"La congiura", di Jaan Kross

Jaan Kross (Tallin, 1920-2007)una lunga carriera di professore universitario e scrittore candidato più volte al premio Nobel, è stato il più importante e riconosciuto autore estone dell’epoca contemporanea. 
Nel 1988 dà alle stampe una raccolta di racconti dal titolo “Il giorno della vista ritrovata” che comprende, tra le altre, le tre narrazioni contenute in questo volumetto (“La ferita”, “La grammatica di Stahl” e, appunto, “La congiura”).

Tre testi, scritti tra il 1979 e il 1980, che non sono mai stati pubblicati in Italia e che Iperborea ha proposto a inizio anno in traduzione a firma Giorgio Pieretto, curatore anche della ricchissima postfazione al volume. 
Uno dei primi volumi, tra l’altro, a essere presentati al pubblico nella rinnovata veste grafica annunciata dalla casa editrice milanese proprio a gennaio 2015. Scelta intelligente questa di Iperborea, che non ha mancato di ribadire ancora una volta, di fronte ai propri estimatori, l’impegno nel proporre autori significativi e opere di chiara qualità letteraria

In questo caso la selezione operata dall’editore nel definire il corpus dei testi rende evidente l’intento di offrire tre narrazioni accomunate dal medesimo fil rouge: mostrare le linee tematiche e stilistiche che hanno sempre caratterizzato la tecnica di questo autore, pressoché sconosciuto in Italia.

Dell‘Estonia prebellica ci parla accuratamente Pieretto, spaziando dall’identità culturale sempre sotto assedio, per parte dell’Ovest come per l’Est, alle questioni politiche instabili e precarie, tra ingerenze staliniste e avidità nazional-socialiste:

“Stanziati sulle sponde del Mar Baltico, sul limes fra mondo germanico e mondo slavo, cioè tra due grandi protagonisti della storia europea, spesso antagonisti, gli estoni hanno alle spalle lunghi secoli di dipendenza. Con un territorio occupato di volta in volta da danesi, cavalieri teutonici, polacchi, svedesi, russi e sovietici, gli estoni sono sopravvissuti alle dominazioni grazie al senso, molto radicato, della propria lingua, parlata oggi da non oltre un milione di persone, e delle proprie tradizioni. Nei racconti di Jaan Kross rivivono, quasi giorno dopo giorno, e dall’interno, due decenni di storia estone. Storia moderna” (pp173-174)

E’ in questo clima politico e sociale che si muove l’alter ego letterario dell’autore, Peeter Mirk
Studente universitario nel primo racconto (“La ferita”), si trova a dover fare i conti con il rimpatrio della popolazione di origine tedesca voluto da Hitler nel 1939; esodo di massa – più o meno volontario – che segna non soltanto l’inizio della diaspora per la popolazione estone ma anche la fine delle illusioni e dell’innocenza del giovane Peeter, macchiata irrimediabilmente da un accadimento personale mero frutto, come quasi tutto quello che accade in guerra e che marca la differenza tra sopravvissuti e vittime, del caso e delle coincidenze fortuite. 
Scrittore dissidente in fuga nella seconda narrazione ambientata nel 1944 (“La grammatica di Stahl”), Peeter è costretto alla macchia a causa di un pamphlet ancora inedito ma conosciuto nella cerchia degli amici universitari, contenente veementi invettive contro il regime nazista. Lo sguardo dell’autore si allarga fino a comprendere, per la prima volta, il microcosmo della prigionia, l’assurdità della burocrazia, il meccanismo della delazione e ancora, di nuovo, sempre più prepotente, il ruolo del caso e della coincidenza. 
Infine, con “La congiura”, assistiamo alle vicende di un Peeter ormai adulto, prigioniero politico del carcere di Tallin a guerra conclusa (la medesima prigione che lo ha visto ospite due anni prima – come realmente accaduto all’autore, che prima conosce il carcere per mano dei Tedeschi e poi nei gulag siberiani) e protagonista di una vicenda grottesca tanto amara quanto banale – uno scherzo goliardico a un compagno di cella – anch’essa frutto più del caso che di una vera e propria premeditazione. 


I testi di “La congiura”, che quindi vanno a formare un trittico indivisibile, evidenziano con naturalezza e sistematicità uno dei temi cardine di tutta l’opera di Kross: l’assenza assoluta di una dicotomia, netta e decisa, tra bene e male
Da questa consapevolezza viene la particolare armonia con la quale Kross è solito affrontare la drammaticità dei temi che tratta in tutte le sue opere: di fronte alla necessità, da parte dell’uomo, di misurarsi con eventi straordinari e incomprensibili, l’unico mezzo attraverso cui poter analizzare il reale senza perdersi né in un inutile vittimismo e neppure in una sterile invettiva è lo strumento dell’ironia
Un umorismo sottile e arguto, mai abbozzato, che riempie il testo e scivola tra le pagine evitando abilmente derisioni e sarcasmi. 
Una finezza di pensiero che si accompagna a scelte stilistiche di preciso taglio poetico, nel lessico, nella sintassi e nell’organizzazione della materia e che dà ampio spazio alle parti descrittive, ispirate ed evocative, senza tralasciare il dialogo il cui utilizzo equilibrato non è mai ridondante ma sempre necessario e sufficiente all’economia dell’opera.

“E ora eccomi al Kultas a guardare Karl e, oltre le sue spalle, il giovanissimo Jossif Schagal, che si sistemava il violino sotto il mento preparandosi al programma musicale del pomeriggio e rispondeva a ognuno dei tanti sorrisi che gli rivolgevano i clienti intorno. I più sorridevano perché la musica di quel ragazzo era uno dei pochi fili rimasti intatti nella tela lacerata della quotidianità. Un paio perché di diceva fosse il nipote del grande Marc Chagall” (“La ferita”, p25)

“(…) comperai per Flora tre rose pallide. Delle rose – perché avevamo sì tutta la vita davanti, ma quello poteva essere il nostro ultimo incontro. Delle rose pallide – perché un colore più vivace sarebbe stata una bugia” (Ibid. p30)

“Abiti da sera si dirigevano tranquillamente verso il teatro. Le vetrine dei negozi della galleria Kalev luccicavano. Una fiumana di gente entrava nel teatro dei Lavoratori. (…) Le finestre della sinagoga erano illuminate. Il pubblico del cinema Modern si riversava in strada dopo la fine della proiezione. Visi raggianti, sorridenti, cupi, spenti, indifferenti… Sentivo appieno lo stato d’animo e il vero dilemma di quei giorni (fra quelli che gioivano segretamente della salvezza e quelli che si sentivano a bordo di una nave che affondava, dove stava la verità?) accartocciarsi dentro di me come un foglio di giornale, in cui era avvolta, come una pietra, la mia responsablità” (Ibid.p49)

“(…) c’era per altro un pacifico vecchietto prossimo agli ottanta che per trent’anni era stato sindaco del suo villaggio nella provincia di Parnumaa ed era poi entrato negli annali non scritti del carcere con le ultime parole pronunciate in tribunale: <>” (“La congiura”, p138)

Buona lettura 🙂

(…in attesa de “Il pazzo dello Zar”, l’opera più conosciuta di Jaan Kross – pubblicata in Italia anni fa da Garzanti, con prefazione di Claudio Magris e ormai introvabile – che uscirà a gennaio 2016 in nuova edizione, sempre per Iperborea)

"La sesta estinzione", di Elizabeth Kolbert

Dovete sapere che il Pulitzer per la non-fiction (ossia la categoria che raggruppa quei “distinguished and appropriately documented book[s] of nonfiction by an American author that [are] not eligible for consideration in any other category”) è stato assegnato quest’anno a Elizabeth KolbertGiornalista statunitense, nata nel Bronx (1961) e laureata a Yale, per anni ha collaborato con il New York Times e dal 1999 è firma stabile del The New Yorker per il quale scrive – ormai con una certa autorevolezza riconosciuta anche a livello internazionale – di ecologia e temi ambientali

Salita alla ribalta nel 2008 pubblicando “Field Notes from a Catastrophe: Man, Nature, and Climate Change” (Bloomsbury 2006), in “The Sixth Extinction” la Kolbert raccoglie in volume i reportage sul campo da lei stessa effettuati nel corso degli ultimi cinque anni. Il filo rosso che accomuna tutte le spedizioni a cui la giornalista decide di aggregarsi, dalla foresta Amazzonica all’Australia, dalla Barriera Corallina fino all’Italia, centinaia di chilometri percorsi a seguito di scienziati, naturalisti, antropologi e colleghi columnists impegnati in vari progetti di caratura internazionale, è l’intenzione di approfondire gli esiti delle ultime ricerche scientifiche relative ai cambiamenti climatici e al ruolo che, nel loro sviluppo quanto mai rapido, ricopre la presenza umana sul pianeta Terra. Un’ingerenza “infestante”, quasi mai pacifica, che ha modificato radicalmente i delicati equilibri che da milioni di anni regolavano, tra estinzioni lentissime e altrettanto lentissime speciazioni, la vita animale e vegetale del nostro mondo. 

Basti pensare alla rana d’oro di El Valle de Anton, Panama, specie endemica dell’area, simbolo di fortuna, stampata addirittura sui biglietti della lotteria, estintasi in natura nel giro di dieci anni (ora è presenza, sempre a rischio, soltanto in cattività) a causa del Batrachochytrium dendrobatidis, un fungo introdotto nelle Americhe probabilmente attorno agli anni ’60 del Novecento dalle rane africane, che venivano importate perché utilizzate – udite udite – nei test di gravidanza (umani) – (Cap.1).

Oppure al rinoceronte di Sumatra, che ha camminato sulla Terra, indisturbato e pacifico, giusto per quei banali venti milioni di anni e che oggi sopravvive solo nelle riserve, ridotto a poche centinaia di esemplari a seguito del disboscamento del suo habitat naturale cominciato alla fine dell’Ottocento, e che riesce a riprodursi in cattività solo grazie alla devozione di un coraggioso manipolo di studiosi (Cap. 11). 
Naturalmente, come si può ben intuire, il problema non si limita soltanto alla scomparsa di alcune specie qui e lì ma alle reazioni a catena che nascono da queste sparizioni improvvise, sempre più frequenti e tutte originate dall’intervento umano. Ad esempio la disgregazione della barriera corallina e, in conseguenza, di tutto il suo habitat faunistico a causa dell’acidificazione degli oceani – questione che va a braccetto con l’innalzamento delle temperature (Capp. 6 e 7) – o la moria di ben 6 milioni di pipistrelli nordamericani Myotis lucifugus sterminati in pochi anni da un fungo importato dall’Europa (Cap.10, intitolato per l’appunto “La nuova Pangea”).

Elizabeth Kolbert riesce nell’impresa di costruire un’opera che, come indicato dalla giuria del premio: forces readers to consider the threat posed by human behavior to a world of astonishing diversity” grazie prima di tutto alla completezza e alla specificità della documentazione. Proprio per questo motivo il testo, solidissimo nella bibliografia e nelle fonti, risulta credibile e fortemente sconcertante mentre l‘impostazione di chiaro intento divulgativo, che comunque quasi mai (s)cade nella trappola della cronaca sensazionalistica, rende “The Sixth Extinction” una lettura accattivante e scorrevole.

Qui di seguito i twitts che hanno accompagnato questa lettura estiva e i links ai vari approfondimenti (solo alcuni tra i tanti) che la stampa nazionale ed estera ha dedicato all’argomento e che ADC ha segnalato nel corso di questi ultimi mesi. Ringrazio @NeriPozza per i retweets e per il supporto nella ricerca bibliografica e Riccardo Staglianò per la gentilezza nel segnalarmi la sua intervista all’autrice, che non ero riuscita a recuperare sul web.


Buona lettura 🙂

"Le mani della madre", di Massimo Recalcati

L’ultima opera di Massimo Recalcati ha portato con sé, come fiume in piena, una quantità non indifferente di ritorni. Plausi e giudizi venuti non solo dalla comunità scientifica ma anche a mezzo di chi, pur intendendosi poco della materia, ha voluto comunque dire la sua, dal columnist generalista agli interventi degli utenti sui forum dedicati alle cure parentali.
Sì perché se con “Cosa resta del padre” e “Il complesso di Telemaco” lo psicoanalista milanese aveva indagato il “tramonto dell’autorità simbolica del Nome del Padre” e la necessità, da parte del figlio, di una sua reinterpretazione – tenendosi in sostanza ben alla larga dalla questione del materno – con “Le mani della madre” nella tana del serpente ci si ficca consapevolmente e pure di prepotenza. 
Si capisce quindi la levata di scudi, da una parte e dall’altra (ché si sa, guai a toccare certi argomenti), tanto più per il fatto che Recalcati sceglie di offrire al lettore non un’interpretazione del materno sociologicamente rassicurante seppure di rottura, con buona pace di chi da questo saggio si aspettava l’ordinario, confortante collage di casi clinici con relativo commento, ma una serie di riflessioni aperte e declinate in chiave quasi esclusivamente psicanalitica, attraverso uno stile che di necessità si fa, specie nei punti salienti, più accademico che divulgativo. 

“Bisognerebbe non ridurre la madre a un appetito di morte, a una spinta a divorare il proprio frutto, a diventare proprietaria esclusiva e incestuosa della vita che ha messo al mondo. 

Bisognerebbe non dimenticare che il bestiario che accompagna immancabilmente la sua figura (la piovra, il coccodrillo, la chioccia, il vampiro) fornisce solo il suo lato in ombra, patologico abnorme, che non fa giustizia della sua forza positiva che oltrepassa di gran lunga quel bestiario. 

Bisognerebbe non identificare la madre con il virus di ogni malattia psichica”. (pagg.183-184) 

Chiosa Recalcati nelle conclusioni al volume. Una excusatio non petita, puntano il dito alcuni; una doverosa precisazione, rammentano altri, vòlta a evitare le solite generalizzazioni non tanto per quel che riguarda il vecchio e caro clichè della madre apprensiva e sacrificata che tutti conosciamo (o meglio, che pretendiamo di conoscere) quanto rispetto al punto saliente e più contestato del saggio:

“Alla madre dell’abnegazione si è sostituita una nuova figura della madre che potremmo definire madre narcisistica. Questa madre è figlia (legittima?) dell’ideologia della liberazione sessuale del ’68 e del ’77; è una madre che ha conosciuto su di sé, come figlia, l’artiglio sadico della madre-coccodrillo e che ha giustamente lottato per emanciparsi da una versione solo cannibalica del desiderio materno. La ricaduta di questa istanza – critica nei confronti del modello patriarcale della madre cannibalica – può però sfociare in una nuova patologia della maternità. Si tratta dell’alterazione ipermoderna della madre-coccodrillo(*)” (pagg.125-126)

Studi tassonomici a parte, Recalcati – che, va detto, con onestà intellettuale non fa mistero di alcuni suoi passati convincimenti poi disattesi dalla pratica psicoanalitica – punta, più che sulla classificazione sociologica, a dimostrare la tesi secondo cui paradossalmente ogni ordinamento troppo stretto quando si affronta la questione del materno sia foriero di interpretazioni limitanti se non decisamente deviate:

“Il problema non è correggere i comportamenti delle madri, ma verificare l’esistenza di un desiderio non-anonimo, capace di un “interesse particolareggiato” per il proprio figlio. La madre più solerte, più attenta e precisa nello svolgimento delle sue mansioni ma priva di desiderio può essere un incontro assai più nocivo di quello con una madre semplicemente assente. Le risposte della madre non sono buone perché corrispondono a comportamenti corretti o scorretti, ma in quanto espressioni del suo autentico desiderio” (pagg.77-78)  

Ciò significa, a conseguenza logica, indagare non soltanto gli aspetti più degradati della “divorazione reciproca” (pag.116) ma anche, e con il medesimo approccio critico, quelli derivati dalla “difficoltà per una donna a conciliare le esigenze della maternità con quelle della propria legittima necessità di affermazione personale e professionale” (pag.126) nonché le dinamiche che vengono a crearsi all’interno di famiglie allargate o mono-genitore (ad esempio quelle composte da madri single). 
Da qui ad affermare che Recalcati sia vittima di un’impostazione vòlta al ripristino della famiglia tradizionale asservita, si è detto anche, alla morale cattolica, tanto ce ne vuole e occorre attenersi con scrupolo al testo, evitando l’abbaglio di quegli specchietti per le allodole dai quali lo psichiatra mette in guarda il lettore – ma su cui è complicato e non necessariamente utile soprassedere.

E’ da apprezzare in Recalcati la varietà della bibliografia e degli spunti suggeriti, specie riguardo alla cinematografia: “La madre di Torino” di Gianni Bongioanni, “Changelling” di Clint Eastwood, “Anni felici” di Daniele Lucchetti, “Tacchi a spillo” di Almodovar o “Sinfonia d’autunno” di Ingmar Bergman sono soltanto alcuni dei titoli proposti dallo psichiatra quali esempi illuminanti di un certo modo, acuto e in certe pellicole addirittura rivoluzionario, di intendere la maternità.

(Dicotomia presunta tra Morante e Ferrante a parte, tirata in ballo dalla scrittrice Silvia Avallone in un articolo apparso quest’estate su La Lettura. Ferrante che, en passant, non sappiamo ancora se sia femmina o maschio, quindi c’è caso che la Avallone abbia pure preso un bel granchio quando sostiene la grandezza dell’autrice della Quadrilogia nel descrivere la dimensione del materno [oppure lei SA qualcosa che noi non sappiamo], supponendo che – come per la Morante – sia frutto della sensibilità particolare data dall’essere donna – no che poi la domanda qui sorgerebbe spontanea: madre o non madre? Perché pare che, sempre secondo la Avallone, anche questo faccia la differenza – per altro con anni di ritardo sulla critica letteraria internazionale che già ne aveva trattato, ma appunto anni fa).

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Buona lettura 🙂 

(*) Mica tanto ipermoderna in verità, come giustamente fa osservare Giovanna Pezzuoli dalle pagine della 27ora: “(…) nemmeno mi sembra una novità dell’oggi la versione della mamma narcisistica (…). Basti ricordare la celebre canzone italiana del periodo interbellico <>” a cui mi permetto di aggiungere, solo a titolo di esempio, l’opera di Irene Némirovsky (1903-1942), che del rapporto conflittuale con la madre assente ha fatto il punto nodale di molti suoi scritti.

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"Tempi glaciali", di Fred Vargas

(…) il tizio tetro all’ingresso e, più in là, un donnone che le fece paura, poi un biondino scialbo che non le diede alcun affidamento, poi un uomo calvo che somigliava a un vecchio uccello appollaiato sul nido, nell’inutile attesa di un’ultima covata, un tale che leggeva (…) una rivista sui pesci, un grosso gatto bianco che dormiva su una fotocopiatrice, un pezzo d’uomo che sembrava pronto a sbudellare tutti quanti. (…) Un tizio panciuto, molto elegante ma un po’ informe, che trascinava i piedi, la incrociò lanciandole uno sguardo azzurro e nitido. (…)Lì riposava un essere sonnolento, giacca di tela nera scolorita e t-shirt dello stesso colore, piedi appoggiati sul tavolo” (pag.26-27)

Eccoli qui, ci sono più o meno tutti, i bislacchi membri dell’Anticrimine, 13esimo arrondissement, Parigi. Di ritorno dopo quattro anni di assenza che si sentono, pesano e forse anche prudono.
Un ritorno che ha quasi il sapore di certi malinconici addii.

A partire dalle vicende personali dell’indiscussa regina del polar, neologismo tutto francese che sta ad indicare l’opera di fiction a metà strada tra il poliziesco e il noir, che alla fine del 2014 si vede costretta a cambiare editore (ora Flammarion), vittima forse pure un po’ inconsapevole di un ordinario bisticcio tra superego del settore (Viviane Hami, che la pubblica dai suoi esordi nel 1994 e da cui non si sarebbe mai separata, come aveva sostenuto in più di un’occasione, controFrançois Samuelson, il suo agente letterario).
E che ritorna finalmente sulla questione Adamsberg, vuoi per adempiere a necessità contrattuali, vuoi per ovviare a un persistente fastidio.

Lo fa con aristocratico stile, regalandoci un’avventura livida, tanto più densa quanto più affonda le radici in un passato storico reale e concreto che ancora inquieta i sonni di molti francesi e che l’autrice, grazie alla preparazione tecnica, maneggia con accuratezza di toni e di fonti: la Rivoluzione e gli anni di Robespierre.
Quasi un colpo di coda e di orgoglio; a dire che se di ritorno occorre proprio parlare, quel che manca non è certo la grazia; a confermare il convincimento, radicato nei lettori più affezionati, che l’assenza di Adamsberg sia frutto di atto volontario e non di carenza di ispirazione.

Un morto nella vallée de Chevreuse. Interrogatori, figlio nervoso bello come una ragazza, segretario dotato di una strana memoria, un allevamento, un bruto che lo dirige, una donna che abita in una capanna nel bosco, la locanda, la ghigliottina di Luigi XVI, una torre maledetta piena di guano di corvidi, il tutto in un posto che chiamano il <> e che non figura sulla carta geografica” (pag.95)

Due suicidi che ovviamente suicidi non sono, una vecchia storia di una gita nelle terre d’Islanda finita in tragedia, un’associazione – la Società di studi sugli scritti di Robespierre – che riporta in vita “L’Incorruttibile” e tutto il suo tempo fosco per mezzo di rappresentazioni realistiche e storiograficamente ineccepibili.

L’immagine è tratta da Primordial Landscapes”, Feodor Pitcairn. Powerhousearena.com, Brooklyn, NY
[Credits: buzzfeed.com]
Volume fotografico, non ancora edito in Italia, dedicato al paesaggio islandese 
di cui @IlLibraio ha recentemente dato nota, cfr.
@PrudenzanoAnton http://www.illibraio.it/lislanda-primordiale-libro-fotografico-gallery-241070/

Di Tempi Glaciali colpisce infatti lo strumento del surreale, utilizzato fino al limite estremo concesso al genere letterario, con lo scopo di creare una dimensione di sogno, parallela ma assolutamente verosimile, all’interno della quale si muovono i protagonisti. Un mondo onirico, di evocazioni crepuscolari: dall’isoletta islandese invasa da una nebbia perenne e abitata, si dice, da uno spirito potente e bizzarro, fino alla sala delle assemblee, un teatro umido e freddo, male illuminato da candelabri pericolanti e sierosi, all’interno del quale più di settecento persone mascherate di tutto punto con marsine, cerone e parrucche assistono alla rappresentazione di uno dei più cupi periodi della storia di Francia e dell’Europa intera.
In mezzo stanno i consueti protagonisti, che percorrono lenti le strade della modernità, fuggendone gli eccessi per quanto possibile e facendo proprie al contrario – ma senza alcuna affettazione, anzi quasi soffrendone nell’intimo, come fossero ceppi di prigione – pagine di un passato che sembra portare con sé più fastidi che sollievi ma che comunque è necessario conservare: il senso di appartenenza alla propria terra, le tradizioni popolari, l’identità nazionale, la cura per gli affetti familiari e le relazioni interpersonali.
(E al diavolo il tölva, con l’abituale ironia che la Vargas non manca mai di utilizzare specie, come al solito, nelle parti dialogate).
A far da contrappunto c’è l’idea di fondo che l’autrice ha sempre rivendicato e che si mantiene limpida anche in quest’opera: la sostanziale semplicità delle intenzioni. Di certo avete sbagliato strada se cercate in Vargas delitti raccapriccianti, serial killer ultra violenti, pagine di tecnica investigativa, sangue a fiumi, anatomopatologi forensi, superpoliziotti o in alternativa detective psicologicamente disturbati con tormentate tragedie familiari alle spalle.
Una trama di stampo classico, insomma, lineare alla base e complicata non da elementi imprevedibili ma esclusivamente dalla varietà del reale che mischia le carte e spesso le confonde, ma non le cancella. Personaggi concreti che non cadono mai né nello stereotipo di genere e neppure nell’equivoco di una fissità plastificata e atemporale da serialità cinematografica.
Perché il “giallo” alla Vargas altro non è se non la celebrazione della mente umana in tutta la sua limpidezza di intenti: passione, sentimento, timori, rancore, gelosie, odio.
Un giallo a enigma la cui risoluzione non rientra nei canoni del poliziesco deduttivo e non conta tanto al fine di assicurare alla giustizia il malvagio di turno (e dimostrare ancora una volta che l’autorità di pubblica sicurezza ha svolto egregiamente il proprio ruolo di vigilanza sulla comunità) ma più che altro a sondare in primis le dinamiche della psiche, e degli inseguiti e degli inseguitori; fino a giungere a una nuova consapevolezza e a un mondo migliore, non necessariamente epurato dall’elemento negativo quanto, piuttosto, solo un po’ più cosciente della sua inevitabile presenza.
Il punto, però, è che Camille non c’è.
Chi segue Adamsberg dagli inizi sa di cosa si sta parlando. Per gli altri, non c’è nulla da fare se non iniziare a sbrogliare la matassadall’inizio e comperare “La trilogia Adamsberg”.
E’ un’assenza che nel più puro stile Vargas potrebbe passare inosservata. Eppure, siccome da Adamsberg abbiamo imparato che l’importante è dar retta ai girini che saltano quasi invisibili nelle pozzanghere, pensa che ti ripensa (non più di sette volte, però) arriviamo a capire di come sia invece concreta e importante.
Il tempo che il commissario ha passato senza Camille, quattro anni di silenzio nella penna della scrittrice e non sappiamo quanti nella realtà romanzata (una briciola di indizio c’è, sia mai che Vargas non ci prenda un po’ in giro; a voi il compito di recuperarla), restituisce un Adamsberg più cupo del solito, più svagato che mai. Ci pare anche invecchiato, un sentore di stanchezza – di arrendevolezza nei confronti di un presente sempre meno comprensibile – se non nel corpo almeno nello spirito e nei modi che addirittura vengono messi in discussione [ndr: cielo, a naso si direbbe quasi un ammutinamento] da una parte consistente del 13esimo arrondissement che oramai fatica a seguire le peregrinazioni fisiche e mentali del commissario più discusso di Parigi. Fino a che punto il duo Adasmberg-Vargas sia consapevole di tutto ciò, e fino che punto ne sia in qualche modo fautore, questo non è dato saperlo e il dubbio rimane (vedi sopra alla voce “atto volontario”).
E’ un’assenza che ci parla di mutamenti perché il “giallo alla Vargas” presuppone l’evoluzione continua dei propri protagonisti – altro punto che lo caratterizza e lo differenzia da altre opere del medesimo genere, come si è già annotato sopra. Protagonisti che la Vargas non si sente in grado di governare fino in fondo ma che, in ogni sua opera, tratta con lo stesso rispetto con cui il naturalista osserva la fauna oggetto della ricerca sul campo: da lontano, in silenzio, unicamente per quel tanto di consentito, con la deferenza che si deve a tutte le creature selvatiche di cui, per altro, non si riesce a misurare con adeguata precisione né l’intento né la prestanza fisica.
Un’assenza, insomma, che ci sussurra di inevitabili trasformazioni.
Chissà che non siano anche questi, i tempi glaciali a cui l’autrice fa riferimento nel titolo.

Tempi senza Adamsberg che per ora, alla fine di questa avventura, lasciamo lontano, perso nelle nebbie fisiche dell’Islanda e metafisiche del suo destino personale; e che ora ci fanno guardare al suo mondo con un po’ di malinconia.

Buona lettura 🙂

Soundtrack (irriverente): Family of the Year, “Hero”

[So Let me go / I don’t wanna be your hero / I don’t wanna be a big man /Just wanna fight like everyone else
Your masquerade / I don’t wanna be a part of your parade]

"Autorità", di Jeff Vandermeer

Finalmente anche la stampa italiana scopre Jeff Vandermeer. Non che all’uscita di “Annientamento” non se ne fosse parlato, si intende. Ma forse soltanto ora, a seguito del secondo volume, si inizia a comprendere anche qui nell’oltreoceano latino la reale portata del fenomeno new weird – che esiste sì, esiste no, ma pure questo dubbio fa parte del gioco – passando oltre le analisi cartografiche, indubbiamente necessarie, e i vari accostamenti (un po’ meno utili) a prodotti cinematografici simili soltanto nell’apparenza; argomento che aveva monopolizzato un po’ la critica in occasione della prima pubblicazione.
 
A firma Fabio Deotto (che ci aveva già visto lungo su Wired) è l’articolo apparso sull’ultimo numero della Lettura nel quale lo scrittore annovera la “Southern Reach Trilogy” fra gli esempi più recenti di climate-fiction, ossia quel sottogenere della sci-fi che “prende le distanze dalla fantascienza tradizionale – in alcuni casi rinunciando all’ambientazione futuristica – per concentrarsi sulle implicazioni ecologiche e sociali di scenari possibili”
In realtà Vandermeer si era distinto già tempo fa (ufficialmente, con la pubblicazione dell’antologia “The New Weird”, anno 2008) nella definizione e nella canonizzazione di un genere letterario se non nuovo quanto meno diverso dalla tradizionale narrativa fantascientifica distopica. 
Proprio per causa di questi significati sottesi al testo, che ha del paradigmatico, non si incorra nell’errore di considerare la lettura di “Authority” una quiz di facile approccio, come d’altra parte non lo era stato neppure per il primo volume, ça va sans dire. Ma qui le cose, al posto di semplificarsi, si complicano, finalmente. Ci troviamo ad affrontare infatti un secondo volume che rivela, dispiega e soprattutto rivendica il proprio ruolo di parte irrinunciabile nell’economia dell’opera. Anche questo un manifesto paradigmatico, vista la densa querelle in proposito, qui da noi passata appena in sordina.

//platform.twitter.com/widgets.jsUn’intenzione, quella della serialità, che viene rivendicata per le opere di science fiction ma non giustificata a priori, a fronte della necessità di una completa ricontestualizzazione della formula, reinterpretata sia con riguardo verso la forma (pubblicazioni a scadenza ravvicinata contro attese lunghe anni) sia verso la sostanza (no a volumi di mero raccordo).

E qui siam giunti. 
Con “Authority” vengono svelati, solo in parte naturalmente, i segreti che l’Agenzia per il controllo dell’AreaX racchiude. Il tutto attraverso lo sguardo del nuovo direttore ad interim John Rodriguez, chiamato a sostituire “la psicologa”, da anni a capo dell’Agenzia e perita misteriosamente durante la XII spedizione di cui al libro primo.
L’aspetto horror alla base della prima narrazione viene qui perfezionato. Non solo con per quanto concerne gli episodi che compongono l’opera ma anche a livello stilistico, ad esempio attraverso l’utilizzo, già accennato nel primo volume ma qui sistematico, di similitudini, metafore e altre figure retoriche di comparazione che riflettono sempre il medesimo tema sviluppato in trama: il mistero dell’insondabile, dal ruolo degli ecosistemi naturali contrapposto allo sviluppo del genere umano a quello della paranoia mentale.

“Un piccone piantato nel cervello già pervaso da un mal di testa sordo ma persistente che s’irradia da un bolo palpitante dietro il cranio. Una specie di scudo satellitare pulsante” (pag.190)

“Quando ricorrevi alle formule magiche, ai rituali, con il paleoncefalo che diceva al resto della tua persona: <>” (pag.90)

Se quel giorno fosse capitata una sciagura e la scientifica avesse tentato di ricostruire i fatti dal contenuto del loro stomaco, Cheney sarebbe passato da schizzinoso, Whitby da miaiale, Hsyu da salutista e Grace da inappetente” (pag.170)  

Come un ghirigoro di aceto balsamico sul piatto di uno chef. Come il rivolo di sangue scuro che conduce fino al cadavere in un telefilm poliziesco” (pag. 245)

Andiamo per bullet points:

Un tempo il fiume scorreva più veloce, ma gli scarti agroindustriali formavano un limo che lo rallentava, lo placava e mutava ogni forma di vita al suo interno. Sull’altra sponda, nascoste dal buio, cartiere e vecchie fabbriche in rovina continuavano a inquinare le acque freatiche. Tutto si riversava dentro mari sempre più acidi” (pag.68)

(…)stupidi lampioni finto-vittoriani dall’aspetto deliberatamente turistico, coronati da luci simili a globi pieni di nebulose uova alla coque. (…) Non era un territorio selvaggio, si trovava a comoda distanza dalla civiltà, ma era separato quel tanto da creare un confine. Era quello che volevano quasi tutti: essere vicini alla natura senza farne parte. Non volevano la spaventosa incognita di una <>. Ma nemmeno una vita artificiale e senz’anima” (pagg. 68-69)

La marea infinita di squamosi tronchi d’albero. L’odore di aghi di pino misto all’odore acre di decomposizione e al fumo di scappamento della jeep” (pag.96)

(…)i pini scuri e i tratti paludosi lasciarono posto a una specie di foresta pluviale subtropicale. (…) vide i punti interrogativi dei germogli di felce e un sorprendente nugolo di efemenotteri dalle ali nere e delicate. L’odore era cambiato, da umido e vischioso era diventato un richiamo” (pag.103)

  • Il concetto di Natura pensante e consapevole di se stessa, che si sviluppa con mezzi e fini propri, sconosciuti all’Uomo. Da qui, le riflessioni sui codici di comunicazione, dall’utilizzo del linguaggio condiviso alla spersonalizzazione individuale attraverso la cancellazione dell’identità data dal nome proprio:

La teoria è che, se puoi essere la tua funzione, le associazioni si riducono o si bloccano del tutto, impedendo anche l’accesso alla tua personalità. (…)i soggetti venivano spogliati della personalità al semplice scopo di inculcare la fedeltà e rendere più efficaci il condizionamento e l’ipnosi” (pag.96-97)

Emittente e ricevente erano ormai colonizzati da una forza esterna e non se ne accorgevano neanche” (pag.161)

Quali sussurri o grida poteva articolare all’improvviso una sezione trasversale di muschio o di corteccia di cipresso. La trama che innervava rami e foglie. Era un pensiero troppo assurdo per esprimerlo a parole. (…) <>, come aveva detto la biologa alla direttrice (…)” (pag.107)

Durante la riunione Hsyu aveva detto qualcosa a proposito della terminologia, sul fatto di darla per scontata. (…) Tornando all’idea di spogliare i membri delle spedizioni dei loro nomi: e se il carattere e altri dettagli, sommati a una mera funzione, avessero fatto emergere un quadro diverso?” (pag.114)

(…) se non quando aveva chiesto, a lei come a tutti gli altri, di chiamarlo <> anziché <> o <>” (pag.6)

Se qualcuno o qualcosa cerca di introdurre nella tua testa delle informazioni usando parole che capisci con un significato che non capisci, il problema non è solo che viaggiano su una larghezza di banda che tu non puoi ricevere. E’ ben più grave. Come dire, se il messaggio fosse un coltello e creasse il proprio significato incidendo nella carne e il destinatario fosse la tua testa e ti ficcassero continuamente la punta di quel coltello nell’orecchio…” (pag.91)

  • La riflessione sulla letteratura. Non consolatoria ma un terroir di esperienze l’una collegata all’altra, non certo un qualcosa che accade e a cui il lettore deve assistere in maniera passiva e neppure un mero strumento che l’autore può facilmente modellare a suo piacimento:

“Il termine [terroir] si riferisce alle caratteristiche di un determinato luogo: la geografia, la geologia e il clima che, uniti alle tendenze genetiche, possono dare vita a un vino sorprendente, intenso e originale. (…) si potrebbe tradurre con <>, vale a dire la somma degli effetti di un ambiente localizzato nella misura in cui incidono sulle qualità di un particolare prodotto” (pag.111)

  • Il disagio derivato dall’incapacità di interpretare l’esterno si proietta all’interno; la paranoia:

“Ti resterà comunque il dubbio. Sei sempre stato il tipo che va a spaccare il capello in quattro, anche quando non serve” (pag.202)

“Non era più sicuro di conoscere la differenza tra quello che avevano voluto fargli trovare e quello che aveva scoperto da solo” (pag.204)

“Continuava ad arrovellarsi – aveva perso delle occasioni, era rimasto al palo, aveva dato troppa importanza (…) altrimenti se ne sarebe accorto prima” (pag.264)

“Meglio essere paranoici o stupidi che rischiare” (pag.206)


Su tutto domina la pachidermica mole della Southern Reach Agency. Che se nel primo libro la nostra mente, traviata da supposizioni infondate (sì, perché Vandermeer non l’aveva proprio descritta, furbetto, se non per briciole, lasciando a noi tutta l’inutile fatica) l’aveva partorita quale frutto ipertecnologico di una civiltà progredita, futuristica e scientificamente avanzata, ora attraverso gli occhi del suo direttore si mostra per quel che in effetti è:

“L’arredo in bianco e nero d’impronta astratta e modernista aveva linee e tonalità che in passato potevano sembrare futuriste ma ora facevano uno strano effetto retrò. Questa è la nostra versione di sedia. Questo è un simil-tavolo, un bancone. Sui divisori in vetro <> (…) erano incisi paesaggi naturali stilizzati, tra i quali un canneto sorvolato da un simil-falco di palude. Come la gran parte dei tentativi analoghi, sembrava la scenografia di un film low-budgetdi fantascienza anni Settanta” (pag.142)


Buona lettura 🙂 
(e grazie a tutti coloro che hanno condiviso i twitts di ADC su #Authority) 

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******Testi citati (e non) – NB: bibliografia non esaustiva, quella completa su richiesta:

 

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"Il Regno", di Emmanuel Carrère

Compiti fatti: letto Carrère. Poi però funziona che devi anche leggere quello che hanno scritto tutti gli altri, di Carrère, se no rimani a metà del guado, e lì, coi piedi a mollo, ci si raccapezza un po’ meno. 
Perché ci sono quelli che prima di parlare de “Il Regno” dedicano i primi otto paragrafi alla biografia dell’autore e relative opere (altruistico e onesto intento di rendere edotto anche il lettore digiuno o mero vezzo autoreferenziato così per dire che sì, Carrère lo si conosce da tempo, e insomma se non hai mai letto niente ci sono io a darti modo di colmare la gravissima lacuna? Oppure perché alla fine, de “Il Regno”, non hanno poi così tanto da dire? Boh); ci sono quelli che siccome Carrère è Carrère, è tutto meraviglioso, geniale, superbo e indimenticabile a prescindere, e poi quelli che siccome Carrère è Carrère lo stronchiamo subito ché facciamo prima. 
E poi ci sono gli uomini di buona volontà che siccome è onestamente abbastanza difficoltoso inserire il testo in una qualsivoglia categoria (saggio? autobiografia? Non fiction narrative? romanzo di fantascienza?) navigano a vista e speriamo che il cielo gliela la mandi buona. 
Poi, infine, ci sono quelli che ce la fanno. 
Ecco, io vorrei occuparmi di questi ultimi.

C’è da dire in primis che leggendo “Il Regno”, il vero e unico atto di fede che ci si trova costretti a fare è quello di dar credito a quel Carrère …filologo (?) che non si prende mai la briga di citare (né nel testo, né  in nota – ah, le note, queste sconosciute) i riferimenti bibliografici delle opere a cui dice di essersi appoggiato per le sue ricerche. Strano a dirsi, ho dovuto faticare non poco per recuperare, almeno in italiano, qualcuno che avesse parlato di questo fatto abbastanza rilevante della valutazione storico-esegetica del testo; alla fine ho trovato qui, su Lettere Paoline, quello che mi interessava. Insomma, Carrère già all’inizio dell’opera ci pone di fronte a un dilemma: credere o non credere. Sì, ma a lui, mica all’assunto teologico della Resurrezione. 
Come nei romanzi di fantascienza distopica il patto tra autore e lettore si esplica nell’accettazione di una certa contestualizzazione data di fatto, e presa per buona, così è per “Il Regno”: o ci credi e non ti fai tante domande su come il pluripremiato romanziere sia arrivato a certe conclusioni, oppure i conti non tornano. Poniamo che ci crediamo. (Una nota margine la metto io: ragà, rifletteteci prima di scrivere cose del tipo “enciclopedico e/o scrupoloso lavoro di ricerca documentaria” et similia).

Di nuovo, il rapporto tra l’autore e il lettore (non più “credulità popolare” ma “incredulità dell’intellettualità illuministica”è ben descritto qui, in un articolo dell’ Huffington Post a firma Massimo Faggioli, specialmente dal paragrafo sulle tre ragioni per cui “Il Regno” merita di essere letto. 

Passando poi alla questione della struttura del testo, rimando all’articolo di Luigi Grazioli su Doppiozero, che ha il merito, tra gli altri, di un bella sintesi su “le principali componenti del libro e i loro livelli”: “1 – Storia (documentaria, congetturale e romanzata: né peplum, né romanzo storico però) delle origini del cristianesimo; 2 – Storia della scrittura del libro; metanarrazione; saggismo; 3 – Storia personale di Emmanuel Carrère; 4 – narrazione della sua esistenza attuale e il dialogo con il lettore (implicito e esplicito); 5 – Rimescolamento di tutti questi ingredienti attraverso continui raffronti e esemplificazioni e i continui ribaltamenti dei piani temporali: storici e personali”

Per quanto riguarda una valutazione complessiva dell’opera, non credo sia possibile prescindere dall’intervento di Marina Valensise su “Il Foglio” di cui ho apprezzato in maniera particolare l’impronta accademica e la scrittura limpida e precisa. (Ripreso da tutti l’ormai celeberrimo: “Senza vergogna, Carrère alterna autobiografia e teologia, cazzeggio e profanazione, blasfemia e devozione”).

Vale poi la pena soffermarsi sul testo a firma Carlo Mazza Galanti pubblicato quasi un anno fa sul Sole24 e poi ripreso a febbraio di quest’anno da Minima&Moralia

Con curiosità mi sono interessata alle opinioni (non troppo allineate l’una con l’altra, anzi!) provenienti dall’ambito cattolico, tra cui ad esempio quella di Enzo Bianchi. Particolarmente fresca e illuminante l’interpretazione di Lucetta Scaraffia dalle pagine dell’Osservatore Romano.

Ho escluso dalla lista chi si è prodigato in elogi evidentemente eccessivi e anche, viceversa, chi ha stroncato senza alcuna possibilità di appello. Unica eccezione l’intervento di Paolo Nori, che è troppo gustoso e sapiente per perdersi nelle nebbie del web. Che ne venga, anche qui, lasciata traccia.

Buona lettura (di Carrère e di chi parla di Carrère) 🙂

"Qui", di Richard McGuire

Nel 1989 Raw, memorabile rivista statunitense dedicata al fumetto di avanguardia, sul primo numero della seconda serie pubblica una breve storia in bianco e nero, intitolata Here, in forma di sole 36 vignette, che rivoluziona per sempre il mondo dell’arte illustrata.

L’opera è frutto della creatività dell’artista multidisciplinare Richard McGuire (New Jersey, 1957): illustratore (specie per il New Yorker, collaborando inoltre con New York Times Le Monde, tra gli altri), scultore, graphic designer, scrittore di libri per l’infanzia, realizzatore di giocattoli per bambini, nonché bassista della post-punk band Liquid Liquid.

Nell’ottobre del 2014 l’editore Pantheon dà alle stampe una versione ampliata di Here, che non è soltanto un recupero ma una completa rielaborazione del materiale originario, tanto più stupefacente data la lunga assenza dell’autore dal mondo del fumetto. Versione ora pubblicata per l’Italia da Rizzoli Lizard, anche nell’interattivo ebook.

La cover del The New Yorker (opera dello stesso McGuire)
che celebra l’uscita di “Here” – Nov. 2014.
Qui il link alla pagina originale, video inclusi

Here racconta una storia ambientata in tempi diversi, la cui narrazione è affidata – e sta qui la svolta – non a una serie di fotogrammi in successione cronologica lineare ma a una inquadratura spaziale fissa su cui si aprono diverse finestre temporali tra loro comunicanti. 

Le vicende sono quelle personali della vita dell’autore, intessute con gli avvenimenti Storici che hanno caratterizzato il passato mondiale; lo sfondo non è altro che la rappresentazione di uno scorcio: quello del salotto dell’infanzia di casa McGuire. 


L’edizione 2014 sfrutta naturalmente tutte le potenzialità degli strumenti a disposizione dell’autore, dagli acquerelli del disegno a mano fino alla grafica vettoriale utilizzata per la creazione della stanza. 

Non è luogo questo per gli approfondimenti tecnici che lasciamo agli addetti ai lavori – ad esempio su Fumettologica – sia per l’analisi cartografica (stili grafici, utilizzo delle palette cromatiche, programmazione CAD) sia per quanto riguarda influenze di genere, echi e rimandi (da Hopper al mondo del fumetto degli anni ’70).
Ciò che di “Qui” colpisce oltre che la purezza dell’immagine è la modalità di fruizione del testo che obbliga il lettore a una presenza attiva, offrendo così un’esperienza pluridimensionale all’interno della quale la misura del tempo si mostra in tutte quelle affascinanti potenzialità che di regola sono proprie soltanto dell’analisi scientifica.
“Qui” non è soltanto una narrazione autobiografica, ma anche una riflessione sul ruolo dell’essere umano all’interno del cosmo: nonostante la presenza infinitesimale, quasi irrilevante di fronte alle misure universali del tempo e dello spazio, egli tuttavia è in grado di mutarne il corso, dando vita a una serie di eventi minimi, sempre tra loro concatenati, che ne modificano l’evoluzione.

La firma dell’autore, in occasione del Salone del Libro

Finestre su mondi paralleli…

…tra ricordi di famiglia, album di fotografie,
… la Storia americana del “(west) more land”…

…ombre di mostri mesozoici…
… e lampi di futuri possibili, ancora da immaginare.

 Buona lettura 🙂

"Sottofondo italiano", di Giorgio Falco

Laterza ha presentato a Torino non soltanto la piattaforma Lea, che tanto sta facendo parlare di sé, ma anche la nuova serie Solaris. Una collana di saggistica narrativa che:
“Senza ricettari, senza indici puntati, senza chiamate alle armi, (…) desidera prima di tutto cogliere un sentimento della realtà attraverso la qualità letteraria. Nessun atteggiamento senatoriale, dunque, nessun millenarismo vittimistico o titanico, semmai la disponibilità a ragionare intorno a esperienze e a stati d’animo incerti e sfuggenti”.
Quattro le uscite previste per il 2015 – e tutte già in libreria: una scelta, questa della pubblicazione ravvicinata, che denota l’intento di definire, più che una serialità di opere stand-alone, un corpus unico all’interno del quale il contemporaneo viene declinato nella sua interezza, attraverso l’analisi dei diversi aspetti che lo compongono e attraverso il peculiare stile narrativo caratteristico di ciascun autore (tutti provenienti “dall’ambito letterario”, come l’editore ha cura di sottolineare).


In “Sottofondo italiano“, Giorgio Falco, classe 1967, si impegna ad affrontare il tema delicato e a lui congeniale del passaggio dalla giovinezza all’età adulta, svolgendolo nei modi in cui ci ha abituato: puntando sull’osservazione di una realtà personale, spesso autobiografica, che assurge poi al ruolo di paradigma grazie alla neutralità donata dallo status di esperienza collettiva – sempre a metà strada tra l’urgenza di un’interpretazione individuale e la necessità di un’analisi critica chirurgicamente asettica e oggettiva.

L’utilizzo della prima persona plurale ne è il primo indizio, programmatico, fin dall’incipit:

“Giocavamo nell’hinterland milanese, su terreni ritagliati tra capannoni, parcheggi di supermercati, fabbriche, ciminiere novecentesche, scritte rosse sui muri soppiantate da simboli neri, campanili di chiese in cemento armato edificate negli anni Sessanta, cascine e quanto restava dell’esperienza millenaria di irrigazione dei campi tramandata dai monaci cistercensi del Diciassettesimo secolo” (p5)

Un plurale collettivo, alternato alla narrazione in prima persona per le vicende strettamente autobiografiche, che da solo segna il confine, la separazione e la distanza che la saggistica narrativa vuol porre tra sé e la tradizione di un genere statico e poco avvezzo alla dinamica di confronto attivo tra autore e lettore. 

Attraverso la narrazione della vita quotidiana di un ragazzino come tanti – la scuola, dalle elementari al liceo, il mondo del lavoro, il sindacato, la lotta sociale; la famiglia tradizionale, il padre impiegato, le ferie estive, la pensione – Falco ripercorre quegli anni cruciali, tutti italiani, che vanno dal 1970 al 1985 le cui vicende politiche e sociali tanto hanno influito specie sulla classe media. Un’analisi della società, dei costumi e della politica effettuata attraverso la creazione di un circuito, di un percorso tematico concatenato che parte sempre dall’analisi del quotidiano. 

A dominare l’Italia di quei decenni, una serie di refrain che ne diventano la forma sostanziale. Dalle scritte sui muri alle sigle della lotta politica di destra e sinistra, agli appellativi, al linguaggio giornalistico:

“Freda & Ventura: gli unici cognomi ripetuti e assemblati da generazioni di giornalisti, come se i due fossero un’azienda, un logo, con l’ingombrante ‘&’ che diminuiva la portata delle loro azioni, relegandole all’immaginario, al flusso informativo (…). Giornalisti già uniformati al nuovo ordine, a Dolce & Gabbana” (p14-15) 

dalla televisione alle inevitabili metafore calcistiche:

“E c’era quella parola delle previsioni meteo così italiana, il versante, sì, il versante tirrenico e il versante adriatico, il medio versante tirrenico e il medio versante adriatico” (p16)

“I primi a essere colonizzati erano proprio i giornalisti, invasi da un linguaggio pigro e assuefatto alla parte peggiore dell’umano: ‘il vaglio degli inquirenti’, il ‘disegno eversivo che auspica la svolta autoritaria’ (…)” (p24) 

fino alle monolitiche convinzioni di genitori ancora ingenuamente fedeli a un modello di ascesa sociale che di lì a poco avrebbe mostrato la propria inutilità:

“(…) ti dicevano di studiare, grazie ai buoni voti l’esistenza sarebbe stata migliore, avresti avuto un’ottima posizione sociale – ottima rispetto al punto di partenza della tua famiglia – e lavorato per tutta la vita in un’azienda, con possibilità di avanzamento, di carriera” (p18)

Falco offre al lettore un campionario unico di rimandi e citazioni, tiene vivo il ricordo di un tempo che fu e lo concretizza ad uso e consumo di chi non c’era. Non è una memoria degli oggetti (si vince facile con l’interior design, un po’ meno se occorre metterci la parola) ma un percorso maieutico, un recuperare dalla memoria quel che, in maniera inconsapevole, è stato deposto nella mente del telespettatore e che altrettanto inconsciamente è stato da esso recepito. Lo strumento con cui Giorgio Falco instaura un legame, va detto empatico e d’elite, con chi, quella realtà, l’ha vissuta in prima persona.

“Ero supino, dinnanzi alle medesime dinamiche – che ignoravo fossero lavorative e produttive, ancor prima che umane – di pausa momentanea dall’aggressività, dalla competizione, e invece l’apparente sospensione provvisoria, la distrazione di massa, l’evasione da se stessi, l’ideologia del ritornello erano la celebrazione di un fantasma minaccioso” (p11)

“E invece niente, avevamo continuato la vita di sempre, l’unica esperienza plausibile era stata la sconfitta silenziosa, esseri umani ridotti in servitù pur di non morire, eravamo terrorizzati, ci ingozzavamo di merendine e nuovi prodotti, avremmo potuto essere noi, i prossimi a saltare in aria. Il tritolo era l’inchiostro della nostra biografia” (p21)

“Tutto avveniva in modo morbido, come la musica da aeroporto, da supermercato, in sottofondo” (p56) 

La validità dell’opera nella sua interezza di saggistica narrativa sta nella capacità di Falco di sospendere il ricordo giusto un attimo prima che esso si trasformi da strumento attraverso cui interpretare il reale in mero “confessionale pubblico dove sventolare le proprie miserie compiaciute” (p10); l’estraniarsi dal sé particolare per contemplare l’universalità del concetto è l’unico mezzo attraverso cui passare dalla pars destruens a quella costruttiva: la ricerca di quel qualcosa che inevitabilmente, in quegli anni, si è perso ma che non è ancora troppo tardi per tornare a cercare, e recuperare.

Buona lettura 🙂

Chi ha acquistato “Sottofondo italiano”: ADC, al Salone del Libro di Torino, domenica 17 maggio, perché di Solaris gliene avevano parlato molto, e bene, e perché a Giorgio Falco non si può rinunciare.

"La memoria di Elvira", Aa.Vv.

Uno degli eventi più partecipati ed emotivamente coinvolgenti del Salone del Libro è stato il ricordo di Elvira Sellerio (Palermo, 1936-2010) attraverso la presentazione del numero 1000 della collana “La Memoria”, a lei appunto dedicato. 

In questo volume ventitré autori, tra scrittori e collaboratori della casa editrice, onorano il ricordo della Signora con narrazioni vivide e accorate, chi raccontando aneddoti particolari, figli di un rapporto professionale cresciuto negli anni, chi invece ripercorrendo il valore di un progetto editoriale unico e irripetibile.

“Inseguì Bufalino come un cane da tartufi sino a fargli tirare fuori dal cassetto la Diceria dell’untore (A. Camilleri, p12)

“Questo era il suo modo di lavorare: credeva nell’opera e nella libertà e responsabilità dell’autore. Non credeva negli editor che ti rimettono a posto un qualsiasi testo, secondo i loro canoni o il loro arbitrio, o criteri puramente di mercato. Per lei l’unico responsabile di un libro era l’autore, e questo carica lo scrittore di qualche responsabilità in più, soprattutto quella di consegnare un testo finito e non provvisorio. Se poi non la convinceva non è che ti indicasse dove e perché, di curare meglio un personaggio, di tagliare quelle venti pagine, di sviluppare un nucleo narrativo, di virare di rotta sulle strutture ideologiche; diceva, o almeno disse a me: <>” (F. Recami, p27)

“(…) l’orgoglio di fare, da un angolo d’Italia apparentemente periferico, in realtà da un’antica capitale carica di memoria e di cultura, un lavoro che sfidava, in modo vittorioso nonostante le tribolazioni e le difficoltà, le leggi del gran mercato editoriale” (R. Ceserani, p165)

“Il calore delle abitazioni nelle città da lei più frequentate attenuava una sorta di suo rifiuto fisico per i viaggi che sempre affrontava molto malvolentieri (…)” (G. Dioguardi, p195)

“[anno 2007] Elvira aveva le mani coperte da un paio di mezzi guanti neri che le lasciavano libere le dita” (A. Giménez-Bartlett, p231)

“Credeva che un editore dovesse starsene silenzioso, nascosto, taciturno, che il suo fosse un mestiere d’umiltà” (G. Scaraffia, p238)

Un testo che richiede una lettura attenta, ricco com’è di rimandi, echi letterari, storia di un’Italia che fu. A testimonianza di un mondo autoreferenziale talvolta – forse – ma innegabilmente colmo di una sapienza a cui non è possibile accedere così, per caso, ma che va conquistata (e questo vale per ogni epoca) attraverso lo studio, la contemplazione e la condivisione dell’essenza del bello.

“La memoria di Elvira”, Sellerio Editore, Palermo 2015, con scritti di:

Buona lettura 🙂

Chi ha acquistato “La memoria di Elvira”: ADC, al Salone del Libro di Torino, domenica 17 maggio, appena pomeriggio: fuori sole e vento forte.

"Condominio Oltremare", di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci

Giorgio Falco si unisce alla fotografa Sabrina Ragucci nel concepire una struttura narrativa che rende parola e figura necessarie e complementari, vòlte a creare un’esperienza di lettura bidimensionale  ma compatta e indivisibile nella sostanza. 
Sorretto, da una parte, da una scrittura come al solito tersa e sintetica e, dall’altra, dalla capacità di trasmettere stati d’animo attraverso lo scatto, questo congegno di rimandi tra testo e immagine è un continuo gioco di richiami, in equilibro sapiente tra urgenza della specificità dello scritto e necessità della messa a fuoco visiva – tanto è preciso il testo nei suoi caratteri spazio-temporali, tanto sono esclusive le immagini nelle loro formati quadrangolari, a metà strada tra il campo e il piano.
Questa composizione si nutre di se stessa offrendosi poi al lettore al modo in cui, in cerchi concentrici, trama e immagine presi singolarmente si disintegrano in due parti ciascuno, il particolare e l’universale, per poi riunificarsi. 
Cominciamo dal titolo (anche qui, due parole, entrambe parisillabe e piane, accentate sulla terza, e penultima, a dare un senso del ritmo deciso e quasi paradigmatico): Condominio Oltremare. Che rimanda nell’accezione grammaticale a una struttura monolitica, dalle fattezze solide e tipicamente cittadine, in stridente contrasto con il contesto naturale – il mare – a cui si fa seguente cenno; se non fosse poi anche per quell’oltre, che lascia ancora più perplessi, quasi stia al lettore scovare il qualcosa che si proietta all’esterno del primo significato, una chiave di lettura che del primo termine ne svolge il senso portandolo a compimento attraverso il secondo. 
Ed è esattamente quel che succede, visto che il “Condominio Oltremare” così a prima vista non è nulla se non la palazzina di otto piani che svetta a pochi metri dalla battigia del Lido delle Nazioni. 
O  “Lido di Spina, Lido degli Estensi, Porto Garibaldi, Lido degli Scacchi, Lido di Pomposa, Lido di Volano” (pag.20), quello che volete, uno vale l’altro. Perché il Condominio Oltremare, esempio tipico di un certo tipo di urbanizzazione costiera e turistica anni Settanta, ecomostro mignon, ingentilito dalla funzione cui assolve, viene a rappresentare gli usi e i consumi di quella nuova ed emergente classe sociale tutta italiana a metà strada tra il proletariato urbano – a cui non apparteneva più – e la borghesia tradizionale  – a cui comunque non sarebbe mai appartenuta, volente  o nolente. 

“Esistevano davvero. La cucina, il salotto, la camera, il bagno, la veranda, il giardino. La villetta Nesco [ndr: sì, proprio quelle di Michele Sindona] era la vista orizzontale sul mondo, su un unico piano, lo sguardo organizzato, autorizzato dalle cambiali dell’acquisto, dalle rate del mutuo. Operai specializzati, capireparto, impiegati, piccoli artigiani e commercianti assistevano assoggettati, chiusi nei cinema di Milano, del nord metropolitano, consideravano la riviera romagnola il naturale prolungamento produttivo di undici mesi lavorativi, assimilavano le loro esistenze al buio” (pagg.22-23)

Un né di qui né di là, insomma, un luogo-non-luogo in cui estraniarsi dal contesto cittadino (via dal posto di lavoro, via dai telegiornali, via dalla politica, via dalle stragi mafiose?) per ritrovarsi però a percorrere i medesimi sentieri, quelli del noto e del conosciuto, uno scarto del pensiero, un mondo allo specchio, millimetricamente simile, ma non identico.

“Questo angolo estremo senza cimitero non è più Romagna e non è ancora Veneto, è una Romagna d’adozione, litorale inventato alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, stretto tra le valli salmastre sopravvissute alle bonifiche, valli che premono dall’entroterra con il loro passato lagunare e palustre” (pagg.11-12)

Angolo estremo in cui un quarantenne milanese torna dopo tanti anni di assenza. 
Ma è un ritorno tutto sbagliato. La stagione, non è quella giusta. Siamo in inverno infatti, le feste natalizie passate da poco: nessuno a memoria d’uomo si è mai permesso di varcare la soglia del Condominio Oltremare prima di maggio inoltrato, tant’è che a regnare sovrana è la desolazione dell’abbandono tra porte sprangate, serrande calate fisse, polvere e freddo di termosifoni spenti. Le motivazioni, non sono quelle giuste. L’uomo non torna con figli e moglie al seguito per ritemprare membra e psiche dopo un anno di onesto e sodo lavoro, con l’animo pieno di aspettative e grata soddisfazione per quanto compiuto e acquisito. In realtà è da solo, e sta scappando: da Milano e dal conforto di un lavoro ben pagato.

“(…) l’azienda aveva bisogno della nostra giovinezza, si faceva carriera senza sgomitare troppo. Ripetevo parole magiche, formule magiche che raggiungevano il massimo della complessità nella loro breve concatenazione: start up, obiettivo sfidante, nuovi orizzonti. (…) Era giusto così, benché fossi invisibile, avevo trovato già da allora un cantuccio dove nascondermi, e la multinazionale, molto più dei lavori precedenti, era il luogo perfetto, dava tutto ciò che occorreva: i soldi, non molti in verità, ma abbastanza per pagare le rate del mutuo e le incombenze di un milanese che, in qualche modo, pareva avercela fatta; un’auto che avrei finito di pagare cinque anni prima del bilocale; ristoranti, un paio di volte alla settimana; weekend in Liguria o a volte in Val d’Aosta, mai ai Lidi Ferraresi; e meglio se nella casa al mare dei genitori dei colleghi, non tanto per una questione di risparmio, quanto per creare la teorica intimità che avrebbe giovato ai rapporti lavorativi” (pagg.53-54-55)

Come mi ha illustrato l’Editore, spicca in “Condominio Oltremare” la qualità della stampa: il formato e la tipologia della carta utilizzata sono stati scelti in modo da creare un supporto univoco – quindi senza inserti di materiale diverso – e adatto sia al testo scritto sia all’immagine. La carta non possiede la lucidità patinata tipica di un volume di arte fotografica, che spesso affatica la lettura del testo, ma le sue caratteristiche di materiale levigato, privo di elementi in grani, preservano la fruibilità delle stampe offrendo al lettore un’esperienza di lettura fluida e ininterrotta.
La proiezione di se stesso all’interno dell’appartamento all’ottavo piano, non è quella giusta. E nemmeno il ricordo dei genitori nella loro giovinezza, è quello giusto. 
Eppure, nella sua incongruità con il passato, nella sua estraneità fuoriformato rispetto alla memoria acquisita, nella sua precarietà svincolata dalla confortante alternanza tra attività produttiva e momento del meritato riposo, forse è l’unico ritorno possibile.
Giorgio Falco e Sabrina Ragucci tratteggiano un mondo che inevitabilmente va scomparendo nella testimonianza diretta, legato com’è sia a una regionalità tipica, quella del nord-est italiano, sia a certi anni molto particolari, quelli tra il 1970 e gli inizi degli ’80. Gli autori si abbandonano alla rappresentazione, tra il particolare di un individuo e l’universale che questo rappresenta, sempre in bilico tra il desiderio di un reportage quanto più onesto e oggettivo possibile e l’urgenza, che lasciano affiorare sapienti, a tratti, di un ricordo emotivamente condiviso. 

“(…) noi ci eravamo nascosti tuffandoci nell’acqua calda chiudendo gli occhi, le orecchie ovattate dall’impatto, agosto era finito non certo per la bomba lontanissima, il vento aveva scrollato gli ombrelloni, erano arrivati i temporali, il loro carico d’acqua non era stato qualcosa di salvifico, nemmeno di letale”. (pag.130)

**
Nota al testo: mi hanno presentato “Condominio Oltremare” (ed. 2014) gli amici di L’Orma Editore, che ho avuto occasione di incontrare a #BookPride. L’opera appartiene alla collana fuoriformato nuova serie diretta da Andrea Cortellessa, della quale fanno parte testi – di narratori italiani – non convenzionali né per genere né per struttura: 
che si muovono cioè a cavallo dei comparti (e dei feticci) tradizionali della nar­rativa, della poesia e della saggistica; e che si aprono a impaginazioni difformi dalla norma, a immagini che siano parte effettiva della scrittura (e non sua “illustrazione”), ad allegati au­dio­visivi e altri “oggetti” a loro volta parte organica dei te­sti” (cfr. L’Orma Editore)
Buona lettura 🙂

Chi ha acquistato “Condominio Oltremare”: ADC, in quel venerdì pomeriggio di #BookPride e cielo blu milanese.