"Il Libraio", di Régis de Sá Moreira

More about Il libraio Si sente il vento d’oltralpe, in questa moderna favola di poesie a capitoli. 
In una città sconosciuta, eppure così ben definita da sapori e profumi, un uomo senza nome trascorre la sua vita tra gli scaffali zeppi di volumi che compongono la sua libreria. 
L’uomo senza nome si nutre solo di tisane (una per ogni cliente) e di libri, che legge in continuazione; dorme rannicchiato in una vecchia poltrona dietro al bancone e non abbandona mai il negozio, che tiene aperto anche di notte (illuminandolo con una lanterna a petrolio, perché le stanze non sono fornite di luce elettrica). 
L’uomo senza nome, identificato solamente dalla sua professione, il libraio, per gli amici non è diventato altro che un argomento di conversazione; ha amato tre donne, tutte sparite, ha cinque fratelli e cinque sorelle sparpagliati per il mondo con cui si mantiene in contatto scrivendo delle lettere molto speciali. 
Ovviamente l’uomo senza nome per tutto il giorno non fa altro che accogliere i clienti che entrano nella libreria. Ci sono clienti buoni e clienti meno buoni. Il lettore insoddisfatto alla ricerca del libro perfetto. Un gruppetto di bambini che, girovagando tra le scansie, riempie gli stretti corridoi della libreria (taluni sono proprio stretti, fatti solo per loro) di fantasie di corsari, abbordaggi e isole del tesoro. 
C’è l’Ultimo Cliente della Giornata, che si riconosce dal fatto che non vuole mai andare via; ci sono donne bellissime, e leader religiosi. Anche Dio passa, ogni tanto, così giusto per curiosare. E di tanto in tanto entra anche una Gran Dama vestita di nero. Legge poesia. E piano piano, mentre legge e sfoglia pagine di carta sottile, qualcosa le accade. 
E’ una finestra aperta su un mondo misterioso, fatto di momenti luminosi che appaiono raramente, soltanto a tratti. Nel mezzo c’è la vita di ogni giorno: attese, delusioni, piccoli e grandi tormenti. 
Eppure (o meglio, proprio per questo) è una storia da leggere assieme ai bambini, nelle notti di inverno, prima di andare a dormire: in un mondo in cui l’essere abili in diverse discipline, sempre eccellendo, è considerata una norma e una necessità, il libraio tra le altre questioni ci insegna che chi vende sogni, i piedi per terra non è che ce li possa sempre avere. 
Come nella favola della lepre, del serpente e dell’uccellino, a ognuno di noi è affidato un compito. La lepre sarà in grado di saltare più in alto del serpente, e tuttavia non saprà strisciare con la medesima agilità del rettile, che a sua volta, nonostante le sue eccellenti qualità, non avrà mai modo di allietare il bosco con i cinguettii che invece sono propri dell’usignolo. A ognuno il suo, insomma – cosicché ciascuno possa prendersi le responsabilità delle proprie scelte, senza la pretesa di poter ottenere, in breve tempo e senza rinunciare a nulla, tutto quello che si trova a desiderare. 
E’ un bell’insegnamento per gli adulti di oggi, ma anche per i bambini che diventeranno adulti a loro volta, un domani; per riscoprire la pazienza, l’umiltà e il valore delle cose fatte insieme, a ciascuno il proprio ruolo, i propri meriti e, perché no, anche i propri errori. 
Nota: la redazione di ADC ringrazia la gentilissima signorina @Aisara al #Salto12, che con indomita maestria di polso, di fronte a noi improvvisamente strappò, tutta d’un pezzo, una pagina intera di una copia dell’opera. E poi quel foglio ce lo allungò, con il sorriso sulle labbra. Eravamo in due e il rumore della carta spezzata quasi ci uccise. Però, poi, capimmo. Ci saremmo persi qualcosa, senza quel gesto.

"Vampire Empire" – part II, di Susan and Clay Griffith

More about Vampire Empire Il secondo volume della trilogia non delude gli ormai numerosi fans.  

L’opera, per la maggior parte incentrata sulle vicende della Principessa Adele, vera eroina della serie, tra un colpo di scena e l’altro affronta più nello specifico quei temi “tecnici” che nel primo volume erano rimasti in sospeso: vari gli approfondimenti sulle questioni dinastiche e sulle lotte di potere che dominano sia la società degli umani sia i clan vampireschi, e più strutturato l’approccio ad un altro tipico filone della narrativa steampunk: la presenza fondamentale dell’occulto e delle società segrete, in un continuo, deviante gioco di specchi, appassionante e mai troppo macchinoso.  

Tra le tante scene stilisticamente ben riuscite, per esempio quella della descrizione delle pratiche mediche affrontate in una sala operatoria che risponde ai canoni del più puro stile steampunk-decadente. (Eh, via, non possiamo divi di più, niente spoiler). Un anfiteatro racchiuso nel cuore di un antico palazzo, fatto di buio e gradinate deserte che scivolano verso il centro della scena, occupato dalla luce bianca e asettica puntata sul tavolo operatorio, tra marchingegni antichi e moderni e strumenti per la chirurgia.  
Oppure, le descrizioni molto accurate dell’abbigliamento dei protagonisti, sempre perfettamente aderenti all’estetica steampunk, o gli scorci sulla città imperiale e le sue numerose stratificazioni architettoniche fatte di imponenti palazzi di foggia medievale, stretti vicoli bui che serpeggiano tra suq e botteghe di ogni tipo e figura, obelischi e statue che paiono giungere direttamente dall’Antico Egitto. Non mancano chiaramente, come facile intuire, passaggi segreti e porte nascoste che si rivelano soltanto al tocco di dita esperte.  

L’opera può essere classificata senza dubbio tra quelle appartenenti al Fantasy Young Adults e tuttavia non si può dire che sia di tematica prettamente leggera: la presenza di un’eroina consapevole del proprio ruolo nella società, poco influenzabile dal “clan” di turno ma ben disposta nei riguardi dei consigli che vengono dalle poche persone fidate e di famiglia di cui, con spirito critico, sa circondarsi, forte e decisa al di là delle sue capacità magiche (che di necessità debbono essere presenti dato il genere letterario a cui l’opera consapevolmente si richiama ma che in questo caso non caratterizzano la protagonista se non in maniera complementare), avvezza all’impegno dello studio e alla disciplina dell’allenamento fisico e capace, nonostante la giovane età – e certo nei limiti della fiction letteraria – di scelte impopolari e di lucida consapevolezza delle conseguenze che ogni decisione trascina con sé, porta i lettori (e soprattutto le lettrici) a riflettere, in senso più generale, sulla validità, o meno, delle figure femminili che ultimamente popolano la narrativa di genere.  

Note:  Qui l’analisi ADC, effettuata alcuni mesi fa, sul fenomeno Vampire Empire. E per chi fosse interessato, ci permettiamo di segnalare il Twitter degli autori; belle novità e notizie dal mondo steampunk e non solo: @clayandsusan.
Buona lettura! 🙂

"La strana scomparsa di Leslie", di Josephine Tey

More about La strana scomparsa di Leslie Oggi vorrei parlarvi brevemente di Elizabeth Mackintosh (1896 – 1952). 
Fisioterapista e insegnante di ginnastica, con lo pseudonimo di Josephine Tey è autrice scozzese nota per le sue mystery & detective novels. Di carattere schivo e riservato, in vita era apprezzata drammaturga (sotto lo pseudonimo – un altro! – di Gordon Daviot) di consistente profilo ma sono i suoi romanzi, piuttosto che le sue pieces teatrali, a essere tutt’oggi ancora pubblicati e diffusi a livello internazionale: perché JTey è universalmente riconosciuta come una delle più apprezzate scrittrici della golden age del romanzo giallo anglosassone. 
Ora Mondadori ne ripubblica l’opera negli Oscar Narrativa, accattivando il lettore attraverso un’interessante introduzione di PD James e le belle, evocative copertine di Mick Wiggins.
Cinque romanzi hanno come protagonista l’Ispettore Alan Grant (“The Man in the Queue”, “A Shilling for Candless”, “To Love and Be Wise” – il nostro “La strana scomparsa di Leslie” – “The Daughter of Time” e “The Singing Sands”), altri tre invece si caratterizzano come Stand-alone Mysteries (“Miss Pym Disposes”, “The Franchise Affair”, “Brat Farrar”). 
Che dire se non: leggetela. 
Cosa troverete: 
  • Un detective gentiluomo molto diverso dalle figure tormentate e oblique che popolano la narrativa di genere degli ultimi anni. Lavoratore instancabile, fedele seguace della giustizia e della verità. Dotato di acuto intelletto e professionalità estrema, gran spirito di osservazione e saldi principi morali, Alan Grant è una persona assennata e prudente, ma non per questo rigida e conformista, anzi. Aperto alle novità, curioso di ciò che lo circonda, in punta di piedi e senza disturbare entra ed esce da mondi diversi senza la pretesa di giungere ad appartenere totalmente ad alcuno, né a esserne accettato ma pronto ad assaporare le bellezze di ognuno ed ad osservarne, imparando dall’esperienza , le pecche e le difformità. 
  • Una serie di comprimari, più o meno abituali, che grazie all’indiscutibile abilità della scrittrice nell’arte teatrale hanno la peculiarità di una rappresentazione di dettaglio: completa, espressiva, convincente. 
  • Un’ambientazione evocativa e vivida, fatta di paesaggi dipinti con olii e carboncini: si va dalla campagna inglese dei piccoli centri urbani, buen ritiro non dell’alta società, mondo che non compete a JTey, ma di quella parte di mondanità intellettuale e artistica (scrittori, pittori, attori, ballerini) a cui l’autrice è legata, e ben conosce, data la sua attività di drammaturga, alle Highlands Scozzesi, tributo alle terre selvagge, luogo natio della scrittrice. 
  • Storie appassionanti (da leggere senza pretesa di immedesimazione, ovviamente), dalla trama ben tesa ed equilibrata – da cui non occorre sempre aspettarsi la forte emozione del delitto in presa diretta – tra vicenda principale (poliziesca) e le varie comprimarie, spesso inserite per alleggerire l’atmosfera, che spaziano finanche all’intrigo sentimentale. 
  • Dialoghi realistici, di chiara impostazione teatrale perché sempre definiti da connotazioni evidentemente sceniche: la descrizione del modo in cui l’interlocutore accavalla le gambe o stringe, compulsivamente, il manico di una tazzina di tè; uno sguardo; la luce del sole al tramonto che colpisce il viso del protagonista. 
  • E soprattutto, quel mondo tutto british, oramai scomparso, di cui è un piacere leggere, e ricordare. 
Nota: per studio ulteriore, mi permetto di rimandarvi all’analisi fotografica di @FNall per quanto riguarda la forma ; per i contenuti, alle puntuali e approfondite osservazioni di Senza Errori di Stumpa (@laClarina).
Buona lettura. 

"L’alba di Talulla", di Glenn Duncan

More about L'alba di Talulla Nuovo, appassionante capitolo della saga del Moderno Lupo Mannaro, che vede protagonista non più il caro, oramai estinto, Jacob Marlowe (di cui avevamo parlato qui) ma la rispettiva consorte, Talulla Mary Apollonia Demetriou, Lulu per gli amici più intimi. Glenn Duncan non ci fa rimpiangere la figura maschile protagonista del primo volume, presi come siamo nel vortice della narrazione e dall’energia, vigorosa, erotica, animalesca, di un’eroina femminile che finalmente si riappropria con destrezza di tutte le caratteristiche tipiche di un personaggio di successo. 

Talulla Rising è racconto horror, gothic novel, pulp fiction, pregno com’è di fenomeni soprannaturali, sangue – bevuto e versato – e atmosfere mistiche (da una Londra di fascino Vittoriano alle mura bianche di calce e luce lunare del monastero sconsacrato, in terra Greca). Eppure è anche spy story, grazie al tema ben identificato dei complotti internazionali tra società segrete paragovernative e cellule deviate che si contendono, in una lotta senza esclusione di colpi, fra tradimenti, doppi giochi e azioni sul campo degne di Ludlum, il controllo e il dominio su licantropi e/o vampiri (o il merito della loro estinzione definitiva), ma anche diario epistolare, riflessione intima, raccolta di haiku

Qui, in redazione, noi Talulla ce la immaginiamo bella tonda, femminile, braccia forti e seno evidente. Chè siamo un po’ stanchi di queste figurette pallidine, davanti e dietro piatte come tavole da stiro, lacrima facile, spalle curve, occhio languido e sgomento. La forza e la concretezza di Talulla stanno in una compresenza che diviene ad un certo punto paradigmatica: come in lei convivono l’essere umano e il mostro sovrannaturale che – ribadito perentoriamente nel corso di tutta l’opera – non possono essere disgiunti l’uno dall’altro ma al contrario si compenetrano a vicenda, inscindibili, così Talulla è donna e madre, combattente coraggiosa ma allo stesso tempo figura femminile delicata, romantica, appassionata, che ricorda con ardore, nostalgia e rimpianto la breve stagione d’amore passata con l’amato ma che, con evidente senso pratico (senso pratico che l’autore spesso esemplifica attraverso il ricorso alla voce della madre defunta, che Talulla immagina di udire ancora), considera inaccettabile il ruolo di giovane vedova votata alla castità imposto dalla corrente morale (umana). 

Duncan gioca con noi, agile, e lo fa su diversi livelli, stratificati, analizzando vari temi cui occorre prestare attenzione. 

Fortissime per esempio, per lingua e significato, le pagine iniziali sulla maternità (e stupisce – ma forse no – che a scriverle sia stato un maschio): l’atto fecondo di dare la vita attraverso il parto ha come necessaria conseguenza l’espulsione del bambino dal ventre della madre ma non altrettanto necessariamente – e succede spesso – la nascita immediata del sentimento di amore materno verso il neonato. 
La maestria di Glenn Duncan in questo caso è duplice. Senza perdersi in filosofiche interpretazioni dell’argomento, da una parte accenna alla questione, finto vago, attraverso un espediente magico e perfetto: il ricordo ossessivo di Talulla per uno spot pubblicitario di una nota marca di pannolini per neonato. Nel più chiaro e tipico dei cliché moderni sulla maternità, la madre rappresentata in televisione ha pelle e capelli come fosse appena uscita dal centro estetico, indossa vestiti di un bianco verginale, puliti e stirati, e sorride, composta nel suo amore immenso verso la creatura (naturalmente anch’essa sorridente, pulita e vestita di tutto punto) che tiene tra le braccia. Talulla immagina, nel delirio dei pensieri pre (e post) maternità, che la donna in questione, con una torsione di busto degna dei migliori stop-motions di Tim Burton, giri il capo verso l’esterno del televisore, scoccando uno sguardo indignato e disgustato verso la Madre Indegna Del Momento. 

Dall’altra parte, Duncan tende un filo rosso che si dipana lungo tutto il progresso della narrazione e che parte dall’idea di Talulla di aver consapevolmente (e quindi colpevolmente) abbandonato il neonato maschio nelle grinfie dei rapitori – che con un assalto mirato lo hanno strappato alle braccia materne pochi minuti dopo la nascita – a causa della sua tardiva reazione all’assalto; reazione tardiva dettata dall’indifferenza (e forse anche dal fastidio) provata nei confronti della creatura uscita dal suo ventre di mostro. Peccato che questa interpretazione della questione (lo sappiamo noi, lo sa Duncan, ma non lo sa Talulla) proprio non regga. 

In verità non ce n’è una che non ci piaccia, di figura femminile presente nell’opera, anche perché Duncan non fa mistero della sua viscerale passione per il sesso femminile che trasuda da ogni suo approccio descrittivo verso l’altro sesso: si va dalla bella Madeline, bionda lunare sempre pronta stupire se stessa e chi la circonda, all’amore senza tempo della madre-vampira, per arrivare alla chioma rossa – tutina di lattex e coscia tornita – di Josephine, tutta compresa nel suo ruolo di vampira-in-carriera. 

Malgrado le scene pulp, il sesso violento, il sangue versato, la tematica horror e lievemente trash, Talulla rising è per noi un libro dalla femminilità prorompente. Le donne sono i personaggi chiave del romanzo, eroine a tutto tondo per altro in contrapposizione con maschi che per una volta – santo cielo! – non vengono presi, in primis dall’autore, troppo sul serio: si va dai machi super pompati e anabolizzati che passano la loro vita a giocare con pistole e fucili sparattutto (!) nel tentativo di sdoganarsi da vecchie madri e sorelle iperprotettive a cui avevano votato infanzia e adolescenza, a energumeni paleopreistorici – ascella pezzata e microcervello, pugni, alitosi e aggeggio sempre pronto allo stupro – a giovani lupi mannari che, una volta rapiti dall’estasi dionisiaca, dimenticano qualsiasi responsabilità etica, civile, morale. 

Se per certi versi Talulla rising dovrebbe essere seguito con distacco, senza tante pretese di immedesimazione, assaporando gli eccessi, le atmosfere pulp e il divertimento che ne consegue, dall’altra occorre di necessità soffermarsi con attenzione sulla parte più intima del romanzo, per godere appieno della scrittura e dell’arte di un narratore che affabula e rapisce. 

*** 
Un ringraziamento particolare agli amici di @Bookrep e @isbnedizioni (@albaditalulla) che con pazienza e perizia sono riusciti a domare un file #ebook particolarmente… capriccioso. Grazie!

"Il Signore delle Anime", di Irene Némirovsky

More about Il signore delle anime La prima puntata di “Echelles du Levant” viene pubblicata, su “Gringoire”, il 18 maggio 1939 Ed è così che abbiamo provato a leggerlo, questo “Signore delle Anime”: ad episodi, come nella più classica tradizione del feuilleton. Uno dei lavori più difficili dell’Irene, oscuro e complesso, di certo non la prima opera di I Nemirovsky che ci sentiremmo di consegnare nelle mani di un pubblico ignaro dell’argomento.  

Prima di tutto per la struttura in sé che, nel suo alternarsi a capitoli di moderata lunghezza ed egual misura, e nelle chiuse di genere create secondo la sapiente arte della sospensione e del climax, mostra evidente dipendenza dalla tipologia di pubblicazione. 
“Il signore delle anime” è steso in fretta, al pari con la pubblicazione, da un’Irene che in questo frangente non fa mistero della sua urgenza, dettata da tutta una serie di motivi sia venali – la necessità di denaro – sia meno – il 1939 in sé e per sé, l’affermazione letteraria, il successo di” David Golder” e di tutto il filone a tematica “ebraica” della sua opera.  

In secondo luogo per i soggetti trattati, sia per se stessi, sia alla luce degli eventi storici e culturali che contestualizzano fortemente gli anni dell’affermazione letteraria di I Nemirovsky.  

Il Dottor Dario Asfar è un’esule, un meticcio, come venivano genericamente indicati gli immigrati dell’epoca; e dell’esule ha fattezze (viso smagrito, pallido, occhi infossati, vibranti, guardinghi) e carattere (spregiudicatezza, bramosia di denaro, di vita, di auto affermazione sociale).  

Iconografia antisemita – alla pari di come venne tacciato da diversi anche “David Golder” – dell’ebreo emigrato, affarista senza scrupoli, avido di denaro, che sempre rimane ciarlatano venditore di tappeti e fuffa qualunque sia la merce, o il servizio (sì, anche medico), che si trovi a offrire? 
Il tutto ritratto ad arte da una scrittrice a sua volta esule, meticcia, per giunta ebrea, bramosa di un riconoscimento politico (la naturalizzazione francese, che mai gli verrà concessa – questione che le costerà un biglietto di sola andata Paris – Aushwitz) sociale (l’appartenenza all’élite della buona borghesia parigina, che sebbene non le fosse stata mai del tutto negata, grazie agli ambienti dell’alta finanza frequentati dal padre e alla famiglia facoltosa per parte di madre, non le fu mai del tutto concessa, quale esule apolide), letterario (cfr la pubblicazione assidua su “Gringoire”, rivista che di certo non brillava per coerenza e apertura politica e sociale)?

Oppure, concreto esempio di romanzo psicologico d’epoca, che tanto risente, nella sua intima struttura, del naturalismo di Zola e della lezione francese di Maupassant, all’interno del quale la rappresentazione della parabola dell’esule ebreo – ovvero, semplicemente ciò che c’era di più vicino alla realtà viva, e quotidiana, della scrittrice (per la serie, parla di quel che sai, scrivi di quel che vedi) – si fa soltanto mero attributo e semplice pretesto utile alla messa in scena di una grandiosa baldoria in costume, che tanto acquista, quanto più si procede nella narrazione, le fattezze della satira più crudele e feroce?  

La figura del ricchissimo industriale Wardes è chiaramente modellata su quella, reale, dell’editore del “Gringoire” Bernard Grasset, vittima di gravi disturbi nervosi e alla fine internato, secondo il pettegolezzo, dalla stessa famiglia: la psicoanalisi, moda e vizio dell’epoca, fa da padrona nell’economia del romanzo così come la diatriba, anch’essa di attualità, che vede la medicina francese opporsi strenuamente all’ondata migratoria di praticanti stranieri, accusati (spesso ingiustamente) di imperizia e pratiche illecite.  

Il “povero” Dottor Asfar, essere abbietto e disprezzato, per il quale Irene non si esime mai di provare empatia e compassione espressa attraverso le parole della devota consorte, non è dunque soltanto un pretesto per sorridere, far sorridere, e finanche condannare un mondo a sua volta abbietto e spregevole, vittima della ricchezza conformista e mistificata? Un mondo che, alla vigilia della guerra (tramonto che preme irruento alle porte di una notte oscura e senza fine) – tale e quale a una donna non più giovane che cosparge le rughe del volto di cipria e rossetto alla vigilia di una serata di gala – attraverso il vetro polveroso di uno specchio distorto ritrova la propria immagine riflessa: invecchiata, ansiosa, cupa, smaniosa, xenofoba e antisemita?  

NB: nota tecnica. Si consiglia caldamente la lettura del saggio, in postfazione, di Olivier Philipponat e Patrick Lienhardt, curatori, tra l’altro, della biografia dell’autrice. Da sottolineare a matita. 

"Sorella morte", di Bruno Agostini

More about Sorella morte Chissà se un giorno avremo la fortuna di ritrovare tutti i compagni di viaggio che abbiamo incontrato tra le pagine dell’Iliade Napoletana.  

Nessun protagonista principale, nessun narratore esterno onnisciente, ma una serie di comprimari e di punti di vista interni multipli che danno voce a una coralità composita di arte e teatro 
Il parallelo con il poema omerico, fatte le debite, ovvie e sostanziali differenze, evidenzia la similitudine di struttura (canti / interruzione di sezione) e una certa consonanza nelle modalità di fruizione del testo, a tematiche e sottotematiche stratificate.  

La struttura ad interruzione di sezione, che porta a frequenti cambi di scena – che aumentano con rapidità esponenziale a mano a mano che la narrazione si avvicina al climax della conclusione, consente la focalizzazione sui diversi filoni narrativi che compongono l’opera, collegati l’uno all’altro da uno, o più personaggi interni alle vicende:  
  • le indagini a tutto campo dell’ispettore di Polizia Carmine Bonocore, impegnato, insieme ai colleghi e ai superiori, nella lotta all’Organizzazione ma anche nella risoluzione di quotidiani (ma non troppo) casi di cronaca, tra cui la vicenda inquietante della sparizione di Attilio De Rosa, maestro di scuola, vittima a quanto pare di un sequestro di matrice satanica e la cruenta esecuzione di due manovali extracomunitari collegata molto probabilmente a un regolamento di conti avvenuto nell’orribile mondo del traffico illegale di organi e nella tratta degli schiavi-bambini  
  • le vicende dell’Organizzazione stessa, guidata da Don Alvaro Spasiano, sovrano iracondo a cui fa capo tutta una serie di protagonisti di minore o maggiore rilievo, dalla manovalanza Chiattillo / L’Afgano a Donna Lisetta Gargiulo la cui figura, in questo ultimo volume, diviene economicamente utile per l’introduzione del filone “iberico” della narrazione, anche qui composta da più comprimari a far da specchio alla realtà italiana:  
  • le forze di Polizia locali, esemplificate da Francisca Vidal de La Cuesta, Evaristo Melina e Antonia “Ana” Gil – che a sua volta, attraverso il piccolo Manuelito, ripropone il tema dell’immigrazione illegale e del commercio di organi e di bambini – presentano al pubblico, fedeli contrappunti alla realtà italiana, i maggiori esponenti della malavita peninsulare: Aingeru Alarte e Riccardo Restepo
  • e poi, a far da cornice, tutta quella serie di vicende secondarie, un po’ comiche, un po’ tragiche, un po’ grottesche, a volte drammatiche, che hanno il merito di offrire una caratterizzazione vivida dei personaggi che completa, definendoli, spessori e profili: Carmine Bonocore alle prese con tragiche crisi di coppia (rigurgito extraconiugale incluso) fomentate da un primo figlio infante che di dormire e di star zitto per due ore di seguito neanche se ne parla e mitigate da una serie di sedute psichiatriche che ci fanno all’improvviso compassionevoli, data la caratura del paziente in esame, verso tutti i terapeuti del mondo, nessuno escluso; Domenico Ferrante, il libraio antiquario, chino a spolverare libri e dolori di affetti perduti tra rimorsi e rimpianti; Vittorio Camporesi, giornalista di talento vittima dalla cocaina e dal mal di vivere; il nobile e ricco notaio Federico Hemmerlink che, chiuso nel suo palazzo dal passato glorioso e dal presente vetusto, tra broccati e marmi di pregio si diletta nella sottile arte dell’occulto, e forse non solo in quella. E, infine, la nostra bellissima Elena Alliuto, che tanta parte ha avuto, e ha tutt’ora, in più di una delle vicende narrate.  
Il mondo dell’Iliade Napoletana non si limita soltanto all’opera di fantasia. E’ una narrazione profondamente radicata nel territorio e nel tempo e quindi, proprio per questo, si trasforma in un certo qual modo in un’opera didattica. l’Iliade Napoletana, come accade per ogni opera letteraria correttamente contestualizzata, non è solo narrazione di fantasia: è finestra aperta su quelle oggettive e reali sostanzialità spazio-temporali che la strutturano dall’interno (ne avevamo parlato anche con “Re di Bastoni, in piedi”, altro incredibile esempio di “letteratura partenopea” di recentissima pubblicazione e ottimo successo).  La tradizione culinaria e la cucina regionale, la lingua e l’espressione dialettale, la ritualità della religione popolare che scivola spesso nella superstizione e nel misticismo e, ahimè, anche la malavita nelle sue più scure e declinate caratteristiche, identificano, senza errore, una marcata regionalità, tutta italiana, che lungi dallo sminuire il testo, lo esalta nelle sue peculiarità letterarie.

"Leielui", di Andrea De Carlo

More about Leielui Ovvero, appunti sparsi per una lettura da geek.

  • E’ che con De Carlo è una battaglia persa in partenza: te ne devi fare una ragione, sperando che ti prenda bene al primo colpo. Se no, so’ cavoli.
Dai primi capoversi puoi decidere che te’ deve pijià er trip della lettura veloce e continua: ti pare cosa buona&giusta, visti i titoli, lo spazio temporale ristretto in cui si svolge l’azione, il periodare contrappuntistico che hai intravisto tra gli incipit, la fruizione del testo; tutte quelle cose lì.
Però poi succede che a metà strada il testo rallenta, interrotto da intere sequenze dialogo-dilogo. Così a mano a mano ti accorgi, piccolo brivido e sorriso ebete alla Vispa Teresa, che qualcosa non torna.
E’ che Sei andato troppo veloce. Sicché, clamorosamente, ti sei perso dei pezzi; no peggio, la trama è ancora lì bella strutturata, non è quello il problema. Il problema sta in tutte quelle robe decarliane, sensazioni, ricordi, immagini, blabla, che non hai proprio raccolto.
Solo che hai voglia a tornare indietro adesso, visto che De Carlo è uno di quelli one-way: o te lo leggi bene la prima volta, o via, finito, fumato per sempre, the end e tanti saluti all’effetto sorpresa (sempre che di effetto sorpresa si voglia parlare, su un De Carlo diciamo, ma ne discuteremo più avanti). Così allora, memore della sòla di cui sopra che ti sei beccato, diciamo, con la lettura di Durante, stavolta ti armi di impegno convinto; maniche arrotolate, occhiali e piglio da duro, sfoderi una pazienza da letterato che neanche su un incunabolo del ‘500 e ti metti lì, a conservare le parole, a centellinarle con dovizia, a vivisezionarle, roba che alla Temperance“Bones” je fai un baffo. Lettura lenta, scrupolosa, frazionata, accurata, da filologo incallito e, diciamocelo, pure un po’ geek. Mai avessi scelto strada peggiore. Arrivi ai dialoghi impreparato, in carenza di ossigeno, e quelli ti si rovesciano addosso troppo veloci, tutto d’un fiato, creando quell’effetto-sceneggiatura del “dice / non dice” che ti sfalsa la comprensione del testo e ti fa gridare allo scandalo. Sacrableu! E quindi? E quindi niente.

Il perché di questa digressione/riflessione.
Perché significa porre in qualche modo le premesse per una lettura criticache nel caso di De Carlo, a parer nostro s’intende, non può dirsi tale se non ricondotta all’estrema analisi del testo, del linguaggio e delle modalità di lettura. Perché tanta parte del “meraviglioso” o dell’ “orribile” con cui anche sul web ci si dichiara pro o contro l’ultima fatica decarliana è dovuta, a nostro avviso, proprio alle modalità di fruizione del testo. E’ facile scivolare sul De Carlo, insomma, basta poco perché si sta sempre appesi a un filo – analisi del testo a far da riflesso puro, vivido, evidente, al contenuto.
  • Detto questo, arriviamo a un breve appunto sulla presunta “originalità” del testo su cui tanto si dibatte. Il personaggio maschile di ADC difficilmente potrebbe essere “originale” in senso stretto. Questo perché De Carlo dipinge il suo tempo e ciò che, nel bene e nel male, lo rappresenta. E così ci ritroviamo tra le mani il classico quarantenne belloccio all’apparenza inconcludente, svogliato, mal assortito, dimentico delle responsabilità della vita adulta – una vaga aria presuntuoso/arrogante che salta al naso. Dall’altra, tutta la serie di figurette belle in fila, soldatini della modernità: Stefano, lui, il Sicuro, il Mai Indeciso, l’Uomo che Tutto Sa, dopobarba di marca e boxer inamidati. Peccato che sia solo scena, ma fa niente. E, detto tra noi, neppure Claire, e l’armata brancaleone delle “colleghe” comprimarie, ci fanno una bella figura. Lavoro sì, lavoro no, figli si, figli no, matrimonio sì, matrimonio no… (aho’, ‘a Ccchiara, datte ‘na mossa che stamo a fa’ notte) . Ma così è. Sia nel libro, sia ogni mattina in metropolitana.
  • Un ultima nota. La Milano di De Carlo. C’è che è sempre bella, anche nella sua bruttezza cementifera. E’ bella nel sole torrido e irrespirabile di agosto, è bella a Novembre sotto la pioggia, è bella quando nevica, è bella, di manzoniana memoria, quando il cielo è blu. E questo De Carlo secondo noi lo sa, se no non ci prenderebbe così tanto impegno nel descriverla. La liquiderebbe in due parole, via, nel cassetto, dimenticata, come tutte le cose non-interessanti. E’ che Milano ti fa fare quello che vuole lei (come De Carlo con la lettura).
Conclusione di questo post inconcludente. L’uomo ondeggia. Di qui, di là; tra paure, improvvise consapevolezze, indecisioni, timori, incertezze, città nuove in cui ricominciare, luoghi del passato da ricordare, da dimenticare, da ritrovare; alla costante ricerca di una chiave di lettura per la realtà che lo circonda (lettura veloce, lenta, frazionata, continua… istintiva, mediata… chi lo sa). D’altra parte, questo esperimento di metatesto l’ha fatto pure Viola Di Grado, no? Con tutte le differenze del caso, ovviamente. 
Via, alla fine consentiteci una citazione da classicisti – quel gran furbone di Seneca mica ci era andato tanto lontano, a rifletterci sopra.

"Nel bosco", di Tana French

More about Nel boscoMore about La somiglianzaMore about I luoghi infedeli In vacanza abbiamo scoperto Tana French. Che beh, non ce ne vogliate ma ha preso un po’ (non TUTTO, ché al cuor non si comanda) di quel posto che era riservato a Patricia Cornwell prima che ci si perdesse sul serio – Kay Scarpetta nell’asetticità banale di una narrazione in terza persona e noi tra le questioni sentimentali Benton/Lucy/Marino che Beautiful in confronto è solo l’apoteosi di una cotta liceale lei, lui, l’altra. Anyway. 


Nulla da segnalare, se non godersi lo spettacolo senza troppe paranoie. Atmosfere da brivido, profumo di sigaretta, cappotti di lana umidi di pioggia, mistero fitto, poliziotti buoni e poliziotti cattivi, delinquenti, assassini e quell’aria tutta dublinese che solo a descriverla, se non sei bravo, ne perdi per lo meno la metà. E soprattutto, l’Essere Umano. Dopo tanta extracorporeità da fenomeno paranormale (vampiri, licantropi, angeli e affini), finalmente gli Uomini. Soli, nell’essenza inalienabile di corpo e mente: belli, brutti, giovani, vecchi. Sposati, single, con figli, senza figli. Buoni, altruisti, empatici, egoisti, cattivi, assassini, fuori di testa. Eppure, sempre uomini, nella quotidianità di un confronto, impari, con le gioie, ma spesso con i drammi, dell’esistenza.

"Le quattro casalinghe di Tokyo" di Natsuo Kirino

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Avevamo affrontato la questione “Nipponica” già qualche tempo fa, qui, a proposito di una giovane e talentuosa (secondo noi) signorina classe 1980 anno più anno meno.
Teniamo a mente questo punto ma facciamo un passo indietro.
Parte della letteratura di viaggio contemporanea, soprattutto quella che potremmo definire “amatoriale” (intendiamo, via blog, o websites) tende per certi versi alla rappresentazione di un immaginario “Nipponico” destrutturato, ricostruito e poi ricontestualizzato alla luce di un’interpretazione occidentale che parte sì da un vissuto reale ma che poi si sfalda, scivolando in quella che pare una proiezione fantastica frutto di una lettura del reale filtrata da codici standard e da interpretazioni di difficile applicazione pratica.
Un esempio per tutti il classico photoshow con, da una parte, giovani ragazze in kimono, impegnate a scegliere frutta e pesce al mercato rionale; dall’altra, studentesse di liceo, minigonna, calze “scese”, accessori manga, unghie laccate e pettinature adatte all’occasione. E ancora, abitazioni tradizionali e grattacieli, ristoranti di periferia e grandi catene alberghiere, anziani in gruppo e sale di Pachinco.
Tutto reale, tutto vero. Ma poco esemplificativo.
Lasciamo da parte (e in sospeso) la questione per rivolgerci ad altro. Eh, fastidioso, lo sappiamo, ma è una questione primaria, dobbiamo accordarci in merito altrimenti non si va da nessuna parte.
Dunque: scordatevi il Giallo; dimenticatelo, malgrado quello che potreste leggere su internet; anzi, lì la questione è stata in alcuni casi così mal posta da inficiare lettura e soprattutto, ahinoi, giudizio.
Di base il delitto c’è, e c’è pure l’assassino. Dite voi, ci sta pure, eh, come struttura; ma che poi no, ribattiamo noi, perché qui quel che manca è il Tenente Colombo. Chiaro che se la prendiamo in questo modo, di stellette gliene diamo al massimo due. Anche perché la trama risulta un tantino prevedibile in tutte le sue sfaccettature, sicché, per la cronaca, a pagina 400 e rotti hai già capito come andrà a finire.
Quindi, riprendiamo (oggi vi facciamo ballare un po’, scusateci, ma è l’unico modo – secondo noi – per capirci qualcosa).
La nostra cara amica Natsuo Kirino è stata così brava da cancellare, in un solo frullo d’ali, tutto quello che pensavamo di sapere, e di conoscere, sulla sua terra. Cancellato, via, depennato con il pastello blu. Con un pretesto che ha del banale: quattro donne, quattro colleghe di lavoro al limite della crisi isterica, sono complici dell’omicidio che una di loro perpetra verso il marito, uomo violento e dedito al gioco e alle donne.
Andiamo a caso.
Si parla di feste tradizionali, di teatro, di musica?
(Oh, il teatro, come adoooriamo le rappresentazioni che ci vengono offerte a pacchetto dalla nostra agenzia viaggi di fiducia)
No, per carità, non c’è alcun accenno ad una seppur vaga vita sociale, o politica, o culturale di un certo rilievo in cui possano essere coinvolte le nostre quattro protagoniste, che o lavorano, o dormono, o guardano la televisione (no, pardon, non la guardano quasi mai in realtà; la tv è mero accessorio, rumore di sottofondo), o sezionano cadaveri (Uhm).
Si parla di indumenti tradizionali o di culto per l’arte, il disegno, l’illustrazione, il colore?
(Oh, l’arte tutta giapponese del colore e della forma, che i nostri negozi “etnici” cercano di riprodurre in tutta la sua purezza con mobilia vintage e quadri d’arredo)
Come no. Dal punto di vista fashion, siamo alla fiera della sciatteria, femminile e maschile: magliette scolorite, colori mescolati alla bell’e meglio, vestiti da uomo di fattura umile, che mal calzano perché o troppo larghi o troppo stretti o troppo corti o troppo lunghi, giacconi rattoppati con lo scotch anche se non mancherebbero i mezzi pratici per acquistarne di nuovi; sciatteria che si contrappone alla ricerca quasi spasmodica per un lusso vero – o finto, pataccato – di cattivo gusto perché focalizzato soltanto sull’esposizione della marca (meglio se italiana) e completamente avulso da questioni del calibro di “stile” ed “eleganza”.
E le tradizioni culinarie? 
(Oh, dobbiamo commentare?)
Ma certamente! L’opera si apre sull’immagine forte, evidente, fredda, asettica di uno stabilimento di cosa? Di cibi in scatola. Confezioni che immaginiamo di plastica, resistenti a freezer e microonde, riempite con dosi standard di riso precotto e congelato, cotolette quadrate di animali non ben identificati, salse scure e untuose.
Cibi che vengono comperati nei supermercati aperti 24 ore su 24, consumati in fretta, scaldati e trangugiati in cucine fatiscenti, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
E cosa dire dell’architettura? 
(Oh, vedi sopra, la voce “culto per l’arte”)
Stanze spoglie, sporche, buie, in case vecchie e diroccate; quartieri dormitorio fatti di porte chiuse, giocattoli vecchi abbandonati nei corridoi, biancheria stesa ad asciugare, odori di cucina; aree dismesse tra erba alta, caseggiati abbandonati e centri commerciali superaffollati.
Non parliamo poi dei rapporti interpersonali. Pare che le regole di buon vicinato si siano mantenute soltanto per una sola, unica questione meramente opportunistica: il turno per gettare l’immondizia.
Per il resto, nient’altro se non un vespaio di vecchie pettegole che non perdono il gusto per la delazione neppure davanti a un morto ammazzato. Anzi.
Colleghi menefreghisti, usurai di quartiere, figlie poco più che adolescenti che per una mazzetta di denaro e qualche vestito di marca si vendono al miglior offerente.
Mononuclei familiari in cui la tradizionale reverenza verso gli anziani è ormai stemperata in un flebile e imprecisato senso del dovere verso genitori lontani, assenti, poco o per nulla conivolti nella quotidianità di figli e nipoti.
Tant’è che l’unico personaggio maschile positivo, depositario di valori forse autentici quali la fedeltà alla propria terra, alla famiglia, all’onestà intima che viene dal lavoro duro, dalla fatica fisica, è Kazuo, il non-giapponese, il reietto, il semi-clandestino che abbandonerà il Giappone e tornerà in Patria.
Curioso, che due scrittrici di calibro e di età differente si trovino ad affrontare le medesime tematiche: la decadenza culturale, il ruolo della donna, schiava della famiglia e vittima di una realtà sociale maschilista e mortificante, il senso religioso dimenticato, il culto del lusso e del denaro fine a se stesso.
A voi le riflessioni del caso.
Nota alla lettura: questo è il primo esperimento del 2011 sulla lunga distanza. Vi avevamo promesso un’opera dal volume consistente, la cui lettura tuttavia non equivalesse di necessità a uno sforzo mnemonico interminabile e lentissimo. Secondo noi, funziona.

"Operaie", di Leslie T. Chang (*)

More about Operaie Se con l’amato Rampini affronti un mondo di cifre, numeri, dati tecnici e testimonianze da puro reportage giornalistico (e del Rampini, una volta iniziato, non ne puoi più fare a meno) qui sei nel regno della meraviglia, nel senso più classico del “tutto è possibile”.
E’ un approccio alla Storia che rivela origini e background culturale dell’autrice, che, seppure nata e cresciuta in USA, accoglie in sé (forse senza nemmeno rivelarlo a se stessa) radici e stili letterari propri di un mondo orientale a noi sconosciuto.
La bibliografia, estremamente curata nei dettagli e l’attenzione all’accuratezza delle fonti, tipica dell’inchiesta giornalistica propriamente detta, vanno di pari passo al racconto del magico e della tradizione: il culto per gli antenati, i riti di passaggio – nascita, matrimonio, morte – ancora così vivi nell’ambiente rurale; il ritmo delle stagioni; la vita in comunità, nel villaggio – una quotidianità fatta ancora di stenti, povertà e commistione promiscua di famiglie, parenti, bambini e animali domestici, tutti radunati sotto lo stesso tetto, a condividere un’abitazione fatiscente priva di riscaldamento, acqua calda ed elettricità, e l’incertezza del domani. Commistione ed esperienze a cui l’autrice non si sottrae ma che, anzi, fa proprie attraverso un percorso di immedesimazione e fascinazione sempre più profonda (e per certi versi, inconsapevole) che la porterà alla fine al recupero della propria storia personale.
Partendo dall’esperienza personale (la sua, e quella delle migranti) l’autrice fa propria la visione storica, tutta orientale, del tutto per la parte: l’esperienza individuale, con il trascorrere del Tempo e delle generazioni, perde il suo carattere di unicità e si fa Storia ed espressione non più del singolo individuo, ma di un popolo intero.
Curiosamente, ed è qui forse, l’esempio più evidente di quell’inconsapevolezza di cui parlavamo più sopra, proprio quella mancanza di individualità che l’autrice lamentava nel corso delle sue interviste alla famiglia di origine è ciò che rimane a noi lettori, a conclusione del reportage.
Le storie di Chumming e Min, abbandonate le particolarità intrinseche tipiche del racconto di esperienze individuali, assurgono a Storia del migrante, attraverso i tempi, i modi e le generazioni. La famiglia dell’autrice, vittima delle rivoluzioni, delle epurazioni, della sventura e dell’esilio, non racconta più soltanto la storia di individui specifici, ma la Storia di tutto il popolo cinese.
Il libro delle genealogie, con i suoi dati scarni e vergati a fatica, è testimone di un processo storico impensabile ai nostri occhi occidentali: il respiro di una civiltà millenaria in continua trasformazione; il tutto in parte, il ritorno all’unità Storica attraverso la parcellizzazione del reale.  

(*) Anche noi partecipiamo alla campagna NastroRosa per la prevenzione del tumore al seno!