"Il nostro riparo", di Frances Greenslade

I tend to work with emotionally repressed personalities. I find their lack of communication fascinating.
But repressed emotion needs its outlet, and so my landscapes not only mirror my character’s psyches but bear the displaced weight of the emotion itself”
Così la scrittrice statunitense Michelle Hoover, chiamata a una riflessione di recommended reading sulle pagine del magazine culturale Electric Literature, commenta una delle peculiarità attribuite da alcuni critici alla sua ultima opera “Bottomland”.

Contestualizzazione e Landscape
L’autrice fa riferimento al momento in cui, nella narrazione, la ricostruzione ambientale cessa di ricoprire una mera funzione contestualizzante e viene ad assumere all’interno dell’opera le caratteristiche di co-protagonista, vòlta a creare un rapporto di comunanza o addirittura di simbiosi con gli altri personaggi della vicenda, rispecchiandone le caratteristiche quale testimone inconfutabile – o viceversa rendendo evidenti quelle nascoste.
Una relazione profonda, insomma, tra personaggio e landscape, in particolar modo quando il contesto dell’opera necessita di un’ambientazione rurale, tanto forte e complessa da diventare paradigmatica e addirittura strumento per l’identificazione di una nuova tipologia letteraria, come si vede dai “10 Great Novels of the Rural” di cui l’autrice consiglia la lettura.
Il “Nature Writing”
Stiamo parlando di una particolare declinazione di quel processo del “dire attraverso la natura” già da un po’ oggetto di accurata indagine da parte degli addetti ai lavori – prima esteri e poi, da qualche tempo, anche locali. L’editoriale di Francesco Guglieri, apparso sulla rivista Studio dello scorso 9 marzo, offre una sintesi precisa e circostanziata del fenomeno del nature writing,che si differenzia dalla scrittura naturalistica tradizionale perché – proprio come sostiene la Hoover – benché “la natura rest[i] un’alterità che non si può riportare senza tradirla (…) posso in qualche modo per articolare un problema, per imporre una forma all’informe” (F. Guglieri, op. cit.)

A sostegno di questa tesi Guglieri porta l’Einaudi “Io e Mabel” e “L’arte di collezionare mosche”, uno degli ultimi bestsellers di Iperborea. Insomma uno strumento quanto mai utile per la narrativa… a patto di evitare la trappola dell’idealizzazione.
Guglieri cita in proposito il bel saggio di Steven Poole, columnist britannico specializzato in studi sul linguaggio e di critica culturale, che già nel 2013 metteva in guardia i lettori verso quel certo “modern appetite of metropolitan readers for books about walking around and discovering [theirselves] in nature”.
Gli scrittori che si occupano di nature writingdice Poole – tendono a dipingere il mondo non-umano come un luogo di eterna, soleggiata pace e armonia, (e la natura) quale unica vittima innocente della devastazione a opera dell’uomo – sempre dimenticandosi, in un modo o nell’altro, di come essa sia artefice dello sterminio di un numero illimitato di sudditi del proprio regno attraverso eruzioni vulcaniche, tzunami e variazioni climatiche, per non parlare di tutte quelle orribili e cruente attività quotidiane nelle quali i suoi membri, tra uccidersi e mangiarsi a vicenda, sono impegnati”.
Essendo ormai assodato che il nostro “back-to-nature revival” altro non è se non “la risposta alle SpA e alla crisi finanziaria”, occorre quindi guardare all’argomento con saggezza evitando facili strumentalizzazioni e continuando a rivolgerci alla natura con il rispetto che essa si merita.
Frances Greenslade, “Shelter”
Tutto questo per dire che fra gli esempi di una certa tipologia riuscita di nature writingio inserirei pure il romanzo della scrittrice canadese Frances Greenslade, “Shelter”, pubblicato in Italia da Keller Editore che ne mantiene in parte il titolo anche in traduzione (“Il nostro riparo”).
Si tratta della storia di due sorelle, Maggie e Jenny, che crescono nella British Columbia rurale dei primi anni settanta del novecento.
Il punto di vista è quello di Maggie, la più piccola, che attraverso uno sguardo limpido e appassionato offre al lettore uno spaccato oltremodo verosimile della quotidianità di un piccolo paese della più occidentale provincia canadese: vita all’aria aperta, natura incontaminata, corse in bicicletta, avventure per i boschi, un rapporto con i genitori fatto di complicità e affetto – in special modo quello per suo papà, un boscaiolo di origini irlandesi che, di giorno in giorno, le insegna l’arte del vivere nella natura; dal riconoscere le impronte degli animali sulla neve al costruire una capanna di fortuna in caso di emergenza (a questo fa appunto riferimento il titolo), fino a come sopravvivere in attesa dei soccorsi in caso ci si perda e si venga sorpresi dal buio freddo della sera – coprendosi bene, tenendosi asciutti e idratati, evitando ruscelli scoscesi, animali selvaggi, erbe velenose.

A fine estate e in autunno papà mi portava nei boschi quasi tutti i fine settimana. (…) Io e papà non ci allontanavamo molto, al massimo a un’ora da casa o poco più. A volte andavamo a pescare in uno dei laghetti della zona. Se trovavamo una canoa abbandonata o una barca a remi sulla riva, e le trovavamo spesso, ce ne impossessavamo e ci immergevamo nella quiete verde del primo mattino, la nebbia che si sollevava, il tonfo di un pesce che avventava su una mosca. Una volta costruimmo una zattera, impiegammo quasi tutto il giorno a tagliare pali e fissarli ai due tronchi galleggianti. Poi attraversammo il lago a colpi di pagaia fino a un isolotto, e lì accendemmo un fuoco e restammo finché non spuntò la luna. Certe volte andavamo a cercare funghi o frutti di bosco e ce ne tornavamo a casa con un bel bottino per la mamma e Jenny. Ma la cosa che mi piaceva di più in assoluto era quando papà mi mostrava realmente come si costruiva un rifugio. Sapeva fare rifugi a tettoia, rifugi stile tepee e rifugi naturali che già di per sé permettevano di ripararsi dalle intemperie, come una sporgenza di roccia che formava una caverna e bastava infilarci dentro qualche foglia isolante per ottenere un po’ di calore in più.” (pag.34)

Lo sguardo di Maggie così come è limpido nel giudizio del mondo naturale che va rispettato e temuto, e che spesso è foriero di eventi drammatici e pericolosi, è altrettanto acuto per quello che concerne la vita dentro casa. Se il papà è di umore spesso volubile e va trattato con attenzione (“Ti devi accostare a lui come a un uccellino ferito, con cautela. Troppe attenzioni e sarebbe volato via” – p17) così la mamma, seppur “costante delle nostre vite, certezza e conforto” (ibid.) a volte appare distante e pensierosa.

Mi sentivo fortunata ad avere una mamma che ci portava in campeggio, che non aveva paura degli orsi, che amava guidare lungo le strade del legname e quelle che lei chiamava le , che dalla Statale 20 si inoltravano nella foresta. Trovavamo laghi, capanne di tronchi in rovina e piccole valli segrete; sembrava che fossimo noi le prime a scovare quei luoghi. Quanto più lontano eravamo dagli altri esseri umani tanto più buono giudicavamo un posto dove accamparci” (ibid.)

Naturalmente non tutto è come sembra, e Maggie ne è in qualche modo consapevole; siccome la realtà del quotidiano non è certo idilliaca in un paese di campagna nel quale a stento arriva anche l’elettricità e le disgrazie – di salute e sul lavoro – non mancano mai, la bambina impiega anche poco a rendersi conto del fatto che, lo si voglia o meno, qualcosa potrebbe anche capitare:

La gente non fa che cercare segnali, così può dire , come se noi lo fossimo, come se noi avessimo dovuto prevederlo. Ma segnali non ce n’erano stati” (pp.13-14)
Poco dopo il suo decimo compleanno, infatti, il papà perde la vita in un incidente sul lavoro come ne capitano di continuo, e la mamma, con l’inizio dell’estate, lascia le due bambine a balia da una conoscente, dopo aver accettato un lavoro per la stagione e promettendo di recuperarle appena possibile. Cosa che, chiaramente, non avverrà.

“(…) ho iniziato a scrivere anche per lei, per mamma. O Irene, come la chiamavano gli altri, visto che tanto tempo fa si è disfatta di qualunque significato avesse avuto per lei. (…) non l’abbiamo cercata. Se ne è andata, come un gatto che una notte sguscia fuori dalla porta sul retro e non ritorna più e tu non sai se è finito nelle grinfie di un coyote o di un falco o se si è fatto male da qualche parte e non è riuscito a tornare indietro” (pag.13)

Con un linguaggio fresco e agile, che rimane vivo e brillante nella traduzione di Elvira Grassi, Frances Greenslade ci racconta la difficile presa di coscienza delle due sorelle e il passaggio, prima lento e graduale, poi rapido e violento, dalla vita dell’infanzia a quella adulta.

//platform.twitter.com/widgets.jsIn un continuo gioco di specchi tra realtà e allegoria, di volta in volta le due sorelle, Maggie in modo speciale, sono chiamate a costruirsi il proprio, esclusivo e personale riparo confidando nelle risorse disponibili, utilizzandole al meglio: il conforto di una passeggiata tra i boschi, l’aiuto di un amico fidato, l’affetto fraterno, il senso di appartenenza alla comunità e l’aiuto che può venire, improvviso e inaspettato, dal dispiegarsi della verità. 


Buona lettura

Post Scriptum
(un po’ irriverente – chiediamo perdono a Keller, ma è per capire quanto e come il tema del “nature writing” stia effettivamente prendendo piede anche qui da noi)

“Il buio, in campagna, è come il ragazzo della ONG che raccoglie le firme per strada: se restate calmi e proseguite decisi nel vostro percorso, lui s’intimorisce e non vi disturba, ma se gli fate sentire l’odore del panico è finita”
(“Fottuta campagna”, di Arianna Porcelli Safonov, 2016 Fazi Editore)

Un pensiero su “"Il nostro riparo", di Frances Greenslade

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