“Cuori vuoti”, di Juli Zeh (trad. Madeira Giacci)

“Chiunque abbia bisogno di un attentatore non è più costretto a rivolgersi a dei fanatici jihadisti con disturbo narcisistico, o a dei bambinoni con il feticismo per le armi né a degli psicopatici che odiano gli stranieri e le donne. Loro invece gli consegnano un martire formato professionalmente, rigorosamente selezionato, che desidera morire per un fine alto. Il Ponte ha messo fine all’anarchismo terrorista. Ci sono accordi fissi e un numero controllato di vittime. Con il tempo il settore ha aderito a questo modello di business.”

Quanto mi piace Juli Zeh. L’ho scoperta l’anno scorso in biblioteca, con “Turbine“, e poi ho camminato a ritroso per recuperare tutto il resto. Zeh è laureata in giurisprudenza e specializzata in diritto internazionale; viene da una famiglia in cui di politica si parlava a colazione (suo padre è Wolfgang Zeh, giurista ed ex direttore del Bunderstag) e da più di vent’anni scrive romanzi pluripremiati. E’ mia coetanea (Bonn, 1974) e forse è stato proprio il punto dell’età a incuriosirmi perché questa scrittrice possiede uno sguardo in cui mi riconosco: un piede di qui, nel lontano secolo scorso, e uno di là, in un futuro che di fatto mi appartiene poco e che osservo – come lei – mescolando la famelica curiosità allo scetticismo proprio dei diffidenti.

A me pare che “Cuori vuoti” possa essere ben identificato come una summa degli argomenti che a Juli Zeh interessano da sempre; se qualcuno mi chiedesse da quale titolo cominciare a leggerla penso che consiglierei di partire proprio da qui. Da questo futuro di pochi anni avanti a noi – il 2025 – in una Germania distopica in cui il BBB (“Besorgte Bürger Bewegung” ovvero “Movimento dei Cittadini Preoccupati”), spodestata la cancelliera Merkel, ha preso il potere e lavora alacremente per ripristinare un certo tipo di ordine novecentesco di non nuova fattura che ha come effetto collaterale – guarda caso – il progressivo allontanamento dei cittadini dalla vita politica, il pugno di ferro nei riguardi delle migrazioni, la creazione di un’eccellenza d’élite la cui costruzione parte sin dalla scuola. Nel resto del mondo, intanto, Trump ha vinto le elezioni, Putin è all’apice del potere e l’Europa si sta disgregando sotto il peso dell’inefficienza.

“(…) la folla che gridava «La Merkel se ne deve andare!» riunita davanti alla Cancelleria, il momento in cui Angela, dopo l’annuncio ufficiale dei risultati, era apparsa davanti alle telecamere e si era assunta la responsabilità dello straordinario risultato della BBB. Aveva unito le mani a forma di rombo e aveva dichiarato, con il suo tono pacato e leggermente bleso, che quei risultati elettorali non erano solo una catastrofe per la Germania, ma anche il fallimento della sua carriera personale. Tra i vari «Buuuh» di alcuni giornalisti presenti, alla fine la ex cancelliera era crollata. Una lacrima le era scivolata lungo il viso, mentre, cercando di evitare interruzioni, urlava al microfono: «Auguro al nostro paese, auguro a noi tutti, buona fortuna!». Poi aveva abbandonato il podio, con la testa china, e improvvisamente era apparsa terribilmente invecchiata.”

Il punto di forza di Juli Zeh non sta solo nella profonda conoscenza del sistema politico tedesco – la qual cosa le permette di modellare intrecci di genere legal thriller molto dettagliati – ma anche nella capacità di penetrare la scena privata: quel contesto intimo di rapporti familiari, in specie genitoriali, che aggiungono alla trama i tratti caratteristici del giallo psicologico. In questo modo, mettendo in scena, qui in “Cuori vuoti”, l’agiata realtà familiare di Britta – una manager sofisticata, sposata con un imprenditore e madre di una bambina di sette anni – Zeh riesce a coprire tutti gli argomenti che le sono cari: dalla spy story fino alle questioni filosofiche sollevate proprio dal thriller psicologico, ad esempio l’interrogarsi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, o sul sistema valoriale delle nuove generazioni, oppure ancora sull’etica del lavoro; senza dimenticare la riflessione, importantissima, sui pericoli delle derive democratiche.

“In verità la teoria tratta soprattutto del fatto che il capitalismo del corpo sia, in fin dei conti, un comunismo dell’anima.”

In questo tempo pandemico si parla spesso di distopia e il termine, ormai, rischia di essere abusato: in verità, non tutto ciò che è rappresentazione di un futuro alternativo merita automaticamente la definizione di distopico e non è nemmeno detto che una ricostruzione post-apocalittica, per dire, sia sufficiente a determinare di per sé la distopicità di un racconto. L’invenzione distopica esiste soltanto nel momento in cui, paradossalmente, lo sfondo si ritira perché a tener banco non siano tanto le descrizioni cataclismiche di manufatti umani sprofondati nelle sabbie quanto i punti di critica al sistema socio-economico che al mondo distopico ha portato e che in esso è reso fattuale: la crisi dell’attivismo politico individuale e della responsabilità civile collettiva, per esempio, o l’espansione delle correnti di pensiero esistenzialista, o ancora le conseguenze politico-sociali dei regimi fondati sul capitalismo. Juli Zeh di tutto questo ha gran contezza tanto che, con arguzia sottilissima, sceglie per “Cuori vuoti” un’ambientazione green che accosta – attraverso un sistema descrittivo molto vicino al Nature writing – le linee di pensiero del vivere suburbano e della prossimità territoriale all’idea di una città sostenibile e smart – ad uso e consumo di chi ha possibilità e diritto a goderne.

“Un paio di anni fa hanno fatto un’inchiesta», racconta Britta, «hanno chiesto alle persone cosa farebbero se dovessero scegliere tra il diritto di voto e la lavatrice».
«Cosa ne è venuto fuori?».
«Il sessantasette per cento ha scelto la lavatrice. Quindici per cento gli indecisi».”

La Germania di Juli Zeh è un mondo allo specchio all’interno del quale nessuno è chi crede di essere e nulla è come sembra; in un continuo gioco di rimandi, echi e memorie, pagina dopo pagina capita anche di dimenticarsi il fatto ovvio della distopia e proprio questo punto, l’esistere di quell’attimo – del passaggio tra la dimenticanza e il rinnovamento della presa di coscienza – rende il distopico di Juli Zeh così preciso, perfetto e terrificante.

Ringrazio Fazi Editore per l’invio dell’ebook.

“Chiaroscuro”, di Raven Leilani (trad. Stella Sacchini e Ilaria Piperno)

“La responsabilità di esaminare l’oppressore non spetta all’oppresso” (pag122)

Ci sono libri che raccontano storie e che, nello stesso tempo, riescono a mostrare la maniera in cui queste storie devono essere raccontate. E’ il caso di “Chiaroscuro”, romanzo breve dell’esordiente Raven Leilani; trentenne del Bronx, cresciuta in una famiglia di artisti, diploma in arte e master in fine arts conseguito alla New York University sotto l’egida di – per dire – Zadie Smith e JS Foer, R. Leilani ritrae in prima persona singolare le vicende della ventitreenne Edith, che abita a Brooklyn in un appartamento condiviso, lavora in una casa editrice dopo aver abbandonato la promettente carriera artistica e “sceglie solo uomini sbagliati”, con una preferenza per relazioni disfunzionali e scompensate. La storia di Edith – o meglio, quello spicchio di memoria di cui R.Leilani decide di renderci informati – comincia quando, proprio a causa di una di queste storie sbagliate, la ragazza viene licenziata e perde così posto di lavoro, appartamento, assicurazione sanitaria. Di più non voglio dire perché sono convinta che tante peculiarità di queste pagine si colgano meglio se si affronta il testo così d’impatto, senza saperne quasi nulla.

“Puoi essere te stessa con me, lo sai,” dice, e faccio una gran fatica a non scoppiargli a ridere in faccia. “Grazie,” dico, anche se so che non è vero. Vuole che io sia me stessa come potrebbe essere sé stesso un leopardo in uno zoo di città. Inerte, in attesa di cibo. Non libera e allo stato brado, con i legamenti paradontali ben allenati.” (pag20)

Ho pensato alla storia di Edith come a uno di quei what if che segnano spesso la narrativa distopica. Il “cosa sarebbe successo se” e poi via, verso mondi alternativi. Questo perché il colore della pelle dell’afroamericana Edith, di cui per altro veniamo informati en passant, è il punto discriminante di ogni episodio della vita di Edith che ci viene raccontato. Per esempio: perché la ragazza viene scelta in chat dall’attempato Eric, archivista in piena crisi da quarantenne represso? Perché interessante di per sé, disponibile al sesso estremo, lontana da qualsiasi progetto di coppia, giovane e dal seno prosperoso, o – semplicemente – perché nera? (Domanda non oziosa: la motivazione sta nella trama, credetemi sulla fiducia). Oppure ancora: il licenziamento è causato soltanto dalla sgradevole condotta di Edith, che non si fa effettivamente scrupolo nel mettere in atto comportamenti decisamente poco adatti all’ambito professionale, o – anche – perché nera?

“Non mi viene in mente un solo momento in cui lei sia mai stata onesta con me, e anche adesso eccola che svia il discorso con parole come tolleranza e inclusività prima che l’addetto delle Risorse umane arrivi al punto e dica che in azienda alcuni uomini e alcune donne hanno la sensazione che io abbia tenuto una condotta sessuale inappropriata”. (pag76)

E ancora: l’abbandono della scuola d’arte o la necessità di vivere in un appartamento economico e fatiscente – è tutto capitato a causa di difficoltà personali riconducibili – anche – alla pelle nera? L’autrice è attenta a instillare il dubbio nel lettore (che in questo modo si trova a friggere senza nemmeno rendersene conto, come la rana nella pentola dell’acqua calda perché dal razzismo sistemico nessuno di noi è immune), a dimostrazione di quella fatica che occorre sostenere ogni volta che si entra in contatto con la parolina magica dell’intersezionalità – che non è tanto la questione di star meglio o peggio di qualcun altro, come se il dolore o le complessità della vita fossero quantitativamente misurabili da farci una classifica, quanto quel meccanismo in base al quale c’è gente che dalla vita ne viene fuori meglio (o meno peggio) di altra per via di alcuni benefici (altrimenti detti privilegi) che di fatto cadono dall’alto e che per la maggior parte non si ha facoltà né di scegliere né di rifiutare.

Con uno stile dinamico e svelto, preciso nella scelta del lessico e molto materico, Raven Leilani ci infila a forza nella vita di Edith: una ragazza intelligente e ironica, bella in modo forte, immediato ma che non sapremo mai (magra, grassa, alta, bassa – nulla di lei è detto a parte il seno grande e i piedi piatti), con una gran cultura musicale e uno spiccato senso artistico, vittima di una pigrizia molesta e disordinata, incapace di un giudizio critico sui maschi, difettosa di amicizie e di “relazioni buone”. Di Edith sappiamo unicamente quello che l’autrice vuole raccontarci e fino a un certo punto, dato che il romanzo punta a un finale aperto. E’ un sistema del raccontare che a me, personalmente, piace molto: mi viene in mente per esempio il bellissimo “Gun love” che è un romanzo sull'”amore armato” (uno dei punti di “Chiaroscuro”), la cui autrice, Jennifer Clement (laurea in inglese e antropologia, master MFA), è presidente del PEN international e attiva su certi temi sociali e politici “di frontiera”. In “Gun Love”, infatti, il lettore è trascinato nel mondo di Pearl, ragazzina homeless, di cui viene narrata la storia per episodi: senza filtri, senza giustificazioni, senza che venga dichiarato il principio di scelta. Mi piace questa totale negazione dell’onniscienza perché alla fine è, per me, il sistema del raccontare che più si avvicina alla realtà del nostro quotidiano in cui spesso ci si confronta con decine di individui dei quali non si conosce nulla a eccezione di quelle poche informazioni offerte dal momento.

La svolta, per Edith, sarà l’incontro con un’adolescente di pelle scura e i capelli bruciati dalle lisciature chimiche nascosti sotto una parrucca rosa: il momento in cui il what if si trasformerà concretamente da presente alternativo a destino già scritto …o futuro ancora da costruire. “Chiaroscuro” ci insegna qualcosa di importante: occorre imparare il linguaggio, dal femminismo intersezionale al white savior complex, se si desidera parlare di certi argomenti; ma va anche oltre: R. Leilani ci suggerisce, prima di tutto, l’opportunità del silenzio – un silenzio che deve farsi ascolto attivo di storie che possono essere raccontate solo dalle voci che, quelle storie, le hanno vissute.

“Non esiste nessuna superficiale parola alternativa per quel che sto cercando di farle capire, nessun modo di spiegare con efficacia quel tipo di abusi che è difficile riconoscere. È un inferno retorico. Uno sminuire l’altro così frequente da apparire banale. Quasi troppo banale per lo sviluppo della parola con la r, come in una certa setta di Brave Persone Bianche l’accusa fa passare in secondo piano l’azione”. (pag121)

Note: 1. Per una volta ho apprezzato la modifica del titolo, dall’originale “Luster”, termine che in traduzione avrebbe perso gran parte della sua risonanza colma di rimandi, al nostro “Chiaroscuro” – un sostantivo sfumato (di cui per altro in inglese esiste scarsa corrispondenza) che suggerisce al lettore l’importanza della dimensione artistica del testo. Potete trovare qui nel thread lo scambio in proposito, avuto con la traduttrice S. Sacchini. 2. A proposito di intersezionalità, è chiaro il punto sui privilegi della stessa R. Leilani: è possibile che l’autrice, data la sua storia familiare, finisca per rappresentare soltanto una parte di quelle own voices? Quale potrebbe essere il modo per narrare una vicenda dell’uno – che mantenga la propria unicità e nello stesso tempo si alzi a rappresentazione dell’universale? La discussione è aperta. 3. Ringrazio Feltrinelli per l’invio dell’ebook.

“Antichi demoni, nuove divinità”, AAVV a cura di Tenzin Dickie (trad. Giulia Masperi)

“Può il nostro karma tollerare tanta abbondanza?” (“La valle delle volpi nere” di Tsering Dondrup, pos.2450)

…no, non credo – io non ne sono stata capace! Con quanta commozione ho accolto la notizia dell’uscita di “Antichi demoni, nuove divinità”, la prima antologia di narrativa tibetana coeva pubblicata in Italia. Questa bellissima selezione di racconti comprende i lavori dei più celebri scrittori tibetani contemporanei – ove per “tibetano” s’intende sia del Tibet annesso alla Cina sia del Tibet “della diaspora”. Si tratta di quindici narrazioni importanti, poiché affondano le radici nella questione dell’identità perduta, in quel problema complicato che è l’espressione della “propria voce” e, se vogliamo vederla a rovescio, dell’appropriazione culturale.

Racconta la curatrice della raccolta, Tenzin Dickie – poetessa, scrittrice, traduttrice, nata e cresciuta in un insediamento di rifugiati tibetani in India e poi (all’età di 14 anni) emigrata a New York: malgrado la letteratura tibetana possieda “una storia millenaria“, il suo corpus, “uno dei più ampi del mondo”, è costituito quasi per intero da “opere buddiste, trattati di etica, metafisica, medicina, epistemologia”. Se da una parte agirono in tal senso l’ideale buddista dell’eliminazione del desiderio e la conseguente limitazione “filosofica o ideologica”, dall’altra non si può negare l’influenza delle questioni pratiche, tra cui la difficoltà a reperire i costosi materiali per la stampa o la resistenza verso l’utilizzo dei caratteri metallici – considerati impuri. Si capisce quindi con quale enfasi fu salutata, negli anni Ottanta, la pubblicazione delle prime riviste in lingua tibetana, “Tibetan Art and Literature” e “Light Rain”.

Del Tibet, tuttavia, abbiamo sempre sentito parlare: testimonianze di esploratori, romanzi d’avventura, reportage. Tutti o quasi a firma di (bianchi) occidentali. La faccenda di “esprimersi con la propria voce”, in maniera da evitare che altri continuino ad appropriarsi delle esperienze di vita e di cultura di chi, di fatto, non si conosce (in specie minoranze) è una questione sulla quale in questo periodo si dibatte non poco. Il concetto di appropriazione culturale è di fatto originario degli Stati Uniti eppure mi pare che che, con le dovute cautele, possa riferirsi a tutte quelle realtà che, seppur per cause diverse, condividono lo stesso destino.

Questa antologia è ricca di pagine su cui ho riflettuto molto. Gli autori vengono da Tibet, Cina, India, Nepal, USA, Canada e scrivono in tibetano, inglese, cinese. Le pagine scorrono in una bellissima eufonia di voci, generi, sensibilità, argomenti. Come ascoltare una radio a basso volume, un suono continuo che porta con sé la presenza, quel dire noi siamo qui. Argomenti e stili divergono non poco e creano un complesso quadro che abbraccia fiaba e racconto popolare, leggenda, reportage e fiction, in un continuo alternarsi di equilibri instabili: tra la modernità delle applicazioni per il dating on line e la tradizione del matrimonio combinato, la durezza della vita in campagna e la spersonalizzazione dell’inurbamento irregimentato, l’emancipazione femminile e lo sgretolamento delle radici familiari, le tradizioni di una spiritualità millenaria e il compromesso insito nell’accettazione della modernità.

“Durante il suo viaggio senza fine, avvertiva i sensi mancargli uno dopo l’altro, e a volte era così stanco nel corpo e nella mente da pensare, semplicemente, di non poter andare avanti. Eppure continuava a seguire la strada e il suo viaggio, affrontando innumerevoli sfide, alla ricerca del sogno.” (“Il sogno di un Menestrello Errante”, di Pema Tseden, pos.1579)

“L’enigma della camera 622”, di Joël Dicker (trad. Milena Zemira Ciccimarra)

“Secondo Bernard, un ‘grande romanzo’ è un quadro. Un mondo che si offre al lettore, il quale si lascerà catturare da questa immensa illusione creata con colpi di pennello. Il quadro mostra della pioggia e ci si sente bagnati. Un paesaggio glaciale e innevato, e ci si sorprende a rabbrividire. E diceva: ‘Sa chi è un grande scrittore? Un pittore. Nel museo dei grandi scrittori, di cui tutte le librerie posseggono la chiave, ci aspettano migliaia di tele. Se ci entri una volta, diventerai un habitué’” (pag315)

Da qualche tempo riesco a circondarmi di libri meravigliosi. L’ultimo della serie è questo enigma della camera 622, il nuovo lavoro di Joël Dicker. Seicentotrentadue pagine che si mangiano così, una dopo l’altra, di ogni parola apprezzando la limpidezza e la pulizia del gusto, dell’atmosfera, del pensiero e della cura estrema che sta dietro a ogni minima scelta – di forma e sostanza.

Il rompicapo della camera chiusa è il cadavere steso, due colpi di pistola sparati a bruciapelo, sul pavimento della lussuosissima suite 622 dell’hotel Palace de Verbier, nelle Alpi svizzere del Canton Vallese: un albergo principesco, riservato a una clientela selezionata, esigentissima; tutto torrette e tetti spioventi, è circondato dalla foresta di pini e affacciato a strapiombo sulla valle del Rodano, immerso nella neve e nel freddo di un inverno di quindici anni fa. E’ un caso irrisolto, quello del neo eletto Presidente della Banca Ebezener (istituto privato tra i più noti in Svizzera) trovato morto a poche ore dall’elezione avvenuta durante la convention annuale della banca, uno degli eventi più esclusivi della stagione ginevrina.

Spiace, lo diciamo subito: all’hotel Palace de Verbier è inutile che andiate, la camera 622 non esiste più. Al suo posto fa bella mostra di sé una targhetta, “621bis”, che rivela la ferrea volontà del direttore dell’albergo, dei suoi dipendenti e della buona società che ancora frequenta l’hotel nell’adagiare sulla vicenda una coperta morbidissima di silenzio denso e impenetrabile, fitto come la coltre di neve e di freddo che ricopriva Verbier la notte tra il 15 e 16 dicembre di quindici anni prima. Il silenzio, però, spesso fa più chiasso di un carnevale. E così capita – forse per caso, forse no – che Joël Dicker, scrittore che nel romanzo interpreta se stesso tra dolori privati, incombenze quotidiane, tensione verso la creatività e necessità pratiche, si trovi a indagare prima per mera curiosità, poi con sempre maggiore impegno e coinvolgimento, sul delitto della camera 622 (pardon: 621bis).

“L’enigma della camera 622” è un romanzo d’atmosfera che possiede la capacità di stimolare la fantasia del lettore in un modo che poca fiction contemporanea può vantare – e che non per nulla si rifà alle ambientazioni di certi sguardi ottocenteschi mitteleuropei e ancora più profondi. La naturalezza con cui Dickel racconta di fortune immense, residenze maestose, gioielli, somme di denaro ingentissime, moquette, tappeti, abiti preziosi, bastoni da passeggio incastonati di diamanti, anelli d’oro e zaffiro come promesse di matrimonio, caminetti accesi e samovar, colazioni alla vodka e caviale, spie e intrighi internazionali – e all’opposto di povertà sconfinate, diaspore, cappotti nerissimi e valige di cartone, antiche canzoni e lingue perdute – insomma la naturalezza con cui Dickel racconta tutto questo non mostra solo l’ingegno di uno scrittore ma anche quanto sia profonda la comunanza di noi europei con questo sistema del narrare che prima di tutto è il recupero del rapporto tra fabula e intreccio – un’architettura che prevede anche l’utilizzo di piani temporali diversi per scivolare dal particolare di una vicenda privata al collettivo del Novecento europeo. Quella di Dickel è una narrazione ipnotica perché fonda la sua struttura sul potere del racconto in quanto tale (sì, facciamocene una ragione, sono seicentotrentadue pagine): del descrivere quel che è, di ciò che si vede, del piacere di immaginare, del dipingere: ambienti, personaggi, dialoghi, paesaggi – tra luci e ombre, cieli buissimi e novembrini, giornate limpide di sfavillanti primavere alpine.

Tant’è, “L’enigma della camera 622” è anche un omaggio di Dickel al carissimo amico ed editore Bernard de Fallois (1926-2018) che di arte, come dire, se ne intendeva parecchio.

Attorno al delitto e alla suite 622 danza una serie di personaggi infiniti, tratteggiati come su un quaderno antico, rilegato in pelle – attori dalle origini incerte, perse nel profondo di quell’Europa dell’est crocevia di novecento, guerre, culture, saperi, religioni. Una profondità di lettura che viene direttamente (chissà con quanta consapevolezza, questo mi incuriosisce) dalla commedia degli equivoci plautina e dallo scambio di persona di tradizione omerica, con Ulisse che si finge mendicante, con la divinità che si traveste da umano o da fiera per sedurre l’amata.

“L’enigma della camera 622”, col senso di profonda spiritualità – e un pizzico di zolfo – che porta con sé, è l’umile inchino dell’autore al diavolo-demone della scrittura – e in un certo modo a tutte quelle passioni furibonde, d’amore e di odio, di vendetta, arrivismo, desiderio, attaccamento, che rendono l’uomo capace di qualsiasi gesto, anche il più estremo.

[Nota sulla traduzione: una lingua che schiocca, quella di Milena Zemira Ciccimarra, attentissima al particolare, all’etimologia, alla ricostruzione non solo del significato ma anche del ritmo e della musicalità del testo. Qualche congiuntivo in più non mi avrebbe dato noia ma non si tratta mai di sgrammaticature quanto di mia pura ed esclusiva preferenza personale].

“Terra Alta”, di Javier Cercas (trad. Bruno Arpaia)

“Argomentò che, per lui, uno scrittore era una persona come le altre, né migliore né peggiore, che bisognava essere consapevoli dei limiti della letteratura e bisognava bandire la presunzione narcisistica, petulante e atiquata che avesse qualche utilità, perché in fondo la letteratura non era che un gioco intellettuale, un intrattenimento incapace di insegnare qualcosa a qualcuno o di cambiare qualcosa”. (pag55)

Ho finito #TerraAlta la notte scorsa. Sono arrivata a Javier Cercas per una strada curiosa: seguendo il suo traduttore. Così funziona per me, a volte. E quello a cui più tengo in questo caso non è tanto “Terra Alta” in sé, che è un poliziesco bellissimo (non per niente ha vinto il premio Planeta nel 2019) intessuto di paesaggi, natura, letteratura, libri, citazioni – prime fra tutte quelle da “I Miserabili” – tenuto insieme da una trama fitta, ricca di colpi di scena e bei personaggi che non cedono mai allo stereotipo, ma l’aver scoperto uno scrittore pazzesco.

Ora penso proprio che andrò a ritroso, a recuperare quel che mi preme, per esempio “L’Impostore”. Cercas è un bravissimo giallista perché bada bene di conservare “Terra Alta” lontano da quella decontestualizzazione un po’ cinematografica che purtroppo è ormai parte integrante di molti polizieschi contemporanei. Ma Cercas non è soltanto un bravo romanziere: la sua opera è militante, mi par d’aver capito, perché per lui ogni dolore, anche quello più personale, è legato alla Storia: ogni fatto crudele, ogni rabbia, ogni desiderio di vendetta è, di base, alle origini, il frutto di un passato comune, di un danno sociale, di una crisi che non è solo intima ma anche collettiva. E tutto, voglio dire il privato e il collettivo, è sempre mescolato insieme, perché – come curiosamente ci sta capitando proprio ora:

“C’è gente che dimentica che quella guerra è stata anche questo. Una valvola per sfogare gli odi, i diverbi e i rancori accumulati per anni” (pag.356)

e siccome “la giustizia non è soltanto una questione di contenuto”, accade che “non rispettare le forme della giustizia è la stessa cosa che non rispettare la giustizia”. (pag258)

Sicché io penso proprio che Javier Cercas dovrei continuare a leggerlo.

“Il dolce domani”, di Banana Yoshimoto (trad. Gala Maria Follaco)

“Chi c’era fino a un momento prima d’un tratto non c’è più, le cose che avevamo ci sfuggono dalle mani. La sola certezza che ci rimane è che esistiamo. Vorremmo lamentarci, ma non c’è spazio per i nostri lamenti. Vorremmo perderci nei ricordi, ma siamo cambiati e non riusciamo a voltarci indietro.” (pag93-94)

Comincio agosto aprendo pagine delicatissime. Le ho chieste all’editore perché sapevo che mi avrebbero aiutata a tornare (forse per la prima volta) a questi mesi appena trascorsi, svestendomi di quello sguardo occidentale che mi porto addosso.

Banana Yoshimoto scrive “Sweet Hereafter” subito dopo Fukushima con l’intento di riflettere sulla tragedia nazionale del foglio bianco; lo fa partendo da un fatto individuale, attraverso la storia della giovane Soyo che dopo aver perso una persona cara per un incidente d’auto si trova nella necessità di costruire da capo la propria vita. Non è la prima volta che l’autrice affronta temi collettivi osservandoli all’interno di un quotidiano singolare: l’ha fatto con la malattia fisica, i disturbi psichici, con la tragedia di un lutto familiare, con la questione femminile e perfino con la gravidanza e la maternità. “Mi sono detta che in molti, forse, avrebbero pensato: “Ma chi vuoi prendere in giro? A che serve questo romanzetto ingenuo?” “ scrive l’autrice nella postfazione. Non è che Banana Yoshimoto non sappia affrontare la scrittura di un dolore collettivo – tutt’altro. E’ che sin dai suoi esordi è sempre stata profondamente, intimamente convinta del fatto che ogni angoscia, anche e soprattutto quella collettiva, sia da pensarsi prima di tutto come propria, personale. I modi differenti che ognuno ha di entrare dentro una sofferenza – i punti di vista differenti che Banana Yoshimoto è sempre riuscita a interpretare con grazia, attenzione e rispetto, dall’adolescente inquieta al trentenne gay, dalla madre di famiglia alla coppia di anziani – sono la chiave attraverso cui si sviluppa quella com-passione che è il cardine di un certo modo di guardare al presente.

“Non so come avvenga, ma la bellezza dei nostri paesaggi interiori si trasmette, sotto forma di una grande forza, a chi ci sta intorno.” (pag128)

Banana Yoshimoto a me piace perché nelle sue parole ho sempre trovato l’esortazione a una presa di coscienza personale (che nel suo mondo non occorre perché è già parte intima della vita quotidiana, di ogni tipo di rapporto interpersonale e anche di una certa spiritualità e prossimità con i defunti): lo sforzarmi di non pensare me stessa al centro del processo decisionale – e nemmeno quale unica proprietaria del mio destino o del mio tempo.

Nella sua finitezza delle piccole cose, questa autrice riesce a destabilizzarmi per questo suo modo di rendere visibile la nostra impotenza di fronte agli accadimenti del destino. Il suo sguardo sull’inatteso significa sempre non un senso di sconfitta ma l’idea dell’accettazione e dell’abbracciare – umilmente – un cambiamento inevitabile all’interno del quale l’essere umano non è, di fatto, né fulcro né chiave di lettura.

“Ci vuole tempo per accettare tutto ciò, devo occuparmene senza avere fretta” (pag82)

Ringrazio Feltrinelli per l’invio della copia.

“Sud”, di Mario Fortunato

Storia di copertina: “The Diagonal”, uno dei lavori più noti di Euan Uglow (UK, 1932-2000). Pittore con predilezione per le figure umane, aveva lo sguardo rivolto alla scultura di cui fissava nel dipinto i tratti, i modi, le strutture. Questa donna (?) mi ha conquistata: nuda, sotto un sole estivo, fuori campo – stampa lucidissima a contrasto anche tattile con la cornice bianca – rappresenta l'involucro del corpo, mi pare, che dà forma ai nomi della storia.

“I decenni volano mentre certi pomeriggi non passano mai” (pag194)

Di questi tempi il rapporto che abbiamo con la “nostra memoria” si tinge di complessità. Se da una parte è concreto il bisogno intrinsecamente umano del ricordo, dall’altra è pur vero che il nostro passato storico, specie novecentesco, ci chiama alla necessità di una rielaborazione e ri-contestualizzazione, esigenza a cui occorre dar voce e che va collocata in quel preciso, nevralgico momento che sta tra l’accettazione acritica di una realtà avvenuta, e in un certo modo raccontata, e la tentazione della damnatio memoriae.

Con questo spirito mi sono avvicinata a “Sud” di Mario Fortunato, che ho domandato a Bompiani per via della mia bolla su Twitter – all’interno della quale questo racconto “bi-familiare” girava da qualche settimana. Sul palcoscenico di un mai chiaramente identificato paese del sud Italia, Fortunato mette in scena una saga familiare – in realtà doppia, perché comprende due nuclei distinti, quello “del Notaio” e quello “del Farmacista” uniti dal vincolo di matrimonio tra Tamara, figlia del Farmacista, e “l’Avvocato”, figlio del Notaio – che si snoda dagli albori del fascismo sino al 1970 circa. A far da perno della vicenda, che è strutturata attraverso una godibilissima narrazione svelta, a episodi (all’interno dei quali poi si creano rimandi e ritorni quasi stessimo assistendo a una sorta di intricata Spoon River calabrese), è la figura del “Notaio” attorno al quale ruotano decine di comprimari: l’amante di gioventù, le due mogli (Vita e poi Elvira), i sette figli tra cui “l’Avvocato” (non conosceremo mai il suo nome di battesimo), le persone di casa (le domestiche/balie Cicia e Rosa, la cuoca Maria-la-pioggia, l’autista-confidente dell’Avvocato, Ciccio Bombarda), i nipoti tra cui Valentino – figlio dell’Avvocato, da cui prende avvio tutto il racconto – la nuora Tamara con i consuoceri (il padre “Farmacista”, la madre Lea), i fratelli di lei Maria, Giorgio e Nina, i figli Picchio, Erri, Vita e appunto Valentino. Parrebbe faticoso seguire le vicende di ognuno; tuttavia dopo poche pagine e l’aiuto di un paio di alberi genealogici all’inizio del testo ogni linea narrativa si dipana evidente, tanta è la varietà di vita e di esperienze diverse contenute in ciascuna.

In numerose interviste, tra cui per esempio quella a Fahrneheit e Rai Cultura, Mario Fortunato racconta la genesi di questo “romanzo familiare” che se da una parte ha l’intento, come ogni romanzo storico, di mettere insieme “la dimensione personale e quella collettiva” dall’altra si impegna a creare una narrazione di un sud alternativo, perché liberato dagli stereotipi relativi al modo in cui comunemente viene trattata la questione meridionale e da quel binomio quasi “folkloristico” miseria/nobiltà che per una volta resta ai margini, con i suoi colori privi di sfumature. Il mondo che Fortunato infatti attrezza è quello della borghesia – di cui era ricchissimo il sud Italia – quasi mai rappresentata a favore di una narrazione sovente archetipizzata; un mondo nel quale era forte il senso di avvicinamento tra le classi sociali, al cui interno la quotidianità era imbrigliata in una rete di rapporti fittissimi, raramente di malanimo, più spesso di profonda fratellanza – e sorellanza. “Sud” non è un libro sulla questione meridionale ma è, di fatto, un libro che si occupa anche di politica e critica sociale nella misura in cui spinge alla riflessione su quel procedimento di rimozione che ha caratterizzato spesso la raffigurazione del sud novecentesco. Il tema dell’ “ubi sunt”, da cui il romanzo parte (il “dove sono” di un Valentino ormai adulto che, emigrato in Inghilterra, si trova a ricevere la notizia della morte dell’ultima zia) porta con sé prima di tutto la riflessione sul proprio passato – perché il momento di guardarsi indietro arriva sempre e per tutti (in proposito, qui potete trovare il bell’articolo di Sandra Petrignani uscito per Il Foglio) – e poi spinge a un’analisi profonda su quel sud Italia fecondo, ricco di aspettative, culturalmente e politicamente attivo, ben radicato nella terra e nelle tradizioni ma aperto alle novità di un presente in rapido cambiamento. Dalla militanza del Notaio nelle fila dell’antifascismo regionale, latitanza compresa, alle lotte partigiane delle quattro giornate di Napoli a cui prende parte il figlio Vincenzo fino all’impegno politico locale dell’Avvocato, di idee socialiste, Fortunato mostra come la borghesia del sud Italia, di base colta e istruita presso le migliori scuole, abbia sempre rappresentato una parte fortemente attiva e influente della vita politica italiana pre e post-bellica.

Sicché si capisce, ritornando al principio, come il significato di memoria vada ben oltre la questione del ricordo poiché viene a identificarsi più con il concetto di appartenenza che con quello della rimembranza. Quel che si perde, sembra dire Fortunato, non è tanto il ricordo quanto la consapevolezza di quel qualcosa con cui siamo in relazione, e se si perde questo vincolo si perde il senso stesso della Storia.

Il realismo magico presente in tutto il romanzo è un altro elemento con cui occorre fare i conti leggendo “Sud”: mai come nel Novecento, racconta Fortunato, è stata così concreta e pervasiva la vicinanza tra il sud e il mito – che non solo viene dall’esperienza dell’antico ma anche dal fatto che la formazione culturale (che, si badi, coinvolge allo stesso modo maschi e femmine, vecchi e giovani) era continua e profonda: le famiglie borghesi amavano l’opera, che veniva ascoltata, cantata, recitata; si leggevano i quotidiani, si condivideva l’interesse per la lettura di prosa e poesia e la “memoria del mitico” che va dai poemi epici al culto dei morti, sempre percepiti come entità non-separabili dal mondo dei vivi. Fantasmi, visioni notturne scaturite dalla bellezza struggente del paesaggio marino o dall’arsura dei campi in agosto, voci misteriose, echi di violini e musiche risalenti alla Shoa e allo sterminio nazista riecheggiano tra i corridoi bui e freschissimi delle case di famiglia modellando un presente che si fa realtà ma anche sogno, fantasia, immaginazione.

Un sostrato ricco di elementi nutritivi che comprendevano anche, per esempio, l’apertura verso l’emancipazione femminile e un sistema-famiglia che, nonostante non potesse far altro, dati i tempi, se non relegare le donne al ruolo di figlie, mogli e madri, creava una rete di rapporti pressoché paritari, finanche di stampo matriarcale; o ancora, ad esempio, l’accettazione dell’omosessualità, riguardo alla quale di fatto non v’era scandalo. Oppure l’approccio aperto, improntato all”accoglienza e alla condivisione delle cure, nei riguardi dell’assistenza agli anziani di casa e della malattia mentale.

Sostrato di cui, con la creazione dell’Italia unita e ancor più col dramma dei due conflitti mondiali, s’è andata perduta la tradizione in nome di nuove condizioni di vita e nuove opportunità che, private del filtro ipocrita di una narrazione “strabica”, acquistano tutt’altro sapore. Opportunità che – sostiene Fortunato – in qualche modo favorirono, non del tutto ma almeno in parte, il dilagare di quella rete malavitosa locale che poi travalicherà il microcosmo del paese per trasformarsi nella ‘ndrangheta.

“Certo, i sacrifici a cui i maschi meridionali sono sottoposti in pieno miracolo economico sono paradossalmente molti di più del passato, quando facevano i contadini: lasciando il lavoro nei campi ci hanno guadagnato in denaro e in regolarità salariale, ma ora vivono ammassati in poche stanze in affitto nelle periferie più grigie del Settentrione e del Nuovo Mondo, hanno turni di lavoro estenuanti alla catena di montaggio, sperimentano la privazione del sesso e dei sentimenti, sono oggetto di discriminazioni e di razzismo” (pag154)

Di questi tempi si lamenta una certa ridondanza di temi nella letteratura italiana contemporanea – tra cui, si dice, spicca anche il “romanzo borghese”. Viene invocato il bisogno di novità: occorre aria fresca, si dice. Però io penso che sia la nostra stessa storia, culturale e letteraria, a richiamarci sempre indietro, al romanzo storico: in fin dei conti non si tratta di dover per forza inventare qualcosa di nuovo quanto di saper leggere in maniera nuova il nostro passato; utilizzando, perché no, le medesime forme con cui ci siamo confrontati fino a ora.

“Ogni riferimento è puramente casuale”, di Antonio Manzini

“Devi viaggiare basso – risponde amaro Pinelli – non alzare la posta, essere comprensibile, rassicurante, non insinuare dubbi e soprattutto sembrare il vicino di casa un po’ sfigato. Se poi sei pure cafone e aggressivo allora sì, sei veramente autentico” (pag82)

È molto curioso, un effetto straniante, leggere adesso “Ogni riferimento è puramente casuale”. Lo avevo sul comodino e l’ho aperto l’altra notte, quando non dormivo. Se all’uscita, nel 2019, aveva la parvenza di un ironicissimo e gustoso pamphlet sul mondo editoriale, ora, nel dopo, rivela in tutta la sua scabrosità il cuore nascosto che la sua lustra buccia contiene: un’agghiacciante denuncia di quel che non andava nell’editoria – e ora sappiamo che quel tutto è stato, per una buona parte, la causa del disastro dell’adesso.

Si comincia con “Lost in presentation”, un breve racconto, amaro ma ancora buffo, diciamo compiacente, in cui attraverso la carnevalesca storia del neoscrittore Samuel Protti si narra dell’inutilità di certi modi di far promozione dei libri attraverso il sistema delle presentazioni. L’autore procede poi con “Critica della ragione”, dove si raccontano le vicende di Curzio Biroli, noto critico letterario, costretto da un complesso sistema di do ut des clientelare tra case editrici, direttori editoriali, giornalisti e autori, favori da restituire finanche ricatti morali, a scrivere una recensione di comodo. E qui sta il nodo, questo punto di deriva a-morale appena accennata che trasforma “Ogni riferimento è puramente casuale” da narrazione sarcastica e pungente, sorniona, indulgente, in una discesa agli inferi che somiglia sempre più, racconto dopo racconto, a un cuore di tenebra a tema editoriale. C’è dunque questo “Racconto andino” su uno scrittore sudamericano, gallina dalle uova d’oro, che a un certo punto deraglia dalla confortante narrazione di un’autoreferenzialità tutta editoriale e prende la piega di un grottesco horror movie di serie b in cui per un best seller il mondo editoriale sarebbe disposto a tutto – anche a nascondere cadaveri (veri e metaforici). Oppure “E’ tardi”, che per argomento e tempi strettissimi della scrittura, del canto poetico e dell’ambientazione mi fa tornare alla memoria i brividi di Edgar Allan Poe.

L’idea che una volta si potesse sorridere di fronte a certe dinamiche è interessante – e mi domando quanto ironia e sarcasmo abbiano contribuito a sminuire il problema, quel dire ma sì, è sempre stato così, come se nulla alla fine avrebbe potuto scalfire il sistema.

Unico protagonista della filiera editoriale non pervenuto è il lettore. Del lettore non si parla quasi mai dentro a “Ogni riferimento è puramente casuale” e quando lo si fa, accade in modi non troppo lusinghieri. E’ oggetto a cui si tende, si mira a riempirlo, per altro con una certa disistima. Quasi fosse possibile comunque ingannarlo, giocando sul giudizio di pancia, sulla sua scontata impossibilità al comprendere, su quella presunta spinta al godere sempre e comunque di un acritico panem et circenses.

“L’amore per i libri non è una questione di dna o di ambiente o di educazione. E’ come l’arte, inspiegabile, o ce l’hai o non ce l’hai” (pag227)

“(…) i suoi consigli psicoanalitici parascientifici fanno presa sul pubblico soprattutto femminile. E fin qui questo tribunale non ha niente da eccepire (…)” (pag262)

Anche se i protagonisti diventano di necessità macchiette schizofreniche, resta sempre il dubbio che non tutta l’iperbolica esagerazione della rappresentazione sia in qualche modo lo specchio di una verità. “Ogni riferimento è puramente casuale” è un libricino curatissimo, che fa pensare molto.

“In fondo cosa sono i libri? Roba che non salva il mondo, non sana vite, lasciano il tempo della lettura per sparire poco dopo. Fra cento anni di questi giorni terribili, lui lo sa, resteranno sì e no una decina di scrittori, (…) tutti gli altri verranno inghiottiti dall’oblio delle sabbie del tempo” (pagg87-88)

“Una di Luna”, di Andrea De Carlo

“Non va bene proprio per niente, Margherita” ha detto lui. “Siamo su un piano inclinato che ci sta facendo scivolare dritti verso una palude medievale” (pag18)

Degli ultimi De Carlo s’è detto un po’ di tutto. S’è detto che gli argomenti tendono al ripetitivo, che le strutture formali più che consolidate dovrebbero essere definite meccaniche, s’è detto che De Carlo, abbandonata la vis polemica, corre il rischio di ripiegarsi su una certa “letteratura per signore”, producendo testi di qualità discontinua. Posto che Andrea De Carlo è sempre stato autore prolifico e che più aumenta la quantità più – è un fatto che vale per chiunque – aumenta la probabilità che non tutte le opere raggiungano il medesimo livello, posto che Due di due resterà sempre Due di due e fine della storia, personalmente non sono d’accordo con chi ne decreta il decadimento.

Le ragioni le ho (ri)trovate tutte qui, in questo ultimo romanzo che leggo con molto ritardo ma si sa, i miei libri prendono la strada che vogliono.

Andrea De Carlo non ha mai vissuto fuori dal concreto, anzi è uno dei pochi autori italiani attivi da decenni che, mi pare, si espongono a descrivere la realtà così com’è, evitando di rintanarsi nel racconto decontestualizzato – buono per qualsiasi luogo lago e pubblico – o in un passato di vagheggiamenti e recupero. Soltanto, De Carlo impiega i propri tempi per analizzare questi spazi che lo circondano – il che per quanto mi riguarda non è sempre un male, il rivendicare quel po’ di calma in più senza farsi prendere dalla frenesia del dire subito. Questa volta è per l’autore il momento del mondo rarefatto dell’alta cucina (non una novità per lui, da sempre interessato al cibo, alla questione di come ne fruiamo, di quel che c’è, dietro all’atto del mangiare), la cui analisi inserisce tuttavia in un contesto estremamente attuale, quello dell’overtourism culinario e dei reality show per aspiranti cuochi.

In una Venezia strapazzata dalle aspettative dei turisti low-cost, tra speculatori, incompetenze, traffico e confusione – ma anche silenzi e tramonti luminosissimi, profumi di frutta, verdura, erbe aromatiche e cassette di pescato – si snoda la vicenda della quarantenne Margherita, figlia unica del grande Achille Malventi, fascista, orfano, foresto a Venezia (è abruzzese), molesto, seccante, acido, caduto in disgrazia economica a causa dei suoi deliri di onnipotenza – ma chef illuminato, il migliore della città lagunare. Tanto che un suo ex allievo, divenuto una stella della televisione di tema gastronomico, lo invita alla trasmissione “Chef Test” per una dimostrazione culinaria agli aspiranti cuochi. Ovviamente data la caratura di Achille – che accetta la proposta unicamente con l’intento di mettere in ridicolo i colleghi e riaffermare il proprio ruolo all’interno del pantheon – niente andrà come deve andare.

“E’ vero che la mia apprensione nei suoi confronti si è accentuata adesso che è anziano e non ha più il suo ristorante, ma ce l’avevo anche quando era un energico chef sessantenne sulla cresta dell’onda, e io una ragazzina che non sapeva niente del mondo” (pag28)

“Una di Luna” è un breve romanzo familiare che con ironia e speditezza racconta una fetta consistente della nostra contemporaneità – almeno, quella pre-virus. Il racconto del set con le falsità del trucco e del montaggio, di quel – linguaggio – televisivo – che – si – fa – sempre – interrotto – e – scontato – nella – sua – spettacolarizzazione – drammatica, perché dipendente dalle pause a effetto della sceneggiatura e dai cartelloni del gobbo, va di pari passo col racconto della storia personale di Margherita grazie alla quale De Carlo riesce ad esplorare in maniera profonda e mai prevedibile quella parte dell’animo femminile che spesso resta intima, non condivisa. Ecco allora il rapporto col padre, ottovolante continuo di sentimenti impediti, e l’emancipazione attraverso il lavoro (cuoca anche lei, per nemesi – in un mondo di maschi). Margherita non è un personaggio costruito e la prova è data dal fatto che non si fa amare quasi per niente: è donna indecisa, talvolta molto poco politically correct, succube del padre, invischiata in un ruolo di sostituta consorte da cui non si capisce se non voglia o non possa svincolarsi, e da ultimo ma non ultimo incastrata in una relazione pluridecennale con un fidanzato più scialbo di lei. Unica redenzione è il lavoro, quell’eredità paterna di talento e intuito che l’ha resa indipendente e stimata all’interno di una dimensione di cucina che se da una parte non si avvicina certo al minimalismo di un poco spacciato per autentico, dall’altro ha l’intenzione di recuperare un approccio più genuino, etico, conviviale, si direbbe quasi sacro, con il nostro cibo e con le persone con cui lo condividiamo.

Qui, nel contemplare il dentro e il fuori, sta a mio parere la freschezza di un De Carlo che non ha perso quel piglio polemico di cui si diceva sopra ma lo ha soltanto trasformato, per via dell’età e attraverso un’osservazione del mondo che secondo me s’è fatta molto meno dipendente da quegli aut-aut che in certe opere degli anni passati – ecco lì sì – l’autore si poneva a criterio imprescindibile e di conseguenza stereotipato. Anche Achille Malventi è un personaggio poco costruito e proprio questa sua concretezza – tra crisi di ira malcontrollata, attacchi di isteria, vaghe amnesie geriatriche – per paradosso diviene in un certo senso l’espressione non di un tipo ma di un possibile futuro che riguarda noi tutti.

“Una di Luna” è un bel libro pre-pandemia perché ci fa pensare in qualche modo anche al dopo. E’ uno di quei libri che forse aveva cercato di avvisarci dell’uragano imminente. Chissà che De Carlo non possa diventare, proprio lui, col suo stile lungo e scivoloso, di paratassi e aggettivi, col suo sguardo del dentro che non manca di riflettersi nel fuori, uno di quei pochi scrittori (e scrittrici) che saranno in grado di raccontarci il virus – sì, tra qualche anno, non proprio subito.

Nota: ho letto “Una di Luna” anche perché racconta di Venezia. Venezia che quest’anno non potrò andare a trovare, Venezia allagata, Venezia dove tutti quelli che conosco vanno perché fa figo ma dove nessuno di quelli che conosco è andato per dare una mano, quando quest’autunno ha rischiato di scomparire sommersa dalla marea. Venezia chiusa e vuota dopo il virus, prosciugata dai turisti, il cui esserci e non esserci è sempre e comunque condanna. Non sarà l’unico libro che leggerò quest’anno su Venezia, ne ho altri sul comodino, vedremo quale strada prenderanno.

“La ragazza della palude”, di Delia Owens (trad. Lucia Fochi)

“Cosa vuol dire, dove cantano i gamberi di fiume? Lo diceva anche mamma. Vai più lontano che puoi, fino laggiù, dove cantano i gamberi di fiume”

Ma che bello, questo racconto di cose piccolissime e immense. Ambientato nella North Carolina degli anni ’50, tra gli acquitrini e le paludi che caratterizzano quel pezzo di costa atlantica, “Where the Crawdads Sing” è il romanzo d’esordio di Delia Owens, coautrice di tre saggi bestseller sulla sua vita da naturalista in Africa e vincitrice del John Burroughs Award. Protagonista è la piccola Kya, Catherine Danielle Clark, che nessun abitante del villaggio di Barkley Cove chiamerà mai con questo suo nome, preferendone un altro, di giudizio e disprezzo, reverenza e timore: è la ragazza della palude, quasi una strega di bosco o una fata maligna alla congiunzione tra la terra e il mare, tra il dolce e il salato, come la laguna stessa. Abbandonata prima dalla madre e poi dai fratelli, scappati per fuggire a un padre reduce di guerra – alcolista e violento – e a una vita di stenti dentro una baracca scalcagnata, Kya è figlia della miseria e del degrado sociale; cresce da sola nella laguna, in un isolamento quasi completo, circondata da una natura incontaminata che diventa maestra di vita, compagna di avventure, dura dispensatrice di regole e destini.

“La ragazza della palude” racconta di come si diventa grandi, come si può venire a patti con la propria sorte e anche come sia inevitabile, a volte, esserne per certi versi vittime: il ritrovamento del cadavere di un giovane di buona famiglia precipitato da una torre antincendio, infatti, a un certo punto spinge la polizia sulle tracce della ragazza, in un complicato gioco di indagini e testimonianze in flashback che raccontano non solo la storia di Kya ma anche quella, così comune e verosimile, di una comunità rurale americana tipica nelle criticità, ipocrisie, razzismi ma anche nello spirito di aiuto reciproco e nel senso di appartenenza.

“La ragazza della palude” è un bell’esempio di (new) nature writing, quel particolare genere di romanzo all’interno del quale la natura cessa di ricoprire il ruolo di mero strumento contestualizzante per assumere invece quello di co-protagonista, in maniera da creare un rapporto strettissimo con gli altri personaggi della vicenda. Per scrivere bene di nature writing occorre competenza ed estrema precisione, qualità che non difettano nell’autrice, e la prontezza nel gestire le pagine all’interno delle quali occorre in qualche modo sospendere la narrazione della storia in sé a favore delle parti descrittive, che in quest’opera risultano calibratissime, di un equilibrio delicato, simile alle pennellate di un’acquerellista esperta… e non si può dir di più, per non rovinare la sorpresa di una trama ricca di spunti, temi e immagini poetiche.

Il mio scrivere di new nature writing però non è una svista. E’ perché in realtà “Where the Crawdads Sing“, a quanto mi pare, contiene in sé quel superamento del concetto di cui sopra che si spinge fino a un altro punto dell’analisi sul “dire attraverso natura”: un mondo letterario ancora più sotterraneo in cui la Natura non è più soltanto co-protagonista ma in un certo senso torna alle origini imperscrutabili; da qui l’importanza di tanti punti quali ad esempio il concetto di fauna e flora che riprendono i propri spazi, l’idea del viaggio (Kya si sposta in barca, da una laguna all’altra, sempre in movimento), del diario (di cui Kya fa uso), o la narrazione per immagini, l’archetipo dell’isola e dei non-luoghi (e quale migliore non- luogo di un lembo di spiaggia che non appartiene né al cielo, né alla terra, né al mare), il misticismo (il valore dell’esperienza catartica nel rapporto con la dimensione naturale) e in special modo la riflessione sull’inutilità del linguaggio codificato (ndr: la protagonista è, di fatto, analfabeta per gran parte della narrazione).

E’ un bel respiro, questo modo di leggere; mi è stato di conforto in questi giorni difficili: tra le piccole cose, conchiglie, piume di uccelli selvatici, lucciole e orme nascoste, felci e canne, e tra quelle immense – i cieli autunnali, le rotte dei migranti, le onde dell’oceano e il senso del tempo che passa, ecco sono riuscita a pensar meno a me stessa; a sentirmi parte di un qualcosa che non comincia con me, e neppure finisce.

“I mesi passarono e l’inverno, come fanno gli inverni del Sud, prese posto con garbo. Il sole, tiepido come una coperta, avvolgeva le spalle di Kya e la invitava a spingersi sempre di più nell’acquitrino. A volte sentiva rumori notturni che non conosceva o sobbalzava per lo scoppio di un fulmine troppo vicino, ma ogni volta che inciampava, la terra era lì ad accoglierla, finché alla fine, senza dire nulla, il dolore al cuore se ne andò, come acqua infiltrata nella sabbia. Sempre lì, ma molto, molto in fondo. Le mani appoggiate su quella terra umida e palpitante; e il pantano diventò sua madre”