Un ebook non ci salverà, ma forse sì. 1: Gli Squali

Di questi tempi accade che chi prima leggeva adesso non ne possiede più l’attitudine, e si capisce. C’è però chi, magari contrariamente al passato, gliela fa – e riesce o a concentrarsi su questioni lunghissime oppure – vuoi per il tempo a disposizione, drasticamente diminuito, vuoi per quella necessità che il lettore sente spesso, di collezionare tante storie e tutte insieme – preferisce le letture piccole.

Io sono parte della seconda categoria comma 2: gliela faccio ma a piccole dosi. Sicché anche questo è un post piccolo, giusto per segnalare – cosa che capita raramente ma mi pare che il tempo presente in qualche modo lo richieda – la nuova collana in ebook di La Nave di Teseo. Si chiama gli Squali e raccoglie piccoli (pure nel prezzo) romanzi brevi o racconti di impressione noir, veloci da leggere ma direi convenientemente indimenticabili data la caratura degli autori: Richard Powers, Michael Cunningham, JCOates, Scerbanenco e tanti altri.

Io mi sono comperata (1.99eu) “Modulazione“, di Richard Powers, perché sono sempre stata convinta che gli scrittori, quelli intelligenti, possiedano sistematicamente la capacità di guardare oltre.

Leggete, continuate a leggere: gli ebook forse non salveranno il mondo dell’editoria e neppure è richiesto che lo facciano ma in questo momento creano quello che per me è il punto d’incontro. Il punto di contatto tra chi produce libri (e malgrado le complicazioni continua a farlo) e chi dei libri non può fare a meno, nonostante la difficoltà nel recuperarli e nell’affrontare quel gesto dell’aprirli, che ora ci costa così tanto, ed è così prezioso.

“Vita su un pianeta nervoso”, di Matt Haig (trad. Silvia Castoldi)

“E sono convinto che il motivo per cui i supermercati rappresentano un fattore scatenante così potente è che sono già derealizzati. Come i centri commerciali, anche loro sono luoghi completamente innaturali. Ormai sembreranno fuori moda, quasi pittoreschi, in quest’era di shopping online, ma sono comunque molto più moderni della nostra biologia. La luce non è quella naturale. (…) Il numero di scelte possibili è superiore a quello che la nostra natura si è evoluta per affrontare. La folla e gli scaffali sono iperstimolanti. E molti dei prodotti in vendita sono a loro volta innaturali. Non sto parlando del fatto che quasi tutti contengono additivi chimici, anche se pure questo ha la sua importanza. Mi riferisco al fatto che il loro aspetto è stato alterato. Il pesce in scatola, le buste di insalata, le confezioni di riso soffiato e dolcificato, i medaglioni di pollo impanati, gli insaccati, le pillole di vitamine, i vasetti di aglio tritato, i pacchetti di patatine dolci al peperoncino. Non sono cose naturali. E in un ambiente innaturale, quando l’ansia è già abbastanza acuta, c’è il rischio di sentirsi innaturali a propria volta” (pag285-286)

Febbraio si avvia alla fine con questo libretto – che stava sul mio comò da qualche tempo ma che solo ora si è fatto catturare, per chissà quale destino – e forse sul comò deve restare perché il modo di leggerlo, l’approccio dico, non è mai identico: cambia sempre, a seconda del momento in cui questo libricino lo si prende in mano. Succede perché “Vita su un pianeta nervoso” non è solo il racconto di un’esperienza personale (l’autore, come è noto, soffre di disturbi d’ansia e altre psicopatologie di cui non fa mistero – anzi è sempre in prima linea, anche sui social, nel promuovere la conoscenza e una corretta informazione in merito) ma è anche un saggio ben documentato su cosa significhi oggi vivere in un mondo interconnesso – è questo il senso del “pianeta nervoso”: una rete infinita, neurologicamente collegata e iperstimolata – e, in certi punti, perfino una sorta di manuale self-help minimamente intrusivo.

Attraverso il racconto di alcune vicende personali (ad esempio l’utilizzo invasivo del cellulare che con le notifiche impone un’attenzione costante ma – paradossalmente – discontinua, il sovraccarico di informazioni rigettate da telegiornali sempre più -volutamente- apocalittici, l’incapacità di gestire un ambiente di lavoro all’interno del quale la misura della performance è diventata l’unico strumento attraverso cui valutare l’individuo) Matt Haig cerca di capire in che maniera la grande e unica mente che è il nostro mondo di oggi – vittima si direbbe di una malattia d’ansia generalizzata che è dentro il mondo stesso, come se il nostro pianeta fosse un unico, immenso essere vivente – è in grado di influenzare la nostra psiche. E in che modo sia possibile, per noi micro-organismi che questo enorme animale nevrastenico ci troviamo ad abitarlo, da una parte accettarlo, sviluppando la nostra innata capacità di resilienza, dall’altra proteggerci dalle sue più cupe manifestazioni.

“Il problema non è che il mondo sia un casino, ma che noi ci aspettiamo il contrario. Ci hanno messo in testa l’idea che abbiamo il controllo. Che possiamo andare ovunque ed essere qualunque cosa. Che in virtù del libero arbitrio in un mondo fatto di scelte, dovremmo essere in grado di scegliere non solo dove andare su Internet, o cosa guardare in televisione, o quale ricetta seguire tra i miliardi disponibili in rete, ma anche quali emozioni provare” (pag235)

Haig oltre a essere un bravo scrittore è anche un ottimo divulgatore che riesce nella comunicazione di concetti complessi: per esempio quello di sottrazione (che, si badi, è cosa diversa dalla passione per una dieta particolare o per la “disintossicazione digitale”), di “camera dell’eco“, quello del rischio insito nel”vivere il futuro” dimenticandosi del presente, oppure della necessità di accettare l’invecchiamento. E lo fa anche attraverso il riferimento a una ricca bibliografia – spesso âgée – che ci fa intendere di come effettivamente quel che dovrebbe essere detto è già stato detto – da altri prima di noi che in qualche modo avevano avuto la lungimiranza per comprendere certi fenomeni ancora al di là da venire.

L’approccio tipicamente self-help che l’autore utilizza in molti punti (competo di decaloghi e “to do lists”) non deve ingannare: non ci troviamo di fronte all’ennesimo guru dell’ovvio inneggiante alla decrescita felice o al maestro di una lezioncina retronostalgica. Matt Haig è una persona profondamente spirituale e come ogni praticante yoga che si rispetti punta a due questioni fondamentali: la consapevolezza e la necessità di utilizzare al meglio ciò che si ha tra le mani. Insomma non è questione che si stesse meglio prima (anche no, evidentemente) ma è questione di imparare a usare al meglio gli strumenti che ci troviamo a possedere proprio adesso, in questo presente.

“Sarai felice quando scriverai. Sarai felice quando verrai pubblicato. Sarai felice quando sarai ripubblicato. Sarai felice quando il tuo libro diventerà un bestseller. Sarai felice quando il tuo libro sarà al primo posto nelle classifiche di vendita. Sarai felice quando ne trarranno un film. Sarai felice quando ne trarranno un grande film. Sarai felice quando sarai J.K. Rowling. Sarai felice quando piacerai alla gente. Sarai felice quando piacerai a più gente. Sarai felice quando piacerai a tutti. Sarai felice quando la gente sognerà di te” (pag73)

Buona lettura 🙂

“Una passeggiata nella Zona”, di Markijan Kamyš (trad. Alessandro Achilli)

“Della Zona sono venuti a sapere dal film Chernobyl Diaries, non credono ai mostri oltre il filo spinato, ma il Chernobyl disaster lo vogliono vedere con i loro occhi” (pag83)

“Una passeggiata nella Zona” è un testo dalla radici culturali e storiche profondissime. Non si esaurisce nel racconto di un’esperienza vòlta a nutrire il guilty pleasure di un pubblico retronostalgico fedele all’Instagram – ma, al contrario, da lì parte (perché l’autore, di fatto, per mestiere è guida turistica illegale all’interno dei territori contaminati che circondano Ĉornobyl’) per poi scavalcare di netto questa chiave di lettura, in maniera critica e provocatoria. Recuperando – con un passo indietro che non può non far pensare a un passo in avanti – quell’idea del selvatico di cui fu padre addirittura Henry David Thoreau.

Scrive Wu Ming 2 nell’intoduzione a “Walden” (2005): “Purtroppo, l’uomo non è (più) capace di conciliare spirito e materia. Solo nel contatto con la Natura può sperimentare una parvenza di unità e imparare così a riprodurla. Nella Natura, infatti, c’è un elemento che coinvolge spirito e materia allo stesso modo, una sorta di sintesi tra i due opposti. Questa sintesi è il selvatico: ^Ci serve essere testimoni della trasgressione dei nostri stessi limiti, e di qualche vita al pascolo libero là dove non vagabondiamo mai^”

“Le braci scoppiettavano, gli esili corpi delle sedie si incrinavano. Come incenso dei boschi della Polissja volavano in cielo attraverso i buchi del soffitto le nostre paure, le nostre preghiere, le nostre suppliche. Volavano come fumo nel cielo stellato tutti i nostri pensieri oscuri, le nostre sofferenze” (“Una passeggiata nella Zona”, pag143)

Quando la ricostruzione ambientale smette di ricoprire una funzione contestualizzante ma assume le caratteristiche di co-protagonista allo scopo di creare un rapporto di comunanza (e anche simbiosi) con gli altri personaggi della vicenda, rispecchiandone le caratteristiche evidenti o nascoste – ecco, in quel momento ci troviamo di fronte a una particolare tipologia letteraria, quella del New Nature Writing. Ma attenzione, perché tra la nostalgie della boue e l’Antropocene, di questioni in mezzo ne passano parecchie.

“Mi ripropongo di tenere qui quel che Thoreau chiamava *un diario meteorologico della mente*, di raccontare storie e descrivere alcune scene di questa valle (…) e di esplorare, impaurita e tremante, alcune delle distese scure non rilevate dalle mappe e le empie fortezze a cui queste storie e scene conducono così vertiginosamente” (Annie Dillard, “Pellegrinaggio al Tinker Creek“, Bompiani 2019)

“Gli scrittori che si occupano di nature writing – scriveva Steven Poole nel 2013 – tendono a dipingere il mondo non-umano come un luogo di eterna, soleggiata pace e armonia, (e la natura) quale unica vittima innocente della devastazione a opera dell’uomo – sempre dimenticandosi, in un modo o nell’altro, di come essa sia artefice dello sterminio di un numero illimitato di sudditi del proprio regno attraverso eruzioni vulcaniche, tzunami e variazioni climatiche, per non parlare di tutte quelle orribili e cruente attività quotidiane nelle quali i suoi membri, tra uccidersi e mangiarsi a vicenda, sono impegnati”.

Markijan Kamyš fa proprio questo: ci prende per mano e ci conduce, moderno flâneur che maneggia egregiamente l’arte del perdersi (“Prypjiat’, la meta dei novellini, di quelli che non hanno ancora imparato ad apprezzare i villaggi in rovina e che vogliono agguantare subito il biglietto da visita di tutti i luoghi abbandonati”, scrive), in uno dei luoghi più devastati della Terra; un luogo in cui Uomo e Natura si confrontano sullo stesso terreno – quello dell'(auto)distruzione e della lotta per la sopravvivenza – in cui l’uno è ostile all’altra ma nello stesso tempo l’una è inseparabile dall’altro, legati intimamente come sono per via delle medesime origini e del medesimo destino che secondo Markijan Kamyš condividono. Gli elementi del NNW ci sono tutti: l’idea di una Natura che riprende i propri spazi difendendo se stessa dall’invasione dell’uomo, il tema del viaggio che è esplorazione e racconto, una meta che si distingue più per quello che non è, un non-luogo denso di storia che crea nel visitatore uno sdoppiamento dell’individualità (Markijan Kamyš ne penetra bene gli anfratti, di questa alienazione), e infine il misticismo religioso, quell’esigenza di contatto con il divino e la ricerca di un significato superiore a cui Markijan Kamyš dedica addirittura un capitolo, “Polesian Zen”.

“In questa casa sono passati molti degli alentesi: il paese vi entrava e si perdeva a poco a poco, lasciando la sua ombra che vi giace ancora ed è tutta l’eredità di quegli anni”. Lei è Carmen Pellegrino, che il mestiere di abbandonologa lo ha raccontato nel suo romanzo d’esordio “Cade la terra” (Giunti 2015). E così ci parla Markijan Kamyš dalle pagine di “Una passeggiata nella Zona”:

“Mi tranquillizzo sempre quando stendo il materassino tra i mucchi di tappezzeria sgretolata. Mucchi privi di ogni forma che in primavera arrivano all’altezza dello zoccolino. Su quella carta da parati scrivevo i miei desideri più intimi, le mie maledizioni più nere, i miei sogni più grandi, poi mettevo con cura quei pezzetti di carta sotto le bottiglie ancora chiuse e, quando cominciavamo a bere alla luce delle torce tra l fumo di sigaretta e l’aroma della carne in scatola, sapevo perfettamente che tra quelle quattro pareti abbandonate non ci sarebbe mai capitato niente di brutto” (pag47)

“Ti addormenti in pace tra i cardini che cigolano, perché sai che le case morte amano parlare ai loro ospiti. Sai che amano condividere le loro preghiere, le loro suppliche con le anime di chi va a visitarle. Sai che cercano pietà” (pag51)

Finché i muri reggono, i miei ospiti esistono. Li tengo qui con me e li riporto alla loro vita di prima”, scrive Carmen Pellegrino e potremmo andare avanti all’infinito ma il racconto poetico di Markijan Kamyš parla anche di molto altro che va quanto meno citato. La sua non è soltanto la storia di una vita ai margini tra alcool, droghe, barboni, disgraziati, ladri e delinquenti ma anche la denuncia sociale nei riguardi di quel “Sogno sovietico” che sul campo ha lasciato centinaia di morti, migliaia di chilometri di terre contaminate e, soprattutto, un esercito di giovani senza speranza per il futuro – e, quel che è peggio, tra non molto anche orfani del proprio passato. Giovani che, privi di alcun autocompiacimento, scelgono di perdersi nei boschi radioattivi della Polissja in una strenua e disperata difesa – sprovvista di alternative – della propria memoria storica.

“Una città morta. Sì morta. Due volte. La seconda con quelle migliaia di foto e le code di merda delle escursioni ufficiali. Prypiat’ l’ha uccisa la noia degli hipster, che hanno oscurato i divani marci con le loro schiene tatuate, cartografando su Instagram ogni centimetro di quella terra incognita. Si è perso il mistero, è fuggito via, si è sciolto nella rete. L’aura mistica di Prypiat’ si è volatilizzata come cenere in tutti gli angoli del mondo, risucchiata dall’etere in paesi lontani. Ormai non si riesce più ad avere paura in quelle case” (pag49)

Note: “Una passeggiata nella Zona” è stato il primo libro del 2020 per ADC. Ed è stato anche il primo libro che, dopo tanti anni e tantissimi libri, ADC ha sentito il bisogno di leggere due volte. La prima, da mezzanotte alle tre di una notte freddissima dei primi giorni di Gennaio; la seconda questa sera, per cercare di mettere un punto a questa storia – cosa che però non sono riuscita a fare. Nemmeno sul Twitter.

“Molto mossi gli altri mari”, di Francesco Longo

Continuo a twittare di mare anche se la stagione del mare è finita. TUitto dipinti delle spiagge di Biarritz, tuitto le foto che ogni mattina mi arrivano dal Northumberland e da Whitstable. Tuitto di un pittore che dipinge solo onde. Sono ancorata all’indietro, di nuovo disallineata; dovrei proiettarmi verso settembre, come fanno le altre bookblogger: foglie gialle, tazze fumanti, progetti futuri, sfumature di arancioni. E invece no, sto qui a cantarmela sul mare, sul precario che ne deriva, gli ombrelloni un po’ su e un po’ giù, il meteo instabile, l’umido della sabbia che ti prende i piedi.

“Case basse con tetti piatti e vetrate rotte, gabbiotti di proprietà delle ville chiusi sul ciglio del mare, rimesse utilizzate come depositi di canoe e lettini. Due scale a pioli di ferro inchiodate alla roccia cadevano in picchiata. Case con finestre larghe aggredite dal sole. Case abitate per brevi periodi, dove dovevano essersi svolte feste, salotti in cui la vita non aveva attecchito, perché nessuna esistenza resisteva così esposta, nessun corpo e nessuna mente potevano sostenere tutta quella bellezza ruggente, la perfezione della luce totale che da milioni di chilometri arrivava a schiacciare le ville e martellarle dentro al promontorio, il sole famelico e opprimente che baciava tutto con una bocca troppo grande per baciare senza inghiottire” (Kindle, pos993)

Del mare fuori stagione tanti ne hanno parlato. C’è stato il Giampaolo Simi di “Cosa resta di noi” – dire ‘Edo, il marito di Guia, il bagnino‘, è già tutto lì, il significato del dramma -, e poi Giorgio Falco (insieme alle foto di Sabrina Ragucci) che in “Condominio oltremare” ha costruito un modo nuovo di raccontarlo, il mare fuori stagione, a metà strada tra parola e immagini. C’è stata, proprio poco tempo fa (e mi stupisco sempre, dei miei percorsi di lettura, che vanno da soli, si generano da qualche parte dentro di me in maniera indipendente, non posso controllarli), “L’invenzione del vento” di Lorenzo Pavolini, con la storia di Giovanni e Pietro – che scava ancora più lontano e tira fuori dalla sabbia domande vecchie e scomode a cui nessuno ha ancora risposto. C’è stato “Lux”, di Eleonora Marangoni, il romanzo delle tazzine rotte e dei cappelli ammuffiti, dei pavimenti scheggiati, “Laggiù dove il sole non illuminava le cose, le abitava dall’interno, e pareva di trovarsi in un’altra età del mondo, in cui era il cielo a governare il creato”.

Ora c’è Francesco Longo. Che ci racconta di Silvia, Valentina (“Si è certi che sarà bella per sempre”), Margherita, Guido, Il Cicogna, Micol – e Michele. Mi vien più facile partire da quello che non è, “Molto mossi gli altri mari” (e già qui, l’eco di un disturbo televisivo che non tutti riescono a captare, coi loro radar lontani di app telefoniche, a far da discriminante – chi queste pagine le può leggere senza filtri). Non è un romanzo sulla nostalgia, no per carità. E’ un romanzo che parla del tempo sprecato, di quello non goduto o goduto troppo, dei momenti che vorremmo eterni e che invece è bene che non ritornino più e di quelli che invece, da sciocchi, abbiamo sottovalutato.

“Da quassù la Baia è un paradiso addormentato, svela di essere stata pensata per farci assaporare la felicità terrena” (Kindle, pos2094)

Una felicità che ci viene consegnata per quella che è: unilaterale, individuale, che si gode in solitudine nell’illusione che invece sia condivisa, oppure viceversa così promiscua da perdere tutte le definizioni nell’attimo stesso in cui viene consumata.

“Molto mossi gli altri mari” non è un romanzo sul surf ma è un romanzo sull’acqua salata e sull’eredità che ci lascia addosso e dentro alle orecchie: il padre di Michele, che di mestiere faceva il pescatore (“Le rotte del mare non si vedono, ma sono antichissime, si percorrono sempre le stesse da secoli, diventano vere e proprie opere collettive”), il mostro alato, preistorico, che giace nelle profondità del lago di Acqua Madre, invisibile a tutti – sempre con lo scarto degli opposti: da una parte la luce azzurrissima del sole di luglio che si riflette sullo specchio piatto, dall’altra la tempesta perfetta nel buio di una mattina che sa di apocalisse.

Non è un racconto di vita ma è l’analisi di un sé su cui regna incontrastato il dio degli autosabotaggi, quegli scarti del pensiero che spingono alla non-azione e ai falsi ricordi, alle loro conseguenze.

Io Michele lo avrei anche amato. Penso che di lui mi sarei innamorata perdutamente, forse l’ho anche fatto. E’ entrato di diritto nel mio personale elenco di personaggi perfetti – quelli che riescono a raccontare, di loro, tutto quel che serve, senza sbavature, senza ritocchi, senza velleità. Michele, quanto ti avrei strozzato, con le mie mani, davvero. Quante volte la scorsa notte ho gridato fermati, guardati indietro, aspetta, non aspettare, sbrigati, taci, parla. E tu, a fare sempre esattamente il contrario di quello che ci si aspettava da te. Il perché non l’ho ancora capito. Penso che ci sia di mezzo la stima di sé, quel considerarsi sempre un passo indietro. Ma che passo indietro poi, Michele – tu, con la tua intelligenza acutissima, i sensi sempre all’erta, il sellino della bicicletta appiccicato al sedere; tuo padre, l’uomo buono con cui hai dovuto fare i conti – “Con giudizio, Michele. Mi fido”; tuo nonno, per dio Michele, tuo nonno, che dal pozzo di petrolio di Karachaganak portava a casa astucci di pietre preziose, elefanti d’argento, “statuette di legno, stoffe dall’odore forte che avrebbero riempito armadi e soppalchi, pelli di cammello nauseanti, che mia nonna lasciava per settimane appese a un filo in giardino”, aromi di cardamomo e zenzero (“capaci di stordire”); tua madre, la pianista con in testa la musica. Eppure Michele, quel che sentivi era ben altro.

“Sentii che una distanza incolmabile mi separava dagli Argentina e a ogni successivo riferimento a rabbini e dolci della tradizione, ebbi sempre più la certezza che per loro sarei rimasto un estraneo per sempre. Forse un giorno mi sarei potuto trasferire a Roma, o a New York, avrei potuto annacquare le mie origini geografiche, travestirmi da perfetto cittadino, pensare come loro, ma di certo non avrei mai potuto indossare vecchi maglioni ereditati dai nonni ebrei né recitare il kaddish” (Kindle, pos1072)

“(…) l’orologio al polso, con il quadrante antico e un cinturino di cuoio rossastro, doveva essere stato ereditato da un nonno, segno che veniva da una famiglia in cui le generazioni si tramandavano fazzoletti di stoffa, sterline d’oro, consuetudini, e probabilmente si chiamava Andrea Venezia come il nonno o il bisnonno” (Kindle, pos1147)

“Molto mossi gli altri mari” non è un romanzo su Micol; né su questa Micol né sull’altra, di cui questa Micol è un’ombra, una suggestione letteraria che sta dietro le spalle, priva di invadenza. Piuttosto sono le radici, il senso della propria Storia, quel considerarla troppo – o troppo poco, a premere sulla nuca. E’ una storia d’amore, questo sì, di quelle che portano con sé l’equivoco dei non detti, delle azioni asincrone, della dissipazione dell’attimo. E’ il momento preciso in cui ci rendiamo conto che quello che noi consideriamo tutto, per qualcun altro è solo una briciola di un tutto più vasto: quell’attimo in cui noi ci fermiamo e cristallizziamo, quell’attimo che per altri diventa solo un ricordo tra tanti – per poi scoprire che alla fine, così insignificante non era – o che lo era stato, troppo.

“L’ambiguità dei sentimenti ci legava come un filo di corrente elettrica scoperto capace di fulminare chiunque fosse passato in mezzo a noi” (Kindle, pos1047)

Buona lettura (e un consiglio: leggetelo come ho fatto io, dalla mezzanotte alle tre, tutto di fila dall’inizio alla fine. Non credo ci sia altro modo).

L’estate sta finendo (“Lux”, di Eleonora Marangoni e “Mr Rochester”, di Sarah Shoemaker, trad. A. Zabini)

“Quella notte ci addormentammo tutti e tre immaginando di essere seduti a pranzo e di udire il fragore terribile della terra che si spaccava, eruttando soffocanti fiumi sulfurei come se l’inferno affiorasse alla superficie, mentre le strade crollavano nel porto e il mare si gonfiava in onde possenti a strappare i bastimenti dagli ancoraggi e catapultarli nell’entroterra, oltre le rovine della città sprofondata” (“Mr. Rochester”, Kindle pos410)

“Nelle sue narrazioni il mare non era popolato soltanto di pirati, bensì anche di serpenti marini e di sirene, e parecchi marinai perdevano il cuore per quelle ammaliatrici dai capelli d’oro, oppure perdevano la vita, divorati dalle bestie emerse all’improvviso dagli abissi caraibici” (“Mr. Rochester”, Kindle pos417)

“La gente oggi non fa che dire che ha bisogno di esotismo, che sogna di spostarsi lontano dalle città, via da tutto e da tutti, che se potesse oh se solo potesse se ne andrebbe in campagna o su un’isola remota, ma dopo un numero di ore tutto sommato contenuto o anche solo alla minima contrarietà, in quelle città non vede l’ora di far ritorno, per ritrovare finalmente la banda larga, le sedute di depilazione laser, il pesce crudo abbattuto dei ristoranti e tutto quello che spergiurava di voler abbandonare” (“Lux”, Kindle pos3264)

“Cerchiamo nei libri quello che non capiamo della vita, e nella vita quello che leggiamo nei libri. Forse è questa, la nostra condanna all’infelicità: cercare risposte e trovare solo commozione” (“Lux”, Kindle pos1264)

“Quanto si deve essere immaturi e ignoranti per pensare di poter apprendere lezioni di vita dai romanzi!” (“Mr. Rochester”, Kindle pos2052)

Mi perdonerà Neri Pozza se sistemo in un unico post due titoli che per forma e per trama hanno poco a che fare l’un con l’altro. Ad accomunarli qui su ADC è stato quel meccanismo della celebrazione delle stagioni che vanno e che vengono. L’idea di mettere un punto, ritualizzare un passaggio, lasciar andare e nello stesso tempo trattenere il necessario.

“Lux”: dire addio all’estate, e alle cose perdute

“Avevano un odore complicato, quelli, di umido e acqua di rose, zucchero filato e naftalina: l’odore del tempo che passa indisturbato senza che nessuno lo veda, dentro alle cuciture, attraverso le asole, in fondo alle fibre del lino e tra i capricci del falpalà” (Kindle, pos1332)

Se volete cullarvi ancora un po’, in quell’idea d’estate di mare fuori stagione, quello che dà principio alla fine di maggio, o ancor meglio a questo, di coda, coi cieli saturi e stanchi di agosto a far presa su un settembre ancora a venire – bene, allora leggete “Lux”. Che è un romanzo di piccole cose e grandi questioni: l’amore un po’ stanco e scipito di due non più adolescenti alle prese con l’adultità al cui arrivo non ci si può opporre; un anziano scrittore che deve far fronte alla vecchiezza irrimediabile – quella che vien dall’anima prima che dal corpo; una serie di altri personaggi irrisolti, femmine e maschi, adulti e bambini, a cui vorremmo costantemente suggerire come comportarsi salvo il fatto che poi alla fine si capisce che più perfetti di così, nelle loro totali imperfezioni, non potrebbero essere e che ognuno alla fine la propria vita se la fa un po’ come vuole perché le scelte, quelle profonde e da farsi in completa solitudine, sono sempre possibili checché uno ne dica (“Alla fine la vita è solo questione di scegliersi la bugia giusta”). Viceversa però, sta a guardarci – dalla lontananza siderale di un tavolinetto da tè in legno di teak appartenuto a chissà quale signora della nobiltà inglese – la famigerata tazzina sbeccata: a ricordarci che a ogni azione corrisponde una conseguenza; una volta caduta a terra, la tazzina mai più tornerà come prima – e però potrà essere rattoppata, mani sapienti e arte antica dell’oro, a crearne una nuova, stoffa di passato e futuro cuciti insieme. Su tutto domina l’elenco – di comodini in legno di cedro, servizi di porcellana cinese, stoffe e tendaggi, tappeti e suppellettili, animali impagliati e copricapi ammuffiti – che per chi come me è cresciuto a cataloghi (delle navi, dei guerrieri, degli eroi, degli dei, degli scudi, delle battaglie, dei consoli, degli imperatori, dei condottieri, dei capitelli, delle metope, degli esametri, delle opere, dei versetti del Dhammapada), rappresenta non tanto un catalizzatore di facili nostalgie quanto un mezzo espressivo potentissimo attraverso cui catturare la memoria del lettore, la sua capacità di ricordare, recuperando quel vizio tutto indoeuropeo di imparare attraverso l’oralità degli aedi – e di tutti coloro che sono capaci di inventare storie. (*)

“Eppure a lui, soltanto a lui aveva dedicato pensieri, stagioni, e chissà quante altre cose ancora si sarebbe preso senza che lei lo volesse, senza che potesse farci nulla. Non era forse assurdo affannarsi, allora? Cosa pensavamo di dimenticare davvero, se passavamo la vita a ricordare? cosa ci ostinavamo a voler salvare, se poi smarrivamo tutto?” (Kindle, pos2345)

“Mr. Rochester”: salutare l’autunno – di mettere punti e creare mondi

“Bisogna giocare con le carte che si hanno” (Kindle, pos588)

La prima fu Jean Rhys, scrittrice inglese di origini caraibiche, che ci raccontò di Antoinette Cosway, la folle ereditiera creola data in sposa a Edward Rochester con l’inganno. Romanzo postcoloniale dai tratti decisamente femministi e di critica sociale, dalla questione della schiavitù alla condanna del contesto fortemente misogino e patriarcale dell’epoca (nb: il romanzo è del 1966) “Il grande mare dei Sargassi” è di fatto la prima fanfiction canon (di lusso) a base Jane Eyre. Venne poi Bianca Pitzorno che con il suo “La bambinaia francese” (2004) prese le parti di Sophie Gravillon, la tata che la cantante d’Opera Céline Varens assume per occuparsi della figlia Adele – come tutti ben sappiamo la pupilla di Edward Rochester, convinto ad occuparsi di lei per spirito di carità, nel dubbio che sia sua figlia. Anche qui, un’opera di fiction (OOC “out of character” – per l’esattezza) che pur partendo chiaramente dal testo di Charlotte Bronte se ne discosta sia per l'(in)fedeltà all’originale (si parla in questo caso di un “what if” ucronico), sia per il forte intento di rottura con il personaggio femminile “passivo” di Jane Eyre, e infine per il target giovane a cui il romanzo è dedicato.

Di Edward in realtà avevano scritto entrambe ma a tirare per bene le fila ci pensa infine Sarah Shoemaker, americana dell’Illinois, costruendo una narrazione parallela volta a gettar luce, almeno un pochetto, sulla figura maschile per eccellenza della romance fiction britannica. Uno scorcio di notevole interesse storico su ambienti, società e psicologia dell’epoca: dalle industrie tessili della fumosa e poverissima periferia londinese al crescendo delle lotte operaie, dai rapporti non sempre pacifici tra élite aristocratiche ed emergente classe mercantile fino all’esotica Giamaica, in un turbine di colori e sentimenti. Avviene però solo a tratti e mai del tutto (come è giusto che sia) la rivalutazione dell’operato di Mr. Rochester, che da tempo è necessaria – sia perché Charlotte Bronte è sempre stata davvero parca di dettagli, sicché di fatto ne abbiamo saputo sempre ben poco, dei trascorsi di Mr. Rochester, sia perché questo personaggio così come mostrato dalla Bronte rischia col tempo di perdere quel fascino poliedrico che indubbiamente possedeva nella testa della sua creatrice, sacrificato sull’altare dello stereotipo vittoriano nel quale talvolta Charlotte indulge.

Già. Perché su tutto e dentro a tutti, come ha fatto ben capire nel 2011 Cary Fukunaga, con quelle inquadrature a campo lungo che rimarranno iconiche e definitive, dominerà sempre – e incontrastata – la brughiera: coi suoi autunni precoci e meravigliosamente colorati, i tramonti d’oro, le eriche piegate dal vento, le candele alla finestra, le serate buie e interminabili, gli spifferi da sotto le porte, le stanze segrete di Thornfield.

“Arrivate al vespro, come un sogno o come un’ombra” (Kindle, pos5624)

Buona lettura e buon autunno 🙂

(*) Per la lettura di “Lux” ringrazio l’amico @LukeAlb: ero scettica, mi ha convinto lui – e menomale.

“L’invenzione del vento”, di Lorenzo Pavolini

“La distanza che li separa dal mito non può giudicarsi in termini di lunghezza e brevità perché fatta di mare, dove certe proporzioni sono sballate e vigono leggi anamorfiche, correnti e trasparenza” (pag11)

Della mia crisi spirituale nei riguardi del romanzo ho appena raccontato. A leggere di fiction ho ripreso da poco, con cautela. E ho ricominciato da un romanzo breve che evita accuratamente di portare con sé il sapore delle cose compiute. Si tratta piuttosto di uno scorcio di pensiero, una riflessione personale di cui ci sono state aperte le porte dopo molta insistenza, ad argomento già avviato; una proiezione a cui siamo arrivati in ritardo per colpa nostra; inutile chiedere quel che è capitato prima, inutile brontolare perché siamo arrivati nel mezzo: ci deve bastare così.

E’ questa “L’invenzione del vento”, Lorenzo Pavolini l’autore, professione redattore, scrittore e windsurfer; torna al romanzo con una storia che sa di minuscolo e di personale ma che poi, proprio per questo, assume i contorni di una vicenda comunitaria. Questa è semplicemente la storia di Giovanni e di Pietro: lui, il primo, ragazzo di buona famiglia, l’altro, il secondo, figlio del benzinaio. S’incontrano al liceo Farnese, “nascono surfisti”, è il 1978, scappano dagli “ideali collettivi”, vogliono sentirsi “smemorati e senza nome”.

“Ma certo la stessa vicenda del liceo Farnese, che vive la propria sgangherata fondazione in quel giro di anni, sembra precipitare tutti – preside, famiglie, professori, bidelli e studenti – in un esperimento sociale a bassa intensità, dove ognuno mette il meno possibile di sé, impegnandosi a demoltiplicare i conflitti, a dimenticare per sempre le assemblee, i tazebao, le botte fuori, le botte dentro, la politica in generale e forse anche la storia in assoluto. (…) Un esodo che, come tutti gli esodi, guarda male davanti a sé e dimentica molto indietro” (pag19)

Li troviamo sin dalla prima pagina, senza sapere né come si siano conosciuti né come sia nata la loro amicizia: un pomeriggio di febbraio, a mollo nel freddissimo lago di Bracciano, a cavalcioni di due tavole da surf. Perché Giovanni e Pietro passano i pomeriggi tra barattoli di resine, vapori epossidici, lana di vetro, pennelli e carte vetrate, chiusi nel garage-laboratorio concesso dal papà di Pietro – benzinaio sì, “Ciccio” per tutti, “liberi di credere che la pinguedine significhi inerzia e soddisfazione”, ma illuminato (il primo a pensare di aprire, a lato delle pompe di benzina, un negozio per la vendita di “menhir in polietilene”): Giovanni e Pietro sono pionieri del windsurf, l’ha imparato Giovanni in Grecia con la vela imprestata da una famiglia di tedeschi – nei luoghi di formazione del campione coetaneo Robby Naish di cui seguono le evoluzioni in tutti i modi che possono.

“Certi stampati floreali delle magliette, l’arcobaleno teso sul didietro dei pantaloncini, guidano dritti come uno stradone sterrato a Kaiula, Maui, Ho’okipa e Diamond Head, un arcipelago di innocenza che non ha ancora conosciuto le imprese di Magnum, P.I.” (pag10)

La Storia d’Italia scivola a fianco come l’acqua tagliata dalla tavola: di lato, senza ferirli, costretta a forza dall’autore nelle note a piè pagina separate dal testo – questo sì, fitto e graffiante – dal tratto di un’onda d’inchiostro appena accennata: il caso Moro, Gradoli, la legge Cossiga, Tardelli e Pertini, le Falkland; il delitto di Giorgiana Masi, la spesa pubblica, la corruzione, Soros, Milano capitale dell’eroina, il delitto Marta Russo. Eppure, così come le goccioline dei prodotti chimici che Giovanni e Pietro utilizzano per trattare le tavole, anche questi eventi – che paiono così lontani, che si ha cura di tenere così lontani – se non si sta attenti schizzano fuori dai pennelli e corrodono la pelle, penetrando nel profondo.

“D’altronde, cara prof, questa del terrorismo è una cosa fatta con ostinata approssimazione, molto sciattamente, da una parte e dall’altra, tanto da non lasciare nulla che valga la pena di essere considerato come esempio, se ne rende conto anche lei. Saprebbe indicarmi altrimenti una traiettoria umana a cui guardare?” (pag17)

Il sogno di Giovanni e Pietro è invero un altro: “Pietro e Giovanni avevano davanti l’estate più lunga della vita, quella di fine liceo. Le prime tavole dovevano assolutamente essere pronte entro luglio. Era un’occasione unica” (pag30)

“Non è vero che tutto quel che si fa è politico – andavano ripetendosi in quei giorni, non può essere sempre vero, come per le api e le formiche, quanto è vero che apparteniamo alla sola specie animale capace di sollevare lo sguardo alle stelle – noi facciamo le nostre tavole e voi fate pure la vostra lotta armata. Vedremo chi fa peggio” (pag38)

Però poi si sa, il destino non va quasi mai come ci saremmo aspettati; va come era inevitabile perché la Storia è quella che è e nessuno se ne può sottrarre:

“L’esser cresciuti in appartamenti dove tra librerie e televisori le proporzioni erano speculari e inverse, anche quando le madri frequentavano cittadine termali a spese della medesima cassa mutua, produce una crepa alla base, forma uno sbalzo: lo senti passando la mano, è un gradino di sospetti. Tu mi tradirai. O meglio, tu non andrai fino in fondo. La fuga sarà interrotta, per te, in un dato momento, e ognuno proseguirà per la sua strada” (pag24)

Leggere “L’invenzione del vento” significa misurarsi con una scrittura sferzante e freddissima come d’inverno l’acqua del lago. A volte occorre tornare indietro, recuperare pensieri concatenati la cui soluzione, come per i koan, è sistemata a pagine di distanza, ma non costa gran fatica perché a ogni rilettura c’è la scoperta di qualcosa che prima era sfuggito. Capitoli uno dopo l’altro in pagine dense che si fanno sempre più ermetiche, uno stream of consciousness che apre le porte a una cronologia incerta, rarefatta, deformata dalle distanze via via più esasperate. Anche le note e le onde a piè pagina si fanno più rare, quasi come a dire che il mondo se ne chiama fuori da questa vicenda sempre più intima – tanto da richiedere anche un sussulto enorme nello stile, un cambio di rotta improvviso, un giro di vento repentino e impudente, una smagliatura, una crepa come quella che spacca la tavola – che coglie nel segno.

Pavolini è bravo a creare nostalgie perché non si tratta di un rimpianto posticcio, intriso di oggetti o atmosfere da finta polaroid. Si tratta piuttosto di un suggerimento a guardarsi indietro, recuperare domande e tornare sui propri passi, quegli incroci che tanto tempo fa abbiamo sorpassato.

“Anche a voler ammettere il proprio errore, se era vero che ce n’era uno, anzi molti, avrebbe voluto che gli spiegassero almeno perché a lui non sembravano tanto gravi” (pag157)

Non c’è nulla che possa stare in pari con “Due di due” e credo che non ci sarà mai, non perché De Carlo abbia scritto di un’amicizia il racconto migliore in assoluto o perché io “Due di due” lo possa recitare quasi a memoria, pagina dopo pagina per tutte le volte che l’ho letto; è stato il momento a renderlo tale, la maniera che ha avuto quel libro di incastrarsi con gli anni in cui è ambientato, dentro l’epoca in cui è stato scritto, con l’età di coloro che l’hanno letto. “L’invenzione del vento” però miracolosamente lo segue e ne sono contenta: gli sta dietro per una serie di coincidenze che lo richiamano.

E’ una narrazione salda e non scontata di una certa parte della nostra vita, lontana dallo stereotipo della facile saudade e per questo vera e condivisibile. Non ci si immedesimerà né in Giovanni, che alla fine abbandona il sogno del windsurfer (“Ma Giovanni sapeva che non sarebbe rimasto ancora a lungo da solo su quella spiaggia. Che presto anche altri come lui avrebbero reagito alle scrivanie, ai divani e alle pareti delle proprie stanze, inimmaginabili qui e ora, en plen air. Perché era la cosa migliore da fare” – pag165), né in Pietro, che quel sogno lo realizzerà, pagandone il prezzo (“Anche a fare il coglione. Anche a credere troppo in quel che facevi. Anche ad avere fiducia nelle generazioni che ci hanno preceduto. Era chiaro che volevamo fallire” – pag172): eppure ci si impersona eccome, fosse soltanto per quella sensazione, così familiare, “l’impressione di fare da cavia per una conferenza che riguardava un altro pubblico” (pag158).

Buona lettura 🙂

“Miden”, di Veronica Raimo

Domani dovrò restituire #Miden alla biblioteca – senza se e senza ma, dato che ho già rinnovato il prestito fino al limite massimo di tempo consentito. Lo so, arrivo lunga dato che il libro è uscito ad Aprile scorso ma ormai è chiaro, i libri mi vengono incontro non quando voglio io ma quando vogliono loro (in questo caso palesandosi nell’espositore della biblioteca, proprio quello davanti all’entrata). Sicché eccomi a scriverne di fretta, in questo assolato pomeriggio, il primo giorno della nuova stagione; di corsa, prima che le pagine si separino da me e io non sia più in grado di sfogliarle. Il bello della biblioteca è anche questo: imparare a lasciare andare (a favore di altri). Liberarsi dall’attaccamento.

Mi sono accostata alla scrittura di Veronica Raimo provando un senso di levità. Mi ha affascinata questo suo modo paratattico di porsi nei riguardi della narrazione, della storia da raccontare.

“Le persone tendono a sublimare gli eventi spiacevoli della propria vita inserendoli in un disegno più ampio. Come se si dovesse sempre imparare dai propri sbagli. Spesso si convincono che tutto quanto sia stato in qualche modo funzionale. La trovo una retorica per deboli di spirito”

E’ un mondo onirico costruito di soli punti, impregnato di pause sospese e sottesi non scritti che Veronica Raimo maneggia con spavalderia, quasi incurante delle criticità in cui potrebbe incorrere: da una sintesi che si potrebbe giudicare eccessiva, anche grammaticalmente, a una (non saprei come definirla altrimenti) appropriazione indebita di parti della storia – e dei personaggi – che lei, rivendicando il proprio ruolo di autrice, si arroga il diritto di conservare come propri, personali, incondivisibili. “Questi sono i fatti – sembra dire – io ve li consegno così come voglio, fateveli bastare”. D’altra parte in questo caso la scrittura non è altro che estensione stilistica della narrazione, facendosi quindi non solo argomento ma anche sua esemplificazione pratica – tant’è che si capisce come, alla fine, lo stile non potrebbe essere nient’altro da quello utilizzato.

Di fatto Miden è la storia di un rapporto di coppia (ndr: tra due individui adulti – ma non così adulti ancora, secondo i canoni attuali di adultitudine): un compagno e una compagna non altrimenti specificati, lui insegnante di Filosofia in una Accademia d’Arte, lei – per quanto ne sappiamo – giovane inoccupata (fotografa nullafacente, flaneuse, perdigiorno, definitela come più vi aggrada) che a causa di un imprevisto dalle sfumature inquietanti si trovano a dover affrontare l’altro, ma prima ancora se stessi. Il tutto è narrato dall’interno quasi come in un diario in cui gli eventi che compongono la trama vengono per la maggior parte raccontati – o meglio interpretati – prima dall’una e poi dall’altra parte, oppure gestiti singolarmente – un evento per ciascuno – in maniera comunque complementare, nel senso che ciò che non sappiamo dall’uno veniamo a conoscerlo dall’altra, ovviamente prendendo a paradigma dei dati assolutamente soggettivi. Nessun narratore esterno, nessun punto di vista onnisciente, soltanto due individui che nel mezzo di un brusco cambio di rotta cercano la maniera di venirne a capo. Il lettore si trova così spogliato di ogni capacità attiva di comprendere la situazione, poiché costretto a fare affidamento soltanto o sull’uno (lui: il compagno, accusato di un abuso sessuale perpetrato nei confronti di una studentessa con cui aveva avuto una relazione, ai tempi consenziente riguardo certi modi di vivere la sessualità ma che ora denuncia la presunta violenza subita durante quegli incontri clandestini), o sull’altra (lei: la compagna straniera, figlia di un altro luogo e di un altro tempo, ora per giunta incinta, nuova cittadina della comunità-Miden all’interno della quale, tuttavia, fatica a integrarsi). La pensate così semplice? Sbagliato: come ovvio, la situazione si complica ulteriormente dato che il dialogo lui-lei è inframmezzato dalle pagine di alcuni “questionari” a domande fisse, compilati da diversi co-protagonisti: l’insegnante di nuoto del compagno, il parrucchiere della compagna, una collega professoressa all’Accademia, il tutor del compagno. Già, perché – particolare di non poco conto – non ci troviamo in una cittadina di provincia qualsiasi.

Lo confesso , leggendo le prime pagine mi era venuto il sospetto che l’ambientazione distopica, perché è di questo che stiamo parlando, fosse soltanto un pretesto attraverso cui macinare un po’ di pepe sopra la trama o altrimenti un mero esperimento di creative writing all’americana: della presunta catastrofe occorsa al pianeta Terra non si sa nulla, l’umanità non è stata annientata da qualche sconvolgimento climatico o alieno o virale, eppure molti – o per lo meno coloro che sono in grado di farlo – scappano. Uno dei moderni Eden a cui tanti puntano è proprio Miden, una colonia chiusa, molto simile a una socialdemocrazia scandinava di modello utopico, fondata sulla prosperità dei suoi membri. Ovviamente per farne parte occorre, ça va sans dire, possedere determinati requisiti e una volta entrati non senza fatica bisogna assoggettarsi a determinate regole e imposizioni.

Poi però ho capito che certo Miden era un pretesto, ma di tipo completamente differente da quello che mi ero immaginata.

“Vivevo in un Paese che si poteva solo lasciare. Tutti se ne andavano. Chi restava era un appestato. I giornali parlavano ogni giorno del Crollo, contavano gli emigranti come sfollati, recintavano i superstiti. Sembrava che le catastrofi naturali fossero in un periodo di stanca: niente terremoti, uragani, alluvioni. Non c’erano parassiti a scarnificare gli alberi, né arsura a crepare la terra. Si parlava solo di noi, aveva poca importanza avessimo quindici anni o quaranta. Ci chiedevano di avere fiducia. “Il peggio è passato” dicevano i politici e intanto spedivano figli e soldi dall’altra parte del mondo. La verità è che il peggio non poteva passare, perché non sarebbe mai davvero arrivato”.

Miden – lo spazio sicuro all’interno del quale ognuno ha un lavoro e se non ce l’ha l’ottimo welfare sostiene costi e spese mediche, all’interno del quale i programmi di istruzione sono i migliori in assoluto e le verdure le più brillanti e biologiche del mondo, all’interno del quale tutti i diminutivi e i vezzeggiativi sono stati aboliti per evitare che le donne “fossero apostrofate con un aggettivazione manierata e svilente” – è il pretesto attraverso cui tirare in ballo tanti argomenti scomodi su cui Veronica Raimo non si fa scrupolo: ad esempio il problema del consenso all’interno di un gruppo sociale che promuove la buona salute e la buona forma fisica, l’espressione corporea e artistica ma condanna chi crea disarmonia sotto le coperte, stonatura di cui il sesso estremo (che se consenziente non è abusante) è espressione. Gruppo sociale che tuttavia non si occupa di verificare i fatti (in questo caso la violenza in sé – quella che la ragazza dice di aver subito, assente dalle narrazioni del compagno che ha percepito la relazione come adulta e consapevole, eppure non così improbabile data la giovane età della ragazza e l’inevitabile sudditanza psicologica frutto del rapporto maestro-allievo – violenza che non è quasi nemmeno presa in considerazione) ma si impegna soltanto a giudicare, attraverso un’attenta analisi scevra da qualsiasi presa di posizione aprioristica – ecco la ragione dei “questionari” – chi sia degno di Miden e chi invece sia da ritenere “persona sgradita”. Ma non solo: l’autrice spinge anche su altri temi non meno importanti, per esempio le conseguenze della de-sessualizzazione della società. O anche su altri concetti chiave come le responsabilità individuali nella gestione di un presente che, ad oggi, pone agli “adulti di un certa età” più domande che risposte specialmente per quanto riguarda il rapporto dei non-più-giovani con il proprio passato (che se da una parte viene completamente negato, dall’altra viene recuperato in senso ricontestualizzante, ammantato da un velo di nostalgia hipster), con le proprie origini, con l’oggetto della relazione amorosa e i criteri che determinano le scelte individuali in merito, e anche (last but not least) con il tema della maternità, che ora ha perso il suo carattere di imprevedibile mistero trasformandosi, di fatto e praticamente, in una scelta (consapevole non si sa quanto) di modi e di tempi.

“I miei amici mi rispondevano con frasi appassionate sull’importanza di tagliare i ponti col passato. Questo è un altro argomento interessante. Era un continuo recidere ponti, come se tutti noi avessimo un passato particolarmente impetuoso o degno di nota”

“Molti degli amici che erano rimasti nel mio paese avevano speso i loro migliori anni a piangersi addosso, e poi a pentirsi di tutti i pianti che avevano fatto. È pur vero che i migliori anni vengono chiamati così quando bisogna pentirsi di averli sprecati, quindi forse in definitiva i migliori anni non esistono”

“L’infelicità si misurava su un’altra scala. Anzi, l’infelicità era svanita dai discorsi, c’erano solo disagio, frustrazione, immobilismo. Qualcosa si era irrimediabilmente guastato, questo si diceva. Questo si leggeva. Non avevamo nemmeno il coraggio di usarle certe parole. Senza figli da accudire, accudivano noi stessi, con la compassione rabbiosa di chi non ha mai scelto nulla. Persino l’ansia sembrava desolata, deserta, si guardava con nostalgia all’era dei crucci. Ognuno di noi aveva un ricordo a caso e ci si trastullava per giorni e giorni. Lì dentro c’era l’immagine di tutto ciò che si era smarrito”

“C’erano stati dei giorni in cui io e la mia compagna parlavamo con commozione dei nostri piatti dell’infanzia. Quel genere di nostalgia era già molto attivo prima di lasciare il nostro paese, prima che io partissi per Miden, prima che lei mi raggiungesse. Quando il Crollo aveva cominciato a corrodere le nostre vite, si erano create delle sacche di resistenza intorno a quel lontano principio comunitario: “Ti ricordi le telline pescate in mare, il sapore di nocciola del gelato?”
Poi eravamo diventati adulti, avevamo frequentato i ristoranti, avevamo cominciato le nostre dissertazioni fredde sul cibo, ci eravamo odiati, invidiati, avevamo preteso di bere meglio dei nostri genitori, avevamo arredato case carine, avevamo accumulato riviste che parlavano di noi, avevamo scritto su riviste che parlavano di noi, avevamo scremato la musica giusta, l’avevamo prodotta, avevamo impiattato tartare geometriche, avevamo piantato aneto e timo limonato, avevamo piantato anche l’erba migliore, avevamo smesso di drogarci male”

Buona lettura 🙂

Nota: l’unico punto davvero critico del testo è la decisione dell’autrice di non dar voce alla persona che davvero avremmo desiderato sentir parlare più di tutte: la studentessa autrice della denuncia e presunta vittima dell’abuso sessuale. Muta, la ragazza resta sempre nell’ombra, presa in causa sì ma sempre da altri che in fin dei conti non fanno altro che presumere. La scelta è ardita ma comprensibile e si capisce, può piacere oppure no.

“Il censimento dei radical-chic”, di Giacomo Papi

“Se quello che devi fare nella vita è filtrare le informazioni alla ricerca di ciò che confermerà quello in cui già credi, cercare di comprendere come stanno davvero le cose è solo un fastidio” (p81)

Attenzione a non farsi ingannare: sbaglia chi crede di trovare nel “Censimento” la panacea di tutti i mali contemporanei e delle proprie convinzioni la conferma – necessaria e sufficiente. La tentazione c’è, ovvio, perché altrimenti il gioco non reggerebbe: ma questa spinta non è altro che l’oggetto luccicante messo lì ad attirare la golosità del famoso volatile. La verità è che a pensare così si finirebbe dritti dritti, giù con entrambi in piedi, nella micidiale trappola costruita da Papi a suon di paradossi e sillogismi.

Per il momento lasciamo da parte la questione lunga e controversa di come il linguaggio ci possa o ci debba rappresentare. Vale forse la pena prendere le mosse da un’altra storia.

New York, 14 gennaio 1970: la moglie del compositore Leonard Bernstein decide di organizzare un ricevimento per raccogliere fondi a favore dei rivoluzionari afroamericani Black Panthers. Il cocktail si svolge a casa Bernstein, un superattico affacciato su Park Avenue, e tra i vip e i vari più o meno famosi c’è anche il giornalista Tom Wolfe. Che della serata, e soprattutto degli invitati, stende un resoconto al vetriolo, 29 pagine di acido solforico dal titolo “Radical Chic & Maumauing the Flak Catchers“, pubblicate sul New York Magazine qualche mese più tardi. Il termine Radical Chic viene da qui, ed è utile sottolinearlo dato che poi la sua storia, almeno in Italia, prende strade varie e non è sempre ben chiaro a cosa si faccia riferimento quando si ricorre a questa espressione idiomatica.

“La prima regola è che la nostalgie de la boue – lo stile romantico e rudemente vitale dei primitivi che abitano nelle case popolari, per esempio – è bella, e che la borghesia, nera o bianca che sia, è brutta. diventa così inevitabile che il Radical Chic prediliga chi ha l’aria primitiva, esotica e romantica, tipo i raccoglitori d’uva, che oltre al fatto che sono radicali e “vengono dalla Terra” sono anche latini, o le Panthers, con le loro giacche di pelle, le acconciature afro, gli occhiali da sole e le sparatorie, o i Pellerossa, che, logicamente, hanno sempre avuto un’aria primitiva, esotica e romantica. Quantomeno all’inizio, tutti e tre i gruppi avevano un’altra qualità che li avvantaggiava: stavano tutti a tremila miglia di distanza dall’East Side di Manhattan” (Tom Wolfe, “Radical Chic”, 2017 Castelvecchi, trad. di Tiziana Lo Porto).

Il tema non è di poco conto perché il gioco metatestuale di Papi comincia proprio con la presunta accondiscendenza nei confronti dell’assonanza tra l’idea di intellettuale e il concetto di snobismoovvero seminando il dubbio che la percezione del lettore – che non si possa essere un po’ intellettuali senza scivolare di necessità nel radical chic, e viceversa – non sia poi così farlocca. E così se il padre della protagonista Olivia, ammazzato a bastonate sul pianerottolo di casa per aver citato Spinoza in tv, due ore prima di morire se ne esce con un: “Volevo solo dire che, se non si sforza di ragionare, il popolo diventerà schiavo del primo tiranno”, le due amiche del defunto, incontrandosi per un “presidio di solidarietà” poche ore dopo l’evento, sbottano sommesse: “Non ci vorrai mica paragonare agli zingari? (…) E perfino gli ebrei sono meglio degli zingari…”.

Questo per dire che in questo racconto lungo (no, non me la sento di definirlo romanzo, men che meno distopico – e sì, ho i miei perché) di prigionieri innocenti Papi non ne fa – nemmeno uno. Ecco perché sentirsi al di sopra delle parti guasterebbe, anche se la tentazione c’è eccome. Perché mettersi al di sopra delle parti equivarrebbe a una diretta domanda di ammissione al club: quello degli intellettuali – ma radical chic (?) – o a quello “di chi di giorno si spacca la schiena [e] ha il diritto di rilassarsi e di non sentirsi inferiore” (p9) – ma da qui a infilarsi nella questione del popolo bue anche no, grazie. E quindi? Quindi, la soluzione ovviamente Papi la dà, ma più che una soluzione è un invito a una presa di coscienza – cosa che quando si tratta di “intellettuali che prendono una posizione” non è di poco conto.

Il “Registro Nazionale degli Intellettuali e dei Radical Chic” si rivela quindi una categorizzazione estremizzante, che tanto somiglia ai guazzabugli linguistici e normativi della nostra pubblica amministrazione.

“Ma li faranno i controlli, spero! Altrimenti pur di avere la scorta si iscriveranno anche i barboni”. “Faranno ispezioni, credo. Ci contatteranno dal ministero, per fissare un appuntamento, poi verranno a controllare i libri che abbiamo in casa, cose così…”. “Come i libri? Tutti?”. “Ma no! Non tutti. Immagino che ci saranno dei punteggi!”. “Volevo ben dire: non è che se leggi Fabio Volo ti danno la scorta, mi auguro…”. “Devi avere in casa almeno l’Anti-Edipo di Deleuze-Guattari…”. “O, in alternativa, un paio di metri di Adelphi color pastello” (p33-34)

Sicché si capisce di come quel che importa a Papi non sia tanto la parte che ciascuno prende, o da quale lato della barricata si decide di posizionarsi, quando la consapevolezza della decisione alla cui base deve stare sempre la riflessione, personale e motivata da un incontro veramente dialettico con l’altro. Si ritorna quindi al linguaggio, il vero protagonista del “Censimento” e a tutte le domande, millenarie, che il suo utilizzo impone, tra cui quella fondamentale della comunicazione della nostra esperienza interiore – che di fatto trascende la lingua – attraverso l’utilizzo dell’unico strumento che conosciamo: la lingua appunto.

La normativizzazione e la classificazione – tutto un nero o un bianco a cui ci si sta di fatto abituando (e “se non la pensi così non ci posso fare niente”, o in alternativa “ognuno è libero di pensarla come vuole”, “chi lo dice / lo dice lei”) è tipica della conoscenza razionale, come scriveva Fritjof Capra. “L’astrazione – scriveva – è una caratteristica tipica di questa conoscenza, perché per poter confrontare e classificare l’immensa varietà di forme, di strutture e di fenomeni che ci circondano, non si possono prenderne in considerazione tutti gli aspetti, ma se ne devono scegliere solo alcuni significativi. Perciò si costruisce una mappa intellettuale della realtà nella quale le cose sono ridotte ai loro contorni. (…) Il mondo naturale, d’altra parte, è un mondo di varietà e complessità infinite, un mondo multidimensionale che non contiene né linee rette né forme perfettamente regolari. (…) E’ chiaro che il nostro sistema astratto di pensiero concettuale non potrà mai descrivere o comprendere questa realtà nella sua complessità” (“Il Tao della fisica”, Adelphi 1998, p30-31)

Lo so. Questo post sgangherato non racconta il “Censimento” così come ci si potrebbe aspettare. Non parla dei protagonisti e nemmeno della trama, non racconta la vicenda né i punti salienti. La verità è che talvolta inciampo in libri che non vanno letti di per se stessi, ma che mi occorre inserire in un giro di vento più ampio. D’altra parte qui si è sempre parlato di “piccole riflessioni” e non è detto che le piccole riflessioni portino a sistemi di pensiero completi, anzi.

Ci sarebbe da parlare ancora molto del “Censimento”: ad esempio con un occhio a Milano, a quella che era – quella raccontata da Papi – e quella che è ora, con i suoi Nolo e Porta Monforte e il finger food e i riders e le lezioni di pilates. Oppure sull’autocritica che Papi vorrebbe imporre al mondo editoriale (e per me la pagina più bella e più struggente del “Censimento”, che non voglio citare – e vorrei davvero – perché NO, dovete trovarla, e leggerla, e rileggerla, da soli, senza filtri – ha come dire un’allure Niemeyer-iana che, davvero, emotivamente non posso sostenere), o sulle presunte responsabilità intellettuali – disattese, verrebbe da dire – di una certa generazione di mezzo. Ma qui, su ADC, questo poco deve bastare.

Buona lettura 🙂

#Paesologia: (2) “Abbiamo fatto una gran perdita”, di Alberto Cellotto – e altre storie

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“Provo a vivere ricercando quello che non è più uno spettacolo, ora che tutto ambisce a esserlo. La realtà che rimane fuori è pulviscolare e piena di una farragine che non posiamo osservare, ma è quello che resta fuori dal perimetro degli spettacoli (ed è poco, sempre meno); ho care le persone che avvicinano con un silenzio o con la parola quello che è vero a quello che è vivo. (p20)

Chi sia davvero Martino Dossi, noi non lo sapremo mai. Siamo condannati a un’informazione parziale, corrotta dalla soggettività delle fonti.  E tanto ci deve bastare.

Tra le mani abbiamo difatti solo una quarantina di lettere, più alcune cartoline, che Martino scrive durante un viaggio lungo la penisola, intrapreso giusto i primi giorni di autunno; le notizie su di lui le dobbiamo cercare scavando con le unghie tra le sue carte, saltando avanti e indietro, cogliendo i rimandi tra una lettera e l’altra, dissotterrando i piccoli, irregolari frammenti di vetro che compongono il mosaico della sua esistenza. Nessun interlocutore, nessuna controparte, nulla a cui aggrapparci fatti salvi i fogli che, in qualche modo, sono giunti fino a noi.

Del quarantenne Martino veniamo a sapere che si è da poco licenziato — ma non si capisce bene per quali ragioni – dalla ditta presso cui aveva posto fisso, che ha una moglie e dei figli ancora piccoli e che prima di ripartire alla ricerca di una nuova occupazione (che forse desidera ma forse anche no) si è concesso un periodo sabbatico – una sorta di ritiro spirituale, verrebbe da pensare – per un giro in solitaria che lo porterà da Monselice, in Veneto, sino a Cortona passando per Ravenna, Ancona, Roma, Catania, Perugia, Piombino.

“Ho perso quel lavoro che facevo da anni e credo di aver fatto in modo di perderlo. Prima di mettermi a cercarne uno nuovo, ho deciso di andare verso sud” (p38)

Di Martino verremo a sapere che non si fermerà nello stesso albergo quasi mai per più di una notte e che visiterà luoghi appartati, spesso lontani dalla rotte turistiche, fuori stagione, per la maggior parte dei chilometri alla guida di un’auto sgangherata.

Durante queste soste – specie la sera, in albergo – Martino scrive.

“Da quando ho lasciato casa sabato scorso scelgo i posti dove sostare con gli occhi che devono ave avuto gli antichi mentre sceglievano un altipiano, un tratto di costa o una valle per fondarvi una città o una colonia. Mi vergogno molto di questo procedere. E ogni camera d’albergo diventa un impluvio provvisorio, dove raccogliere l’acqua di un giorno, in parole per amici, compresi quelli che da anni non vedo. Anzi, soprattutto per quelli. Fondo una religione che non dura più di una notte e un giorno, io che ho sempre creduto alle religioni come giganti custodi del tempo, un tempo che non è diverso dall’immagine di un vecchio che sale arrancando per la salitina di una città di mare” (p44)

Scrive agli amici, a una donna incontrata per caso, alla moglie, a non sappiamo chi, ad alcune amanti virtuali e reali: Marco (due lettere), Sara (due lettere), la signora Halima, Lucio (due lettere), Luisa, Giorgio (tre lettere), “cara” (una lettera), Sergio (due lettere), Alessandra, Luca, Adele, Giulia, Milena (due lettere), Davide, Marianna, Stefano (tre lettere), Anna, Costanza, Serena, Enzo, Giulio, Luca, Ester, Veronica, “Signora Elsa”… potremmo continuare così fino alla fine della serie.

Pensieri che assomigliano a versi poetici, lettere lunghe a occuparsi di politica e società civile – in tono sommesso, uno sguardo verrebbe da dire esterno, ormai trascorso, per nulla polemico, come se il tempo dell’azione fosse ormai passato e concluso, ma con il cuore sempre gonfio di sentimenti: l’ardore disperato alla ricerca di amicizie che non siano convenienza ma compenetrative – simbiotiche, la febbre per l’arte, l’amore per i figli, la passione per le donne (quante amanti hai avuto, Martino? Tua moglie sa, delle tue frequentazioni?).

“In realtà sto scrivendo a tante persone, a chi ha mancato con me tanti giorni di vita. Provo rammarico e quanto lontani sento tutti quei discorsi sul non avere rammarichi o rimpianti: io ne sono pieno, divorato” (p50)

Il viaggio fisico si fa viaggio dell’anima, a indagare – uno per uno, con meticolosa lucidità – gli aspetti più profondi di se stesso: le cattive abitudini prese con gli anni, l’ignavia, la difficoltà sempre più evidente a uscire dal ruolo che, in fin dei conti, ci si è per la maggior parte autoimposti.

“Lo sai che sono il solito coglione: un vigliacco, uno che non ha saputo immaginare la propria vita al di là di un lavoro qualsiasi che non ha mai amato, una donna e tre figli, tutti più belli di me. Io sono uno che ha assecondato il pensiero di dipingere, suonare e provarle tutte per restare un pressapochista dell’infinito desiderio di fare più quel che sapeva fare. E sapeva fare ben poco perché io sono uno, non zero, non mille. Nessun noi abita in me, solo indulgenze del mondo e della Storia che cadono come neve, ogni giorno, nella mia testa e che con me si scioglieranno, ma che per ora mi impacciano il cammino” (p49)

Ci si immedesima in Martino, specie se con lui si condivide l’età anagrafica – il giro di boa dei quarant’anni a dirti che, c’è caso, ormai dietro di te hai più tempo di quanto ne resta davanti e quindi è inutile, forse perfino dannoso, procrastinare gli esami di coscienza – perché di tempo per migliorare ce n’è ancora, e forse abbiamo capito come fare, e cosa dire – ma non è che ne resti poi così tanto, e questi pensieri bisogna in qualche modo passarli, farli conoscere, con urgenza, specie ai propri figli. Ma forse anche no, forse meglio se ce li teniamo per noi. Chi lo sa.

“La tortura è quella che mi porto in serbo da troppi anni, è essere attorcigliato tra dire e non voler dire più nulla. (p15)

“Da oggi questa idea di essere uno potrebbe placare le inquietudini in modo definitivo e scaraventare la maledizione della differenza dagli altri e quella di una realtà accolta solo attraverso contenuti e impauriti spostamenti dello sguardo” (p49)

E’ un po’ un limbo, questo dei quarant’anni: l’adolescenza dell’età adulta, in cui spiace lasciare qualcosa che è ovvio, non fa più per noi, e nel frattempo si desidera dare un’occhiata a quel che c’è oltre perché ci si sente in grado, ma non così tanto coraggiosi da tentare il tuffo di testa. Ed è curioso che questo guardar oltre sia in certi casi più un ritrarsi, rinunciando consapevolmente a determinati aspetti del vivere – cose che prima ci piacevano, cose di cui, ci pareva, non potevamo proprio fare a meno. E curioso, poi, che così d’improvviso (ma davvero, è quel che accade) si affacci la speranza, che più che fiducia nel mondo tangibile, diviene – quasi – un atto di fede.

“Il cinema non mi manca però. Quando entravo in sala ogni film mi aggrediva come la dimostrazione di un teorema perfetto in sé conchiuso, definitivo: il cinema è molte volte costruito sui dialoghi, ma non è affatto dialogico oppure non lo è più. Il cinema pretende di scrivere una gigantesca didascalia per leggere il mondo, ma non ce la farà e il suo tentativo è sempre meno attraente” (p66)

Chi sia davvero Martino Dossi, noi non lo sapremo mai. Un flaneur? Un uomo tormentato dai demoni della depressione? O dell’arte, o tutti e due? Non è possibile andare oltre nel racconto della trama, per capirne un po’ di più dovremo arrivare fino in fondo, all’ultima lettera – o a quella che forse è l’ultima lettera, noi non lo sapremo mai.

“Il fatto è che qui, di nuovo, alla bella vista in valle, si è incollato per un istante quel pensiero del tutto che proviene da una convinzione di un nulla, un sentore di niente. E solo questo momento, quando accade, è bilanciato dalla vista di un paesaggio di fede (qualcosa di così vicino alla speranza, non dirlo meglio) allora succede quell’aggancio vertiginoso tra tutto e niente. Non si chiede altro: si sta bene come al varco di un confine celeste, privati del pensiero che si sottrae a sé e anche dell’istinto. Alla fine anche un infelice è un apprendista felice” (p98)

Nota: ringrazio l’autore, Alberto Cellotto, per avermi proposto la lettura di “Abbiamo fatto una gran perdita”.

Qui se ne parla: Poetarum Silva; Matteo Giancotti La Lettura; blog dell’autore

A volte, come in questo caso, ho l’impressione che l’identità di ADC, che cerco continuamente di tener viva e perfezionare, sia più evidente agli occhi di chi legge il blog che ai miei – e che qualche autore e/o qualche casa editrice conosca questo blog, nelle sue parti strutturali, molto meglio di come, alla fine, lo conosco io. Il che è, di fatto, un grande conforto e un bel traguardo professionale. Grazie.

“Cattiva”, di Rossella Milone

cattiva

“Il tempo da soli con una neonata può essere orrendo. Non passa, è pesante, è pericoloso. Ti fa guardare in faccia chi sei, e alla fine sei qualcuno di solo e inesperto”

Non sono mai stata in grado di apprezzare per intero i racconti auto-ironici sulle disavventure della maternità. Un mio limite, suppongo.

Comunque c’era questo trend alcuni anni fa e va detto, l’operazione ha funzionato: per la prima volta infatti, grazie ad alcune ardite outsider (blogger, giornaliste, madri comuni con un certo talento per la scrittura e l’utilizzo dell’internet) sono venuti alla luce in maniera colorata, divertente e spiritosa tutti quei piccoli e grandi dolori della giovane puerpera che sino a quel momento erano stati come lasciati da parte – dimenticati, ignorati – intenzionalmente o meno. Dimenticati o ignorati senza secondi fini, perché tanto è stato sempre stato così quindi è inutile lamentarsi, dimenticati o ignorati con deliberata pianificazione, perché se non canti inni di gioia ogni volta che una ragade ti spacca un capezzolo, non sei una madre degna.

Quindi ben venga che qualcuno abbia trovato il modo di far sapere al mondo che sì, far figli è proprio una bella storia ma ci sono quei due o tre punti che varrebbe la pena mettere in chiaro. Perché il bodyshaming in gravidanza esiste; esiste pure la competizione tra puerpere, o l’assenza dei padri – sì, anche quella esiste; e da ultimo, udite udite, esiste anche la depressione post-parto e di depressione post-parto soffrono milioni di donne nel mondo, e di depressione post-parto a volte ci si rimane anche secche, o si fa ancora peggio. Ma spesso parlare di questi temi significa(va) fare come nella famosa storiella dei vestiti nuovi dell’imperatore: tutti sapevano che il sovrano era nudo ma nessuno voleva prendersi né la briga né il fardello di farglielo notare.

Detto ciò, per quanto mi riguarda (SPOILER: questo è un post un po’ più intimo del solito, abbiate pietà) sdrammatizzare va bene perché se no sai che pesantezza, ma la verità è che io sono sempre stata più incline al dramma che alla commedia. Sicché mi trovo a fare le tre di notte per finire “Cattiva“: perché Rossella Milone racconta, senza tanto girarci in giro, l’abisso profondo, e ne parla come piace a me: ci si affaccia, lo guarda bene e poi, dando voce a tutte quelle come me, noi che non siamo brave con le parole, lo descrive nella sua crudezza.

“Quando mia figlia piange io so di essere un animale e corro. Non è amore, è corsa; un’impellenza da cui mi devo salvare. Quando mia figlia piange io la devo salvare. A me a salvare qualcuno non me lo ha insegnato nessuno”

In una manciata di pagine, con un linguaggio secco e brutale intessuto di dialetto e materia, la Milone ci parla di Emilia, giovane donna napoletana, e delle settimane successive alla nascita della prima figlia. Sono giornate intensissime, lunghe eppure brevi, in cui l’orologio pare aver cambiato il suo giro consueto, rifiutandosi di obbedire alle leggi dell’alternanza giorno e notte che per tanti anni avevano scandito le nostre attività dentro e fuori casa. Giornate sospese, fatte di riflessioni e spaventi, paure e pensieri, fatica fisica e sfinimenti mentali – perché si sa, l’estrema gioia e l’estremo dolore prostrano allo stesso modo; fatte di suprema, fisica aderenza, e nello stesso tempo di enorme solitudine.

“Se soffri tu soffro anch’io, mamma, e questa fu la prima libertà che persi: la libertà di stare male, ché se il mio cuore perdeva un battito lei ne perdeva due”

“Non ha bisogno di me, ha bisogno di ciò che le so dare. E io non so cosa le so dare, se non il latte”

Sono giornate che trascorrono alla ricerca continua di punti di riferimento vecchi e nuovi: dai nonni che non è detto siano di aiuto anche se presenti – come ben sottolinea l’autrice, al marito che comunque ritorna subito alla propria routine (la quale, va detto, mica è mai cambiata più di tanto), alla vicina di casa che pare sapere sempre tutto, alle amiche che però si dileguano, al lavoro che chissà se si potrà riprendere, alla pediatra che parlare con un divano darebbe più soddisfazione.

“Mentre lei succhia io posso ritornare a essere viva, non per la vita che passo a lei, no: per la vita che devo passare a me. Perché magari un paio di pagine di un libro pescato dalla libreria riesco a leggermele, venti minuti di un film preso a caso in Tv riesco a vedermeli, starmene coi piedi abbandonati sul divano, mentre con una mano faccio le parole crociate, riesco a stare”

“Cattiva” è intessuto di parole vere. E se da una parte mi viene da concordare con il famoso assunto, che chi non ci è passato non può capire, dall’altra permetto a me stessa di pensare che questo libro andrebbe fatto leggere in tutte le medie superiori della nostra penisola – ma d’obbligo però, di programma. In primo luogo, perché è un testo non giudicante e molto oggettivo nei fatti – fatti che, certo, non accadono sempre ma che per il solo fatto che potrebbero accadere e talvolta accadono dovrebbero metterci tutti sul chi va là. In secondo luogo, perché secondo me aiuta nel contestualizzare le esperienze.

Mi spiego (SPOILER II, vedi sopra). Mi sono imbattuta in questi giorni in una polemica molto social che riguardava una delle più famose influencer italiane la quale, divenuta mamma da pochi mesi, è diventata oggetto di feroci critiche per la sua vita poco dedita alla prole – a quanto pare. Quel che mi ha stupito non è tanto l’esperienza della singola persona che comunque, date le contingenze, non credo debba venire presa a misura, quanto la violenza verbale dei commenti pubblicati on line e il messaggio complessivo che viene fuori da questa storia. In primis, un relativismo etico con cui, forse per l’età, faccio fatica a interagire (il corpo è mio e decido io, se ti dà fastidio vai da un’altra parte), seguito a stretto giro dall’aggressività di talune risposte (stai zitta e torna in cucina a fare il sugo in ciabatte e mollettone) a cui si affianca, di contro, la strenua difesa di un ben preciso concetto di maternità autoreferenziata che è quella che poi porta alla competizione tra mamme, intessuta di bugie nella mitizzazione di aspettative francamente inaccessibili.

“Ci sono certe cose che nessuno vuole sforzarsi di comprendere, e in quel momento in cui non vuoi comprendere l’odio si trasforma, non più incandescente e vivo e fertile come l’odio è, ma una cosa morta e inutile, e questa cosa è il disprezzo”

La questione che mi stupisce è, di fatto, la difficoltà nell’affrontare una delle emozioni più potenti e distruttive che esistano: la paura. Da una parte c’è infatti il terrore (esemplificato dall’immagine della donna sciatta, chiusa in cucina a preparare la pietanza per marito e figli) di trovarsi ingabbiate nel piccolo mondo asfittico che in qualche modo fa parte dell’esperienza di chi a oggi è in età riproduttiva. La maggior parte di noi ha per madri donne che dopo il parto hanno rinunciato al lavoro e ai divertimenti, perché figlie a loro volta di un’Italia del passato; madri che a quanto pare sono state capaci di trasmettere alle proprie figlie, ovvero a noi, soltanto la pars destruens della storia, cioè le indubbie fatiche dell’accudimento genitoriale, tralasciando il significato profondo e non scontato della parola “sacrificio” (con tutte le gioie, il senso di liberazione e i cambi di prospettiva che esso porta con sé). Ne viene fuori una donna aggressiva, che in nome di una presunta “libertà” da conquistare e mantenere, accetta acriticamente qualsiasi modello sociale altro – basta che sia diverso da quello di cui ha esperienza, che rifiuta in toto (ma attenzione, rifiutare un costrutto sociale non vuol dire liberarsi automaticamente dal senso di colpa, anzi). Dall’altra parte c’è l’angoscia – che si trasforma spesso in terrorismo psicologico (il tuo CUCCIOLO ne soffrirà, chiamerà ‘mamma’ la tata) – di chi, facendo proprio quel valore rifiutato dalla maggioranza (il senso dell’accudimento esclusivo, il tempo della mutazione, la rinuncia a ciò che era prima) si scaglia contro tutti coloro che, in un modo o nell’altro, cercano di mostrare i limiti intrinseci a questa interpretazione e di dare legittimità a un altro punto di vista. In tutto questo, il buon senso va a farsi benedire e, last but not least, le figure maschili scompaiono: impaurite si fanno da parte, ridotte al silenzio.

Emilia sta nel mezzo. Questa bambina, così desiderata e voluta, è altra cosa dalla figlia immaginata: non dorme, piange sempre, è una bambina ad alto contatto, non dà tregua. Il marito Vincenzo pur attento e premuroso è di fatto distante dalla quotidianità del puerperio. I genitori di Emilia non sono d’aiuto, incastrati tra supposizioni e pregiudizi (e la convinzione che Emilia farebbe bene a togliersi dalla testa l’idea di tornare al lavoro – questa è una delle pagine più belle, più struggenti).

Non funziona nemmeno il servizio pubblico: la culla in camera è una favola che ci si racconta in tante, ma a cui non crede quasi nessuna (“E poi dovevo tenermi le forze per quelle notti con la neonata, lì in ospedale, che in quell’ospedale c’era il rooming-in, come se in inglese suonasse meno faticoso: i bambini li devi accudire da subito, diventi madre da un’ora all’altra, e quando ti accorgi che semplicemente non ne sei in grado, non sai cambiare manco un pannolino, altro che evoluzione, vorresti tanto stringere la mano a Darwin e dirgli Ma vaffanculo”). I pediatri, sbrigativi e poco empatici.

La soluzione a cui arriva Emilia, perché ci arriva, non ve la racconterò: non è una pillola miracolosa, è qualcosa che si trova alla fine di un cammino, e in questo caso il cammino è il processo di fruizione del testo. Una lettura che spesso non scorre né facile né piacevole, perché o non c’è mai stata immedesimazione (figurarsi, che esagerazione), o il testo risulta fin troppo destabilizzante (dallo speriamo che a me non capiti al o Dio mio, ecco cosa mi è successo, non ne voglio sentir parlare mai più), ma che è necessaria, e va fatta.

Io confido molto nell’istruzione. Nella lettura, nell’approfondimento, nella creazione di figure professionali adeguate che riescano ad aiutare le donne a trovare la propria dimensione nella maternità al di là di ogni pregiudizio, convenzione, imposizione. Ecco perché secondo me i libri come questo di Rossella Milone dovrebbero essere letti a scuola.

“Quando sono rientrata Vincenzo era seduto sulla sedia a dondolo di vimini, è lì che li ho trovati: incastrata nell’incavo del suo gomito c’era la testolina di Lucia, il corpo abbandonato nel calore del padre; una coperta di cotone, la tettarella del biberon tra le labbra che lei schifa, che spesso rifiuta. (…) Eppure la bambina lì nel suo grembo, mi pareva, finalmente aveva recuperato un po’ di serenità”

Buona lettura 🙂