“Le perfezioni”, di Vincenzo Latronico

“Tutti volevano una pagina, un logo, una veste grafica. Tutti volevano un po’ di bellezza, intesa come una posizione unica in un sistema di differenze.”

“Il gioco di prestigio della gentrificazione è proprio questo: il racconto globale, generico e scintillante, è reso possibile dall’occultamento di una storia locale specifica e priva di valore aggiunto. Una storia viene sostituita da una narrazione il cui contenuto informativo è nullo. Il sapere si perde, un sapere che di per sé è ovviamente inutile ma la cui testimonianza serve, se non altro, a mostrare la vacuità di ciò che l’ha rimpiazzato.”* (*V. Latronico, “La rivoluzione è in pausa”, – I Quanti Einaudi, serie Città, 2022)

Giorni nostri – anno più, anno meno. Anna e Tom, trentenni in coppia di vita intima e attività professionale (si definiscono “creativi“), sono riusciti a trasformare la loro passione per il codice in un mestiere ben retribuito – e decidono di trasferirsi a Berlino. Da diverso tempo, questo è un fatto, la capitale tedesca è frizzante espressione di comunità cosmopolite: incubatore di tendenze all’avanguardia che, come specifica la voce narrante, rappresentano la via di fuga da una “città grande ma periferica nel sud dell’Europa”, libere dal gusto “provinciale e stantio” che invece pervade la provincia dell’impero, scardinate dai legami di “conformismo” e “aspettative” tra “persone tutte identiche”.

Cosa mai potrà andare storto nella vita di Anna e Tom? In realtà nulla; come nulla, d’altra parte, finirà per andare proprio dritto.

“Si sentivano decadenti e invidiabili, vivi.”

“Le perfezioni”, romanzo breve che segna il ritorno di Vincenzo Latronico alla narrativa, è un carosello dell’Instagram: in palette di sfumature petrolio e miele fotografa quel modo di esserci, quello stare all’interno di un “movimento tendenziale” che – racconta l’autore – “assume[va] le fattezze antropomorfe di una mitologia”. La voce fuori campo recupera scintille di vita (Anna e Tom a un rave, Anna e Tom in un club per scambisti, Anna e Tom chiusi in casa per mesi, fra tisane al gelsomino equosolidale, caffè monorigine e plaid di lana pregiata, per terminare una commessa di rebranding) e appartiene a un narratore esterno privo di onniscienza che pare sovrapporsi al ritratto di un noi stessi fruitori del social quando, con una serie più o meno distratta di rapidi scroll, ci introduciamo nella vita di qualcun altro, nella realtà che qualcuno vuole mostrarci.

“La meticolosa composizione di quella mitologia aveva occupato Anna e Tom per tutto il loro primo anno a Berlino, perlomeno nel tempo in cui non stavano organizzando uno dei loro traslochi. Non era una mitologia personale; anzi il suo valore risiedeva precisamente nella sua universalità. Era condivisa da tutti gli spagnoli e francesi e italiani e americani che incontravano; era glossata in un’infinità di articoli di costume e documentari, e replicata nelle immagini che scorrevano sulle timeline di Facebook e sui feed di Instagram di una generazione intera. Era il sigillo del loro ingresso in una comunità cementata da una realtà condivisa, che è quasi come dire una realtà”.

Anna e Tom non sono due soggettività specifiche da romanzo di formazione, non sono una coppia sull’orlo della crisi di nervi di cui “Le perferzioni” si impegna a scandagliare il rapporto; pare buffo ma di Anna e Tom non conosciamo né l’età esatta, né la fisicità – e nemmeno le voci: Tom ha la barba, è secco o in sovrappeso? Anna ha i capelli lunghi? E come parla, Anna? È lieve, impacciata, timida, sbruffona, consapevole? Non lo sapremo mai. Di Anna e Tom nelle pagine di “Le perfezioni” non troveremo un dialogo, un be’, un respiro. Niente. D’altra parte, Instagram ci insegna quanto il linguaggio verbale sia sopravvalutato: la fotografia parla per sé, poi al limite ci sta una caption, ma breve e arguta. A pensarci però, se ci prendiamo la briga di allargare lo sguardo a tutto il feed partendo dai primi, goffi scatti di cui spesso ormai ci si vergogna (ma guai a cancellarli, guai ad alterare la griglia) ecco che la fotografia comincia a svelarsi: una piccola incrinatura della porcellana, il reticolo delle crepe nell’olio del dipinto. La voce narrante allora si fa occhio sottile, armato di pollice e indice aperti nello zoom a osservare le fessure minuscole: una timeline inalterata, vecchia di alcuni giorni, un’imprecisione nello scatto (fuoco al disimpegno della cucina: buste della spesa e fazzoletti di carta sparsi sul ripiano; un tramonto che si vorrebbe glorioso e invece – nemmeno il filtro è riuscito a smussarne i bordi – la vacanza traspira un impietoso grigio plumbeo di fine stagione; un viso smunto, le occhiaie), una disintossicazione da social al sapore di giornate indegne di memoria.

Perché questo atto, il punto di svolta in cui l’esistenza diventa esperienza e la realtà si sovrappone all’immagine – il momento nascosto tra l’adagiarsi su una seduta di design svedese e il cappuccino consumato proprio in quel bar – per Latronico possiede un titolo preciso: è il “sigillo” che definisce l’appartenenza a una “struttura di relazioni”. E questa impronta è uno dei tratti distintivi di quel “crimine di cui solo i colpevoli conoscono il nome“*: la gentrificazione.

“Le perfezioni” è questo: la declinazione poetica di una struttura teorica ben fondata, di cui Latronico si occupa da anni e che consiste nell’analisi dei fenomeni di gentrificazione ossia di quel processo di “riqualificazione e rinnovamento di zone o quartieri cittadini, con conseguente aumento del prezzo degli affitti e degli immobili e migrazione degli abitanti originari verso altre zone urbane”*. Così si esprime Treccani nel definirla (la si recupera da Latronico stesso, che cita Treccani nel saggio “La rivoluzione è in pausa” appena uscito per i Quanti di Einaudi) a cui tuttavia l’autore oppone un altro punto di vista: quello dell’attivista Camilla Pin che all’epoca della riqualificazione dell’Isola, storico quartiere operaio di Milano Nord, la definì come “il processo di investimento e acquisizione a scopo speculativo, da parte di soggetti pubblici e privati, di aree immediatamente circostanti a zone altamente redditizie, con lo scopo di smantellare l’esistente per ricostruire, seguendo standard edilizi che alterano inevitabilmente il contesto urbano.”*

La vita berlinese di Anna e Tom, difatti, è un racconto globale per il semplice fatto che qualsiasi loro esperienza, anche la più elitaria e rarefatta (e vale la pena ricordare la varietà del significato: esperienza è una nottata nel club per scambisti o un tour ai resti del muro ma è anche il possesso – un pezzo di arredamento recuperato dal rigattiere, le cuffie antirumore ultimo modello) risulta già replicata, da altri prima di Anna e Tom, da altri come Anna e Tom e – orrore – anche replicabile, in altra declinazione, da chi arriverà a prendere il loro posto. Che poi Anna e Tom di questo paradosso ne percepiscano l’esistenza è tutto da dimostrare, dato che una delle storture proprie della gentrificazione è appunto la consapevolezza del progetto, che è posseduta solo da chi produce gentrificazione e non da chi ne usufruisce – o almeno non fino in fondo.

“La gentrificazione di cui erano consapevoli era qualcosa che facevano gli altri”.

Ovviamente poi qualcosa accade, tra le pagine di “Le perfezioni”. Si tratta di scarti minimi, eventi che presi singolarmente vengono derubricati a piccoli fastidi, inciampi sgradevoli ma tutto sommato prevedibili: una coppia di amici torna in patria dopo la nascita del figlio – la gestione del quale in Germania è troppo onerosa e complicata per chi non è ben attrezzato con lingua e burocrazia (lingua e burocrazia con cui Anna, Tom e molti altri si erano imposti di non interagire, questione di gran vanto), un cliente disdice il contratto perché l’affitto dell’immobile ha sforato il limite di tollerabilità, la galleria d’arte autogestita nel centro commerciale diroccato è stata sgomberata per far spazio ad appartamenti di lusso; al posto di quella elegante e alternativa torrefazione artigianale (che sorgeva sulle rovine di un antico bar al confine tra l’Est e l’Ovest – ma chi lo sapeva? Non certo Anna e neppure Tom, che di quel che era nel prima non si è mai più di tanto occupato) ora c’è un negozio di articoli tecnici, che del bar ha maliziosamente conservato l’insegna. Di fronte a queste minuterie, però, il feed si incrina in un loop di già visti: le commesse calano, ad Anna e Tom vengono preferiti inglesi madrelingua o, più spesso, tedeschi iper-specializzati dal cachet stellare; la cerchia di conoscenze – tutte piuttosto superficiali, va detto – si restringe: c’è chi si sposta in provincia o parte per la Spagna o semplicemente sparisce dalla timeline; i costi dell’appartamento crescono mentre le occasioni sociali diminuiscono, perché le entrate mensili sono appena sufficienti per pagare le spese.

In realtà, alla definizione di Camilla Pin di cui sopra ho omesso un ultimo pezzo, che recupero qui ora: “[La gentrificazione è] la trasformazione di un quartiere non solo a livello sociale ma identitario e culturale.”* Ad Anna e Tom non sta succedendo nulla di diverso da ciò che era capitato agli abitanti della loro zona nel momento in cui cominciò quel processo di “omogeneizzazione” che, fa notare Latronico, è anche un “processo di ottimizzazione, cioè di appiattimento verso l’alto”. Se da una parte infatti la gentrificazione porta con sé un discorso complesso sull’abitabilità di quartieri all’interno dei quali i residenti storici, spesso di bassa estrazione, non possono più permettersi di vivere né riescono più a trovare ciò di cui hanno bisogno, dall’altra essa ha come risultato una “perdita dell’unicità” a favore di un “processo di disincanto”. E cosa accadrà ad Anna e Tom, quando si renderanno conto di non essere più così speciali? Ma poi, speciali, lo erano mai stati?

Il libro è scomodo, infastidisce, spinge allo sguardo interiore: perché sfruculiando le vite di Anna e Tom ci sentiamo irritati e invidiosi; siamo vecchi boomer di passaggio, siamo fratelli di poco maggiori, un tantino più saggi a brontolare quel “te lo avevo detto” che trasuda rammarico o acidume a seconda dei casi; siamo il cugino piccolo, gli occhi sgranati a dire “dai, racconta ancora quel che facevi là”. La parte finale è spiazzante perché coinvolge il deus ex machina più aborrito di tutti: la famiglia di origine. Conviene leggerlo, quindi.

“Nina sull’argine”, di Veronica Galletta

“O forse è se stessa che non tollera, il ruolo che adesso si ritrova a interpretare, che la tiene così lontana da tante cose in cui ha sempre creduto, che la costringe a osservare tutte le sfaccettature di una questione, alla ricerca di una impossibile sintesi, in cui tutti sono liberi, tranne lei.”

Caterina Formica è ingegnere, specializzata in idraulica fluviale e dipendente di un ente pubblico. Finalmente, dopo mesi di anticamera, attese e demansionamenti, ottiene il primo contratto importante: si occuperà della costruzione dell’argine di Spina, piccola frazione di Fulchré, nella pianura padana. Equità, merito e competenza tuttavia c’entrano poco: l’argine di Spina, banalmente, è parte di quel mazzo di commesse riassegnate d’ufficio ai pochi professionisti rimasti estranei al processo per tangenti che ha visto coinvolti diversi colleghi di Caterina, dirigente incluso.

Il mondo in cui Caterina si muove è quello dell’edilizia e dei cantieri: luoghi prettamente maschili, sovente assoggettati a meccanismi di tipo clientelare, all’interno dei quali le relazioni spesso obbediscono a rigidi criteri di norme non scritte e l’ingegnere, sulle carte progettuali responsabile del processo decisionale, si trova di fatto a scontrarsi e dipendere da impedimenti di ogni tipo. Dalla gestione della manodopera in subappalto irregolare alla resistenza passiva del comitato ambientalista, dalle maldicenze dei colleghi invidiosi alle lungaggini e omissioni, casuali o volute, di quel pachiderma iperparcellizzato che è la pubblica amministrazione, ecco che le giornate in cantiere, già complicate per via del carattere stesso del mestiere, diventano una serie infinita di ore alienate e alienanti – sotto il sole impietoso dell’agosto in pianura, nel tormento delle punture d’insetto, coi piedi gelati a mollo nella neve e il vento dicembrino che sferza le orecchie.

“Costruire un argine è una cosa complessa. Bisogna calibrare bene la quantità di terra fin dall’inizio, evitare le corde molli, prevenire i dilavamenti. Perché se si forma una breccia, puoi anche riparare, ma qualcosa rimane. Perché non basta ridipingere la casa e spostare tutti i mobili. Chiudere le fotografie di prima in un cassetto. Anche con la casa tinta e bianca come la sua vita adesso. Pulita, ordinata, lineare. Una traccia rimane. L’argine lo sa. La memoria rimane.”

“Nina sull’argine”, insomma, si inserisce perfettamente all’interno della tradizione italiana della narrativa industriale, della quale riprende in forma convenzionale ma anche nuova tutti gli argomenti. Ci si accomoda proprio, in quel solco che, segnato dai “Tre operai” di Bernari (1934) e passando da Ottieri, Bianciardi, Volponi ma anche Calvino o Sereni e infine Rea (che nel 2002 con “La dismissione” definisce il confine ultimo del genere), arriva fino a Pennacchi, Avallone, Prunetti, Raspi e tanti altri, e che per tutto il nostro Novecento e oltre ha reso testimonianza e trasfigurato in forma letteraria il mondo della fabbrica sia in chiave critica denunciando le contraddizioni, i limiti e la psicopatia del capitalismo industriale, sia interpretando l’officina industriale come uno strumento di autodeterminazione, emancipazione sociale e lotta di classe.

“È un uomo di mezz’età, una caratteristica comune per lo Stato, che fa un concorso ogni quindici anni, e che considera lei sempre giovane. Rappresenta quella parte della macchina che vive di vita propria, con un’inerzia tenace e proterva. Caterina vive sempre questo doppio sentimento. Da una parte la voglia di mettersi di traverso, in un mondo in cui non sa mai bene come collocarsi. Poco esperta, eccessivamente qualificata, ha studiato troppo, e le cose sbagliate. Dall’altra la voglia di ritirarsi, di nascondersi. Come se ci fossero sempre due Caterina. Una parla e l’altra la prega di stare zitta. Chiude gli occhi, li riapre. SI sente soffocare dentro i cattivi pensieri.”

Gli argomenti che Veronica Galletta affronta con “Nina sull’argine” si possono raccogliere in tre macro aree: il topos del cantiere, l’alienazione individuale e la denuncia sociale.

Nel primo gruppo rientrano le riflessioni sul tema della professionalità. La strenua e orgogliosa difesa del proprio saper fare un mestiere – non scevra comunque da un’autocritica invasiva, ma lo vedremo più avanti – passa in primis dall’uso di un linguaggio tecnico strettissimo (“casseforme, pile, casseri, compattare, piana, cordone morenico, rilevato in sponda sinistra, alveo, golena, linea di sponda…”) che se nelle prime pagine spinge il lettore a una certa, voluta irritazione, successivamente diviene limpido nello scopo che si prefigge, ossia la rivendicazione di un ruolo e di una autorevolezza che sgombra il campo dalla tuttologia e dalla discussione da social (ben rappresentata dal bar del paese, croce e delizia di Caterina tra Luisone di Benniana memoria, i “non sono architetto ma…” dei pensionati brontoloni e le più assurde fake news complottiste) per restituire a qualsiasi professione ben imparata e ben esercitata la qualifica di “fatto a regola d’arte“. Di contro, è anche rappresentato l’elemento della perdita di questo ben fare soppiantato da figure professionali inadeguate per causa di ritmi d’usurante precariato all’interno del quale, peraltro, il mancato scambio generazionale preclude la formazione sul campo. I sentimenti di malinconia e di rincrescimento (per l’Antonio, abile operaio anziano costretto al più umile dei demansionamenti per non aver tradito un collega, o per il Mario, il gruista svitato senza il quale il geometra Bertini no, le travi di acciaio appena arrivate col trasporto eccezionale non si sogna di farle posizionare) si fanno quindi anello di congiunzione tra primo e terzo gruppo di argomenti, il più ancorato al nucleo della narrativa industriale: quello della denuncia sociale. Critica che per Galletta si esplica prima di tutto – e sta qui il vero rinnovamento – nella racconto della condizione femminile all’interno del macrocosmo dell’edilizia, spazio chiuso e autoreferenziato in cui le professioniste vengono guardate con malcelato sospetto, sono vittime di battute più o meno volgari o sessiste, sistematicamente diffamate e lasciate in disparte tramite i giochetti più subdoli. Spezzano l’esperienza in cantiere i bei capitoli sulla vita in ufficio che danno spazio anche ad altre sfaccettature tematiche tra cui la stagnazione politica (quella sì, fatta a regola d’arte!), l’organizzazione interna che punta a una sostanziale microvivisezione delle competenze con il dichiarato scopo di rendere nullo qualsiasi processo di attribuzione delle responsabilità individuali, la necessità del compromesso nell’impossibilità di corrispondenza tra i propri ideali e la pratica del quotidiano. Non mancano, specie nei capitoli finali, le riflessioni sul welfare e sulla condizione dei lavoratori irregolari sottomessi alle dinamiche del caporalato.

Il punto che fa di “Nina sull’argine” un compiuto romanzo industriale è il terzo gruppo di argomenti, al quale afferisce la vita privata e interiore della protagonista. Caterina è siciliana, straniera in terra lombarda di paesotti e pettegolezzi che fatica a comprendere ma con cui deve per forza interagire. Sta con Pietro ma la lunga relazione è agli sgoccioli, i genitori sono lontani, di amiche c’è notizia vaga: è il cantiere – che brucia ore, giorni, mesi e anni, che mastica ogni minuto libero, che invade persino i sogni, che fa ammalare, e che sì, a volte uccide. La stanchezza di Caterina (le ore di solitudine in automobile, ferma all’autogrill per l’ennesimo caffè, il ritorno in un appartamento vuoto e freddo, la vita sociale limitata dagli orari durissimi e dalle distanze), l’ansia da prestazione, il timore di fare male – che non può essere condiviso – è di contrappunto a chi davvero in officina ci ha lasciato la vita, tanto che “il morto in cantiere” è proprio l’ombra ricorrente di Caterina (che quando squilla il telefono sempre teme la notifica una disgrazia), o a chi per colpa del cantiere s’è alienato a tal punto da cadere nelle dipendenze o a chi, per seguire il cantiere, ha trascurato la famiglia fino al divorzio.

“Nella polvere del pomeriggio Caterina si incammina verso il fiume per dare un’ultima occhiata alla protezione antierosione. Sono le cinque oramai, e il cado impastato di polvere rende l’aria incerta. Poco distante si intravede il luccichio del fiume che scorre verso valle.”

Eppure il cantiere rappresenta anche, nell’eredità di Calvino, il luogo della rinascita personale. Attraverso l’esperienza sul campo, l’interazione con colleghi e maestranze nella quotidianità di un lavoro di squadra che non ha nulla a che vedere con l’asettico team di un paradigma importato ma ha molto a che spartire con l’idea del conoscere e del condividere, attraverso l’autocritica personale e la capacità di stringere un rapporto intimo ma rispettoso con l’ambiente naturale [nota: che assume in certi punti il carattere di uno spiccato new nature writing che disgrega e poi ricostruisce il panorama della letteratura industriale classica in cui si alternavano impostazioni fortemente neorealistiche e posizioni dicotomiche fabbrica/natura], Caterina in qualche modo recupererà gli argini, non solo del fiume ma anche i propri, ri-definendosi e regalandosi spazi aperti ma anche confini. Perché

“I fiumi sono sempre liberi, pensa Caterina. Basta osservarne le sovrapposizioni del tracciato nei secoli, ed ecco che emergono le costrizioni, gli avanzamenti dell’uomo, le zone in cui il fiume si è allargato di nuovo a forza, piena dopo piena, in un mescolio di colori molto eloquente, per chi ha la pazienza di decifrarlo.”

“Nina sull’argine” è uno di quei libri che sarà bello rileggere, a distanza di tempo e a dispetto del tempo, perché invecchierà bene. Per recuperare i dettagli, cercarne di nuovi – quelle piccole dimenticanze figlie di una lettura vorace che non può abbandonare l’urgenza e la fretta di sapere – ritrovare le ombre.

“Non è facile accettare il cambiamento. Non è semplice accettare che il paesaggio intorno si trasformi (…). Più del cambiamento fa male l’annuncio del cambiamento, il suo diluirsi nel tempo, l’incertezza del procrastinare. Certi errori si fanno una volta, poi si impara.”

La lettura di “Nina sull’argine” è stato un caso fortuito e tale deve rimanere. Qui la storia di come sono arrivata in possesso di queste pagine e qui di come queste pagine, arrivate in sorte, per sorte continueranno a girare.

“Fantasmi dello Tsunami”, di Richard L. Parry (trad. Pietro Del Vecchio)

“In giapponese, quando ci si allontana da casa si pronuncia una formula invariata. La persona che esce dice itte kimasu, che significa letteralmente ‘vado e torno’. Coloro che rimangono rispondono con itte rasshai, che significa ‘torna presto’. Sayonara, la parola che si insegna agli stranieri ed è il giapponese per ‘addio’, è un vocabolo troppo definitivo per la maggior parte delle occasioni, implicando una separazione prolungata o indefinita. Itte kimasu contiene una diversa carica emotiva: la promessa di un ritorno.” (pag32)

Ero molto indecisa nei confronti di questo testo. Indecisa sul leggerlo – e alla fine l’ho letto – indecisa sul proporlo qui – e alla fine qui lo propongo, con la cura del raccomandare attenzione perché non sono pagine facili né consolatorie.

“Fantasmi dello Tsunami” è l’edizione italiana di “Ghosts of the Tsunami”, il reportage che Richard Lloyd Parry, corrispondente a Tokyo per il “The Times”, ha realizzato nell’arco dei sei anni successivi al 2011 viaggiando per la regione del Tohoku, quella più colpita dalla catastrofe. Nello specifico, il reporter si concentra sulla disgrazia della scuola elementare di Okawa, in cui morirono ottantasette alunni. Su un totale di più di 18.500 vittime, l’evento di Okawa è stato l’unico ad aver coinvolto direttamente un edificio scolastico causando la morte di così tanti bambini tutti insieme. Si trattò in sostanza di una concatenazione di eventi per la maggior parte causati – ecco spiegata la reticenza dei media nipponici a riguardo – da un’errata valutazione del rischio idrogeologico (la presenza, a sei miglia dalla foce, di un’ansa nel fiume Kitakami, corso d’acqua di vasta portata che da secoli è la risorsa economica primaria per tutte le comunità rurali della zona). La sottostima del rischio portò alla stesura di un piano d’evacuazione anti-tsunami inadeguato, la cui attuazione di fatto spinse tutti i bambini, in fila indiana e divisi per classi, con il loro bell’elmetto bianco calcato in testa, in bocca all’onda di marea che montava dall’oceano e poi si ingolfava nel fiume.

Attraverso interviste agli adulti sopravvissuti, ai genitori dei bambini dispersi, tramite lo studio delle mappe, della geologia del luogo e sentito il parere di esperti, Parry racconta, con l’asciuttezza del cronista sul campo (distacco emotivo che l’autore giustamente rivendica sin dalle prime pagine), la realtà tremenda di un lutto senza fine ed evitabile – forse non del tutto ma sicuramente almeno in parte.

” ‘Personalmente, non credo nell’esistenza degli spiriti, ma non è questo il punto. Se la gente dice di vedere i fantasmi, allora va bene, basta la parola.’ “(pag280) – testimonianza dell’editore Masashi Mijikata, direttore di una piccola casa editrice specializzata in testi sul Tohoku.

La valutazione tecnica impropria, tuttavia, non fu l’unica causa del disastro, che si fonda anche su altri presupposti. Il titolo “Fantasmi dello Tsunami” fa riferimento ai racconti di possessione e ai fenomeni di “esorcismi” che crebbero in maniera esponenziale nei giorni e nelle settimane appena successive alla catastrofe. Donne che raccontavano la visita di bambini infreddoliti e bagnati, un tassista che una sera fece salire un anziano che chiedeva di essere accompagnato a casa – un’abitazione di un villaggio spazzato via dall’onda – salvo poi scoprire che nell’auto non c’era nessuno (ndr: il tassista arrivò comunque sino all’abitazione, aprì la portiera e fece scendere il passeggero). Parry si addentra, con tatto e interesse sincero, libero da qualsiasi pregiudizio, all’interno di tutte quelle credenze e leggende popolari antichissime ancora molto vive all’interno delle comunità rurali giapponesi, per tradizione e geografia sempre rimaste lontane dalla moderna vitalità metropolitana. In special modo Parry si riferisce al culto per gli antenati e al rapporto di grande familiarità nei riguardi dei defunti, un punto fondamentale nel dopo-Tsunami poiché tanti sopravvissuti non furono in grado di prendersi cura dei propri morti per via del fatto che i corpi non furono mai ritrovati o perché l’inondazione aveva portato via gli altari casalinghi – e anche perché con la morte dei propri figli, già adulti o ancora bambini, veniva meno quel patto di cura che è un tratto importantissimo della struttura familiare nipponica (sia in vita sia in morte). Si capisce quindi come mai la tragedia di Okawa sia diventata il simbolo dello sgretolarsi di una millenaria fiducia riposta non solo nell’autorità statale ma anche nei valori stessi del villaggio e della famiglia, incarnati dalle autorità anziane. L’evacuazione dei bambini, infatti, avvenne oltre che in maniera sbagliata anche in estremo ritardo, come appurato dalle testimonianze e dalle inchieste che seguirono, perché alcune autorità anziane e alcuni professori della scuola, forti della loro esperienza di vita (ndr: che non contemplava Tzunami di trentasei metri e mezzo successivi al quarto terremoto più potente nella storia della sismologia) e del loro prestigio sociale, non ritennero opportuno sveltire le procedure né dare credito ai vari allarmi diramati dalle autorità competenti.

Parry scoperchia in qualche modo anche il vaso di Pandora sui rapporti gerarchici e sulla questione femminile all’interno di una società ancora molto tradizionale e vorremmo dire “di paese”, nuclei familiari in cui la parola del suocero – spesso molto anziano e avulso dal contesto moderno – vale più di quella di una giovane madre attenta, informata e inserita nel flusso del presente quotidiano; e lo fa attraverso l’osservazione di una comunità sgretolata in cui accade che una madre appena privata dei figli – ancora dispersi – sia costretta per buona creanza e perseveranza (una delle traduzioni possibili per nintai o gaman, virtù tipicamente assegnata agli abitanti del Tohoku) a passare le giornate cucinando pasti di emergenza per tutta la comunità, pasti serviti da una madre che invece è riuscita a salvare i propri bambini perché, contro il parere dei genitori anziani, si era precipitata a scuola e li aveva ritirati appena in tempo, portandoli in salvo sulla collina a poca distanza.

A riguardo, sono molti i temi affrontati dal reporter: la tendenza al quietismo, per esempio, o l’inveterato vizio di non dar retta ai giovani (come quando due ragazzi più grandi avevano suggerito al maestro di salire sulla collina ma rimasero inascoltati), e ancora lo stigma sociale calato su quei genitori che decisero di intentare una causa e portare le autorità in tribunale, la difficoltà nell’esprimere la propria rabbia e il proprio dolore – atteggiamenti giudicati impropri e inadeguati anche da chi i figli li aveva persi a sua volta – l’incapacità di tornare alla vita di prima, in special modo per quanto riguarda i luoghi di lavoro e quelli di socialità comune all’interno dei quali le diverse parti non furono più in grado di interagire.

Se il racconto del disastro di Fukushima è più immediato da raccontare e in un certo senso più accettabile nella sua prevedibilità, meno lo è il dramma della scuola di Okawa – che tuttavia è in grado di mostrare meglio, ahimè, tutte le crepe che stanno minando dall’interno la struttura delle micro-comunità giapponesi: i modi di vivere, le relazioni interpersonali, il rapporto con la società e la vita pubblica. (Qui i twitt che ho scambiato con l’autore a proposito di questo tema).

Exorma porta in libreria un volume difficile, una sfida editoriale – e di lettura – che a mio parere vale la pena affrontare perché quelle di Parry sono pagine che liberano la mente dai vincoli dell’esotico, da quel kawaii illusorio che spesso occupa i pensieri di chi si rivolge al mondo nipponico.

“Non ci sono occhi né orecchi, naso, lingua / nessun corpo, nessuna mente; nessun colore, suono o profumo; / nessun gusto, nessun tatto, niente; né c’è un regno del vedere, o del pensiero; nessuna ignoranza, nessuna fine / dell’ignoranza; nessuna vecchiaia né morte; nessuna fine della vecchiaia e della morte; nessuna sofferenza, / nessuna causa della sofferenza, né alcuna fine / della sofferenza, nessuna via, nessuna saggezza / e nessun compimento.” (pag.126-127 – Sutra del cuore, traduzione dell’autore)

“Più idioti dei dinosauri”, di Daniele Scaglione

“Se qualcuno mi dice «Ehi, nel 2050 il mondo sarà di 2°C più caldo di adesso!», per educazione rispondo: «Oh, è terribile!». Ma intanto mi chiedo: «E dunque?». Se invece qualcuno mi dice: «Nel 2050 a Milano ci sarà il clima che c’è oggi a Dallas», capisco di cosa stiamo parlando e intuisco cosa significa affermare che c’è uno spostamento delle condizioni climatiche di un migliaio di chilometri a nord.” (pag55)

Alla narrative non fiction siamo ormai avvezzi. Si tratta di quel modo di scrivere saggistica che, prestando attenzione alle crescente necessità di un pubblico non competente ma interessato alla materia, coniuga la perizia – elemento imprescindibile nella stesura di un testo specialistico – a una fluidità d’esposizione esente da eccessivi tecnicismi di sapore accademico. Sistema di scrittura che nello stile e nella disposizione dell’argomento rende l’opera fruibile anche da parte di chi non dispone di competenze tali da poter affrontare in autonomia un testo specialistico di stampo tradizionale. Operazione non semplice, perché non è detto che chi ne sa molto di qualcosa possieda abilità divulgative tali da riuscire a traghettare il contenuto dei propri studi da quello a questo sistema. Non per nulla Amitav Ghosh, con il suo saggio “La grande cecità”, testo ormai di culto nella discussione sul climate change, ha sollevato – per primo – la questione dell’inadeguatezza della letteratura contemporanea nel raccontare, appunto, il cambiamento climatico. Il saggio di Ghosh è del 2016 e nel frattempo, per fortuna, ci siamo un poco attrezzati. Per “attrezzati” intendo l’esser riusciti da una parte a fare in modo che molti studiosi della materia si raccapezzassero tra procedimenti e tecniche di scrittura simili più alla fiction che alla pubblicazione universitaria, dall’altra a coltivare e spingere la discesa in campo di professionisti che, competenti in altri ambiti (quali per esempio la formazione o la comunicazione) ma utilizzando le proprie abilità, siano in grado non tanto di spiegare quanto di accompagnare se stessi – e il lettore – lungo un cammino di scoperta e apprendimento.

Questo è il caso di Daniele Scaglione – formatore e consulente aziendale, oltre che collaboratore di Rai Radio 3 nel programma Wikiradio (nonché presidente della sezione italiana di Amnesty International dal 1997 al 2001) – che con “Più idioti dei dinosauri” costruisce, a partire dalle domande che come padre si pone nei riguardi di quale sarà il futuro riservato al proprio figlio (ma anche dalle domande che i nostri stessi figli ci pongono quotidianamente), un saggio godibile, di tono leggero eppure mai banale né burlesco, che affronta per capitoli i temi cardine legati all’iperoggetto cambiamento climatico.

“Io, invece, mi sento un idiota. Così come intendevano gli antichi Greci, sia chiaro. Loro definivano l’uomo pubblico come una persona colta, esperta e competente e gli contrapponevano l’uomo privato, l’idiòtes, che se ne sta chiuso nel suo piccolo mondo e di conseguenza poco sa e meno capisce.” (pag33)

I nostri figli utilizzeranno ancora l’aeroplano, fra trent’anni? Papà, quando si rompe la nostra auto, ne comprerai una elettrica? Quando sarò vecchio la nostra città sarà così calda che non ci si potrà più abitare? Cosa mangeremo tra cinquant’anni? Dobbiamo diventare tutti vegani? Perché la pasta costa più di prima? Perché c’è il coronavirus? Siamo in troppi, sulla Terra? Moriremo tutti? Da adulto, mio figlio e i miei nipoti soffriranno la fame? Ciascuno dei tredici capitoli di “Più idioti dei dinosauri” come è evidente è dedicato a un singolo aspetto tra quelli più macroscopici che compongono il climate change affaire e che stiamo già vivendo, anche se talvolta fatichiamo ad accorgercene: riscaldamento globale, modifica delle abitudini nell’abitare e conseguenti crisi migratorie, greenwashing a opera delle grandi multinazionali, politiche economiche globali per il settore primario e secondario, la questione non da poco della giustizia ambientale, l’analisi della responsabilità individuale (a volte di fatto ininfluente se non interviene dall’alto chi davvero fa la differenza). Scaglione affronta questi temi col piglio del genitore alla disperata ricerca di informazioni – chè a ‘sti ragazzi bisogna pure contar su qualcosa di sensato o quanto meno provare a farlo – e lo fa interloquendo con chi, di ogni specifico tema, ne sa evidentemente più di lui. Il profilo dei tecnici, dei docenti, di donne e uomini di scienza interpellati da Scaglione è altissimo e si tratta per tanta parte di studiosi italiani: Daniele Pernigotti, Nicola Armaroli, Giulio Betti, Elena Granata, Marina Romanello… (arrivo solo a pag.73: considerate che “Più idioti dei dinosauri” di pagine ne conta 212).

L’autore, attraverso questo sistema domanda-risposta, si impegna proprio a raccontare storie, recuperando da questo strumento di conoscenza universale un’eredità formale fatta di limpidezza di struttura, onestà nelle fonti, accuratezza dei contenuti. E tutte le storie che l’autore ci racconta parlano del mondo – non per quello che è stato ma per quello che verrà. “Più idioti dei dinosauri” rappresenta insomma un modo singolare e nuovo di fare divulgazione scientifica, in cui l’autore smette i panni del docente che si pregia di spiegarci qualcosa e indossa quelli di facilitatore.

“Chi come me oggi ha più di cinquant’anni, alle giovani e ai giovani che denunciano l’emergenza climatica credo dovrebbe dire più o meno queste cose. «Scusateci. Abbiamo fatto un casino senza senso. Un po’ perché non sapevamo quello che facevamo un po’ perché ce ne siamo allegramente sbattuti. Avete ogni ragione di lamentarvi. Da qui in avanti facciamo tutto il possibile per sistemare le cose o, almeno, limitare i danni. Poi, al più presto e senza fare tante storie, vi passiamo le leve del comando.» (pag194)

Note: 1. Dal momento che queste testimonianze sono per lo più tratte da conversazioni, interviste, scambi di email, messaggi diretti tra l’autore e l’interlocutore o da conferenze e interventi in public speaking, in calce al volume è assente la parte bibliografica (nel caso in cui Scaglione si riferisca a delle pubblicazioni, esse sono citate direttamente nel testo) – e non sono nemmeno presenti le note a piè pagina: approccio che personalmente apprezzo molto, perché a mio parere questo sistema da una parte motiva ex silentio l’autorità in materia delle controparti interpellate e dall’altra evita quel fastidioso “vedete quanto ho letto, vedete quanto ne so” che spesso affiora da certe bibliografie, più pretenziose che utili. 2. Il volume è accompagnato dalle belle illustrazioni di Ginevra Rapisardi (che firma anche la copertina) e sull’Instagram dell’autore potete trovare i video, opere di Segheij Dell’Orso, usciti a complemento del libro. 3. Ringrazio Daniele Scaglione per l’invio della copia, una bella lettura che ho potuto condividere anche con i bambini.

“Raccontare la fine del mondo”, di Marco Malvestio

Ho cominciato questo nuovo anno di letture con “Raccontare la fine del mondo”, di Marco Malvestio. Attraverso l’analisi di opere iconiche appartenenti al genere della letteratura distopica e della narrazione post-apocalittica – da pagine che hanno fatto la storia come “La spiaggia terminale” di J.G.Ballard a pellicole blockbuster quali Resident Evil – l’autore (ricercatore presso l’Università di Padova) si impegna a raccontare le modalità e le ragioni in base alle quali queste tipologie di “scritture dell’immaginario” sono state scelte, sin dal 1800, come forma prediletta per – appunto – “raccontare la fine del mondo”.

Il tema cardine intorno a cui ruota questo saggio, scorrevole e adatto anche ai neofiti della materia, è la definizione di Antropocene (“L’intera era geologica caratterizzata dall’impatto delle attività umane sull’ambiente”) e la maniera in cui questa nuova, nostra epoca – che alcuni fanno cominciare dal primo test nucleare della storia (il Trinity test, 15 luglio 1945), altri dalla Rivoluzione Industriale – è declinata, spiegata e (o) interpretata all’interno del contesto letterario e (o) cinematografico della fantascienza.

L’opera si sviluppa in cinque capitoli a tema, ciascuno dei quali affronta la fiction distopico/apocalittica in base all’argomento che essa, di volta in volta, si ritrova a trattare: il nucleare, la pandemia, il cambiamento climatico, il regno vegetale, il regno animale. Il punto di Malvestio non è tanto quello della lettura critica di un catalogo (anche perché – per stessa ammissione dell’autore – le opere e le pellicole citate sono moltissime e varie ma riferiscono quasi tutte alla sfera di influenza nord-americana, o in generale anglosassone, e mancano i rimandi alle nuove forme di fantascienza di matrice asiatica, al sistema multiforme dell’Afrofuturismo, a tutta la galassia Solarpunk) quanto quello del domandarsi per quali ragioni la nostra contemporaneità, pur nella sostanziale durevolezza (perché questo nostro tempo, malgrado la pandemia, è di fatto uno dei periodi più floridi per il genere umano), sia così interessata alle (no, diciamo meglio: ossessionata dalle) fantasie sulla catastrofe.

In questo senso è evidente il merito di “Raccontare la fine del mondo”, che è quello dell’insegnare un linguaggio. Analizzando le motivazioni che stanno alla base di opere quali “La spiaggia terminale” di J.G.Ballard o “L’esercito delle dodici scimmie” di Terry Gilliam, “Contagion” di S. Soderbergh e, ancora, la trilogia dell’ “Area X” di Jeff VanDerMeer o “Il pianeta delle scimmie” di Pierre Baulle, Malvestio introduce al lettore i concetti dipaesaggio sintetico” e di “spazi dell’assenza” e crea familiarità, per esempio, con il pensiero della “medicina positivista” e del “sogno del contenimento igienico” che, nella fantascienza, sono gli strumenti attraverso cui vene fatto emergere il sommerso tutto occidentale delle ansie sinofobiche (post)coloniali, nell’ottica di una “trasformazione” vista come contaminazione verso cui si prova un timore che è “cultural(e) e politic(o) prima che sanitari(o)”. Per non parlare dello nzumbe di origine congolese, che se nella tradizione kikongo significa “il feticco”, nella trasposizione d’oltreoceano rivela, ancora una volta, l’ansia di contaminazione da parte del “suddito coloniale schiavizzato”. Impariamo poi la categoria concettuale degli iperoggetti, all’interno della quale occorre inserire la discussione sul cambiamento climatico inteso come “entità diffusamente distribuita nello spazio e nel tempo” e infine, nei capitoli dedicati al mondo vegetale e a quello animale (inteso come “tutti eccetto l’Uomo”), ci avviciniamo alle nozioni di “agentività vegetale“, plant blindness, “anti-antropomorfismo” ed ecofobia (oltre che alle categorie letterarie del terroir, del weird e dell’eerie).

Ancora una volta, insomma, la tanto vituperata fantascienza si rivela uno tra i pochi strumenti di creazione artistica a nostra disposizione – nella parola scritta, nel fumetto, nella produzione cinematografica – utile a “immaginare un futuro possibile e attraverso questo futuro di ripensare il presente“.

Note: 1) I virgolettati sono citazioni che provengono direttamente da “Raccontare la fine del mondo”. 2) In calce al volume è presente una corposa bibliografia, che per la maggior parte delle voci è costituita da testi (saggi, pubblicazioni universitarie, articoli, long-form) stranieri mai tradotti in italiano: questo fatto la dice lunga sullo stato di queste analisi in Italia. 3) Su ADC ci siamo più volte occupati degli argomenti toccati nel saggio di Malvestio. Qui ai link sotto lascio alcune letture, ordinate per argomento. 4) Sul Twitter, a questo link, citazioni e altri approfondimenti su punti specifici di “Raccontare la fine del mondo”.

La “Trilogia dell’Area X” e “Borne” di Jeff VanderMeer, “Loop” di Simon Stalenhag per capire il new weird e lo “sci-fi vintage” – “Una passeggiata nella Zona” di Markijan Kamyš, “L’altro mondo” di Fabio Deotto, “Qualcosa là fuori” di Bruno Arpaia, “La sesta estinzione” di Elizabeth Kolbert, “La grande cecità” di Amitav Ghosh per parlare di Antropocene e cambiamento climatico – “Neghentopia” di Matteo Meschiari, “La guerra invernale nel Tibet” di Friedrich Dürrenmatt per un tuffo profondissimo nelle distopie post-apocalittiche più buie.

“La tentazione”, di Luc Lang (trad. Tommaso Gurrieri)

“Con quella domanda che lo ossessiona: si può perdere la speranza? Nell’idea di potere mette un certo valore morale, a meno che non si tratti della legge, ho il diritto di perdere la speranza?”

Fino a che punto un padre più spendersi per i figli? Esiste un limite, un momento all’interno del quale – frazione di secondo, millimetrica – sia corretto, finanche necessario, prendere la decisione irrevocabile di farsi da parte? Un padre, una madre: smetteranno mai i panni di genitori? Esiste un punto, un momento di fine – pari all’inizio, il primo abbraccio con il neonato – che non venga a coincidere con l’attimo stesso della propria morte?

Siamo nell’Alta Savoia, sugli alpeggi di Lanslebourg Mont-Cenis. Terra di frontiera tra Francia, Svizzera e Italia, campagna fiabesca di natura incontaminata, acque di laghi e torrenti, aspra montagna. Qui il chirurgo cinquantenne François, di stanza a Lione, possiede una grande e lussuosa tenuta di caccia, eredità della famiglia paterna – gloriosa stirpe di rinomati medici condotti. Un buon ritiro che negli anni ha benevolmente adottato chiassose truppe di figli, nipoti e pronipoti e che ora, nel silenzio delle prime nevicate novembrine, accoglie il solitario Francois, pronto per le battute di caccia – attività cui si dedica con eccellenza da più di trent’anni.

“Le riserve di cibo si accumulano in modo ridicolo in un posto in cui non ci sono più figli, cacciatori o cani, dove non c’è più né una moglie né altri parenti. L’edificio è sontuoso ma il regno è in rovina, soltanto gli esseri che lo abitano ne consacrano la magnificenza.”

Lang ci trasporta nel microcosmo dorato dell’alta borghesia lionese, un’enclave particolarissima all’interno della quale sobrietà di costumi e silenziosa compostezza rendono ancora più evidente lo scarto tra chi il denaro lo possiede da sempre e chi invece s’adopera per una babelica ostentazione di uno sfarzo d’arricchito. A questa seconda categoria appartiene, con profondo sconcerto paterno, il primogenito Mathieu che dopo aver abbandonato la facoltà di medicina ha trovato successo come operatore finanziario presso una società di investimento londinese dalla clientela internazionale, selezionatissima, e cifre a otto zeri. Mathilde invece, la secondogenita, è specializzanda in ginecologia ma la condizione economica privilegiata la rende insicura e svogliata mentre una certa fragilità emotiva la riduce facile preda di relazioni sentimentali nocive. Anche Maria, moglie sensualissima e svagata, lunatica e imprevedibile, da tempo non frequenta più gli ampi saloni della tenuta: apolide e disconnessa, attraversa lo spazio-tempo con la borsa da viaggio: in Italia dalla sorella, a Londra e New York per far visita al figlio oppure ospite di conventi e monasteri per settimane di spiritualità e meditazione. Ovviamente niente è come sembra: gli entusiasmi mistici di Maria nascondono non il tedio di una ricca dama annoiata ma gravissime turbe psichiche; Mathieu, vittima dell’affetto ossessivo e morboso della madre, vive nel lusso precario e criminale degli investimenti ad altissimo rischio e Mathilde, quando si degna di comparire tra le mura domestiche, ha il viso scavato della ragazza interrotta.

“Non poter distogliere sua figlia dal loro mondo è più di una disfatta, è un fallimento. Il suo mondo non è più abbastanza vasto da contenerla, da consentirle di starci bene. Del resto non è un problema di geografia, né di estensione né di superficie. Per Mathieu vale lo stesso. Non capisce ciò che li smuove, ciò che li anima, ciò che capta la loro attenzione e la loro energia, non ha la sensazione che suo figlio e sua figlia abbiano accesso a una felicità meglio configurata, più intensa.”

Il punto di svolta – o meglio, la tragedia – si capisce, è dietro l’angolo. Solo questo, qui, si può dire: saranno i figli ad aprire la porta al buio, con quel misto di ingenuità, entusiasmo, buonafede, sindrome di onnipotenza, svalutazione del pericolo propri di certa giovane età adulta. E toccherà a François, dottore all’antica che del ruolo di genitore e di chirurgo ha fatto religione, giuramento di Ippocrate compreso, farsi carico di questa tenebra spaventosa.

“(…) è come una separazione di mondi, quello del padre pesantemente appoggiato su un passato che lo guida, quello del figlio ampiamente aperto su un futuro che lo rende privo di limiti e probabilmente lo esalta. François dubita che possano ancora coesistere nella stessa storia.”

È complicato raccontare pagine che per come sono scritte rasentano la perfezione. Non per nulla è proprio con “La tentazione”, romanzo vincitore del prestigioso Prix Médicis 2019, che Luc Lang, professore d’estetica all’École nationale supérieure d’arts de Paris-Cergy e autore di altri undici romanzi, entra di diritto nella lista degli scrittori contemporanei francesi più influenti. Perfezione della struttura prima di tutto, costruita da episodi incatenati l’uno all’altro (l’arco temporale della narrazione è brevissimo, la vicenda occupa unicamente un paio di giornate a cavallo delle festività di inizio Novembre) di cui il successivo approfondisce il precedente. Nei dialoghi sospesi, concreti, spolpati da qualsiasi orpello. Nelle parti descrittive, all’interno delle quali – un new nature writing elegantissimo – lo splendore della montagna, delle sue asprezze autunnali, degli animali magnifici che la abitano è disegnato per mezzo di un linguaggio tecnico la cui accuratezza che non inficia, anzi accresce, lo stupore per terre ancora incontaminate. Nella capacità di penetrazione psicologica che l’autore mostra verso i suoi personaggi, in particolare verso François per il quale Lang sembra nutrire un affetto pieno di compassione.

“L’entrata nel mondo adulto, François lo ha notato, è così netta che segna ogni volta, senza le difficoltà di un’esitazione, la diaspora dei figli. Eppure hanno condiviso giochi e sogni, i legami sembravano saldati per sempre, ma niente resiste all’euforia del sacramento, diventare adulti, diventare, ci si immagina, liberi e potenti, perlomeno il tempo di scontrarsi con i limiti del possibile, facendo allora recuperare l’infanzia in ognuno come un desiderio perduto dei confini in cui si vivevano come reali le avventure più folli.”

Il ribaltamento che Lang opera nei confronti del romanzo familiare è notevole, tanto più perché questo processo di analisi si dimostra profondamente distante dalla concezione che ancora appartiene a una parte consistente della nostra narrativa contemporanea. “La tentazione” infatti non tratta di una redenzione a opera delle nuove generazioni alla maniera, mutuata in parte dal romanzo americano, della drammatica ma gloriosa e consapevole risalita successiva al tragico crollo; al contrario racconta di una discesa agli inferi che aspramente condanna senza appello quelle mollezze generazionali che noi genitori occidentali fingiamo spesso di ignorare. “La tentazione” è cuore di tenebra che ci conduce dritti al crepuscolo del padre nella tragicità del proprio fallimento. La fortuna di queste pagine sta, di fatto, nella terrificante banalità delle domande proposte: cosa potremmo essere ancora in grado di insegnare ai nostri figli, nel momento in cui il patto educativo all’interno della famiglia si spezza, nonostante il patto educativo si sia spezzato? Cosa non ha funzionato nel nostro sistema di trasmissione del sapere? L’insuccesso dei figli è – comunque e sempre – attribuibile e conseguente alla nostra insufficienza?

“Ripercorre la sua vita passata dalla nascita dei figli, cerca di individuare qua e là delle mancanze, degli errori che ha fatto, una scena forte, traumatica, che potrebbe aver dato origine a una traiettoria, l’inizio di una storia che potrebbe ricondurre al presente di Mathilde e Mathieu.”

“La tentazione” – il significato del titolo non si può spiegare, verrà da sé leggendo pagina dopo pagina, e molto in là con la lettura, non per tramite di una una rivelazione né di una spiegazione ma attraverso un processo di presa di coscienza in cui il lettore verrà attivamente coinvolto – è un’opera di gran pregio perché tramite una scrittura affilatissima, fanaticamente spoglia, tipica d’oltralpe (niente di troppo, niente di troppo poco, tutto in equilibrio, un’armonia senza sforzo – solo all’apparenza) è in grado di riferirsi a un ricco substrato contenutistico che caratterizza, di base, il genere noir. Genere che spesso, ormai, si ritrova bistrattato dalla spettacolarizzazione della trama, dalla resa cinematografica del dialogo, dall’ambientazione esotica, da una scansione temporale infelice – e no, di tutte queste violenze, qui, non troverete traccia.

“C’è ovviamente un corpo, un volto, una persona che sta in piedi, ma il padre ha perso il sentiero che conduceva al figlio, di cui nutriva la storia, partecipando con fervore al tempo aperto di un Mathieu incompiuto. Oggi c’è un confronto brutale con un individuo senza un legame speciale.”

“Tre millimetri al giorno”, di Richard Matheson (trad. Eladia Rossetto)

“Il ragno si avventò contro di lui sulla sabbia in ombra, agitando freneticamente le zampe filiformi. Aveva un corpo nero, lucido, a forma d’uovo, che tremolava per la furia dell’assalto e si lasciava dietro sulle dune immobili una scia di graffi che smuovevano rivoletti di sabbia,”

A leggere Matheson la sera, poi di notte si dorme poco. Non che non si sapesse, certo, eppure va sempre ribadito sia mai che qualche incauto tenti la strada della leggerezza alla ma che sarà mai.

Con questa lugubre fiaba della buonanotte Matheson punta a raccontare ben altro oltre alla conturbante storia di un poveretto che, contaminato da una sostanza radioattiva, a un certo punto comincia, inesorabilmente, a rimpicciolirsi. A parte la genialità dell’idea, i temi che l’acutissimo Matheson mette sul piatto con “The Shrinking man” sono parecchi e riguardano due questioni fondamentali: il rapporto dell’uomo con se stesso e nei confronti della collettività.

“Scott pensò all’assicurazione sulla vita, che aveva avuto intenzione di fare. Rientrava nei suoi progetti, quando si erano trasferiti all’Est. Prima il lavoro alle dipendenze del fratello, poi la richiesta di un prestito governativo con la speranza di diventare socio nell’impresa di Marty. Avrebbe avuto l’assicurazione sulla vita, l’assistenza medica, un conto in banca, una macchina decente, bei vestiti, finalmente una casa. Un recinto di sicurezza e di solidità attorno a sé e ai suoi. E ora gli capitava questo guaio, che buttava all’aria tutti i piani, e minacciava di annientarli.”

Scott Carey rappresenta da una parte il tipico self made man americano del boom post-bellico, il wasp duro e puro, il maschio-etero-cis per il quale nulla conta a parte le… dimensioni (della casa, della macchina, del portafogli, del conto in banca e sì, anche di quello). Per far fortuna e ottenere l’agognato upgrade sociale Carey raccoglie baracca e burattini, moglie e figlioletta e si trasferisce “all’Est”, per impiegarsi nella ditta del fratello il quale, apparentemente già arrivato, promette guadagni consistenti e una vita che dovrebbe infine corrispondere all’immaginario collettivo del momento. Peccato che, giusto qualche settimana più tardi, durante una gita in barca Carey venga investito da un’onda anomala pregna di sostanze tossiche che in qualche modo alterano il suo codice genetico.

Scott Carey però è anche un survivor. Reduce dalla guerra – contesto che esplicitamente viene solo accennato ma che è ben presente in tutto il sottotesto – è un individuo che di fatto riesce a re-inserirsi nella società civile soltanto a prezzo del tormento: l’adeguamento a un canone imposto (che alla fine per Matheson è auto-imposto, e il punto sta tutto qui) gli procura un disagio profondo precedente alla “trasformazione”, che viene poi da essa esacerbato, nella continua tensione tra il desiderio spasmodico di tornare al presente e la feroce consapevolezza che quel presente altro non rappresenta se non un passato che il protagonista, per quanti sforzi faccia, non sarà in grado di recuperare. Schiacciato tra il senso di colpa del sopravvissuto, l’incapacità di affrontarlo, il bagaglio culturale di valori e stili di vita che si fanno, più che àncore di salvezza, zaino di sassi a pesar sulla schiena (pietre da cui, ci sussurra Matheson, non sarebbe nemmeno così impossibile liberarsi) il protagonista affronta la realtà del vivere quotidiano armato di strumenti spuntati, inutili allo scopo.

Di tutto questo sono un esempio le difficoltà nei rapporti interpersonali (per esempio con i medici, branco di imbecilli che secondo Carey non si sforzano a sufficienza per comprendere la natura del male che lo affligge, o col fratello – che, diciamolo, si rivela non certo un campione di intelligenza né di altruismo – verso cui occorre mostrarsi in ogni modo deferenti) oppure nella relazione con la moglie “Lou” all’interno di una dinamica matrimoniale in cui i ruoli, spartiti a dovere sino al momento della “contaminazione”, successivamente al fattaccio si trovano a ribaltarsi tragi(comi)camente con un uomo maturo che via via acquista la statura e la voce prima di un trentenne, poi di un boy scout in età di brufoli e infine di un pupazzetto relegato in una casa di bambole acquistata al Toy’s Center e con una donna che deve di necessità dismettere il ruolo di massaia-consorte e vestire i panni di colei che avrà il compito di tirare avanti la casa, la figlia e il conto in banca (spoiler: non ci riuscirà). Matheson dedica spazio, non tanto per la quantità di pagine ma per l’intensità di alcune scene, al rapporto di Carey con la figlioletta, descrivendo in maniera davvero illuminata il meccanismo affettivo-educativo tipico del tempo, basato non su amorevolezza sincera, empatia e contatto fisico ma su un rapporto che si nutre di autoritarismo, rigore, estraneità e che una volta cominciata la “trasformazione” comincia a scricchiolare nella rivelazione del re nudo che perde l’autorevolezza nei riguardi della figlia per il semplice fatto che essa si basava soltanto sulle “dimensioni” intimidatorie della figura paterna.

“Scott si trasferì nella casa giocattolo, ma i mobili non erano progettati per essere comodi, perché alle bambole la comodità non serve.”

A causa del processo di rimpicciolimento Scott Carey si trova ad affrontare due aspetti del quotidiano che nell’epica americana dell’uomo padrone del proprio destino costituivano un tabù: il dover dipendere dagli altri in quanto portatori di handicap e il modo in cui gli adulti interpreta(vano) il microcosmo familiare e il rapporto con i bambini.

” – È per il tuo bene.

Ormai usava quella frase in ogni occasione. La pronunciava con un tono disperatamente paziente, come se non trovasse niente di meglio da dire.”

A parte Lou, che si trasforma da moglie amorevole, devota e francamente asessuata a madre premurosa – e infastidita – a mano a mano che il marito rimpicciolisce, è in alcuni episodi magistrali che Matheson rende esplicita questa interpretazione del reale: quello in cui un Carey, alto poco più di un liceale e rimasto in panne con l’automobile, chiede aiuto a un passante da cui riceve delle molestie e quello in cui, ancora più piccolo di statura, viene bullizzato da un gruppo di teenagers.

Si è parlato di “The shrinking man” come di un libro che, in forma di metafora, critica aspramente il ruolo del maschio americano nel secondo dopoguerra; non mi pare tuttavia che le figure femminili ne escano viceversa al meglio: incapaci di adattarsi ai tempi che cambiano, ancorate alla ricerca di un benessere materiale che, come si vede, alla fin fine non garantisce una serenità duratura e a dei cliché prebellici che vengono utilizzati come parametro di riferimento per la costruzione di un presente che, di fatto, è irrecuperabile. In questo senso “Tre millimetri al giorno” è piuttosto una profetica critica feroce a tutto il sistema-famiglia e a quella struttura economico-sociale che, come abbiamo avuto modo di accorgerci negli ultimi, recenti momenti della storia americana, ha prodotto il collasso della stessa.

In questo senso “Tre millimetri al giorno” porta con sé i segni del tempo, in maniera specifica nella simbologia del maschio che sublima la propria esistenza attraverso la lotta: qui rappresentata dal ragno velenoso che Carey si trova a dover affrontare, chiuso nel seminterrato di casa dal quale ormai, date le dimensioni microscopiche, è impossibile fuggire. Come il più tipico supereroe americano, Scott Carey combatte contro l’alieno: peccato che l’alieno non sia altro che un insignificante e innocuo insetto e che il motivo del combattere sia conseguenza di un errore umano per quanto, probabilmente, frutto in certa misura anche del caso.

Note: non possedevo “The Shrinking man” sicché l’ho acquistato nella nuova edizione Oscar Fantastica di Mondadori con la traduzione di Eladia Rossetto. Si rivela un bell’oggetto nelle dimensioni e nella carta della sovraccoperta. L’illustrazione di copertina è di Andrea Cavallini (aka Dr. Bestia) e possiede un gusto retrò evocativo e affascinante. A livello di editing, qualche controllo in più sui refusi non avrebbe guastato.

“L’arte di legare le persone”, di Paolo Milone

Paolo Milone (1954) è psichiatra; comincia la carriera presso un Centro di salute mentale e poi, dal 1988 al 2016, esercita la professione nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Galliera di Genova. Ha scritto “L’arte di legare le persone”, una raccolta di componimenti poetici in verso libero che raccontano, per piccole sequenze, tanti episodi della sua attività professionale.

“Poetica è la nostalgia, impoetica la depressione.

Poetica è la fantasia, impoetico è il delirio.

Poetico è il timore, impoetica l’ansia.

Poetico è il desiderio, impoetica la dipendenza.

La poesia non frequenta la Psichiatria, si ferma sulla soglia.”

Qui, Milone ci racconta che “L’arte di legare le persone” è tante cose – prima di tutto è l’ossimoro del dire in poesia che la malattia mentale non ha nulla di poetico. E che se si ravvede qualcosa di poetico lì, nel luogo in cui supponiamo viva e si nutra la bestia, beh allora quel che stiamo guardando è tutto fuorché malattia mentale.

“Se non hai mai provato il dolore psichiatrico,

non dire che non esiste.

Ringrazia il Signore e taci.”

Qui, invece, ci spiega bene il motivo per cui ad alcuni del mestiere delle lettere – e della psiche – queste pagine proprio non siano andate giù. “L’arte di legare le persone” non è un romanzo in poesia, non è Spoon River, non è un memoir strappalacrime, non è una collezione di vite fragili sulle quali poter adoperare il nostro migliore e più redditizio guilty pleasure. Queste pagine non sono altro (e ci piacerebbe fossero altro, ma no) che un resoconto molto lucido di come noi – noi quelli sani – intendiamo la malattia mentale e di come essa sia stata, sempre da parte nostra, quella dei sani, negata (nel nome di un “nessuno è normale” che di danni ne ha fatti parecchi) o, all’inverso, esaltata alla maniera di un dono degli dei grazie al quale l’essere umano, dallo scrittore alla pittrice, si trova in grado di esprimere se stesso come mai in alcun’altra maniera.

Con questa raccolta di piccoli e piccolissimi testi poetici (Milone li chiama “frammenti”, “mescolati, accostati per assonanza e per contrasto”) in verso libero, suddivisa in dieci sezioni ciascuna delle quali rappresenta un ambito di intervento, Milone racconta l’intero arco temporale della sua vita come psichiatra d’urgenza.

“E dopo tanti anni mi ritrovo ancora qui,

alle prese col dolore inutile.

Dolore che non insegna, non rigenera, non rinnova.

Non dolore di crescita ma di prigione.

Non dolore di potatura ma di morte.

Dolore che non finisce per guarigione, non finisce per necrosi e amputazione: non finisce mai.

Sia benedetto mille volte il dolore utile, sia maledetto mille volte il dolore inutile.”

Dai TSO della vita in reparto (“Reparto 77”) ai colloqui in libera professione (“La stanza del glicine”), dal dialogo con la giovane paziente Lucrezia alla cronaca dei recuperi per strada tra tossici e barboni, prostitute e transessuali, fino al capitolo struggente sulla difficoltà di separare l’uomo dal medico – la vita privata da quella professionale – Milone traccia le coordinate per un viaggio sempre più buio, verso quel cuore di tenebra che è il rapporto con “la signora”, quella che nella psichiatria arriva quasi sempre per mano del suicidio.

“Da parte mia, non ho bisogno di tante finezze:

quando la notte cammino nei corridoi dell’ospedale,

incrocio la Morte che mostra la faccia.

A quell’ora non procede rasente i muri, fa i suoi giri con passo sicuro.”

Gli acidi delle lettere hanno pensato – con giusta contezza – che Milone sia stato purtroppo in grado di segnare un prima e un poi: una ferita di crepaccio letterario che finalmente, al di là della poetica della psiche addolorata che tanto ha venduto negli ultimi anni, attribuisce alla malattia mentale la dignità dell’esistere. Gli acidi della psico-qualcosa hanno pensato – con giusta contezza – che Milone sia stato purtroppo in grado di svelare il grande inghippo della nostra contemporaneità: che “la psicoterapia trova un colpevole, la psichiatria ti fa restare vivo”. Con buona pace di chi non crede al potere salvifico di uno psicofarmaco o di chi è contrario ai metodi contenitivi (pure Milone lo è ma questo s’è fatto finta di dimenticarlo, in giro), o di chi salta sulla sedia quando gli si dice che (ndr: quando Milone dice che-) i manicomi hanno chiuso grazie allo sviluppo della farmacologia e per motivi politici più che per reale e concreta utilità sanitaria (ndr2: del fatto che il matto da allora in poi, salvo eccezioni, realtà virtuose o semplicemente situazioni favorevoli, sia stato completamente abbandonato alla cura domiciliare di genitori, fratelli, sorelle, mogli mariti e perfino figli – sempre più sfiniti e sempre più anziani – nelle narrazioni mainstream che tessono le lodi del manicomio chiuso non si fa cenno e invece oh sì, quante ne racconta Milone in proposito).

Il capitolo ottavo, “Legare le persone“, è il nodo incriminato e viene per ultimo perché al fine di introdurlo correttamente tutto il resto che vien prima è necessario a senso metodologico; necessario per comprendere che a essere accettata deve essere “la persona, non la malattia”, che il lavoro in psichiatria è un mestiere di equipe all’interno della quale il medico deve imparare a ricoprire un ruolo finanche secondario, che il coma farmacologico non è la soluzione, che lo stremo del “convincimento infinito”, in quel luogo della mente in cui il dire non ha più significato (sull’inaccessibilità al malato psichiatrico tramite il linguaggio c’è tutto un capitolo, “La parola è paglia”), non è sostenibile, né dal paziente né dal medico e che, udite udite, “Il metodo più semplice per non legare nessuno, è non ricoverare pazienti da legare”, trasformando la Psichiatria in Psicologia.

“Ma la violenza e la libertà sono tematiche psicologiche,

non psichiatriche.

Il paziente psichiatrico in acuto non concepisce il significato di violenza e libertà.

Per lui è più rilevante la tematica esistere o non esistere.

(…)”

“(…) dire a un paziente psichiatrico

che la malattia mentale non esiste

è come dire al paziente che quello che prova non esiste,

che lui non esiste.”

Qui è quando Milone ci dice che se al principio siamo partiti a sfogliare queste pagine col dir secco e sogghignato ecco vedi, forse questo è mio cugino, questa può essere la mia capa, o mio padre – bene, restiamo accorti, perché come nelle migliori tragedie s’inizia col ridere e si finisce a piangere: qui si arriva al pensare che questo, ecco, potrei essere io, e speriamo di no. Speriamo di no.

“Solenoide”, di Mircea Cărtărescu (trad. Bruno Mazzoni)

Avvertenza: il post che segue ha un impianto stilistico e argomentativo un poco diverso dal solito. Si tratta infatti di un consiglio di lettura che avevo preparato per la pubblicazione on-line su un sito di recensioni molto più gagliardo del blog di ADC. Poi però, a seguito di alcune difficoltà sulle tempistiche e sullo spazio a disposizione, non è stato possibile procedere. Sicché lo lascio qui – emendato di sfumature marginali – a uso e consumo di chi abbia voglia di leggere queste righe minime.

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Malgrado la mole e l’argomento non proprio spensierato, mi trovo a consigliare la lettura di “Solenoide”. A giustificazione potrei raccontarvi di Mircea Cărtărescu, pluripremiato autore romeno in odore di Nobel, della sua penna che riporta a Bolaño e Kafka e di questo “Solenoide” quale “iper-libro capolavoro” che in 937 pagine rappresenta la somma di un modo di fare letteratura specifico, viscerale, mitteleuropeo ai confini dell’impero. Oppure potrei dirvi che “Solenoide” va letto perché costringe all’utilizzo del dizionario, per tutte le parole sconosciute in cui vi imbatterete.

“Solenoide” è infatti il racconto di come il linguaggio rimanga, pur nella fallibilità, strumento fondamentale per comprendere il mondo. Attraverso le vicende anonime, sublimi nella loro veridicità, di un anonimo professore di romeno all’interno di un anonimo istituto scolastico alla periferia di Bucarest, Cărtărescu ripercorre il tentativo antropico di andare oltre, alla ricerca – discesa in un cuore di tenebra – di una verità cosmica quadrimensionale che di volta in volta può assumere le sembianze di una scoperta scientifica (gli studi di Tesla sui generatori di campo antigravitazionale), di un’equazione matematica (Boole e il cognato Charles H. Hinton col suo tesseratto, nonché il collega Edwin A. Abbott con “Flatlandia”), di un’opera letteraria (una delle figlie di Boole, Ethel, autrice del romanzo “Il figlio del cardinale”, lettura obbligata nei paesi dell’est sovietico per via di una reinterpretazione marxista della vicenda ambientata nell’Italia risorgimentale), di una spinta mistica (il marito di Ethel, Wilfrid Voynich, scopritore del “manoscritto Voynich”; i trattati sull’onirico di Vaschide).

La narrazione bucarestina della Romania satellite, che abbraccia il trentennio 1950-80 senza cedere al guilty pleasure retronostalgico, il flashback, il flusso di coscienza e il punto di vista personale lontano dall’immedesimazione eppure collettivo ci mostrano come l’essere umano sia inevitabilmente connesso a esperienze e contesto – finanche a quelle del dolore fisico e del disagio mentale (ecco il perché del “non proprio spensierato” di cui sopra). Mi sembra veramente doveroso tornare a quel non proprio spensierato dell’inizio: “Solenoide”, infatti, ci parla – anche – di sogni, visioni, momenti dissociativi e condotte che se fossimo su “Science of stupid” sarebbero marchiate col bollino del “do not try this at home”. Quindi durante la lettura usate attenzione e distacco perché, come racconta Cărtărescu, “nessun romanzo ha mai mostrato una strada da seguire, ma assolutamente tutto viene riassorbito nell’inutile nulla della letteratura”: piuttosto, leggere grandi autori significa imparare a parlare di noi stessi, a creare margini di contestualizzazione, a conservare la memoria della Storia – di qualsiasi genere, forma o sostanza essa sia composta.

Nota: se desiderate qualche riflessione in più sui temi, lo stile e la poetica di Cărtărescu in “Solenoide” (insomma su tutto quel blabla che siete abituati a trovare qui sul blog), ho l’ardire di rimandarvi alle storie Instagram (@appuntidicartaadc) – è tutto nei circoletti in evidenza.

“L’arte del buon uccidere”, di Piersandro Pallavicini

“Allora ci troviamo e facciamo aperitivo…” geme indomito il cretino.

Scaraventatelo sotto un tram.

Prendiamo un aperitivo” gli urlerete mentre le ruote d’acciaio lo stritoleranno. “Beviamo un aperitivo. Facciamo aperitivo, bestia, mai!”

Poi tornate in voi leggendo un qualunque libro di Arbasino. (pag104)

“L’arte del buon uccidere” è un’ode accurata al principio della giusta misura.

Si tratta di ventun capitoletti – ognuno dedicato al (o alla) rompiscatole di turno e al modo più conveniente per procedere con l’eliminazione fisica del soggetto in questione – intervallati da ancor più minuscoli e graffianti “raptus”, in cui più che alla genialità della maniera si bada alla fulmineità dell’ammazzamento.

Una gioia di risate caustiche e finissime in cui ce n’è per tutti: dal vicino saputone e odiatore seriale alla coetanea ex sessantottina che ora, regina del Lamento Continuo (“LC”!), brontola senza sosta perché il capo le fa saltare la mezz’ora del pranzo (proprio a lei, che ha trent’anni in azienda), dalle telefonate chilometriche della signora extracomunitaria in corriera – col viva-voce sempre inserito a manetta – al fattorino sudamericano col quale il confronto verbale risulta impossibile per via dell’irrimediabile discordanza degli idiomi.

Attraverso queste brevi storielle P. Pallavicini rivendica l’importanza della risata, uno spazio mi vien da dire sacro in cui il comico e l’ironico – anzi l’autoironico – quando rispettosi della forma e dell’equilibrio diventano uno dei modi speciali in cui gli esseri umani si rapportano tra loro.

“D’altronde la caratteristica fondante del Rigor Mortis, oltre alla patologica incapacità di rendersi conto di quando è ora di congedarsi, è una pronunciata ipocondria e, si sa, sono i maschi, tra i due sessi, a tenere alta la bandiera dell’autodiagnosi paranoide.” (pag111)

Saltano le riflessioni sulla fluidità di genere, in un testo in cui maschi e femmine sono tali proprio per caratteristiche si direbbero cromosomiche, senza paura di elencarle. Saltano le dinamiche del politically correct verso stranieri e vecchietti. Eppure quel che fa la differenza sta proprio lì: nel momento in cui, leggendo queste pagine, non vien fatta la tentazione di pensare ad altri (“Ecco zia Domitilla! Vedi, quello stronzo del mio capo! Uh, questo è proprio tuo fratello Giancarlo…”) ma al contrario scatta dirompente il panico della feroce autocritica (“Oddio, sarò mica io, la fissata del wi-fi che brandendo il cellulare, avvolta nel caftano bianco, s’incazza a lunghe falcate sabbiose con tutti quelli che c’hanno l’hotspot attivo sotto l’ombrellone?” – Risposta: sì, è ADC: se mi incontrate così, sulle spiagge di Jesolo Beach, abbattetemi).

Questo punto, quel che distingue la crassa risata da una seria riflessione sul comico che non può mai scindersi dall’autocritica è, dicevamo, quel che fa la differenza. In un mondo in cui vince chi urla di più, chi la spara più grossa, chi si secca per primo, chi s’impermalosisce per primo (anche per procura), Piersandro Pallavicini ci mostra ancora una volta come sia possibile, attraverso il rigore della forma in cui ci si adira (che è di fatto il contrario della sudditanza), essere liberi di esprimersi anche nelle proprie idiosincrasie: avendo ben cura di evitare tutto ciò che è troppo.

“Prima di compiere il sacrosanto benché poco misericordioso atto, occorre studiare a fondo tipologia e psicologia del rompiscatole che ci tormenta, per poi procedere alla sua eliminazione con grazia e intelligenza, utilizzando il metodo più consono.” (pag8)

La pena per contrappasso inflitta alle vittime prende quindi le fattezze di un omicidio rituale. Un luogo in cui l’immaginare non si fa certo realtà dei fatti ma al contrario argine: un what if che ci spinge a pensare non tanto al cosa potrei fare a chi quanto, di converso, cosa succederebbe se quello ammazzato fossi io.

“Quelli che, invece, all’inizio dell’epidemia prendevano per i fondelli chi si preoccupava ed erano tutto un ‘mannò, è solo un’influenza un po’ più fortina’. Chiudeteli in una gabbia con una tigre. Se ne lamenteranno, spaventati. Voi ditegli così: ‘Mannò, è solo un gatto un po’ più grossino’.” (pag164)

Nota. Sono fortunata: ho amiche speciali che sanno regalarmi proprio quelle pagine che – loro lo sanno sempre – mi faranno contenta.