“Triste America”, di Michel Floquet

 

“Io arrivavo pieno di fiducia. Come quando si va a trovare la famiglia lontana. Tutti quei cugini che non si vedevano da anni, che si farà fatica a riconoscere, ma che sentiamo così vicini… (…) L’America è questo. Noi siamo convinti di conoscerla. Peggio ancora, crediamo che ci assomigli. (…) L’America è un mistero che ciascuno di noi vive a modo suo” (prologo)

triste_america_01Se volete capire qualcosa di più su Trump – non su cosa farà una volta insediatosi alla Casa Bianca, ma su come alla Casa Bianca ci è arrivato – dovete per forza leggere #TristeAmerica, reportage in quindici brevi capitoli scritto in tempi non sospetti (2016) da Michel Floquet, giornalista, anchorman di France Télévision 1 e corrispondente dagli States, in cui risiede da anni.

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"L’imperfetta meraviglia", di Andrea De Carlo

“Hanno una minima idea di chi sia davvero, al di là del personaggio che recita in pubblico? Almeno i più devoti e perseveranti tra loro, quelli che lo seguono da decenni, che hanno ascoltato tutte le sue canzoni, letto tutto quello che hanno scritto su di lui, visto tutte le foto e tutti i video?”

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Intro
Con i primi romanzi (1980-90) il trentenne De Carlo aveva scelto di dedicarsi al racconto delle esperienze giovanili, attingendo a piene mani dal proprio vissuto: i viaggi in America, le vacanze on the road, i rapporti di amicizia post-adolescenziali, le prime relazioni amorose, il confronto con l’età adulta.
In queste opere, da “Treno di panna” a “Uto”, sono presenti con qualche eccezione (ad esempio “Yucatan”, che ripercorre il viaggio in Messico fatto con Federico Fellini) tutti i temi cari al De Carlo degli inizi, condivisi da gran parte della sua generazione: dalla critica nei confronti di un sistema scolastico obsoleto ai primi approcci con una globalizzazione agli inizi, fino alla sperimentazione di nuovi stili di vita vòlti a coniugare il progresso incipiente con il pesante lascito della cultura hippie ormai trascorsa.
Ciò che caratterizza tutta l’opera di De Carlo è in effetti il processo di estrema contestualizzazione a cui vengono sottoposte le trame: un espediente attraverso cui l’autore è riuscito – consapevolmente o meno – nell’impresa di far crescere il proprio mestiere di scrittore all’interno di una precisa nicchia di pubblico, specie per quanto riguarda le prime opere  nelle quali i lettori di De Carlo si riconoscevano pienamente (temi che oggi, va detto, non presentano il medesimo appeal per un target coevo).
Abbandonato il filone delle esperienze giovanili – che per definizione prima o poi sono destinate a concludersi – a cavallo del millennio De Carlo pubblica una serie di romanzi dall’aria più rarefatta e meno coesa. Momenti di sperimentazione, forse gli anni in cui il lettore decarliano arranca di più, sforzandosi a seguire l’autore tra linee narrative non sempre facili da identificare ed esperimenti crossmediali (basti pensare a “Pura vita” e “I veri nomi”, gli unici due testi pubblicati con Mondadori).
Sono le opere degli ultimi anni, a mio parere, ad aver riacquistato una certa corposità e ad aver recuperato i temi degli inizi che però De Carlo è riuscito a rimodellare e quasi a liberare dagli stereotipi che negli ultimi tempi avevano in parte caratterizzato la sua scrittura, affievolendola forse un poco.
E’ innegabile che la platea di De Carlo sia cambiata nel tempo (vedasi la varietà di pubblico che affolla ogni sua presentazione e le critiche spesso discordi che accompagnano ogni nuova pubblicazione) ma è importante osservare che le modifiche di target non sono tanto il frutto di una decisione a tavolino (figurarsi!) quanto la conseguenza di una delle caratteristiche intrinseche della scrittura decarliana, ossia l’aderenza tematica all’esperienziale. Se a ciò si aggiunge anche la questione dello scarto generazionale si capisce bene perché talvolta si ha l’impressione che più si va avanti e più De Carlo diventi uno di quegli autori che se lo segui dagli inizi lo capisci, altrimenti anche no.
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“Sì, ma il senso di continuare a farlo? Le cosiddette ragioni? Quanto convincenti possono essere ancora canzoni come Hard Hard Hard o One Push Too Far o On The Brink, ascoltate da qualcuno che non sia preventivamente conquistato alla causa? Tutte quelle rappresentazioni di stati d’animo adolescenziali, in una gamma che va dalla frustrazione sessuale all’insofferenza sociale alla lamentela puerile, non sono ridicole in bocca a un uomo maturo, più che ricompensato da una società contro cui agli inizi si scagliava con rabbia iconoclasta? Come fanno una diciottenne o un diciottenne di oggi a prendere per buone le sue critiche – generiche – allo stato delle cose e i suoi inviti – altrettanto generici – alla rivolta?”
 
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“L’imperfetta meraviglia”
E’ il caso de “L’imperfetta meraviglia”, a cui De Carlo passa il testimone direttamente da “Villa Metaphora” e da “Cuore Primitivo“.
Milena Migliari, un’artista del gelato artigianale più vicina ai quaranta che ai trenta, incontra del tutto casualmente lo scozzese Nick Cruickshank, attempato frontman del famosissimo e alternativo gruppo dei Bebonkers. L’azione si svolge ai giorni nostri in una Provenza novembrina svuotata dei turisti; nell’arco di un fine settimana sia il cantautore, stanco del proprio successo e dell’entourage che lo circonda, sia la gelataia proprietaria de La Merveille Imparfaite, dovranno prendere decisioni importanti e irreversibili: Nick si sposerà – il suo terzo matrimonio – con l’algida e iperattiva Aileen, fidanzata e socia in affari, e Milena comincerà le procedure per sottoporsi alla fecondazione assistita, spinta non da un desiderio intimo di maternità, che anzi rifiuta, quanto dalla caparbietà e dall’entusiasmo della compagna Viviane, da cui si è lasciata convincere. Una relazione omosessuale inaspettata, cominciata quattro anni prima a seguito di una serie di delusioni sentimentali.
Entrambi i protagonisti, trascinati alla deriva da una serie di eventi e decisioni concatenate tra loro, prese forse con eccessiva avventatezza, si troveranno a confrontarsi l’uno con l’altra, terrorizzati di fronte alle strade senza ritorno che stanno per intraprendere.
Solo all’apparenza di uno sguardo da neofita la trama potrebbe dirsi minimale e abbastanza ricorrente (la dinamica della coppia “scoppiata”); invece, tutto si può dire tranne che De Carlo pecchi di codardia o di mancanza di originalità.
A far la differenza ancora una volta l’attenzione al concreto e all’attualità che costituisce l’ossatura del testo. In “Cuore primitivo” essa era rappresentata dall’analisi dei rapporti tra classi sociali diverse, nonché dal tema dell’ecologia e dell’utilizzo consapevole del territorio, mentre in “Villa Metaphora” l’autore si era focalizzato sul mondo della politica e dello show-business. Ne “L’imperfetta meraviglia” l’attenzione di De Carlo si concentra su alcuni temi a dir poco scottanti.
Spiccano ad esempio le riflessioni sulla necessità imprescindibile di una trasmissione etica del sapere (che deve riguardare qualsiasi forma di espressione artistica dalla scrittura alla musica fino al lavoro artigianale) a cui segue un’ironica ma non meno feroce autocritica:

“Non prova pena e imbarazzo per i suoi colleghi che recitano all’infinito la parte che si erano inventati agli inizi, anche se non corrisponde più per nulla al loro attuale ruolo nel mondo?” (pag102)

“L’integrità artistica è quasi sempre un atteggiamento, quando non un alibi per falliti” (pag104)

“Ci sarà di sicuro chi dirà che i Bebonkers sono meravigliosi perché suonano ogni pezzo come sempre, chi dirà che sono patetici perché si ostinano a farlo; chi dirà che sono una leggenda vivente, chi dirà che sono dei dinosauri. Ci sarà anche un esercito di veri e propri detestatori, fan rinnegati o gente che non li ha mai amati davvero, ansiosa solo di avere conferme del fatto che i Bebonkers sono diventati un prodotto commerciale come la Coca-Cola, un gruppo di porci milionari a cui non gliene frega più niente dello spirito originario della loro musica, alla faccia dell’immagine ribelle che ancora cercano di proiettare. Già può immaginarsi le accuse lanciate a vanvera, e stratificate nel gigantesco immondezzaio di internet: il sound standardizzato, lo Zeitgeist perduto, gli ideali traditi, il calcolo dietro la buona causa” (pag.123-124)

Ma non solo: le dinamiche di coppia per la prima volta sono analizzate facendo riferimento anche a una relazione omosessuale (“E’ inevitabile che prima o poi tra due persone che stanno insieme nasca un conflitto di aspirazioni e richieste, indipendentemente dal sesso delle due persone?” – pag96)  e assistiamo alla presa di posizione nei confronti di una certa tipologia di procreazione assistita che in nome di una perentoria medicalizzazione, considerata salvifica, sembra quasi arrivare a ledere alcuni dei diritti fondamentali dell’essere umano sottoposto alla procedura, social egg freezing incluso (“In realtà l’idea di dover prestare il suo utero – e il resto del corpo collegato all’utero – a un ovocita non suo fecondato dallo spermatozoo di chissà chi non le piace proprio per niente. L’ha detto chiaramente a Viviane più di una volta: chi ci mette l’ovocita deve metterci anche l’utero. D’altra parte ce li hanno tutti e due; e oltretutto lo dice anche la legge. Al che Viviane le ha risposto – come sempre – che è lei la maggiore contributrice al bilancio domestico, e che non potrebbe certo fare i suoi massaggi posturali con una pancia grossa così” – pag155).
Indubbiamente De Carlo offre il suo meglio quando si confronta con i rapporti di coppia tradizionali – questa volta incentrati sull’età matura – attraverso il collaudato sistema del punto di vista interno multiplo che mette in luce le criticità di un confronto all’interno del quale i due interlocutori possono liberamente esprimere le proprie necessità e le altrui mancanze. E così, da una parte abbiamo la quarantenne dalla “figura elegante e nervosa, caricata a molla” (pag311), che nel compagno di vita cerca supporto e comprensione ma non può fare a meno di temere le conseguenze che una tale invadenza possa portare (“…non sono il tuo prevaricatore, …non sono il tuo limitatore di sogni. Non sono il tuo impositore di ruoli” – pag341) dall’altra c’è l’uomo anagraficamente maturo ma emotivamente irrisolto (“Aveva fatto a meno così volentieri delle dichiarazioni di forza alternate a dimostrazioni di vigliaccheria, dell’egocentrismo divorante che cede a crolli di fiducia, della saccenteria che dà luogo allo sgomento, degli sfoggi nozionistici seguiti da ammissioni di ignoranza, della razionalità che nasconde incapacità sentimentale” – pag195) incapace di scelte radicali e definitive.
Il passaggio da Bompiani a Giunti sembra aver fatto bene a De Carlo che consegna nelle mani del lettore un testo molto ben curato per quanto riguarda lo stile, più preciso e acuto del solito e capace di sostenere l’urgenza della narrazione che tende a comprimere frasi e periodi.
La scelta tematica del finale aperto, ormai una consuetudine a cui l’autore si sta abituando, regala un’opera matura, di significato imprevisto e completo.
“La fine della stagione dei gelati è un luogo comune, e come tutti i luoghi comuni serve solo a rassicurare le persone prive di immaginazione”
 
Buona lettura

"Le ragazze", di Emma Cline

“(…) noi trascorriamo la nostra esistenza di individui in un contesto sociale e naturale, forti delle nostre memorie, delle nostre aspettative, e della capacità do compararle, in un processo mentale (e verbale) praticamente illimitato. Il fondamentalismo non è una di quelle cose che uno può tenere per sé, come la fede e le speranze. Il fondamentalismo va messo in atto, accompagnato da varie forme di fanatismo, ed esibito, in gruppi identitari ristretti, oppure nell’ambito della propria terra o sulla ribalta mondiale, con gesti dimostrati e proteste ben orchestrate. 
Il nocciolo psicologico di tutto ciò è la convinzione di essere assolutamente nel vero e che altri, invece, sono assolutamente nel falso” (da “L’era del fondamentalismo nichilista” di Edoardo Boncinelli, Corriere La Lettura 30/10 pag.9)

 

 

Gli eventi storici da cui prende spunto Emma Cline per il suo esordio letterario sono noti: nella notte del 9 agosto del 1969, al culmine della “Summer Love Californiana“, quattro individui irrompono al 10050 di Cielo Drive, una lussuosa villa sulle colline di Bel-Air, e uccidono brutalmente tutti i presenti.

 

 

Nella villa risiedeva Sharon Tate, attrice ventiseienne moglie di Roman Polansky e incinta di otto mesi, insieme a quattro amici. A cadere per primo fu Stephen Parent – un ragazzo che si trovava per caso nel complesso residenziale, ospite del custode – freddato a revolverate mentre cercava di scappare con la propria auto; poi toccò agli altri, uccisi a coltellate: dentro casa Jay Sebring, il parrucchiere dell’attrice; mentre erano in fuga attraverso il giardino Voityck Frykowsky, attore polacco amico di Polansky, e la fidanzata Abigal Folger. Sharon Tate fu lasciata per ultima, pugnalata per sedici volte, in soggiorno. Sebring e Tate furono ritrovati nel salotto devastato, una corda di nylon che li legava insieme, arrotolata intorno al collo.

 

 

Il mandante del pluriomicidio si rivelò essere il cantautore Charles Manson, famoso non tanto per la sua musica quanto per il numero di adepti che tra il 1968 e il ’69 era riuscito a riunire sotto l’egida del suo carisma e delle sue capacità oratorie. Si trattava di quella che poi fu battezzata “la famiglia Manson”, composta principalmente da giovani donne conquistate dallo spirito hippy di Manson ma anche da ragazzi vittime – come lo era stato il guru stesso – di violenze domestiche, carcere, alcool e droghe. Una manciata di individui che all’inizio percorrevano gli Stati del Sud a bordo di un autobus scalcagnato, vivendo di espedienti più o meno legali, e che poi, cresciuti di numero, avevano occupato la zona abbandonata di Spahn Ranch, poco fuori Chatsworth, in California. Lì avevano creato una specie di comune secondo l’ideologia hippy, da cui in realtà “la famiglia” si differenziava per le caratteristiche settarie, l’odio razziale e il ricorso alla delinquenza.

 

Furono Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian, a cui si deve aggiungere Tex Watson, il braccio destro del guru, a commettere materialmente la strage che sarebbe rimasta impunita se non fosse stato per la Atkins che qualche mese più tardi, in carcere per rapina, non resistette alla tentazione di vantarsi con una compagna di cella.

 

L’idea di prendere in prestito situazioni di vita reale con lo scopo di contestualizzare al loro interno una vicenda specifica – in questo caso si parla di adolescenti disfunzionali – non è nuova. Pensiamo ai recenti “La morte delle api” di Lisa O’Donnell o a “Una famiglia quasi perfetta” di Jane Shemilt (medico di base, madre di cinque figli e, guarda caso, un vero talento della scrittura creativa made in UK). Fa lo stesso Emma Cline, ventisettenne neo-scrittrice californiana, che recupera il canovaccio del dramma Manson, lo rielabora giusto per quel poco che occorre modificando nomi e luoghi e lo adatta alle proprie esigenze narrative, con qualche piccola ma sostanziale differenza nella trama.

La storia del finto-vero delitto Manson è narrata in prima persona dalla fictional charatcter Evie Boyd. Californiana, tredicenne di buona famiglia, a seguito di alcuni problemi con i genitori e una delusione sentimentale abbandona il conformismo del paesino in cui vive e inizia a frequentare una comune della zona, spinta dalla curiosità verso alcune delle ragazze (una su tutte, Suzanne) che ne fanno parte e che di quando in quando scendono in città, “Fluide e incuranti come squali che tagliano l’acqua” (kindle pos.29).
Da qui il titolo del romanzo, la cui trama si incentra più sul rapporto di Evie con le vecchie e le nuove amicizie che sulla vicenda storica in sé.
La narrazione si gioca su due piani temporali distinti: da una parte c’è la Evie contemporanea, ormai matura, che in occasione di una vacanza solitaria si trova a ripensare ancora una volta all’estate del 1969, complice l’incontro con alcuni adolescenti del luogo. Dall’altra ci sono i continui flashback che costituiscono la parte fondamentale del testo, relativi alle vicende del Ranch a cui l’adolescente Evie prese parte.

Si è già discusso molto sullo stile della Cline, che mi pare abbia appassionato più il pubblico della critica, assestatasi invece su un giudizio tiepido: indubbie ma a volte eccessivamente artefatte le capacità tecniche dell’autrice, che riesce a catturare l’attenzione del lettore attraverso una narrazione evocativa e poetica.

“Non sapevo se il problema nascesse dal fatto di vivere in campagna, con un’abbondanza di tempo e noia e veicoli abitabili, o se fosse una cosa tipica della California, una certa grana della luce che incitava al rischio e alle stupide acrobazie da film. Nel mare non ci avevo mai messo piede. Una cameriera del bar mi aveva detto che quelle acque erano un luogo di riproduzione dei grandi squali bianchi” (Kindle pos.74)

“Stavo confondendo la familiarità con la felicità (…). Quel senso di perenne chiusura entro un confine, come grattare con l’unghia cercando la fine del rotolo di scotch senza trovarla mai. Non c’erano giunture, non c’erano interruzioni: solo i punti fermi della tua vita che avevi talmente assorbito da non esserne più neanche consapevole. Il piatto sbeccato con il disegno del salice che era il mio preferito per ragioni ormai dimenticate. La carta da parati all’ingresso che conoscevo in maniera talmente profonda da non poterla spiegare a nessun altro: ogni gruppetto sbiadito di palme color pastello, le diverse personalità che attribuivo a ciascun ibisco in boccio” (Kindle pos.284)

Tutto aiuta a considerare “The Girls” il debutto dell’anno: potente romanzo di formazione adolescenziale, fedele specchio dell’America di provincia – bigotta e oscurantista – spazzata via dal tornado degli anni Settanta, magistrale esempio dell’arte perfetta di quella nuova schiera di autori made in USA cresciuti nel magico mondo del creative writing. 

Se però si approfondisce, va detto che ci si imbatte in questioni un po’ spinose.
In primis viene da interrogarsi su quale sia stato il fine ultimo di Emma Cline: quale il senso di questo esperimento letterario, che messaggio abbia voluto trasmettere, a chi, e se ci sia riuscita o meno; argomenti non da poco.

Risulta difficile non pensare che sia tutto un fatto generazionale, ovvero che le modalità di fruizione del testo dipendano da tre fattori interconnessi tra loro in maniera inestricabile: l’età anagrafica della scrittrice, l’epoca in cui si svolge la vicenda e il target di riferimento. Viene insomma il dubbio che l’interpretazione del testo non sia univoca ma invece soggetta a una fluttuazione temporale, distinta a seconda dell’età anagrafica del lettore.

Prendiamo la protagonista. Evie si ritrova a mentire ai genitori e all’amica di infanzia, a rubare i soldi dal portafogli della madre, a dileggiare il patrigno e compatire il padre. Il problema però sta proprio nella debolezza delle motivazioni alla base della “ribellione” dell’adolescente: una mamma un po’ assente perché alla ricerca di un nuovo amore, l’amica Connie che preferisce altre compagne di classe, il papà trasferitosi in un altro sobborgo con la fidanzata più giovane. Tutte situazioni vagliate unicamente attraverso il punto di vista di Evie che, nel suo infinito acume, senza pensarci troppo le incasella sotto la voce “egoismo conformista senza futuro”.
A parte il fatto che, appunto, non siamo certo di fronte ai Grandi Drammi dell’Esistenza Umana – nb: ecco qui, che torna il gioco la questione dello scarto temporale –  (Evie è delusa da genitori che comunque le consentono una vita più che dignitosa; arrabbiata per una faccenda di amicizia come ne capitano a tutti; imbarazzata dal proprio aspetto goffo – e quale adolescente non lo è), il vero problema è che mai passa per la testa di Evie che sia lei stessa, il problema.
E quel che è più grave non è che non passi nella testa di Evie tredicenne (ovviamente) ma che non faccia capolino nemmeno nella testa di Evie cinquantenne: non c’è un solo passo in tutta l’opera nel quale la Evie contemporanea si ponga un dubbio fondamentale: che sia stata lei, la figlia un po’ viziata e sovrappeso che si mette a piagnucolare quando non è al centro dell’attenzione, l’amica egoista, la sciocchina manipolata.
E che in una comune hippy non ci si entri proprio così, scegliendone una a caso, soltanto per reazione a un sistema di valori conformistici non più condivisi.

“Non vedevo”, “facevo finta di non sentire”, “non ero in grado di comprendere”. Queste sono le uniche argomentazioni che la Evie matura offre al lettore come chiave di lettura del proprio passato. Non c’è mai, in tutto il testo, un’esplicita analisi critica, il che – attenzione – non vorrebbe dire condannare tout-court un’esperienza di vita indubbiamente significativa ma soltanto contestualizzarla.

Non si riesce insomma a togliersi dalla testa l’idea che in qualche modo e in qualche forma, tanto più conturbante quanto più profondamente sottesa e radicata al testo, Emma Cline faccia solo finta di essere imparziale ma poi inevitabilmente si ritrovi a prender posizione di fronte alla vicenda di Evie. Ahi ahi (parte seconda).

Quel che disturba di più non è tanto la presa di posizione della Cline in sé – chissà poi in che misura consapevole – quanto il sospetto di manipolazione che ne deriva. Se da una parte è chiara la fascinazione della Cline per un particolare periodo storico americano, che riesce a recuperare appieno attraverso una scrittura suggestiva e sinestetica, dall’altra sono anche evidenti i limiti di un canovaccio che la Cline distorce a suo vantaggio: un esempio su tutti, le motivazioni alla base della strage. Se infatti gli adepti del “vero” Manson scelsero le loro vittime in base a dei criteri di lotta di classe e/o odio razziale, o a caso, non così è per la squadriglia del sedicente Russel che in maniera premeditata invia la sua banda di accoltellatori scelti a casa del produttore discografico dal quale ha appena ricevuto il due di picche professionale. Non solo: “Mitch” è descritto come un individuo losco, viscido, drogato e malato di sesso. Certo, forse non meritevole di vedersi accoltellato il figlioletto di cinque anni, ma via, una punizione poteva stargli pure bene. E’ questo, quindi, il messaggio? Una strage che porta in sé il germe dell’autogiustificazione?
Pare che la tesi della Cline si allontani in certi punti dal concetto di responsabilità individuale, come se l’arte del libero arbitrio fosse stata di necessità messa da parte a favore di un misto di condizioni che ci si è ritrovati a seguire passivamente.
Il discorso messo così naturalmente non regge, perché di comuni hippy e di famiglie disfunzionali ce ne sono state e ce ne saranno parecchie ma né tutti i figli di famiglie disfunzionali né tutti i membri di tutte le comuni hippy si sono trovati e si troveranno a frequentare bande di pervertiti e assassine seriali.Evie Boyd, più che a una ragazza che sceglie di immergersi nell’esperienza alternativa della comune, spinta dalla rabbia tutta adolescenziale verso la famiglia tradizionale e le istituzioni dell’America borghese, viene ad assomigliare piuttosto alla vittima della Sindrome di Stoccolma per antonomasia: in stato di dipendenza psicologica e affettiva nei confronti dell’amica Suzanne, con la quale instaura anche una relazione sessuale, subisce maltrattamenti verbali, psicologici e fisici ma non cessa di provare per lei un sentimento di affetto e sottomissione. 
Mi volete dire quindi che, dopo tutto questo tempo e questo casino mediatico, siamo tornati a Twilight? Ahi ahi (parte terza).

“Non assomigliava affatto al banchetto che mi ero immaginata. La distanza mi mise un po’ di tristezza. Ma era una cosa triste solo nel vecchio mondo, mi dissi, dove le persone vivevano intimorite dall’amara medicina che era la loro vita. Dove i soldi rendevano tutti schiavi, dove ci si abbottonava la camicia fino al collo, strangolando tutto l’amore che si aveva dentro” (Kindle pos.1284)

L’unico accenno che faccia pensare a una riflessione seria di Evie Boyd sul proprio passato è l’accettazione passiva attraverso la quale sembra affrontare una condizione di evidente disagio e disadattamento personale: la Evie matura ha un lavoro umile e discontinuo nonostante fosse molto promettente negli studi, una vita sentimentale infelice, pochi amici, molta solitudine. Una naturale conseguenza degli accadimenti, o forse una punizione che occorre subire tacitamente al pari di quei castighi tutti americani che i genitori amavano infliggere ai figli, che implicano accettazione passiva dell’autorità ma scarsa riflessione sull’accaduto?

E’ d’altra parte un processo tutto anglosassone questo, che rivela nel passato come nel presente le pecche di un sistema di educazione familiare su cui l’America si interroga da tempo e rispetto al quale non ha ancora trovato un’interpretazione univoca.

Ultima breve nota: la questione dello scarto temporale (attenzione: spoilers). Forse spinta al distacco emotivo dal terrore di una genitorialità miope, che limita di molto l’immedesimazione, trovo personalmente molto ingenua la richiesta di sospensione di giudizio che la Cline richiede nel passo in cui la Evie contemporanea si trova a interagire con il comportamento sconsiderato di tre adolescenti. Impossibile per un lettore over 40 accettare che una donna che si suppone matura, di fronte all’irresponsabilità di tre ragazzi, non trovi di meglio da fare se non chiudersi in camera e lasciarli al proprio destino.

Ma infondo si tratta di coerenza, di cui certo la Cline non difetta: “non mi riguarda, non mi interessa”. Ed è forse qui il brivido maggiore.

 

 

Credits immagini: CNN qui
E qui di seguito lo Storify con i link a tutte le recensioni pubblicate sul web, italiane e straniere (NB: se volete segnalarmene altre, che mi sono sfuggite, sarò lieta di inserirle citando il vostro contributo).Buona lettura

"La carne", di Cristò

Nota introduttiva e concept
Un libricino dalla coda lunga, questo, che è in giro da fine 2015 e che ancora fa parlare di sé – anche al Salone appena concluso.
Ebbene sì, in un mondo di oneshot editoriali il cui il tempo medio di permanenza sugli scaffali, bestsellers inclusi, è di poco superiore alla famosa questione della gatto sulla tangenziale, pure sei mesi fan notizia e se da una parte ci inquieta un po’, l’idea che di tutto quel che si è pubblicato l’anno scorso poco ci rimarrà nella memoria, va da sé che degno di menzione è invece il prodotto che riesce, per qualche motivo, a sfidare l’eternità.
“La carne” di Cristò, scrittore e compositore barese classe 1976, quindi ce la fa perché pur strizzando l’occhio alla complessità della narrazione distopica, cui si riferisce, non ne resta mai dipendente – come ormai capita nella letteratura contemporanea di genere, che spesso scade nel mero cliché – ma ne assume le caratteristiche salienti, recuperandole dall’origine (ad esempio, il riferimento al sociale in chiave satirica) e travalicandole. 
La forma del racconto lungo, poi, offre al lettore una modalità particolare di fruizione della narrazione fantastico/distopica, che qui esula dall’imperante gusto per il prodotto consistente e seriale, risultando quindi godibile per la sua brevità che per altro rimanda agli echi lontani dei primi passi della distopia (Un altro tentativo ben riuscito ad esempio è “Prima di scomparire“, romanzo di Xabi Molia, 2013 L’Orma Editore, di cui si era parlato a suo tempo).

La sensazione di straniamento che di per sé la distopia propone è qui mitigata da una contestualizzazione molto stretta che se da una parte limita l’effetto cinematografico dall’altra crea nella mente del lettore – specie in quello over 40 – una inevitabile connessione immediata fatta di immagini e ricordi tipici dell’infanzia. 
In questo modo “La carne” risulta un’opera a più livelli di lettura, fruibili in toto soltanto da un particolare target di lettori (cui appartengono naturalmente anche l’autore e il protagonista del racconto) ma non per questo elitaria perché il carattere onirico della narrazione, che non si nutre di elementi distopici banali, stimola comunque l’immaginazione e spinge alla riflessione anche i più giovani.

Trama (per quel che si può anticipare)
L’ambientazione post-apocalittica consiste in una realtà nostrana misteriosamente ferma agli anni ’70-80′ del secolo scorso, popolata da individui sempre meno umani e sempre più simili a cupe figure di zombi tanto innocui quanto inquietanti. 
La tipizzazione geografico-temporale è data dai riferimenti a oggetti d’uso, eventi, personaggi pubblici, programmi televisivi, film e abitudini quotidiane che seppure quasi mai esplicitati direttamente attraverso l’identificazione nominale (evitando così di scadere nella banalità dell’espediente metonimico) risultano ben chiari al lettore di cui sopra. 

Il riferimento distopico a cui l’autore sceglie di affidarsi è l’accenno a una non meglio identificata pandemia che da circa 50 anni stravolge l’umanità intera, prima nella mente – a quanto sembra – e poi nel fisico. 
Questa trasformazione è raccontata in prima persona da un anziano sopravvissuto, che sembra immune al contagio (e il sospetto per la motivazione dell’immunità rimane sotteso e non scevro da ulteriori riflessioni in merito – ma qui non si può dire). Il racconto si snoda in un arco temporale di qualche settimana ed è il vecchio, attraverso continui flashback a focalizzare il proprio passato seguìti dal ritorno al presente della quotidianità, a introdurre le figure dei co-protagonisti: Giulio, il nipote adulto, la badante Monica e poi, a latere – con una narrazione utile a definire l’eziologia della pandemia, la storia del medico Tancredi e di sua moglie Lucia. 

“I vecchi inventano storie”
Quel che avviene in “La carne” è, banalmente, l’ormai non scontata relazione osmotica tra la microstoria e la macroarea del concept distopico classico che ad un certo punto viene ad assumere, pur nella sua centralità, un ruolo secondario, a supporto dell’altro tema cardine del racconto, che nella teoria distopica dovrebbe rendere universale la particolarità dell’ambientazione legittimando la sospensione dell’incredulità richiesta dal genere letterario. 
Qui, è il tentativo di mettere per iscritto una riflessione critica sulla vera pandemia il cui pensiero fisso attanaglia la mente del quarantenne di ogni tempo e di ogni luogo: l’approssimarsi della mezza età e, in definitiva, della vecchiaia.
“Nel mondo com’era quando avevo otto anni la gente era ossessionata dal cancro. Sentivo i grandi parlare della zia di qualche amico che aveva scoperto un cancro devastante a qualche organo del corpo. Non fumava, non beveva, faceva una vita sana, eppure. Colpa delle automobili, dicevano, colpa delle onde elettromagnetiche. Colpa di quella pentola antiaderente tutta graffiata che usava per cucinare. Colpa dell’inchiostro elle fotocopie, della carne alla brace, del prezzemolo e del basilico, del latte, del mais, delle bottiglie di plastica, dell’asfalto, del caffè, degli spinaci e delle bietole, dei funghi, dello zucchero, degli pneumatici, dell’insetticida, del rossetto e del mascara, del ferro, della pioggia, del sole e, naturalmente, della carne in scatola.  (kindle pos.642)
Attraverso una riflessione amara ma anche ironica e disincantata il protagonista riflette sulla propria condizione di non-ancora-morto (“vecchio, non obsoleto”, ha detto qualcuno ultimamente, per rimanere in tema di cross-referenzialità cinematografica) sia attraverso la narrazione della vicenda personale sia attraverso i riferimenti ai luoghi comuni della vecchiezza (che poi sono quelle, le immagini che in definitiva temiamo di più), in un gioco continuo di sorrisi e rammarico: i ricordi del passato che invadono le notti insonni, il fisico che non risponde più come dovrebbe, i giochi ballerini della memoria, la confusione di luoghi, date e persone, il rimpianto per gli sbagli commessi ma anche la serenità che viene dalla consapevolezza di aver fatto bene.
“Non posso più lavarmi da solo ma non ho bisogno di un’infermiera. Non ne ho bisogno. I vecchi hanno bisogno di un sacco di cose ma non è di un’infermiera che ho bisogno. La spugna è ruvida, raschia le braccia, ma l’acqua è tiepida. Mi piace. Non durerà molto. Presto lei mi farà alzare e mi aiuterà ad asciugarmi. Poi mi vestirà e raggiungerà mio nipote che aspetta in salotto. Lui le darà dei soldi e l’accompagnerà a casa. Non è delicata ma neanche sbrigativa. E’ professionale. Forse pensa che avere un lavoro è già qualcosa mentre mi afferra il polso con l’indice e mi alza il braccio destro. Ha dei guanti bianchi sottili. Mi abbandono, mi sembra appropriato. Mi faccio trattare come un manichino, è così che si fa, credo. Mi nonno faceva così quando mia madre lo lavava e io avevo otto anni. I vecchi fanno così” (37) 
“I vecchi, quando hanno voglia di stare zitti ci riescono meglio di chiunque altro. Adesso sono solo, un’altra volta. Solo e profumato. La solitudine deve puzzare per essere concreta” (329) 
“I vecchi dicono bugie in continuazione e inventano storie e pontificano” (205)” 
Ma poi alla fine che cosa succederebbe se un giorno fossimo costretti a sostituire il terrore atavico della morte che disturba da millenni il nostro sonno adulto con un altro, forse più agghiacciante interrogativo?

“Adesso il cancro non fa più paura a nessuno perché la maggior parte della gente ha paura di non morire” (642)

Buona lettura  

"Sull’orlo del precipizio", di Antonio Manzini

“Mentre mangiava delle fette biscottate, accese la televisione. 
Gli era passato di mente, ma quello era un giorno importante per l’editoria” (p14)

Prologo
In questo momento di fusioni e acquisizioni nessuna lettura a riguardo è forse più appropriata dell’ironico e amaro pamphlet a firma Antonio Manzini.

Manzini, attore, sceneggiatore e scrittore – sì, a lui si deve l’invenzione del Vicequestore Rocco Schiavone, uno dei detective più apprezzati dal pubblico del poliziesco italiano, stando ai dati di vendita – con questo testo breve e illuminato dimostra ancora una volta di possedere oltre che il gusto per la scrittura a tutto tondo e il talento della versatilità tematica anche una certa dose di intuito. 
In tempi ancora non troppo sospetti – stiamo parlando della seconda metà dell’anno scorso – Manzini sente infatti l’urgenza di mettere in scena un dramma distopico e tragicomico che ha per oggetto il mondo editoriale nostrano

“Sull’orlo del precipizio”
In special modo – e qui sta la peculiarità del testo, dopo vedremo perché – l’autore vuole concentrarsi sulle vicende accadute al celebre e maturo scrittore italiano Giorgio Volpe, appena giunto al termine della sua ultima fatica letteraria, il romanzo “Sull’orlo del precipizio”.
Ora Volpe deve affidare il testo al proprio editor per le consuete procedure di revisione a cui poi finalmente seguirà la stampa, con un successo di pubblico e critica che sembra scontato. Naturalmente scrittore e romanzo sono opere di fantasia; un po’ meno lo saranno le avventure che capiteranno al pover’uomo. 
La discesa agli inferi comincia proprio quando Volpe scopre con orrore che poco o nulla è rimasto della grande casa editrice con cui collabora da decenni e che l’ha reso ricco e famoso (la “Gozzi”), dei fedeli collaboratori e degli colleghi scrittori, tutti precipitati nel maelstrom terrificante creato dall’entrata in scena del colosso editoriale Sigma che la Gozzi se l’è appena mangiata e digerita, assieme a diverse altre società concorrenti. 
Inizia così il calvario di Volpe che se la dovrà vedere con revisori scomparsi, collaboratori prepensionati e sostituiti da sedicenti manager in giacca e cravatta che di editoria italiana sembrano non capirne pressoché nulla (in verità non lo parlano neppure, l’italiano) ma anche con colleghi tutto fuorché “amici” e con un audience che sicuramente non è più quello di dieci anni prima, altro che darlo per assodato.

Ce n’è per tutti
La peculiarità dello scritto sta nella scarsa ovvietà dell’oggetto di riferimento, che a una prima rapida occhiata parrebbe limitarsi soltanto a quel sistema-casa-editrice che da virtuoso baluardo della bibliodiversità viene a trasformarsi in un gigantesco gorgo mangiasoldi. Niente di più falso, perché Manzini in realtà ne ha un po’ per tutti. 

A cominciare, chiaramente, dalle strutture farraginose e obsolete che attanagliano la produttività di gran parte delle industrie italiane – case editrici incluse, a cominciare da una certa sorpassata metodologia nella gestione dei dipendenti, all’evidente stato di polverosa quiescenza delle strutture informatiche fino al completo disinteresse per l’innovazione digitale.

“Gente che scalda la poltrona! Sai quanti editor mi hanno messo all’ultimo romanzo? Tre. E solo uno sapeva fare qualcosa! Vogliamo parlare degli uffici stampa? Gente che non fa nulla dalla mattina alla sera e che se gli chiedi un’informazione si innervosiscono e ci mettono sei giorni a rispondere. (…) I nostri libri sono carrette che si tirano dietro tutti questi inutili fancazzisti”. (pag.18)

Questione che porta con sé anche la conseguente difficoltà nell’interpretare un mercato (di qualunque settore merceologico si tratti) in inevitabile, continua evoluzione:

“<>” (pag.62-63)
Sì, perché se proprio proprio vogliamo impegnarci a cercare le colpe di questo disastro editoriale e culturale, leggendo Manzini ci ritroviamo per le mani non tanto una difesa di un certo tipo di editoria, ma un j’accuse satirico bell’e buono che, per definizione, col politically correct non ha nulla a che spartire e nel quale i primi a essere messi sotto la lente di ingrandimento sono proprio gli scrittori. 

Personaggi per lo più egocentrici, pretenziosi, supponenti:
“(…) per i suoi lettori, una data da segnarsi sull’agenda. L’aspettavano da due anni, sei mesi e tredici giorni. Tutti in attesa di chiudersi in casa, prendersi le ferie, congedarsi in malattia non retribuita e mettersi a leggere l’ultima fatica di Giorgio Volpe.” (pag.10)
di cui Volpe naturalmente rappresenta lo stereotipo colto.

Vittima dell’ansia da prestazione ma inorridito all’idea del confronto con gli addetti ai lavori, tanto da trascorrere l’attesa tra la consegna del manoscritto e la chiamata dalla casa editrice in completa reclusione (ma alle terme, tra fanghi e acque sulfuree) col cellulare spento per sette giorni di fila per poi, al momento della riaccensione, trovarsi “bombardato da una scarica di bip (…) e più di 230 email” (pag.22) – e salvo dare in escandescenze quando l’editor di riferimento risulta irreperibile al momento del bisogno (ndr: il suo – di Volpe): “<> / <> / “E chi se ne frega, ci sono i cellulari e prendono anche in Germania>>” (pag.36).

Ossessionato dal successo di pubblico ma refrattario agli appuntamenti di settore per non parlare dell’idiosincrasia verso intervistatori non compiacenti, social networks, eventi di promozione pubblicitaria:

“<> / <> / <> / <>. Lo aveva dimenticato.” (pag.27).

Assuefatto a dei rapporti di collaborazione con i colleghi scrittori che somigliano più a relazioni fondate sulla convenienza che a legami professionali autentici, basati sul rispetto e sulla stima reciproca:
“<>.
Un breve silenzio. <> chiese quello sgarbato.
<>
<> “(pag.78)

E infine, vanaglorioso fino all’autodistruzione:
“Voi scrittori siete inguaribili. E mi dica, cosa farà? Passerà i giorni nel lontano ricordo di quello che era? Non avrà più un libro e folle acclamanti ai suoi piedi ad ogni presentazione. Il suo ego riuscirà a sopportare di cadere nell’anonimato? L’idea che nessuno leggerà più le sue pagine, imparerà le sue frasi a memoria (…). Niente più Salone del Libro, niente più interviste in prima serata televisiva, niente più festival dove finalmente per qualche giorno siete considerati delle star (…)” (pag.99-100)
L’ultima bordata Manzini la riserva alla presenza in Italia della manodopera straniera di alto livello: lungi dall’essere una dimostrazione di intolleranza è invece un espediente vòlto a rivelare semplicemente come l’Italia sia ormai incapace – per decine di motivi – di favorire i propri talenti preferendo la trasformazione in colonia dell’impero, remota provincia governata da sovrani non necessariamente incapaci, ma lontani e spesso indifferenti.
Epilogo
Ciò che colpisce della cronaca di Manzini è però in sostanza l’ingenuità dell’uomo di mezza età che davvero fatica a rendersi conto delle conseguenze di certi atteggiamenti. E’ un personaggio complesso che malgrado la sua particolarità di uomo di lettere finisce per assurgere a paradigma di quell’italiano medio che tende sempre ad attribuire ad altri, mai a se stesso, le mancanze in cui incorre.
L’avvento della Sigma quindi ci dà tanto l’idea di una ovvia (e prevedibile) conseguenza di fronte al quale è sempre necessario interrogarsi, perché tutti, dal primo all’ultimo elemento della filiera produttiva, ne hanno qualche responsabilità. Lettore incluso:

“<<Sto ritraducendo tutta la letteratura italiana. L'operazione difficile sarà coi Promessi Sposi… sa, quell’italiano lì… (…) Ma sì. Noi, la Sigma, vogliamo avvicinare i ragazzi alla letteratura e usare una lingua che gli faccia amare i libri. Vuole un esempio? (…) Senta l’inizio dei Promessi Sposi… *Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume…* che palle, no?” 
(e la citazione deve per forza finire qui… il seguito lo trovate a pag.35 dell’opera)

Buona lettura 

"La ragazza nella nebbia", di Donato Carrisi

“L’intera zona è bloccata. La nostra auto è di traverso, in mezzo al parcheggio. Intorno ci sono almeno quattro macchine della polizia, una jeep della vigilanza, un’ambulanza, addirittura un camion dei vigili del fuoco. La macchina ha i portelloni aperti e una portiera scassinata. Per terra, dappertutto, vetri rotti. La gente, i passanti, i curiosi cominciano ad accalcarsi sul marciapiede dalla parte dei negozi, e si trasformano in una sorta di barriera che rende più difficile avanzare.” (*)

La citazione qui sopra non appartiene a Carrisi: viene da un’opera di qualche tempo fa, che con “La ragazza nella nebbia” ha curiosamente molto in comune. Benché Carrisi e Agostini non possano essere paragonati tra loro – formazione, esperienze professionali, stili di scrittura e target di riferimento sono completamente diversi – è interessante che entrambi, ognuno dal proprio punto di vista, e non sono neppure gli unici in verità, abbiano deciso di occuparsi più o meno nello stesso periodo del coinvolgimento dei media nelle vicende di cronaca nera e giudiziaria.

Se Agostini, ne avevamo già parlato, preferisce affrontare questo tema così attuale attenendosi a una trama estremamente verosimile, tanto da lasciarci col dubbio di aver letto non una storia d’invenzione ma una testimonianza di un evento realmente accaduto, Carrisi come prevedibile tratta la materia in tutt’altro modo, proponendoci un thriller adrenalinico e imprevedibile, sostenuto da una struttura solida che aderisce strettamente a topoi più classici del genere cui l’opera appartiene. 

Le atmosfere de “La ragazza nella nebbia”, osservano gli estimatori di Carrisi, non hanno quel caratteristico timbro noir a cui lo scrittore ha abituato il suo pubblico; eppure l’ambientazione inusuale – un piccolo paese incuneato in una valle alpina buia, piena di freddo e di neve – crea nel lettore una suggestione particolare e, va detto, molto cinematografica, fitta di déjà-vu d’antologia tra cui spicca prima fra tutte la serie tv di culto Twin Peaks e, per tornare ai giorni nostri, il telefilm Les Revenants e i sei episodi che compongono la miniserie neozelandese Top of the Lake.

L’improvvisa sparizione dell’adolescente Anna Lou, una liceale timida, introversa e molto religiosa, scardina gli equilibri precari della comunità, già spaccata in due da un recente stravolgimento economico che ha decretato il successo di alcune famiglie e il tracollo di altre. A indagare sulla scomparsa viene inviato il commissario Vogel, un tempo figura di spicco delle forze dell’ordine, risolutore di casi impossibili, celebre opinionista nei talkshow in televisione ora alla ricerca di una personale e professionale redenzione dopo il clamoroso fallimento della sua ultima indagine. Vogel porta con sé non soltanto un metodo di indagine impetuoso, auto-concentrato e destabilizzante ma anche un circo mediatico che trasforma l’indagine in uno show televisivo affamato di scoop

Ecco allora il paese di Avechot diventare l’ennesimo luogo del delitto (sempre che di delitto si tratti) assediato da televisioni e cronisti, in una girandola continua di sospetti e piste false, rivelazioni e smentite, tra giornalisti assetati di notizie esclusive da vendere al telegiornale della sera e anchormen alla ricerca dell’inquadratura migliore per il servizio in esterna.

“La giustizia non era più un affare riservato ai tribunali, bensì apparteneva a tutti, senza distinzioni. E in questo nuovo modo di guardare le cose, l’informazione era una risorsa – l’informazione era oro.” (kindle pos.3229)

“La polizia chi sta proteggendo in questo momento? Chi sta servendo? Di certo non me. E di certo non mia moglie o i miei bambini. Allora chi? La gente che si ferma a guardare, i passanti? Sì, forse loro. Ma proteggere da che cosa, quale sarebbe il pericolo? Non trovo risposta.” (*)

Nel momento in cui – come testimonia Agostini – la fede nel tecnicismo si sostituisce all’utilizzo del buon senso, all’ascolto dell’imputato e a una minuziosa analisi super-partes delle prove, e nell’attimo in cui – come invece di dice Carrisi – la ricerca di un colpevole a tutti i costi prevarica su quella della verità, allora siamo di fronte alla spettacolarizzazione della giustizia e alla creazione del malvivente studiato a tavolino. Un tema molto attuale che ci spinge a riflettere da una parte sui recenti fatti di cronaca nera locale e dall’altra su quanto effettivamente sappiamo – e crediamo di comprendere – di quel mondo oltreoceano che spesso ci affascina così tanto.

Per tornare a “La ragazza nella nebbia”, non vi preoccupate: c’è dell’altro, perché, comunque, sempre di Carrisi stiamo parlando. 

Buona lettura

(*) “La fabbrica dei cattivi” di Diego Agostini, Giunti Editore, 2014 – cit. pag. 26 e pag.38

"Una famiglia quasi perfetta", di Jane Shemilt

Incuriosisce sempre questo connubio, di come la disciplina medica non smetta mai di prestare risorse alla letteratura – o viceversa, ovviamente, il che dipende unicamente dal punto di vista dal quale si sceglie di osservare la questione. 
Ultimo esempio in ordine di tempo, l’esordiente britannica Jane Shemiltstudi in Psicologia e Fisiologia al college, laurea in Medicina, esperienza sul campo come General Practitioner (ndt: il medico di base in Inghilterra, che assiste i pazienti iscritti al servizio sanitario nazionale all’interno degli ambulatori pubblici di zona), nonché moglie di un neurochirurgo e madre di cinque figli
Ad un certo punto della sua vita – suppongo tra un figlio e l’altro, ipotesi che al momento non mi riesce di suffragare attraverso fonti bibliografiche certe ma a logica è l’unica probabile – Jane consegue anche una laurea in Scrittura Creativa presso l’Università di Bristol e poi una successiva specializzazione a Bath. 
E finisce che il suo romanzo di esordio, il thriller psicologicoDaughter” (sul titolo originale dell’opera torneremo poi) pubblicato per Penguin nel 2014 viene menzionato per il Janclow & Nesbit Award – un riconoscimento che la famosa agenzia letteraria omonima assegna ogni anno presso l’Università di Bath – e per il Lucy Cavendish Fiction Prize della Cambridge University.
Nonostante Jane Shemilt possieda una formazione scientifica, “Daughter isn’t a medical drama“, come l’autrice stessa non manca di sottolineare dalle pagine del suo sito web. Al contrario, “it’s a story about a missing girl and the themes of grief, loss, harmful secrets, betrayal and fear do resonate with others in this genre”.
Bristol, inverno 2009. Naomi, una ragazza di buona famiglia, scompare misteriosamente. La quindicenne sparisce nel nulla in una fredda sera di novembre, al ritorno dalla recita scolastica di cui è protagonista. Nessuno sa più nulla di lei, né le amiche, né il fidanzatino, né i due fratelli gemelli Ed e Theo. Il padre e la madre sono disperati, la famiglia è allo sfascio e gli inquirenti brancolano nel buio anche perché le indagini rimandano a un ritratto di Naomi ben diverso dall’immagine che la ragazza aveva dato di sé in famiglia – o che la famiglia aveva avuto modo di recepire.

Poco più che un canovaccio, dunque, su cui si innesta – alla maniera tipica dei più quotati Creative Writing Courses anglosassoni – il contributo dello scrittore che attraverso le scelte tematiche e stilistiche ha il compito di determinare l’originalità del proprio prodotto. Originalità che anche in questo caso è data non tanto dall’idea di partenza quanto, appunto, dalle modalità del suo svolgimento. 

“I began Daughter initially as a way of exploring loss and grief, something I was familiar with from work. No one it seemed, was unscathed. Survival of loss particularly interested me, the question of the day after day after day”

Scrive sul suo blog l’autrice. Il punto di vista adottato è infatti esclusivamente quello di Jenny, la madre di Naomi, che in un attimo vede la propria vita e quella della sua famiglia disintegrarsi nell’angoscia di una scomparsa misteriosa e nell’orrore di una consapevolezza appena acquisita e forse ancor più devastante:

“I giorni passavano in fretta. Giorni normali? Erano normali? Allora sembrava di sì. (…) Normali, sebbene fossero gli ultimi giorni di vita familiare; normali, anche se venne fuori che quasi tutti stavano mentendo” (kindle, pos.832)

Decisa la via da percorrere – focalizzarsi sul post-trauma, evitare accuratamente qualsiasi contaminazione con il poliziesco, approfondire il dramma familiare, senza dimenticare la necessità di giungere alla risoluzione dell’enigma – rimane soltanto da definire il modo in cui affrontare la materia. E qui sta l’idea originale: attraverso un racconto a flashback continui creare uno “spazio di quiete” (come lo definisce l’autrice stessa) all’interno del quale il lettore avesse modo di concentrarsi interamente sui temi di cui sopra ma allo stesso tempo mantenere la suspance che il genere thriller richiede (“pages turning”). Il drammatico momento della scomparsa e i giorni ad esso appena successivi non vengono narrati infatti in presa diretta ma sono evocati dal ricordo di Jenny, a un anno di distanza. Jenny che – non sappiamo ancora per quali motivi – non vive più nella grande e accogliente casa di Bristol insieme ai figli e al marito ma si è ritirata, sola, nel Dorset, in un vecchio e isolato cottage appartenente alla famiglia materna. E il mistero della sparizione di Naomi è più vivo che mai: aspetta solo di essere svelato.

 
L’originalità del testo non sta soltanto nello svolgimento della trama ma – paradossalmente – anche nell’estrema contestualizzazione che nell’atto della scrittura “a tavolino” (sì, ci risiamo, vedi sopra alla voce Creative Writing Courses) si vuole frutto dell’esperienza autobiografica. Scrivi di quel che sai, insomma, e niente di più vero, almeno in questo caso, dato che Jenny non è altro che un GP impegnato in un day by day denso di fatica e dedizione mentre il padre Ted è un neurochirurgo ospedaliero. Tre figli adolescenti, un lavoro full-time, la casa da mandare avanti, una passione (per Jane la scrittura, per Jenny la pittura) che riempie il cuore ma che rende la quotidianità un’estenuante lotta contro il tempo. Una chiave di lettura interessante e non così scontata perché pone l’accento su uno degli aspetti più inquietanti della maternità: il senso di colpa.

“Tutto ciò che ho sbagliato o frainteso si trova in un punto imprecisato nello spazio mutevole fra l’aspettarsi troppo e il non osservare abbastanza” (pos.3767)

“Doveva aver osservato e ascoltato suo nipote come io non avevo fatto con i miei figli” (pos.3988)

“Cosa ne so io di quanto spazio una persona ha bisogno di avere intorno a sé? Pensavo che Naomi avesse bisogno di spazio, ma forse ero io a pensare che fosse quello il suo bisogno primario. Era più facile, in quel modo” (pos.3997)

E non soltanto. 
“Daughter” (per tutto ciò di cui sopra, quindi, non piace anche a voi un po’ di più, il titolo originale?) – ricordiamo: romanzo scritto da un’autrice britannica e in primis rivolto a un pubblico nazionale – contiene in sé, in maniera neppure troppo nascosta, un’interessante serie di riflessioni critiche a proposito di alcuni tra gli scottanti temi sociali che attanagliano da decenni il mondo anglosassone (ricordate? Ne avevamo già parlato qui). La questione della sanità pubblica ad esempio, carente sotto molti aspetti tra cui quello diagnostico vuoi per incapacità medica vuoi per deficit strutturali e attese bibliche. La piaga dell’abuso di sostanze stupefacenti e di alcool tra i liceali. I numeri, sempre in drammatica crescita, delle teen-mums. Il sistema scolastico fortemente competitivo che vede i ragazzi, a partire dalla secondary school, vittime di corsi extracurricolari, tirocini, esperienze più o meno formative che pur potendo contribuire all’arricchimento e allo sviluppo di competenze professionali future spesso si limitano a sradicare giovani ancora immaturi dalle proprie famiglie catapultandoli in universi assolutamente inadeguati per animi non ancora sufficientemente pronti ad affrontarli. E infine l’istituzione stessa della famiglia. (“[A novel] that explores the aftermath of a teenager’s disappearence. It examines the dangers that lurk for those who take their luck for granted; it explores the emptiness at the heart of a contemporary middle-class family, and what happens when doctors play God” racconta l’autrice nel blog).

Ultima nota, i contrasti d’atmosfera, sempre ben resi. Descrizioni di ambienti chiusi, protetti, confortevoli, e a far da contrappunto il buio della notte invernale, il gelo dell’attesa. Una lingua viva e mutevole nell’agile traduzione di Daniela Di Falco.

Buona lettura 🙂

"L’uomo di Marte", di Andy Weir

Il signore dall’aria simpatica che vedete nella foto qui sotto si chiama Andy Weir. Californiano di nascita, fin da ragazzo ha sempre lavorato come software engineer per marchi noti, come AOL o Blizzard; figlio di un fisico delle particelle, è cresciuto cibandosi di 1960s science fiction e, come recita la sua biografia on line:
 
He is also a lifelong space nerd and a devoted hobbyist of subjects like relativistic physics, orbital mechanics, and the history of manned spaceflight.
 
Dunque accade che due anni fa Weir, stanco di proporre il proprio manoscritto – una science fiction ambientata su Marte, che aveva iniziato a scrivere nel 2009 e che gli aveva richiesto tre anni di lavoro – a case editrici e agenti letterari da cui sistematicamente veniva rimbalzato (poi capiremo il perché),  piuttosto che continuare nel tentativo attraverso l’editoria tradizionale decide di divulgarlo on line e gratuitamente sul proprio sito web, seguendo un format seriale a capitoli.
 

Poi, su consiglio di alcuni fans che desideravano avere a disposizione una versione off-line per ereader, Weir si risolve a pubblicare “The Martian” su Amazon al costo di 99cent, il prezzo più basso offerto dal colosso di Seattle. Risultato: “The Martian” scala le classifiche di vendita posizionandosi ai primi posti tra i bestsellers di genere science-fiction e Amazon ne vende 35mila copie in tre mesi. Il resto è presto detto: Weir firma un contratto con un agente letterario e l’opera esce in cartaceo per Crown Publishing nel Febbraio di quest’anno. A metà Marzo, “The Martian” figura tra i primi 15 hardcover bestsellers nella classifica del NYTimeCome si sa, i diritti cinematografici sono stati opzionati da Twentieth Century Fox che pare aver già ingaggiato come screenwriter addirittura Drew Goddard (sì, proprio quello di “Cloverfierld”).

 
Sicché parliamo di #selfpublishing, di quelli puri per altro, che – come regola vuole – sono figli di generi letterari ben precisi tra cui quello principe della science-fiction. E il perché di un successo così dirompente lo spiega bene la stampa americana che nelle pagine culturali e di entertainment si è occupata della faccenda:

Contemporary science fiction is so full of aliens, zombies and apocalypses, the science sometimes gets lost amid the fiction — which may help to explain why Andy Weir’s “The Martian” stands out in the crowd. Weir’s novel, a gripping tale of survival in space, harkens back to the early days of science fiction by masters such as Robert Heinlein, Isaac Asimov and Arthur C. Clarke – authors Weir has revered since he was a young reader. (Georgia Rowe, MercuryNews, 10/03/2014)

La missione Ares3, terza spedizione della NASA su Marte, non è andata come da protocollo. Nei giorni successivi all’atterraggio il campo base è devastato da una terribile tempesta di sabbia con venti a oltre 170km orari: i danni strutturali sono ingenti, Huston dà ordine di abortire e l’equipaggio è costretto a ritirarsi in direzione della navicella “Hermes” per rientrare precipitosamente sulla Terra. Durante questo breve tragitto, l’astronauta Mark Watney, ingegnere e botanico, viene colpito da alcuni detriti ed è scaraventato a decine di metri di distanza dal gruppo. I compagni lo cercano per qualche minuto ma a causa delle condizioni atmosferiche proibitive devono desistere e lasciare il pianeta. Mark Watney è dichiarato disperso, e poi morto. 
Inizia così l’avventura di questo novello Robinson Crusoe – chiaramente Watney morto non è – che deve impiegare tutte le energie e le proprie conoscenze scientifiche in questa curiosa e avvincente lotta per la sopravvivenza, unico abitante di un pianeta sconfinato. Nessun deus ex-machina quindi, preparatevi: niente omini verdi, niente catastrofi postatomiche, niente virus assassini. Soltanto un Uomo che, in solitaria, si misura con se stesso, con le proprie paure e le proprie risorse. Di più, sulla trama, non si può anticipare.
 
Si diceva, Weir ha impiegato tre anni per completare la stesura: questo perché di scienza, in “The Martian” ce n’è molta, pagine e pagine: da come recuperare l’indispensabile ossigeno al modo in cui garantirsi il quotidiano fabbisogno nutrizionale. Ed è tutto, a quanto pare, assolutamente verosimile (sì, ero scettica; e sì, mi sono documentata). 

“The more I worked on it, the more I realized I had accidentally spent my life researching for this story. Early on, I decided that I would be as scientifically accurate as possible. To a nerd like me, working out all the math and physics for Mark’s problems and solutions was fun”

“The basic structure of the Mars program in the book is very similar to a plan called “Mars Direct” (though I made changes here and there). It’s the most likely way that we will have our first Mars mission in real life. All the facts about Mars are accurate, as well as the physics of space travel the story presents. I even calculated the various orbital paths involved in the story, which required me to write my own software to track constant-thrust trajectories” (http://www.andyweirauthor.com/books/the-martian-hc)

La struttura a diario, con narrazione in prima persona (salvo alcuni punti che non è possibile svelare qui), regge questo tipo di impianto narrativo e permette uno stile divulgativo agile e coinvolgente, sostenuto in primis da una scelta azzeccata e intuitiva: puntare tutto sul temperamento dell’astronauta Watney, che è sì uomo di scienza ma che proprio non rinuncia a ricoprire il ruolo di anima della festa. Caciarone, sboccato quando occorre e quando non esserlo sarebbe stato veramente poco credibile, dotato di un pervicace sense of humor, ci diverte con il suo sarcasmo ai limiti del politically correct mentre affronta le sue sfighe quotidiane da uomo quasi comune. 
 
(Nota a margine: impianto narrativo a diario e personalità del protagonista, ecco spiegato l’interesse delle Major cinematografiche. Per altro, il fatto che il pubblico [US] si sia interessato – differentemente dall’editoria tradizionale – a questo esperimento di fiction scientifico-divulgativa la dice innegabilmente lunga su diversi aspetti relativi a tutta la filiera editoriale e sulle conseguenze che può avere un’analisi solo presunta del target di riferimento).
 
Bell’esempio di lettura di intrattenimento e insindacabile page-turner, ha il merito di stimolare riflessioni interessanti, che arrivano in quantità: su tutte, il rapporto dell’Uomo con la Natura, il Cosmo e quel desiderio di avventura e scoperta che sempre ha caratterizzato la Storia dell’Umanità. Marte veglia sui sonni di Watney: un respiro lungo di sabbie millenarie, ostili ma mai crudeli o vendicative: semplicemente Terre Selvagge, da scoprire, da difendere, da rispettare.
 
Buona lettura 🙂
 
ps. la bibliografia (US) è disponibile su richiesta; vi invito anche a dare un’occhiata alla reader’s guide disponibile sul sito dell’autore. Puro stile US highschool, ma funziona.

"Una commedia italiana", di Piersandro Pallavicini

“Mio padre è solo un perito chimico, anche se pensa di saperne più di me e dell’Ottolina messe insieme” 

racconta Carla Pampaloni Scotti, voce narrante e secondogenita dell’ottuagenario Alfredo Pampaloni.
Distinta cinquantenne, professoressa milanese (Chimica alla Statale), combatte quotidianamente contro le feroci caldane della menopausa, contro Tersilli, direttore di facoltà vetusto e misogino che da decenni non fa altro che sottrarle fondi e cercare di affossarle la carriera per puro spirito vendicativo, contro Rogoredo (“Edo”), fratello maggiore sbruffone, becero e cleptomane (residente a Londra, sposato con una donna avida e gretta, due figli gemelli molto biondi, molto british e molto maleducati, gallerista di un certo prestigio grazie alle sovvenzioni paterne), e ovviamente contro il padre, il decrepito, vedovo cùmenda milanese di cui sopra. 

Per fortuna c’è un figlio, Massimo, diciotto anni, terribilmente nerd e forse – spesso il dubbio travolge il cuore di mamma – un tantino omosessuale, e (un po’ meno per fortuna) un marito, Gianluigi (detto Gigi), ordinario di Fisica ed expatried a Pasadena per un anno sabbatico. E poi per fortuna davvero c’è la Paola Ottolina, l’amica di una vita, il “bulldog”, come affettuosamente rifersice il Dotòre, (nano da cesso l’altro epiteto più quotato), chimica anche lei, ultracinquantenne pure, in premenopausa anche, zitella e – onestamente – bruttissima.

“D’altronde – continua la professoressa Pampaloni – (mio padre) ha letto un saggio di Paolo Maffei e pensa di saper tutto di astronomia, è socio del Fai e dunque padroneggia l’intera storia dell’arte, e stato abbonato sette anni a ^Selezione^ e perciò è un esperto anche di letteratura. A Solària lo chiamano ^il dotòre^ dal ’67, quando era arrivato in cabriolet, giacca bianca e fularino, e aveva sfoderato il libretto degli assegni per comperare il terreno su cui avrebbe costruito la villa” (pag.25)

Questo è Alfredo Pampaloni, 

“che vestito come il suo amico Gunter Sachs – camicia azzurra slacciata fino al terzo bottone, giacca bianca di lino, pantaloni anche loro bianchi, e mocassini scamosciati, senza calze – brandisce una di quelle bottiglie sue, costosissime, di Muller-Thurgau o Traiminer o vattelapesca, acquistata a Milano nell’enoteca di viale Zara. Come fosse a Cortina o Saint Moritz, dedica un brindisi alla valle con i gesti molli e snob del capitano d’industria” (pag.20)

Un latin lover de no’ artri, smargiasso, maleducato, sgradevole negli scherzi e sessista nei modi, fondatore della Pampaloni Spa, azienda leader nel settore caseario (ndt: produzione di formaggini molli spalmabili):

“E non era nemmeno una società per azioni. ^Spa^ l’aveva aggiunto lui nella ragione sociale per darsi delle arie. 

– Spa come lo spavento che facevamo alla concorrenza – ama ancora raccontare, mondanamente, il Gunter Sachs della Maggiolina, e secondo lui questo è uno dei suoi miglior scherzi da prete” (pag.22)

Alfredo Pampaloni che nell’estate del 2012 convoca tutta la famiglia nella villa di Solària, Dolomiti inoltrate, per delle misteriose e assai impreviste dichiarazioni. Comincia da qui il racconto di Carla, che tra flashback & forward ci narra cinquant’anni di vita italiana restituendo al nostro ricordo un immortale scampolo di storia contemporanea, quello dei Gloriosi Anni Sessanta nostrani; la grande tradizione industriale del Nord, la cultura intellettuale e universitaria, le storiche firme del giornalismo, finanche l’imperitura industria cinematografica di Cinecittà senza tuttavia mai mancare di spirito critico, costruito attraverso un’obiettività colta e scevra da inutili pietismi che con garbo, eleganza e un pizzico di sarcasmo ne denuncia, di questa Italietta provinciale, i vizi e i difetti tra corruzione pubblica, mazzette e frodi fiscali, nepotismo, raccomandazioni e discriminazione femminile. Uno spettacolo di varietà su cui regna, protagonista indiscusso, lui, e chi altro se non il Dotòre Alfredo Pampaloni.
Spiace dire, non ce ne vogliano i foresti: di “Una commedia italiana” si ammira, prima di tutto, la perfetta constestualizzazione strettamente provinciale. Programmaticamente riferita giusto al principio dell’opera, e per questo degna di essere rispettata:

“Non ho mai capito se in questi casi sia più adatto dire esticazzi o me cojoni. Sono espressioni romanesche, non ho esperienza. Noi siamo di Milano” (pag.14)

Una Milano affascinante, bellissima nei suoi quartieri periferici, da Greco alla Bovisa. La Milano del cabaret, della Martesana, delle osterie che se non sai dove cercarle è inutile che ti ci provi, dei cinemini d’essai nascosti tra i capannoni dismessi adiacenti la Stazione Centrale; la Milano con le sue architetture d’avanguardia (come le case a fungo del villaggio dei giornalisti alla Maggiolina), i circoli di quartiere coi bianchini e il campo di bocce, le cascine mangiate dal cemento dei casermoni popolari costruiti per gli operai delle Falk a Sesto San Giovanni. 
Onestamente difficile apprezzare l’opera per intero, in tutte le sue sfumature, se digiuni di certe realtà: ma bene così, per una volta abbiamo tra le mani una narrazione di fantasia che non fa della globalizzazione letteraria la propria – facile – mano vincente, specie per quanto riguarda la parte più gialla della trama che si infittisce in un crescendo di mistero, dramma e delitto tipicamente all’italiana tra inconfessati segreti di famiglia, casseforti misteriose, investimenti plurimilionari e, perché farselo mancare, anche un pizzico di mondanità e gossip nostrano, che male non fa mai, famelici come siamo di facile e goliardico pettegolezzo.
Eppure, grazie a questa prorompente italianità di base (verrebbe da dire nonostante, ma ci si sbaglierebbe, perché è proprio per merito del contrasto che la semplicità del messaggio viene sconfessata) “Una commedia italiana” è un’opera che, senza scivolare mai né nel moraleggiante né nel didascalico, riconosce il valore e la necessità di una apertura extraterritoriale e cosmopolita. La competenza della professoressa Pampaloni e dell’Ottolina, nutrita di cospicue esperienze estere (affrontate in parte anche per sfuggire alla misoginia e al nepotismo dei baronati universitari), la Londra del rock progressive, passione ossessivo-compulsiva della povera Paola, la fascinazione di Edo per le arti visive, il desiderio di Max di partire per la Danimarca alla volta delle Olimpiadi della matematica, tutto contribuisce a restituire l’immagine di un nuovo italiano medio che, indipendentemente dal ceto sociale, attraverso la propria esperienza personale e professionale deve avere la forza e il coraggio di emergere seguendo le proprie passioni. 
E se la passione viene coltivata fino allo stremo, fino a quando il nostro corpo non reclamerà il riposo eterno, e se non è altro che il sogno di una vita, una produzione cinematografica intramontabile, dal cast stellare: “Calindri, Tognazzi, Vianello, Dorelli, la Valeri, la Valori, Tina Pica” (pag.291) allora questa è un’altra storia, e non ve la raccontiamo. Tanto, 
“L’importante è che la morte ci trovi vivi” , e last but not least

“Abbiamo cinquant’anni, chi ha la forza di odiare davvero qualcuno?” (pag.21)

Soundtrack: Spotify, Skating Away On The Thin Ice Of The New Day, Jethro Tull, WarChild, 1974.

Buona lettura 🙂

"Tokyo Sisters", di Raphaelle Choel e Julie Rovéro-Carrez

Mescolando la freschezza dei trent’anni e il rigore tipico del reporter d’oltralpe, Raphaelle Choel e Julie Rovéro-Carrez ci raccontano al di là del preconcetto e dello stereotipo un mondo femminile affascinante, contraddittorio e per lo più sconosciuto. Lontane da ogni intento didascalico o moraleggiante, si accostano alla femminilità nipponica (edochiana, per la precisione) desiderose di un confronto alla pari nel quale entrambi i soggetti – intervistatrice e intervistata – avranno modo di apprendere, sperimentare e far propria una cultura differente da quella di origine e, perché no, smussare le asperità personali.

A scardinare il proverbiale riserbonipponico ci pensano la spontaneità e la chiarezza di intenti delle due giornaliste che rapportandosi in maniera fortemente empatica con le proprie interlocutrici ricevono in cambio confidenze autentiche e schiette sugli aspetti più intimi della femminilità nipponica. Dalla vita di coppia pre e post-matrimonio, alle difficoltà nel coniugare il ruolo di donna (spesso in possesso di un’ottima istruzione universitaria), moglie e madre all’interno di una società che non fa certo delle pari opportunità un punto a favore, il filo rosso che lega le decine di testimonianze è una sostanziale ricchezza di spirito declinata tutta al femminile, sostenuta da una profonda spiritualità che tuttavia ogni giorno si confronta (e si scontra) con l’iperstimolazione sensoriale offerta dai nuovi media e soprattutto dall’occidentalizzazione di massa a cui il paese è ormai sottoposto.

Così l’edochiana media che per tradizione, fino a un ventennio fa, si era dedicata alla propria carriera limitandola agli anni pre-matrimoniali o comunque non oltre la nascita del primo figlio, ora si rivolge al mondo del lavoro con il desiderio di sviluppare le proprie caratteristiche professionali ben oltre il classico ruolo di office-lady cui era stata costretta per anni. Fioriscono così le managers laureate all’estero con il massimo dei voti e poi rientrate in patria decise a conquistare posizioni di vertice all’interno di companies di rilevanza internazionale; determinate a organizzare al meglio anche la propria vita privata senza rinunciare né al tempo libero, né alla famiglia, né ai figli, rivendicano quelle pari opportunità che hanno imparato ad apprezzare grazie alle esperienze estere, dall’abolizione dei famigerati “soffitti di cristallo” alla creazione di asili nido aziendali fino all’organizzazione di turni di lavoro che permettano un’adeguata working-life balance.

Di contro, l’occidentalizzazione dei costumi ha definitivamente relegato il kimono in soffitta, limitando a quei pochi giorni di festa concessi ogni anno (la golden week primaverile, più qualche altra giornata sparsa qui e lì) non solo l’utilizzo degli abiti tradizionali ma anche la visita ai luoghi simbolo della spiritualità nipponica e la celebrazione di rituali antichi e di indubbio significato storico e antropologico (come per esempio la cerimonia del tè, sempre meno conosciuta nei dettagli e di conseguenza sempre meno praticata nella sua interezza). Al posto dell’indumento principe dell’edochiana doc (che fino a qualche decennio fa ancora si declinava in varie fogge e misure a seconda della stagione e dell’occasione d’uso) stanno le maison dell’abbigliamento di lusso, di cui la popolazione femminile nipponica è divenuta ghiotta: Vuitton, Gucci, Prada hanno eletto Tokyo a dimora permanente e il Giappone è uno dei Paesi al mondo leader… nel consumo di cosmetici. Parimenti, il junk-food all’occidentale, consumato per strada, va ormai di pari passo con il classico bento, equilibratissimo mix di carboidrati, proteine e vitamine, ogni mattina composto amorevolmente della mamma e affidato alle mani di figli e mariti che lo consumeranno all’asilo, a scuola o in ufficio. Per non parlare del matrimonio, rimandato fino al termine ultimo concesso (30anni) perché rimpiazzato da una serie pressoché infinita di anni spensierati ma poi spasmodicamente ricercato e infine celebrato nella maniera più tradizionale possibile – e non manca neppure chi si rivolge ancora al sensale per trovare moglie, o marito.

Il merito di Choel e Rovéro-Carrez sta proprio qui: nell’aver mostrato e reso evidente attraverso questo preciso reportage (che per altro non sfigurerebbe neppure tra le guide turistiche, tanto sono precisi i riferimenti ai luoghi di interesse, dai ristoranti più raffinati alle piazze in cui si radunano comunemente i partecipanti ad un certo tipo di cosplay fino alle più ricercate stazioni termali raggiungibili in un’ora di treno da Tokyo) la vera sfida che il Giappone di oggi deve affrontare: il mantenimento e la conservazione della propria, peculiare individualità a fronte di un’occidentalizzazione ormai marcata e inevitabile che se da una parte possiede il valore di un rinnovamento – nei costumi, nella cultura e nella produttività – assolutamente necessario, dall’altro rischia di incenerire in uno sol colpo tradizioni e spiritualità millenarie. Alle donne – alla loro intraprendenza – è affidata questa delicatissima missione.

#lettidinotte #tokyosisters #notturnogiapponese #libreriaAzalai #milano

Buona lettura 🙂

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