"La lotteria", di Shirley Jackson

Se volete concludere la domenica con un buon libro non dovete fare altro che prendere in mano questo agile volumetto di racconti
La più riuscita short storydella raccolta è sicuramente “La lotteria” – il componimento che dà il titolo all’opera – già di per sé caso letterario all’epoca della pubblicazione. La breve novella infatti, prima di diventare un grande classico della narrativa horror americana (adattato perfino per cinema e tv) comparve sul New Yorker il 26 Giugno 1948 e sollevò, per lo stupore della stessa autrice, un incredibile vespaio di polemichee un coro quasi unanime di voci scandalizzate: basti sapere che decine di lettori sconvolti cancellarono il loro abbonamento e centinaia furono le lettere indirizzate alla redazione, sia per criticare apertamente l’opera sia per domandare, inevitabilmente e nei toni più angosciati, dei chiarimenti che venivano sentiti come necessari e imprescindibili.

Lo stile è quella paratassi lineare e di stampo prettamente giornalistico a cui Shirley Jackson ci ha abituati; le descrizioni sono pennellate spesse e rapide, impreziosite da qualche dettaglio vivido e particolare, inciso col cesello come una miniatura. L’ambientazione, l’America rurale e postbellica tanto cara all’autrice che sa magistralmente coglierne le luci – e naturalmente anche le ombre più cupe.
Avvertenza: poi però sarete costretti a osservare da tutt’altra prospettiva la cara, vecchia e innocua tombola di Capodanno, con le tessere mangiate agli angoli da decenni d’uso e i segnaposti sbeccati.  

“Gli attrezzi originari della lotteria erano andati perduti molto tempo addietro, e la bussola nera che ora stava sullo sgabello era entrata in uso ancora prima della nascita del Vecchio Warner, l’uomo più anziano del paese. Mr. Summers parlava spesso ai paesani dell’opportunità di fare una cassetta nuova, ma l’idea di alterare anche quel poco di tradizione rappresentato dalla bussola nera non piaceva a nessuno” (pag. 14)


"Come finisce il libro", di Alessandro Gazoia

“Come finisce il libro” ha un merito: una fruibilità che rimane comunque a largo spettro nonostante il target a cui si riferisce sia di necessità circostanziato.
L’approccio tuttavia non indugia mai nel generalista: ciascun lettore può, a seconda dell’interesse, approfondire le proprie conoscenze senza il timore di affrontare il “già detto” ma anche avere l’opportunità di confrontarsi con temi magari non di propria competenza certo di accedere a informazioni chiare, complete e mai scontate (anche grazie al ricchissimo apparato in nota).

Nell’introduzione, seguendo l’iter di un immaginario lettore medio/forte alle prese con la scelta e l’utilizzo un testo, l’autore illustra brevemente la filiera completa del processo editoriale alla luce dei profondi cambiamenti introdotti dalla rivoluzione digitale, soffermandosi in particolare sull’analisi delle necessità del lettore (scelta del supporto, facile reperibilità del testo, necessità o meno della relazione “social” con altri lettori etc) in rapporto all’offerta proposta dalle case editrici – e/o dai colossi dello shopping on line / della pubblicazione a pagamento / del selfpublishing.

Seguono poi tre parti di approfondimento dei temi trattati nell’introduzione. 
– Il capitolo “Pubblicazione” si propone di affrontare temi quali l’editoria a pagamento sia nella “tradizionale” versione cartacea sia in quella di “ecosistema” – cartacea o unicamente digitale – offerta dal web (Kindle Direct Program, Amazon CreateSpace, IlmioLibro etc – numeri alla mano sempre citati sia nel testo sia in nota). Prospettiva che viene a stravolgere l’idea stessa di “pubblicazione” da sempre conservata nella mente del lettore quale imprescindibile punto di riferimento:

“La pubblicazione non è insomma un interruttore della luce che prevede solo lo stato di acceso e spento: quando diciamo che un autore “debutta con Mondadori” intendiamo che ha meritato di pubblicare il suo primo romanzo presso quella grande casa, e diamo per scontato che si sia fatto conoscere con altre prove più brevi: in questi anni avrà pubblicato sul suo blog personale, su un sito culturale collettivo, su un giornale locale e poi nazionale, in una racconta di racconti di giovani talenti presso una piccola casa editrice, ecc” (kindle, pos. 723)


(Digressione interessante è quella, stimolata dall’analisi di un brano da “Il pendolo di Focault”, sul sistema adottato da sempre più CE che si vedono “costrette” a pubblicare testi di qualità letteraria perlomeno dubbia ma di risultato soddisfacente al botteghino per poter poi permettersi l’eventuale flop di vendite dell’autore colto).

Al pari dell’autore autoautorizzato, viene a crearsi quindi tutta una serie di lettori digitali “autoautorizzati” che:

“commentando direttamente e in prima persona il testo pubblicato, elimina il ruolo di mediazione del critico” (829)

siamo qui all’analisi del fenomeno del social reading tra blogs, piattaforme di lettura condivisa, newsgroup “letterari”. Interessantissima tutta la bibliografia in proposito, citata sia nel testo sia in nota. Discorso a parte – e infatti anche questo intrapreso – merita il concetto di “discoverability”, ossia la capacità dell’autoatore di auto-promuoversi utilizzando tutti i canali di cui si possa disporre, dal filtraggio algoritmico operato da Amazon, ai blog, alle CE tradizionali che sempre più spesso vanno a caccia di nuovi talenti surfando sui siti di selfpublishing (con tutte le questioni che ne derivano, culturali, etiche ed economiche).

Nella seconda parte (“Digitale”), l’autore concentra l’analisi sull’aspetto che contraddistingue e differenzia profondamente l’editoria passata da quella presente, ossia la fruizione del testo in maniera digitale: ereader, ebook, formati open e protetti, Amazon e il meccanismo tutto Kindle del “being locked-in” e non si dimentichi la questione economica del costo marginale zero e il problema delle biblioteche digitalizzate e digitalizzabili). L’acquisizione di una conoscenza un po’ più profonda dell’argomento val bene la fatica di star dietro a qualche tecnicismo.

La terza parte “Miti/Social” è dedicata alla socialità del libro, ossia a tutti quei fenomeni di studio, analisi e rielaborazione comunitaria del testo esplosi con l’avvento delle nuove tecnologie. Piattaforme come fanfiction.net assecondano il desiderio del lettore (sempre esistito per la verità) di approfondire, ricreare e riscrivere, quindi senza mai abbandonarle, le storie degli eroi preferiti, siano essi i mitici Sherlock Holmes e Watson, o i personaggi di Harry Potter – senza dimenticare che uno dei più impressionanti “casi editoriali” del 2013 è rappresentato dalle famose cinquanta sfumature, niente più che, alle origini, una fanfiction basata su alcuni personaggi della Twilight trilogy.

“Come finisce il libro” non offre soluzioni, al contrario concede al lettore una pausa di riflessione per far sì che si concentri sulla materia e sulla forma del testo che tiene tra le mani. 

Ed ecco qui le misere note a margine di ADC – condivise anche su Twitter.
  • Che cos’è un lit-blog? In che modo, attraverso quali mezzi, e soprattutto da chi viene definito tale?
    Si scherzava, ma non troppo, relativamente alla questione.
    E’ spesso abbastanza sottile il confine che separa il “lit-blog” specie monoautore e il sito web di “uno che legge e che si trova, così tanto per, a scrivere di quel che legge”. Anche perché se tutti i website che parlassero di lett(erat)ura venissero così  d’emblée (auto)definiti “lit-blog”, a qualcuno non verrebbe la necessità di dover trovare un altro, più efficace modo, di fornire attributi di genere a un “mostro sacro” come, per esempio, Nazione Indiana (forse… Senior lit-blog?)? Sicché: cos’è, un lit-blog? Questione complessa e probabilmente al momento irrisolvibile, ma tant’è, qualche domanda occorre sempre porsela.
  • Posto che il lit-blog sia stato creato quale terreno fertile di confronto, scambio e condivisione di cultura fra i curatori e gli utenti, in che modo esso si pone nei confronti del materiale preso in esame?
    Per il (lit)blogger si apre un ventaglio di opzioni difficilmente quantificabile a causa dell’estrema vastità e variabilità dell’offerta: si va dalla posizione ferma, dura e pura di che non accetta alcun testo in copia promozione stampa e parimenti non fa certo del rapporto diretto con lo scrittore o con le CE uno dei temi core del proprio sito web, a “redazioni” all’opposto aperte a variegati esempi di collaborazione con CE ed autori, dall’ “anteprima”, alle “impressioni”, alle interviste con lo scrittore fino all’ospitata di autori e referenti delle CE in incontri on line appositamente creati. Due paradigmi completamente opposti che forse vale la pena di considerare attentamente, con tutto quel che sta loro nel mezzo, perché non si tratta di una situazione esclusivamente autoreferenziale ma coinvolge un soggetto imprescindibile quando si parla, appunto, di terreno fertile di confronto, scambio e condivisione di cultura: il pubblico, fruitore del blog.
  • “Come l’autore autoautorizzato insidia la figura dello scrittore ed elimina il ruolo di mediazione dell’editore, così il lettore digitale, commentando direttamente e in prima persona il testo pubblicato, elimina il ruolo di mediazione del critico. (il blog) si propone come una forma di superamento della mediazione critica, o meglio di opposizione alla mediazione tradizionale” (829)
    E quindi? Probabilmente a tutt’oggi “noi bloggers” (ehm) non possiamo fare altro che tenere sempre bene a mente il concetto di responsabilità individuale nei confronti di terzi (ossia “quelli che ci leggono”) e agire un po’ di conseguenza ognuno secondo le proprie sensibilità, per altro senza cadere mai nell’equivoco, foriero di fraintendimenti, del: il lit-blogger “lavora nell’editoria”.

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E infine, che dire? Anche sui prodotti editoriali sarà utile e necessario, per salvaguardare il criterio di libera scelta del lettore, inserire la lista dettagliata degli ingredienti? Chi mi ha risposto su Twitter, anche in DM, ha detto di sì.

Buona lettura 🙂

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"Tokyo Sisters", di Raphaelle Choel e Julie Rovéro-Carrez

Mescolando la freschezza dei trent’anni e il rigore tipico del reporter d’oltralpe, Raphaelle Choel e Julie Rovéro-Carrez ci raccontano al di là del preconcetto e dello stereotipo un mondo femminile affascinante, contraddittorio e per lo più sconosciuto. Lontane da ogni intento didascalico o moraleggiante, si accostano alla femminilità nipponica (edochiana, per la precisione) desiderose di un confronto alla pari nel quale entrambi i soggetti – intervistatrice e intervistata – avranno modo di apprendere, sperimentare e far propria una cultura differente da quella di origine e, perché no, smussare le asperità personali.

A scardinare il proverbiale riserbonipponico ci pensano la spontaneità e la chiarezza di intenti delle due giornaliste che rapportandosi in maniera fortemente empatica con le proprie interlocutrici ricevono in cambio confidenze autentiche e schiette sugli aspetti più intimi della femminilità nipponica. Dalla vita di coppia pre e post-matrimonio, alle difficoltà nel coniugare il ruolo di donna (spesso in possesso di un’ottima istruzione universitaria), moglie e madre all’interno di una società che non fa certo delle pari opportunità un punto a favore, il filo rosso che lega le decine di testimonianze è una sostanziale ricchezza di spirito declinata tutta al femminile, sostenuta da una profonda spiritualità che tuttavia ogni giorno si confronta (e si scontra) con l’iperstimolazione sensoriale offerta dai nuovi media e soprattutto dall’occidentalizzazione di massa a cui il paese è ormai sottoposto.

Così l’edochiana media che per tradizione, fino a un ventennio fa, si era dedicata alla propria carriera limitandola agli anni pre-matrimoniali o comunque non oltre la nascita del primo figlio, ora si rivolge al mondo del lavoro con il desiderio di sviluppare le proprie caratteristiche professionali ben oltre il classico ruolo di office-lady cui era stata costretta per anni. Fioriscono così le managers laureate all’estero con il massimo dei voti e poi rientrate in patria decise a conquistare posizioni di vertice all’interno di companies di rilevanza internazionale; determinate a organizzare al meglio anche la propria vita privata senza rinunciare né al tempo libero, né alla famiglia, né ai figli, rivendicano quelle pari opportunità che hanno imparato ad apprezzare grazie alle esperienze estere, dall’abolizione dei famigerati “soffitti di cristallo” alla creazione di asili nido aziendali fino all’organizzazione di turni di lavoro che permettano un’adeguata working-life balance.

Di contro, l’occidentalizzazione dei costumi ha definitivamente relegato il kimono in soffitta, limitando a quei pochi giorni di festa concessi ogni anno (la golden week primaverile, più qualche altra giornata sparsa qui e lì) non solo l’utilizzo degli abiti tradizionali ma anche la visita ai luoghi simbolo della spiritualità nipponica e la celebrazione di rituali antichi e di indubbio significato storico e antropologico (come per esempio la cerimonia del tè, sempre meno conosciuta nei dettagli e di conseguenza sempre meno praticata nella sua interezza). Al posto dell’indumento principe dell’edochiana doc (che fino a qualche decennio fa ancora si declinava in varie fogge e misure a seconda della stagione e dell’occasione d’uso) stanno le maison dell’abbigliamento di lusso, di cui la popolazione femminile nipponica è divenuta ghiotta: Vuitton, Gucci, Prada hanno eletto Tokyo a dimora permanente e il Giappone è uno dei Paesi al mondo leader… nel consumo di cosmetici. Parimenti, il junk-food all’occidentale, consumato per strada, va ormai di pari passo con il classico bento, equilibratissimo mix di carboidrati, proteine e vitamine, ogni mattina composto amorevolmente della mamma e affidato alle mani di figli e mariti che lo consumeranno all’asilo, a scuola o in ufficio. Per non parlare del matrimonio, rimandato fino al termine ultimo concesso (30anni) perché rimpiazzato da una serie pressoché infinita di anni spensierati ma poi spasmodicamente ricercato e infine celebrato nella maniera più tradizionale possibile – e non manca neppure chi si rivolge ancora al sensale per trovare moglie, o marito.

Il merito di Choel e Rovéro-Carrez sta proprio qui: nell’aver mostrato e reso evidente attraverso questo preciso reportage (che per altro non sfigurerebbe neppure tra le guide turistiche, tanto sono precisi i riferimenti ai luoghi di interesse, dai ristoranti più raffinati alle piazze in cui si radunano comunemente i partecipanti ad un certo tipo di cosplay fino alle più ricercate stazioni termali raggiungibili in un’ora di treno da Tokyo) la vera sfida che il Giappone di oggi deve affrontare: il mantenimento e la conservazione della propria, peculiare individualità a fronte di un’occidentalizzazione ormai marcata e inevitabile che se da una parte possiede il valore di un rinnovamento – nei costumi, nella cultura e nella produttività – assolutamente necessario, dall’altro rischia di incenerire in uno sol colpo tradizioni e spiritualità millenarie. Alle donne – alla loro intraprendenza – è affidata questa delicatissima missione.

#lettidinotte #tokyosisters #notturnogiapponese #libreriaAzalai #milano

Buona lettura 🙂

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"Germania anni dieci", di Gunter Wallraff

Gunter Wallraff (Burscheid 1942) è giornalista e scrittore tedesco, noto a livello internazionale per i suoi reportage basati per la maggior parte sul metodo della notizia di prima mano ricavata da un’esperienza sotto copertura.
Figlio di un meccanico della Ford, appassionato di scrittura e giornalismo fin da ragazzo, operaio in gioventù e attivista politico – subì anche la reclusione in Grecia tra il 1974 e il 1976 – cominciò presto ad interessarsi al mondo del servizio di inchiesta testimoniando a soli vent’anni le difficili condizioni di lavoro degli operai della fabbrica ThyssenKrupp presso cui lavorava e raggiungendo poi la notorietà a seguito della pubblicazione di queste inchieste. 

Da qui, un escalation di narrazioni di impegno sociale e politico – sempre ottenute dall’esperienza diretta sotto copertura – volte a documentare alcune delle più difficili realtà professionali del Paese.
Si va dall’inchiesta Bild-Zeitung, nota rivista scandalistica che, secondo la testimonianza del giornalista, adottava metodi discutibili per ottenere il materiale desiderato, che poi veniva per altro pubblicato in maniera volutamente distorta, all’incredibile reportage “Faccia da turco” – divenuto un testo di valore internazionale – che riferisce dei due anni trascorsi alle dipendenze di un McDonald’s prima e poi della stessa Thyssen sotto il camuffamento di un emigrato turco.
Nel volume “Notizie dal migliore dei mondi” sono raccolte invece alcune delle inchieste a sfondo prettamente sociale (condizione degli immigrati, verifica delle realtà assistenziali di emergenza per senzatetto etc) che Wallraff realizzò per il settimanale Die Zeit a partire dal 2007.

In questo “Germania anni dieci” sono raccolte cinque storie di “ordinario malcostume tedesco” in fatto di lavoro e politiche sociali ad esso collegate. Wallraff, fattosi assumere come operaio (mentendo sulla sua età – da 70 a 50 anni – senza che nessuno si prendesse la briga di controllare seriamente documenti e referenze) presso un panificio industriale fornitore del colosso Lidl, testimonia una realtà disperata fatta di stipendi minimi, precarie condizioni igieniche, inesistenti misure di sicurezza tra esalazioni tossiche, piastre bollenti e panini ammuffiti. Medesima realtà ritratta ascoltando le numerose rivelazioni, anonime e no, dei dipendenti (baristas e Store Managers) degli Starbucksnazionali, vittime di turni h0-24 non stop (con relativo “pisolino” tra i sacchi del caffè nel momento in cui, in barba alle norme vigenti, non ci sia il tempo per tornare a casa) e mobbing aziendale nel caso di assenza per malattia o infortunio. Altro livello professionale ma identica condizione di sudditanza pratica e psicologica per i dirigenti delle ferrovie statali tedesche, o meglio per quelli tra loro non allineati con la recente politica di estrema espansione adottata attraverso la privatizzazione e l’esternalizzazione dei servizi core e delle infrastrutture, messa in atto dagli amministratori delegati e dal CDA di gruppo: si va dal mobbing professionale e personale (ottenuto anche attraverso lo spionaggio di emails e pc), alle minacce, ai demansionamenti. E su tutto, i ritardi sempre più frequenti – e gli incidenti, anche gravi – di cui sono vittime le migliaia di ignari (?) passeggeri che ogni giorno salgono su un treno DB o su un convoglio della metropolitana. Per non parlare del capitolo riservato al corriere GLS, i cui autisti, tra cui l’infiltrato Wallraff, assunti spesso attraverso subappalti in odore di criminalità, conservano nel cruscotto dei fatiscenti furgoni che sono costretti a guidare (e che lanciano a velocità folli lungo tutte le strade del Paese) casse intere di energy drinks e analgesici senza i quali non riuscirebbero a sostenere il peso psicologico e fisico di 15 ore di turni ininterrotti.

“Tutto quello che i colleghi in questo periodo mi hanno raccontato, la devastazione di corpo e anima che questo lavoro gli ha provocato… Credevo che dal primo capitalismo in poi cose del genere non esistessero più, o che si verificassero solo in quei continenti che noi definiamo <>” (p175: “Il Fardello dell’altro – autista e fattorino per il corriere GLS”)

Una Germania inedita, dunque, lontana dallo stereotipo di buona condotta a cui siamo stati abituati: perché se è vero che – ma altri dati sembrano smentire i comunicati ufficiali – il tasso della disoccupazione teutonica è il più basso di sempre e i numeri della produttività sfiorano il massimo europeo, è anche ormai assodato che l’obolo pagato per ottenere simili risultati ha la forma dei mini-jobs (lavori con uno stipendio massimo di 450eu/mese e con un monte ore – teorico naturalmente – di 15/week), del subappalto in mano a criminalità più o meno organizzata, di condizioni di lavoro precarie non solo dal punto di vista contrattuale ma anche da quello della sicurezza, dell’igiene e di stipendi medi che si aggirano sulla cifra limite di 4-5eu/h.

Realtà che Gunter Walgraff testimonia con lucidità e coerenza, certificate proprio dal metodo utilizzato, quello dell’esposizione in prima persona, che ne garantisce la veridicità. Un giornalista d’assalto che tuttavia, mantenendo il piglio del letterato, mai scade né in un facile paternalismo né in uno scontato populismo legato con filo doppio a contesti eccessivamente politicizzati – e da show televisivo.

Buona lettura 🙂

"Come fossi solo", di Marco Magini

Piace pensare (e avere poi anche conferma del fatto) che la letteratura italiana contemporanea sia ancora in grado di occuparsi della realtà delle cose. 

A MMagini si deve il coraggio di un esordio non convenzionale che pur rientrando a pieno titolo nei canoni della narrazione di fiction si inserisce con prepotenza all’interno di una tradizione giornalistico-documentaria di più ampio respiro. 

L’autore infatti si confronta con un fatto storico di clamorosa portata, la strage di Srebrenica del 1995 e il successivo processo ai colpevoli istituito dal Tribunale Internazionale dell’Aia, innestando su una trama per due terzi fittizia (ma assolutamente verosimile, poi si vedrà il perché) un enorme lavoro di documentazione storica durato più di tre anni, volto alla ricerca della verità dei fatti – e poi alla testimonianza e alla memoria – così come avvenuti nella loro orribile brutalità.  
Il che non vuol dire creare personaggi simulati per inserirli poi in un contesto storico, sociale e/o politico preciso e significativo, che quindi viene a ritrovarsi semplice struttura scenografica di appoggio utile unicamente allo sviluppo della trama, strettamente collegata ad essi e su di essi tailor-made; significa piuttosto raccontare una storia – anzi La Storia – innegabilmente costruita dagli individui, siano essi (nel bene e nel male, occorre sottolineare questo punto) protagonisti, comprimari o semplici comparse. Questo accade in “Come fossi solo”:  immaginarie sono le figure di Dirk, casco blu olandese di stanza a Srebrenica, e del giudice spagnolo Gonzales, inviato all’Aia in qualità di giudice internazionale nel processo Erdemovic. Drazen Erdemovic, appunto, il terzo protagonista, il personaggio più scomodo dei tre, e quello – l’unico – realmente esistito: un giovane serbo-croato che vede nell’arruolamento all’esercito serbo l’unica speranza per sopravvivere alla guerra e per salvare la moglie e la figlioletta di pochi mesi, nonché unico reo-confesso del genocidio e per questo condannato dal Tribunale Internazionale a dieci anni di carcere, poi ridotti a cinque.

Tre uomini, tre voci, tre simboli: chi c’era e ha partecipato, chi c’era e non ha potuto impedire lo svolgersi della tragedia, chi non c’era ma ha poi ricevuto l’investitura per giudicare l’accaduto. 
Magini non cede allo spirito giustizialista del romanzo (giallo) e non si accanisce sul colpevole: primo perché è ben conscio della linea che l’opera deve di necessità seguire, secondo perché di cattivi non ce n’è. O meglio, co-responsabili lo sono tutti: il protettore che anziché preservare l’incolumità di innocenti civili si fa inerme spettatore se non addirittura complice del nemico; la giustizia che al posto di cercare e punire i veri colpevoli (ricordiamo, ancora oggi tutti dediti al gioco del gatto col topo) si limita ad emettere una sentenza le cui motivazioni non sempre appaiono limpide e super-partes; il soldato inerme che, pur di salvaguardare la propria incolumità, si trasforma in carnefice, stupratore e pluriomicida. 

Da qui la necessità per l’autore di utilizzare il medesimo registro linguistico per tutti e tre i personaggi (scelta da alcuni giudicata inopportuna): per evitare un’eccessiva focalizzazione narrativa sul singolo, enfatizzando piuttosto – attraverso l’assoluta mancanza di retorica che il livellamento della lingua tiene efficacemente a bada –  l’unicità e la complementarità dell’esperienza dei tre protagonisti; esperienza che in questo modo risulta ampiamente credibile e assolutamente verosimile ma al contempo universale e paradigmatica. 

“L’imputato doveva essere assolto, ma la sentenza avrebbe dovuto porre l’accento anche su come un individuo maturi le sue scelte. Quella che noi siamo abituati a chiamare Storia non è altro che l’insieme delle azioni di grandi uomini, siano essi esempio di grandezza assoluta o sintesi di malvagità estrema. Ma il motore della Storia è un altro. Il motore della Storia sono i milioni di uomini che lottano con le loro inadeguatezze, con le loro paure e le loro ambiguità. Persone che non prendono decisioni nette, ma che fanno del loro meglio” (Giudice Romeo Gonzales, p179)

La profondità dell’opera naturalmente sta non solo nel tentativo di offrire una chiave di lettura veritiera e utile per interpretare un fatto storico recentissimo su cui l’Europa pare non aver riflettuto ancora a sufficienza,  ma anche in quello di porsi con occhio critico di fronte al ruolo che le organizzazioni internazionali hanno ricoperto e ricoprono tutt’ora all’interno dei recenti conflitti. Riflessioni tanto più importanti perché originate da una mente giovane evidentemente digiuna – per cause meramente anagrafiche – del ricordo di prima mano che viene dall’esperienza vissuta.    
Non per nulla “Come fossi solo” è risultato il destinatario della “menzione speciale giuria” al Premio Calvino 2013, diventato con gli anni “una delle migliori officine letterarie in Italia,  in grado di scoprire sempre autori, non solo di buon livello, ma anche di indubbia autenticità nella scelta dei temi da raccontare” (Fulvio Panzeri, Avvenire 16/01/2014 p21), con questa motivazione: “Un esempio di letteratura di testimonianza che affronta con coraggio e in maniera attentamente documentata una pagina vergognosa e rimossa dell’Occidente”. 

Buona lettura 🙂 

"La Collina", di Andrea Cedrola e Andrea Delogu

Quando ci si imbatte in certi racconti l’unica necessità è quella di sospendere il giudizio, mostrando così il rispetto dovuto nei riguardi di una esperienza personale dirompente e per questo indiscutibile a prescindere – a meno di non averne vissuta una simile in prima persona.
Questo è ciò che capita quando si affronta “La Collina”, romanzo scritto a due mani (Andrea Cedrola, 33 anni, sceneggiatore, e Andrea Delogu, 32, conduttrice tv, attrice, appassionata di musica e seguitissima blogger) che racconta le vicende accadute a Valentina Carrau, dieci primavere quasi tutte trascorse all’interno della comunità di recupero presso cui i genitori, vittime dell’eroina, avevano trovato rifugio all’inizio degli anni ’80.
Esperienza in parte realmente vissuta proprio da Andrea Delogu, figlia di uno dei primi assistiti dalla comunità di San Patrignano poi divenuto, col tempo, addirittura l’autista e l’uomo di fiducia di Vincenzo Muccioli. La narrazione infatti prende spunto dalla vita di Andrea, cresciuta in comunità durante l’infanzia, ma poi ripercorre – attraverso i ricordi personali dell’autrice e di tutti coloro che le hanno offerto testimonianza nel corso degli anni – anche le vite di tanti altri tossicodipendenti che la comunità ha salvato, o anche, purtroppo, irrecuperabilmente spezzato. E’ un documento forte, sebbene non contenga nulla di nuovo rispetto a quanto si è detto e scritto nei confronti della comunità di San Patrignano negli ultimi trent’anni, ed emotivamente coinvolgente – specie se si pensa al silenzio dell’autrice a riguardo, quasi ventennale.
Lo sguardo di Valentina è sincero e aperto al mondo che la circonda, un microcosmo che Andrea Delogu ricorda e descrive con premura e tenerezza: fatto di natura, spazi aperti, animali, avventure con i coetanei; una realtà innegabilmente altra rispetto alla vita esterna e per tanti versi migliore, più semplice e più adatta alle necessità primordiali dell’essere umano: la condivisione dei successi e delle difficoltà in un clima di forte supporto collettivo, reciproco e autosufficiente, affetto e, paradossalmente, serenità emotiva.
Verrà poi, inevitabile, il momento delle domande, della critica, dei dubbi e addirittura dei sospetti verso quel sistema di pedagogia autoritaria di cui Riccardo Mannoni, leader carismatico della “Collina”, è fautore, e verso l’istituzione stessa della comunità terapeutica, un’enclave chiusa dall’interno e sufficiente a se stessa, in cui talvolta le relazioni sociali, lungi da essere pari, finiscono per nascondere invece fortissime gerarchie di potere basate sulle fragilità degli individui che la compongono e la alimentano.
“La Collina” è un’opera narrativa pensata e studiata attentamente, nelle forme e nei contenuti. Non è soltanto una (auto)biografia intima e accorata ma anche una testimonianza corale di un mondo e soprattutto di un’epoca. Un lungo momento di riflessionedall’equilibrio notevole; un testo deciso, teso, in vibrazione costante, mai aggressivo o esagerato né nei toni né nelle rappresentazioni.
Buona lettura 🙂

"1913, l’anno prima della tempesta", di Florian Illies

Potrebbe sembrare soltanto un divertissement da salotto. Ad uso ed esclusivo consumo, per altro, di lettori già avvezzi alla materia e al modus scrivendi tipico di questo genere letterario che sta a metà strada tra l’approccio analitico dello stile giornalistico e la poesia del romanzo d’invenzione.   

Già, perché qui sta il punto, di che cosa parliamo quando parliamo di 1913. 
Florian Illies, giornalista del quotidiano tedesco Die Zeit e storico dell’arte (appunto, vedi sopra), riesce nell’impresa di raccontare un anno particolare e unico della storia mondiale – quello precedente allo scoppio della prima guerra mondiale – partendo non dai fatti ma dagli individui
Un metodo di analisi né convenzionale né nuovo (ricordiamo per esempio la “Storia confidenziale della letteratura italiana” di Giampaolo Dossena, Milano 1987-94), sempre interessante e non certo di facile gestione quanto più i personaggi si fanno tanti, famosi – chi già, chi non ancora – geograficamente itineranti e caratterialmente sfaccettati.

Sì perché Illies, dei fatti, quelli importanti, quelli che hanno fatto la Storia, non parla mai. Si possono leggere sui manuali – dice. Quello che sui manuali non puoi leggere è, invece, l’interconnessione
Per esempio, pochi forse hanno mai dato peso alle passeggiate invernali dell’esiliato Josif Stalin negli splendidi giardini di Schonbrunn – Vienna. Escursioni digestive che il suddetto probabilmente condivideva – almeno geograficamente – con un giovane, anonimo acquarellista di strada pure lui appassionato podista viennese: Adolf Hitler. Nello stesso periodo, sempre a Vienna, Stalin e Trotzkij si stringono la mano mentre due vip del momento, Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, litigano di brutto e si lasciano – per sempre – in malo modo. Ce n’è per tutti: futuri dittatori, capi di stato, militari di professione ma anche artisti, pittori, filosofi, scrittori, socialitè. Duchamp fa il botto a New York, Proust ha da combattere le stroncature parigine al primo, monumentale volume della sua Ricerca. Schonberg viene letteralmente preso a schiaffi dal suo pubblico (le sperimentazioni musicali non sono certo per tutti); a Praga Kafka scrive e combatte le sue paranoie amorose, Mann e Rilke cercano di fare lo stesso nelle rispettive location. 
Ci vorrebbe googlemaps, per tracciare tutti i sentieri, gli scarti del pensiero, la geografia degli spostamenti di questi uomini che, nel bene e nel male, hanno poi fatto la Storia.

Solo un divertimento letterario, si diceva, anche abbastanza colto e di non facile lettura? Attenzione a non farsi ingannare dall’approccio finto-divulgativo. Sì perché Illies ci strizza l’occhio e come nella fiaba di Pollicino semina briciole di pane che occorre essere abili a raccogliere. C’è qualcosa, che accomuna questa girandola di personaggi, questi labirinti praticamente inestricabili di lettere, messaggi, parole sussurrate, incontri fortuiti: un’inquietudine sottile, una febbre leggera, sottopelle, che a poco a poco, col passare dell’anno, si fa più insistente e fastidiosa. Tra le personalità più eminenti della letteratura e dell’arte (o quelli che famosi lo diventeranno poi) serpeggia un malessere tutto intimo e personale (la famosa “nevrastenia”) che si fatica ad ascrivere a una situazione con molta probabilità esterna al sé. E’ quel non stare bene da nessuna parte che spinge gli Uomini all’azione e al cambiamento ma che talvolta li rende anche ciechi di fronte all’universale, persi nell’intento di gestire la propria, dirompente, individualità. E quando l’universale si fa tempesta, allora l’importante è sì studiare il passato per trarne insegnamento ma anche essere consapevoli delle interconnessioni praticamente infinite – e soltanto intuibili – che ci circondano. 

L’opera di Illies è stata accostata, in sede critica, a un’altra di recente uscita: “I sonnambuli – Comel’Europa arrivò alla Grande Guerra” di Christopher Clark – Laterza 2013.

“1914. Re, imperatori, ministri, ambasciatori, generali: chi aveva le leve del potere era come un sonnambulo, apparentemente vigile ma non in grado di vedere, tormentato dagli incubi ma cieco di fronte alla realtà dell’orrore che stava per portare nel mondo”.

Recita la sinossi. Un livello di consapevolezza assai scarso, paragonabile (ahinoi) a quello odierno. I parallelismi, insomma, sono evidenti e vale la pena analizzarli. Se Clark affronta il tema col piglio autorevole del professore (di Storia moderna all’Università di Cambridge), Illies sfodera uno stile giornalistico mitigato dalla fascinazione propria del romanziere, lasciando ampio spazio alla creatività dell’Uomo, di cui viene lodato l’estro artistico, la flessibilità mentale, la resilienza.

Un’opera dal potenziale iconografico enorme, una sfida per la nuova frontiera degli enanched book.

Buona lettura 🙂

"Storia delle terre e dei luoghi leggendari", di Umberto Eco

Che cos’è la #storiadelleterreedeiluoghileggendari ce lo racconta Umberto Eco fin dalla prefazione:

“Qui non ci occuperemo di luoghi “inventati” (…). Si tratta di luoghi romanzeschi, che lettori fanatici tentano talora di individuare senza grande successo. Altre volte si tratta di luoghi romanzeschi ispirati a luoghi reali, dove i lettori cercano di ritrovare le tracce dei libri che hanno amato. (…) Addirittura accade che luoghi fittizi siano stati indentificati con luoghi reali (…). Ma qui ci interessano terre e luoghi che, ora o nel passato, hanno creato chimere, utopie e illusioni perché molta gente ha veramente creduto che esistessero o fossero esistiti da qualche parte”. (p7)

Si parte da Atlantide (“Terre che certamente non esistono più ma che non è da escludere siano esistite”) per arrivare a Shamballa (“A cui alcuni attribuiscono una esistenza totalmente ”) senza dimenticarsi dei luoghi menzionati solo dalle fonti bibliche, come il paradiso terresteo il paese di Saba, ma verso le quali si mossero in molti, primo tra tutti Cristoforo Colombo. E infine terre realmente esistenti alle quali l’uomo ha assegnato nel corso dei secoli una precisa mitologia: Alamut, Glanstombury, Rennes-le-Chateau, Gisors.

Che cosa hanno in comune quindi tutti questi luoghi?

Sia che dipendano da leggende antichissime (…) sia che siano effetto di una invenzione moderna, essi hanno creato dei flussi di credenze” (ibid.)

Un’opera da consultazione, questa, che si avvale di supporto consistente, fatto prima di tutto di un packaging prezioso. L’apparato iconografico è composto da illustrazioni imperdibili (le abbiamo condivise recentemente anche in qualche twitt) ed estremamente interessante è l’analisi delle fontiin calce ad ogni sezione.

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Da leggere con tenacia e leggiadria insieme, lentamente, lasciando decantare ogni capitolo.
ADC lo sta facendo ora, in queste lunghe notti di influenze e di febbri di bambini. Perché se come disse FS Fitzgerald “In una notte dell’anima veramente oscura sono sempre le tre del mattino”, studiare l’ingegno umano (e sorprendersi sempre di come sia giunto a tanto, ecco la magnificenza dell’Uomo), giusto giusto alle 3:30am – un caffettino in una mano e nell’altra termometro digitale e boccetta di tachipirina in gocce – fa sempre piacere.

Buona lettura 🙂
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"La fabbrica dei cattivi", di Diego Agostini

Il racconto, narrato in prima persona, si apre con Alex, padre di famiglia di circa quarantacinque anni, steso su un letto d’ospedale vittima di un problema neurologico di dubbia origine: una improvvisa perdita di coscienza a cui ha fatto seguito il ricovero urgente al pronto soccorso. Forse si tratta di una infezione.

Il protagonista è separato dalla famiglia che avrebbe dovuto raggiungere di lì a poco (la moglie Mara e i due figli, Giulia, cinque anni e Lorenzo, dieci, si trovano addirittura all’estero), immobilizzato a letto, circondato da flebo e monitor: per il momento è completamente ignaro delle sue reali condizioni di salute. Mentre attende con angoscia crescente – e oppresso da un forte senso di claustrofobia – che i medici svolgano le analisi adeguate non può fare altro, date le circostanze e le similitudini (poi si capiranno quali), che tornare con la mente alle vicende drammatiche che hanno interessato proprio la sua famiglia nell’anno appena trascorso. 
Già preda della suspance di conoscere il destino di Alex, effettivamente appeso a un filo, ci immergiamo quindi in questa lunga, lunghissima rievocazione di un evento passato che sembra aver lasciato segni indelebili nella psiche (e forse anche nel fisico, ci viene da pensare) del protagonista stesso.

Alex e Mara sono una coppia di estrazione sociale medio-alta. Fanno parte dell’upperclass europea laureata, poliglotta, benestante, esterofila. Quarantenni in buona salute e forma fisica, svolgono una professione creativa e di prestigio che consente un tenore di vita oggettivamente alto. Hanno due bambini, un maschio e una femmina, vivaci, esuberanti ma beneducati e responsabili per quanto l’età lo consente.

Alex e Mara, esperti conoscitori della lingua inglese e ferventi ammiratori della cultura e del mondo anglosassone, e specialmente dell’american way of life di cui apprezzano l’ “unità sorprendente” (p14) della società di fronte agli eventi avversi, la cordialità delle persone, “il pragmatismo unito alla capacità di sognare, la voglia di fare, il costante desiderio di migliorare le cose” (p14), per le ferie estive hanno l’abitudine consolidata ormai da alcuni anni di partire per la Florida. Per diverse settimane risiedono in una bella villetta ammobiliata nella tranquilla e borghese community di Port Florence, un sobborgo d’elite creato con l’arte ordinata, “omogenea e gradevole” (p15) dei tipici quartieri residenziali della provincia americana, e si godono gli amici, l’oceano, il sole, i paesaggi mozzafiato di cui questo tratto di America non è avaro. 

Tuttavia, qualcosa va storto. Durante la vacanza oggetto del flashback, capita che la famiglia, un pomeriggio, venga sorpresa in spiaggia da un forte temporale. Si riparano tutti in auto e si recano in fretta in un mall poco distante per acquistare degli indumenti asciutti. Nel tragitto, Giulia si è addormentata legata al seggiolino; quindi il papà, non volendo interrompere il suo riposo, parcheggia il monovolume e rimane con lei. Dopo poco però Mara lo chiama nel negozio: ci sono problemi con la carta di credito. L’auto è all’ombra, la temperatura mite dato il brutto tempo, Giulia dorme tranquilla e sarebbe meglio lasciarla continuare, anche su consiglio del pediatra, perché se la si sveglia con troppa energia è vittima di attacchi isterici – comuni a tanti bambini – che poi si risolvono con molta difficoltà. Alex allora decide, non senza preoccupazione, di lasciare la piccola da sola in macchina qualche minuto, il tempo necessario per entrare al negozio (da cui cerca di non perdere di vista l’auto nemmeno per un secondo) e risolvere l’imprevisto. Tempo sufficiente perché qualcuno, avendo assistito alla scena, chiami immediatamente le forze dell’ordine, che arrivano sul posto in pompa magna: auto della polizia, pompieri, detective preposto all’analisi del caso, finanche una troupe televisiva. I tutori della legge si fanno strada tra la folla sempre più fitta accalcatasi intorno alla vettura. I cristalli della macchina vengono infranti, il portellone divelto, la bambina estratta dall’auto ancora legata al seggiolino e portata (naturalmente in lacrime per lo spavento) di corsa all’ospedale per delle analisi. Alex è rinchiuso a forza nella macchina-prigione dello sceriffo: i genitori di Giulia vengono accusati di abbandono di minore, arrestati e imprigionati. Secondo le imputazioni a loro carico, i bambini rischiano addirittura di essere dati in affido. 


Inizia qui l’inquietante, mostruosa, claustrofobica avventura di Alex nell’intricato mondo della giustizia americana – non sappiamo quanto vera ma assolutamente plausibile vista l’accurata descrizione degli eventi, estremamente dettagliata sia nello svolgersi delle procedure, sia nella descrizione di luoghi e tempi.


Quando in tv guardiamo uno dei tanti telefilm di matrice americana non possiamo evitare di domandarci quanto sia reale ciò che viene descritto: scene del crimine recintate dal nastro giallo, macchine della polizia impegnate in vertiginosi inseguimenti sulle highways, detective devoti alla legge e votati all’azione. Ebbene, Alex ci dimostra che sì, è tutto vero. Se poi la fiction abbia preso spunto dalla realtà, o viceversa, questo è un altro punto della questione. “Tecnicamente” (p138), Alex ha commesso un errore: la legge della Florida (e anche la nostra, invero, seppure declinata in maniera diversa) è chiara, non è possibile lasciare un minore da solo in un’auto chiusa, senza aria condizionata, per più di una decina di minuti; e l’ignoranza della legge non è una giustificazione. Ma quando il “tecnicismo” si sostituisce in tutto e per tutto al buon senso, all’analisi dei fatti, all’ascolto dell’imputato e alla verifica super-partes delle prove, allora non siamo di fronte all’applicazione della legge: siamo di fronte alla creazione, eseguita a tavolino, di un malvivente fatto e finito, e al trionfo del supereroe made in USA. Ecco a voi “la fabbrica dei cattivi”.
Questo è il paese degli eroi, la loro patria di elezione. Anzi, di più. E’ il paese dei supereroi. Sono nati qui, e non è un caso. (…) Superman, il primo , il più potente, l’uomo di acciaio. Proprio Superman, che sulle copertine fa sfoggio di grande patriottismo, in realtà nelle sue storie si guarderà bene dal battersi al fronte aiutando le truppe alleate con i suoi superpoteri e continuerà, imperterrito, a dare la caccia ai nemici di sempre, in patria. Da Lex Luthor ai criminali comuni, come se la pace nel mondo contasse meno della tranquillità delle strade di Metropolis, come se alla fine supereroe fosse sinonimo di superpoliziotto. I supereroi vivono in un mondo autoreferenziale, privo di qualsiasi legame equilibrato con il contesto esterno. Sono dall parte del giusto e combattono contro il male. Non puoi metterli in discussione, altrimenti sei contro di loro. E se sei contro di loro, tu sei il male” (p48)
Alex affronta così una moderna discesa agli inferi costellata da personaggi di ogni tipo e grado, che sfidano con sfrontatezza ogni possibile limite al concetto di stereotipo: lo sceriffo borioso e un po’ imbolsito che applica le procedure alla lettera; il detective che ha fatto del suo impiego una missione al limite del fanatismo più estremo e che non esita a falsificare le prove spinto più dal desiderio di incastrare un colpevole che dall’urgenza di reperire la verità dei fatti; l’assistente sociale che, visto il ruolo, dovrebbe condividere con genitori e bambini sentimenti di empatia e indulgenza ma che, in nome di una presunta tutela dei minori a lei affidati, sradica intere famiglie utilizzando menzogne e strumenti di coercizione e basandosi esclusivamente su supposizioni personali (sue e degli altri colleghi) ed indizi non ancora verificati. Sono queste le persone preposte all’analisi del caso di Alex. C’è da averne paura. Ma c’è da avere paura anche del sistema in sé, che punisce ma non premia, che rinchiude e non rieduca: l’individuo, spogliato dei suoi effetti personali, viene denudato e spersonalizzato nel corpo, rivestito di una tuta arancione identica a quella di tutti gli altri detenuti, e nella psiche, perché costretto ad interagire con un sistema-carcere che impedisce, di fatto, qualsivoglia rapporto tra il carcerato e gli esponenti delle forze dell’ordine a cui è affidato. 
Se la potente e onnipresente forza di polizia ha lo scopo di ridurre il crimine, in teoria non ci dovrebbero essere recidivi. La proporzione dovrebbe essere inversa, i nuovi arrivati dovrebbero essere la maggioranza. Eppure quasi tutti gli uomini che sono in questa stanza conoscono già la prigione. Se questo è un campione del risultato del sistema, una cosa è certa: il sistema non riesce a disincentivare il crimine. (…) E se invece sortisse proprio l’effetto contrario?” (p118)
Fioriscono le agenzie che offrono servizi di pagamento delle cauzioni; fioriscono gli studi legali, specializzati in qualsivoglia crimine civile e penale. L’industria dei cattivi è abile nel proporre una strategia di marketing vincente: creare il bisogno e insieme l’oggetto che a questa necessità fittizia può offrire concreta risposta. “Se non capisci una situazione, prova a seguire il percorso che fa il denaro. Follow the money” (p142), suggerisce ad Alex l’amica Kelly.
Il terrore raggiunge l’apice e si mescola al grottesco nelle scene in cui acquista parte rilevante la nazionalità non-americana di Alex, limitato dall’utilizzo di una lingua che per quanto conosciuta non è mai la propria, oppure al claustrofobico quando si analizza l’immenso potere dei media che possono, attraverso la pubblicazione di materiale riservato (a cui tutti possono tranquillamente accedere on line, in nome di una trasparenza che non è tanto dissimile dalla violazione della privacy), condannare l’imputato ancora prima che il caso venga dichiarato chiuso e giudicato.
Sta ad Alex decidere: se raccogliere le forze e divenendo nuovamente un soggetto attivo continuare ad avere fiducia in un sistema che – per il momento – lo sta distruggendo e sta danneggiando, probabilmente in maniera irreversibile, anche la sua famiglia, oppure soccombere passivamente all’orrore che pare delinearsi all’orizzonte. 
Sta a noi considerare l’individuo in quanto tale, ben attenti ad evitare le sabbie mobili del dualismo buoni/cattivi. Se avere com-passione dell’essere umano non significa per forza giustificare, tuttavia la comprensione e l’ascolto dell’altro sono elementi necessari ed imprescindibili per la creazione di una società giusta ed equa.
Grazie a tutti i lettori per aver condiviso con ADC le quotes da #lafabbricadeicattivi che per qualche giorno ancora ci accompagneranno.
Buona lettura 🙂

"Il bordo vertiginoso delle cose", di Gianrico Carofiglio

Equilibrio, veniva da pensare leggendo questo Carofiglio.


Perché racconta un’esperienza personale dettagliata e inconfondibile, senza però che l’autobiografia risulti così invasiva da limitare un’eventuale immedesimazione da parte del lettore. La storia di Enrico, il suo romanzo di formazione, è intima e circoscritta ma è anche un manifesto di una generazione all’interno della quale molti non faranno fatica a collocare il proprio vissuto giovanile. 
Gli anni settanta, gli studi classici in un liceo fortemente politicizzato, i primi approcci con le estremizzazioni sociali; i fatti di cronaca, l’Italia del boom economico; la formazione scolastica tra le lettere antiche e quelle moderne, la filosofia, la musica, la poesia. 
Un contesto strutturato e contestualizzato con forza, anche geograficamente, cui va riconosciuto il merito del non-autocompiacimento: non siamo di fronte al solito romanzo sugli anni Settanta farcito di tutti quegli attributi (dagli eventi di cronaca più invasivi alla nota marca popolare della crema per le mani, per dire) che soltanto perché inseriti con agio nel contesto sembrano delle volte sufficienti a caratterizzare l’epoca. Gli anni Settanta di Carofiglio passano a volo, spesso solo intuiti, come è giusto che sia, mischiati com’erano anche nella realtà concreta di chi li ha vissuti alle esperienze pregresse e ai decenni precedenti in un turbinio di passato-presente difficile da riconoscere, identificare e catalogare.

Per i personaggi: credibili e ben delineati ma mai eccessivi. Il protagonista, Enrico, uno scrittore quarantottenne in crisi di ispirazione, è sì un personaggio da romanzo, con una vita particolare, ricca di eventi ed esperienze. Eppure non è dissimile dall’uomo della porta accanto, vittima della salute che va e che viene, di un matrimonio fallito per le cause più banali, di una certa (colpevole) inedia di azione e di espressione che tutti conosciamo bene, avendo essa fatto parte, almeno per qualche momento, della vita di ognuno. Celeste, la professoressa supplente di filosofia che tanta parte ha nell’impianto narrativo: intellettualmente affascinante, coltissima, giovane e di bell’aspetto, non manca di presentare zone d’ombra inevitabili e “naturali” – una certa fascinazione per gli estremismi politici per esempio, o certi “cedimenti” passionali, sentimentali e ideologici – attribuibili certamente alla giovane età e ad una maturità professionale ancora lontana da raggiungere. Il compagno di classe Salvatore, il deus ex machina che mette in moto, inconsapevolmente, tutta la vicenda, quella presente e quella passata: un ragazzone figlio dei vicoli di Bari vecchia, intelligente, desideroso di emancipazione sociale ma incostante negli studi, irrefrenabilmente irretito dalle lusinghe della lotta di classe e dalla violenza di strada, alla quale inizia anche il protagonista.

Per stile, forma, lessico. Esemplificativa la scelta della seconda persona singolare, secondo la stessa ammissione dell’autore nelle numerose interviste rilasciate: un “tu” che scinde il protagonista da se stesso creando una struttura complessa e bipolare tra un “presente-tu” (Enrico adulto) e un “passato-io” (Enrico adolescente). 
Una scrittura quasi colloquiale, intima, ricca di aggettivazione ma mai ridondante, specifica nelle subordinate eppure sempre lineare nella consecutio della narrazione.

Un romanzo (magari, meglio: un racconto lungo) studiato, che a prima vista parrebbe osare poco, specie nel finale che è lasciato quasi incompiuto. Eppure un’opera completa proprio nella sua sospensione di giudizio: una narrazione pulita, in cui è giusto che non tutto vada raccontato.

Buona lettura 🙂