nord. E quando invece le cose vanno male e sei già al Nord, che fai? Sali ancora più a nord. Come se scendendo più giù non ci fosse più terra, come se scendendo più giù, non ci fosse niente’. Lo guardò. ‘Ma chi l’ha detto che dev’essere così? Non lo sarà per me. Io non salgo. Io scendo‘.”
Questa maniera di affrontare il reale arriva direttamente dalla nostra antichità, dal mito e dal divino come parte del contesto naturale. E quale luogo mai può essere più indicato per rappresentarla, del nostro Sud più profondo? Con “L’estate muore giovane” Mirko Sabatino ci aveva già abituati alle atmosfere fiabesche che qui si fanno, mi pare, più fini e curate: ombre profonde e freschissime negli androni di vecchi palazzi cittadini, tocco di un vento arrivato da chissà dove a scostare una tenda pesante e preziosa, porte socchiuse a mostrare stanze il cui accesso resta proibito. Su tutto regna indiscussa la campagna pugliese, del caldo che prende alla gola, della buganvillea e del fico d’india aggrappati a muri bianchissimi e roventi, della polvere che si deposita sui mobili e sugli oggetti. Oggetti che nella loro inutile necessità vengono a sostenere, come in una narrazione di fiaba, il ruolo di talismani: la cravatta del nonno appesa al pomo del letto, uno spartito di Chopin dimenticato tra le carte di una casa in affitto, una fototessera sbiadita; oggetti la cui funzione viene tenuta segreta, come nelle migliori avventure, sino a che dello strumento se ne rivela la necessità; oggetto che poi si perde, distrutto o sparito.
“- e centosei anni di vita non sono ancora sufficienti per capire che l’uomo non è la misura di ciò che gli accade intorno.”
Ettore, Bruno e Irene sono ragazzi della nostra generazione – quella mia e dell’autore. Quella che secondo la narrazione mainstream dovrebbe sentirsi tradita nelle aspettative, schiacciata dalla crisi economica, dal disastro delle torri gemelle, dalla penuria di prospettive. Sabatino trova il coraggio di ribaltare la prospettiva affidando all’istinto dell’esploratore, di cui forse noi della generazione X siamo gli ultimi custodi, il compito di riabilitarci.
L’abitudine all’accettazione, quel modo che possediamo sin dall’infanzia di abbracciare ciò che non è stato costruito né da noi né per noi ma con canoni e per i comodi di qualcun altro, ci vien utile ora nel mostrare che alla fine nessun luogo è indegno, che ogni mestiere, perfino il più umile, è necessario e sufficiente alla nostra permanenza in vita e che, di fatto, questa nostra sopravvivenza dipende sempre e comunque da altro; da una famiglia che non si fa mai monade, per esempio, o dalla capacità che abbiamo di adoperare i nostri “tempi interstiziali” (noi, ultima generazione cresciuta senza strumenti elettronici e in molti casi senza neppure il telefono o la televisione), oppure ancora dalla nostra consapevolezza, venuta dall’esperienza di bambini, che per tante questioni occorre tempo, nel nome di un principio di lentezza che siamo l’ultima generazione ad aver toccato con mano, liberi dalla necessità di una retronostalgia posticcia. Questo – quello di Ettore, Bruno e Irene – è il nostro privilegio. Godiamocelo.
Amo moltissimo il Sud dipinto da Mirko Sabatino perché è quello della mia infanzia, di luoghi interrotti nei quali camminavo da bambina, in cui mai mi sono sentita sola o in pericolo. Luoghi pieni di cose e di vento: cocci di un passato glorioso, sabbia portata dal mare lontano, odori di rosmarino e di materia cotta dal caldo feroce; testimonianza di un passaggio umano che soltanto raramente si faceva presenza ai miei occhi eppure impossibile, pur nell’ombra dell’assenza, da ignorare.