"Una famiglia quasi perfetta", di Jane Shemilt

Incuriosisce sempre questo connubio, di come la disciplina medica non smetta mai di prestare risorse alla letteratura – o viceversa, ovviamente, il che dipende unicamente dal punto di vista dal quale si sceglie di osservare la questione. 
Ultimo esempio in ordine di tempo, l’esordiente britannica Jane Shemiltstudi in Psicologia e Fisiologia al college, laurea in Medicina, esperienza sul campo come General Practitioner (ndt: il medico di base in Inghilterra, che assiste i pazienti iscritti al servizio sanitario nazionale all’interno degli ambulatori pubblici di zona), nonché moglie di un neurochirurgo e madre di cinque figli
Ad un certo punto della sua vita – suppongo tra un figlio e l’altro, ipotesi che al momento non mi riesce di suffragare attraverso fonti bibliografiche certe ma a logica è l’unica probabile – Jane consegue anche una laurea in Scrittura Creativa presso l’Università di Bristol e poi una successiva specializzazione a Bath. 
E finisce che il suo romanzo di esordio, il thriller psicologicoDaughter” (sul titolo originale dell’opera torneremo poi) pubblicato per Penguin nel 2014 viene menzionato per il Janclow & Nesbit Award – un riconoscimento che la famosa agenzia letteraria omonima assegna ogni anno presso l’Università di Bath – e per il Lucy Cavendish Fiction Prize della Cambridge University.
Nonostante Jane Shemilt possieda una formazione scientifica, “Daughter isn’t a medical drama“, come l’autrice stessa non manca di sottolineare dalle pagine del suo sito web. Al contrario, “it’s a story about a missing girl and the themes of grief, loss, harmful secrets, betrayal and fear do resonate with others in this genre”.
Bristol, inverno 2009. Naomi, una ragazza di buona famiglia, scompare misteriosamente. La quindicenne sparisce nel nulla in una fredda sera di novembre, al ritorno dalla recita scolastica di cui è protagonista. Nessuno sa più nulla di lei, né le amiche, né il fidanzatino, né i due fratelli gemelli Ed e Theo. Il padre e la madre sono disperati, la famiglia è allo sfascio e gli inquirenti brancolano nel buio anche perché le indagini rimandano a un ritratto di Naomi ben diverso dall’immagine che la ragazza aveva dato di sé in famiglia – o che la famiglia aveva avuto modo di recepire.

Poco più che un canovaccio, dunque, su cui si innesta – alla maniera tipica dei più quotati Creative Writing Courses anglosassoni – il contributo dello scrittore che attraverso le scelte tematiche e stilistiche ha il compito di determinare l’originalità del proprio prodotto. Originalità che anche in questo caso è data non tanto dall’idea di partenza quanto, appunto, dalle modalità del suo svolgimento. 

“I began Daughter initially as a way of exploring loss and grief, something I was familiar with from work. No one it seemed, was unscathed. Survival of loss particularly interested me, the question of the day after day after day”

Scrive sul suo blog l’autrice. Il punto di vista adottato è infatti esclusivamente quello di Jenny, la madre di Naomi, che in un attimo vede la propria vita e quella della sua famiglia disintegrarsi nell’angoscia di una scomparsa misteriosa e nell’orrore di una consapevolezza appena acquisita e forse ancor più devastante:

“I giorni passavano in fretta. Giorni normali? Erano normali? Allora sembrava di sì. (…) Normali, sebbene fossero gli ultimi giorni di vita familiare; normali, anche se venne fuori che quasi tutti stavano mentendo” (kindle, pos.832)

Decisa la via da percorrere – focalizzarsi sul post-trauma, evitare accuratamente qualsiasi contaminazione con il poliziesco, approfondire il dramma familiare, senza dimenticare la necessità di giungere alla risoluzione dell’enigma – rimane soltanto da definire il modo in cui affrontare la materia. E qui sta l’idea originale: attraverso un racconto a flashback continui creare uno “spazio di quiete” (come lo definisce l’autrice stessa) all’interno del quale il lettore avesse modo di concentrarsi interamente sui temi di cui sopra ma allo stesso tempo mantenere la suspance che il genere thriller richiede (“pages turning”). Il drammatico momento della scomparsa e i giorni ad esso appena successivi non vengono narrati infatti in presa diretta ma sono evocati dal ricordo di Jenny, a un anno di distanza. Jenny che – non sappiamo ancora per quali motivi – non vive più nella grande e accogliente casa di Bristol insieme ai figli e al marito ma si è ritirata, sola, nel Dorset, in un vecchio e isolato cottage appartenente alla famiglia materna. E il mistero della sparizione di Naomi è più vivo che mai: aspetta solo di essere svelato.

 
L’originalità del testo non sta soltanto nello svolgimento della trama ma – paradossalmente – anche nell’estrema contestualizzazione che nell’atto della scrittura “a tavolino” (sì, ci risiamo, vedi sopra alla voce Creative Writing Courses) si vuole frutto dell’esperienza autobiografica. Scrivi di quel che sai, insomma, e niente di più vero, almeno in questo caso, dato che Jenny non è altro che un GP impegnato in un day by day denso di fatica e dedizione mentre il padre Ted è un neurochirurgo ospedaliero. Tre figli adolescenti, un lavoro full-time, la casa da mandare avanti, una passione (per Jane la scrittura, per Jenny la pittura) che riempie il cuore ma che rende la quotidianità un’estenuante lotta contro il tempo. Una chiave di lettura interessante e non così scontata perché pone l’accento su uno degli aspetti più inquietanti della maternità: il senso di colpa.

“Tutto ciò che ho sbagliato o frainteso si trova in un punto imprecisato nello spazio mutevole fra l’aspettarsi troppo e il non osservare abbastanza” (pos.3767)

“Doveva aver osservato e ascoltato suo nipote come io non avevo fatto con i miei figli” (pos.3988)

“Cosa ne so io di quanto spazio una persona ha bisogno di avere intorno a sé? Pensavo che Naomi avesse bisogno di spazio, ma forse ero io a pensare che fosse quello il suo bisogno primario. Era più facile, in quel modo” (pos.3997)

E non soltanto. 
“Daughter” (per tutto ciò di cui sopra, quindi, non piace anche a voi un po’ di più, il titolo originale?) – ricordiamo: romanzo scritto da un’autrice britannica e in primis rivolto a un pubblico nazionale – contiene in sé, in maniera neppure troppo nascosta, un’interessante serie di riflessioni critiche a proposito di alcuni tra gli scottanti temi sociali che attanagliano da decenni il mondo anglosassone (ricordate? Ne avevamo già parlato qui). La questione della sanità pubblica ad esempio, carente sotto molti aspetti tra cui quello diagnostico vuoi per incapacità medica vuoi per deficit strutturali e attese bibliche. La piaga dell’abuso di sostanze stupefacenti e di alcool tra i liceali. I numeri, sempre in drammatica crescita, delle teen-mums. Il sistema scolastico fortemente competitivo che vede i ragazzi, a partire dalla secondary school, vittime di corsi extracurricolari, tirocini, esperienze più o meno formative che pur potendo contribuire all’arricchimento e allo sviluppo di competenze professionali future spesso si limitano a sradicare giovani ancora immaturi dalle proprie famiglie catapultandoli in universi assolutamente inadeguati per animi non ancora sufficientemente pronti ad affrontarli. E infine l’istituzione stessa della famiglia. (“[A novel] that explores the aftermath of a teenager’s disappearence. It examines the dangers that lurk for those who take their luck for granted; it explores the emptiness at the heart of a contemporary middle-class family, and what happens when doctors play God” racconta l’autrice nel blog).

Ultima nota, i contrasti d’atmosfera, sempre ben resi. Descrizioni di ambienti chiusi, protetti, confortevoli, e a far da contrappunto il buio della notte invernale, il gelo dell’attesa. Una lingua viva e mutevole nell’agile traduzione di Daniela Di Falco.

Buona lettura 🙂

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