"Autorità", di Jeff Vandermeer

Finalmente anche la stampa italiana scopre Jeff Vandermeer. Non che all’uscita di “Annientamento” non se ne fosse parlato, si intende. Ma forse soltanto ora, a seguito del secondo volume, si inizia a comprendere anche qui nell’oltreoceano latino la reale portata del fenomeno new weird – che esiste sì, esiste no, ma pure questo dubbio fa parte del gioco – passando oltre le analisi cartografiche, indubbiamente necessarie, e i vari accostamenti (un po’ meno utili) a prodotti cinematografici simili soltanto nell’apparenza; argomento che aveva monopolizzato un po’ la critica in occasione della prima pubblicazione.
 
A firma Fabio Deotto (che ci aveva già visto lungo su Wired) è l’articolo apparso sull’ultimo numero della Lettura nel quale lo scrittore annovera la “Southern Reach Trilogy” fra gli esempi più recenti di climate-fiction, ossia quel sottogenere della sci-fi che “prende le distanze dalla fantascienza tradizionale – in alcuni casi rinunciando all’ambientazione futuristica – per concentrarsi sulle implicazioni ecologiche e sociali di scenari possibili”
In realtà Vandermeer si era distinto già tempo fa (ufficialmente, con la pubblicazione dell’antologia “The New Weird”, anno 2008) nella definizione e nella canonizzazione di un genere letterario se non nuovo quanto meno diverso dalla tradizionale narrativa fantascientifica distopica. 
Proprio per causa di questi significati sottesi al testo, che ha del paradigmatico, non si incorra nell’errore di considerare la lettura di “Authority” una quiz di facile approccio, come d’altra parte non lo era stato neppure per il primo volume, ça va sans dire. Ma qui le cose, al posto di semplificarsi, si complicano, finalmente. Ci troviamo ad affrontare infatti un secondo volume che rivela, dispiega e soprattutto rivendica il proprio ruolo di parte irrinunciabile nell’economia dell’opera. Anche questo un manifesto paradigmatico, vista la densa querelle in proposito, qui da noi passata appena in sordina.

//platform.twitter.com/widgets.jsUn’intenzione, quella della serialità, che viene rivendicata per le opere di science fiction ma non giustificata a priori, a fronte della necessità di una completa ricontestualizzazione della formula, reinterpretata sia con riguardo verso la forma (pubblicazioni a scadenza ravvicinata contro attese lunghe anni) sia verso la sostanza (no a volumi di mero raccordo).

E qui siam giunti. 
Con “Authority” vengono svelati, solo in parte naturalmente, i segreti che l’Agenzia per il controllo dell’AreaX racchiude. Il tutto attraverso lo sguardo del nuovo direttore ad interim John Rodriguez, chiamato a sostituire “la psicologa”, da anni a capo dell’Agenzia e perita misteriosamente durante la XII spedizione di cui al libro primo.
L’aspetto horror alla base della prima narrazione viene qui perfezionato. Non solo con per quanto concerne gli episodi che compongono l’opera ma anche a livello stilistico, ad esempio attraverso l’utilizzo, già accennato nel primo volume ma qui sistematico, di similitudini, metafore e altre figure retoriche di comparazione che riflettono sempre il medesimo tema sviluppato in trama: il mistero dell’insondabile, dal ruolo degli ecosistemi naturali contrapposto allo sviluppo del genere umano a quello della paranoia mentale.

“Un piccone piantato nel cervello già pervaso da un mal di testa sordo ma persistente che s’irradia da un bolo palpitante dietro il cranio. Una specie di scudo satellitare pulsante” (pag.190)

“Quando ricorrevi alle formule magiche, ai rituali, con il paleoncefalo che diceva al resto della tua persona: <>” (pag.90)

Se quel giorno fosse capitata una sciagura e la scientifica avesse tentato di ricostruire i fatti dal contenuto del loro stomaco, Cheney sarebbe passato da schizzinoso, Whitby da miaiale, Hsyu da salutista e Grace da inappetente” (pag.170)  

Come un ghirigoro di aceto balsamico sul piatto di uno chef. Come il rivolo di sangue scuro che conduce fino al cadavere in un telefilm poliziesco” (pag. 245)

Andiamo per bullet points:

Un tempo il fiume scorreva più veloce, ma gli scarti agroindustriali formavano un limo che lo rallentava, lo placava e mutava ogni forma di vita al suo interno. Sull’altra sponda, nascoste dal buio, cartiere e vecchie fabbriche in rovina continuavano a inquinare le acque freatiche. Tutto si riversava dentro mari sempre più acidi” (pag.68)

(…)stupidi lampioni finto-vittoriani dall’aspetto deliberatamente turistico, coronati da luci simili a globi pieni di nebulose uova alla coque. (…) Non era un territorio selvaggio, si trovava a comoda distanza dalla civiltà, ma era separato quel tanto da creare un confine. Era quello che volevano quasi tutti: essere vicini alla natura senza farne parte. Non volevano la spaventosa incognita di una <>. Ma nemmeno una vita artificiale e senz’anima” (pagg. 68-69)

La marea infinita di squamosi tronchi d’albero. L’odore di aghi di pino misto all’odore acre di decomposizione e al fumo di scappamento della jeep” (pag.96)

(…)i pini scuri e i tratti paludosi lasciarono posto a una specie di foresta pluviale subtropicale. (…) vide i punti interrogativi dei germogli di felce e un sorprendente nugolo di efemenotteri dalle ali nere e delicate. L’odore era cambiato, da umido e vischioso era diventato un richiamo” (pag.103)

  • Il concetto di Natura pensante e consapevole di se stessa, che si sviluppa con mezzi e fini propri, sconosciuti all’Uomo. Da qui, le riflessioni sui codici di comunicazione, dall’utilizzo del linguaggio condiviso alla spersonalizzazione individuale attraverso la cancellazione dell’identità data dal nome proprio:

La teoria è che, se puoi essere la tua funzione, le associazioni si riducono o si bloccano del tutto, impedendo anche l’accesso alla tua personalità. (…)i soggetti venivano spogliati della personalità al semplice scopo di inculcare la fedeltà e rendere più efficaci il condizionamento e l’ipnosi” (pag.96-97)

Emittente e ricevente erano ormai colonizzati da una forza esterna e non se ne accorgevano neanche” (pag.161)

Quali sussurri o grida poteva articolare all’improvviso una sezione trasversale di muschio o di corteccia di cipresso. La trama che innervava rami e foglie. Era un pensiero troppo assurdo per esprimerlo a parole. (…) <>, come aveva detto la biologa alla direttrice (…)” (pag.107)

Durante la riunione Hsyu aveva detto qualcosa a proposito della terminologia, sul fatto di darla per scontata. (…) Tornando all’idea di spogliare i membri delle spedizioni dei loro nomi: e se il carattere e altri dettagli, sommati a una mera funzione, avessero fatto emergere un quadro diverso?” (pag.114)

(…) se non quando aveva chiesto, a lei come a tutti gli altri, di chiamarlo <> anziché <> o <>” (pag.6)

Se qualcuno o qualcosa cerca di introdurre nella tua testa delle informazioni usando parole che capisci con un significato che non capisci, il problema non è solo che viaggiano su una larghezza di banda che tu non puoi ricevere. E’ ben più grave. Come dire, se il messaggio fosse un coltello e creasse il proprio significato incidendo nella carne e il destinatario fosse la tua testa e ti ficcassero continuamente la punta di quel coltello nell’orecchio…” (pag.91)

  • La riflessione sulla letteratura. Non consolatoria ma un terroir di esperienze l’una collegata all’altra, non certo un qualcosa che accade e a cui il lettore deve assistere in maniera passiva e neppure un mero strumento che l’autore può facilmente modellare a suo piacimento:

“Il termine [terroir] si riferisce alle caratteristiche di un determinato luogo: la geografia, la geologia e il clima che, uniti alle tendenze genetiche, possono dare vita a un vino sorprendente, intenso e originale. (…) si potrebbe tradurre con <>, vale a dire la somma degli effetti di un ambiente localizzato nella misura in cui incidono sulle qualità di un particolare prodotto” (pag.111)

  • Il disagio derivato dall’incapacità di interpretare l’esterno si proietta all’interno; la paranoia:

“Ti resterà comunque il dubbio. Sei sempre stato il tipo che va a spaccare il capello in quattro, anche quando non serve” (pag.202)

“Non era più sicuro di conoscere la differenza tra quello che avevano voluto fargli trovare e quello che aveva scoperto da solo” (pag.204)

“Continuava ad arrovellarsi – aveva perso delle occasioni, era rimasto al palo, aveva dato troppa importanza (…) altrimenti se ne sarebe accorto prima” (pag.264)

“Meglio essere paranoici o stupidi che rischiare” (pag.206)


Su tutto domina la pachidermica mole della Southern Reach Agency. Che se nel primo libro la nostra mente, traviata da supposizioni infondate (sì, perché Vandermeer non l’aveva proprio descritta, furbetto, se non per briciole, lasciando a noi tutta l’inutile fatica) l’aveva partorita quale frutto ipertecnologico di una civiltà progredita, futuristica e scientificamente avanzata, ora attraverso gli occhi del suo direttore si mostra per quel che in effetti è:

“L’arredo in bianco e nero d’impronta astratta e modernista aveva linee e tonalità che in passato potevano sembrare futuriste ma ora facevano uno strano effetto retrò. Questa è la nostra versione di sedia. Questo è un simil-tavolo, un bancone. Sui divisori in vetro <> (…) erano incisi paesaggi naturali stilizzati, tra i quali un canneto sorvolato da un simil-falco di palude. Come la gran parte dei tentativi analoghi, sembrava la scenografia di un film low-budgetdi fantascienza anni Settanta” (pag.142)


Buona lettura 🙂 
(e grazie a tutti coloro che hanno condiviso i twitts di ADC su #Authority) 

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******Testi citati (e non) – NB: bibliografia non esaustiva, quella completa su richiesta:

 

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