#BCM16 "Andata e ritorno nell’antica Grecia, terra di dei ed eroi", di e con Giuseppe Zanetto

Uno dei meriti di BookCity è la capacità di valorizzare, anche se per poche giornate, le periferie di Milano.
Da qualche anno interi quartieri periferici di Milano si sono impegnati attivamente a cercare un riscatto che coinvolga l’urbanistica in sé e gli abitanti che li popolano. Aree ai margini che fino a poco tempo fa venivano irregimentate all’interno di quell’infelice definizione di “satelliti dormitorio” che – a causa dell’accezione negativa del termine – per anni siamo stati abituati a citare con un misto di imbarazzo, fastidio o eccessivo campanilismo a seconda della provenienza di ciascuno.
Per citarne solo alcuni, ricordiamo Rogoredo Santa Giulia, l’ex area Ansaldo-Pirelli, Via Rembrandt con il suo centro culturale condominiale, la biblioteca comunale Dergano in Bovisa e il suo particolare fondo cinese in gemellaggio con Shangai – per un totale di 1200 volumi, fino all’esperimento di Cascina Cuccagna, un reintegro contestualizzato che tocca i temi cari della memoria opposta alla mera fascinazione estetica, e ai progetti curati dal Politecnico di Milano per la riqualificazione dei Magazzini Raccordati di Greco/Sammartini.
Questa volta #BCM16  ha toccato, tra gli altri, il quartiere Torretta.
Oggetto di una massiccia urbanizzazione negli anni ’60 del Novecento (parliamo di famiglie medio borghesi, impiegati, operai), questa area a sud di Milano, estrema propaggine del Naviglio Pavese, prende il nome da un avamposto romano che sorgeva nelle vicinanze; fin dal 1600 la zona delle cascine di Trenno era infatti indicata col nome di “Torretta”. Sì, siamo alla Barona ma in un’area ancora più particolare per via della sua estrema connotazione topografica dato che i nomi di tutte le vie richiamano curiosamente i personaggi di memoria manzoniana: abbiamo via Renzo e Lucia, largo Promessi Sposi e pure una stradetta dedicata a Don Rodrigo e una a Donna Prassede.
Incastrata fra due casermoni di mattoni rossi c’è la biblioteca comunale di Via Fra Cristoforo (situata nell’omonima via, ça va sans dire), che da anni è punto di incontro per gli adulti ma soprattutto per i bambini del quartiere.
Qui, lo scorso sabato mattina alle dieci e mezza, sotto una pioggia scrosciante che avrebbe scoraggiato chiunque, almeno un paio di decine di bambini con relativi genitori infradiciati hanno riempito la stanzetta delle conferenze per assistere a una lezione di Letteratura Greca, dal titolo “Andata e ritorno nell’antica Grecia, terra di dei ed eroi“.
A tenerla, il Professor Giuseppe Zanetto, ordinario della cattedra di Lingua e Letteratura Greca all’Università Statale di Milano. L’occasione era quella di presentare il suo ultimo libro per ragazzi, una rivisitazione dell’Odissea di Omero edita per la collana kids di Feltrinelli.
Si tratta, dice Zanetto, di “un’impalcatura tematica composta da sei linee narrative“, ossia di una serie di episodi – i più significativi del poema – narrati in prima persona, con linguaggio semplice e accattivante ma di certo mai banale, dagli stessi protagonisti o dai testimoni della vicenda: dal figlio di Ulisse al fedele servo Eumeo, dalla regina dei Feaci a Penelope.
In alternanza al testo troviamo le eleganti illustrazioni della giovanissima (classe 1991) Camilla Pintonato, che accosta il rigore e la fedeltà dovuta alla tradizione iconografica a cui il testo si riferisce alla freschezza del tratto, adeguato al pubblico di riferimento.
L’intento dell'”Odissea di Omero”, esplicita Zanetto – e in generale di parte della collana kids di Feltrinelli – è proprio il tentativo di introdurre l’elemento narrativo all’interno di un’opera di saggistica. Una scelta che negli ultimi tempi pare incontrare il favore dei lettori, giovani e adulti, e verso la quale tanta parte della saggistica si sta ormai orientando (ndr: un esempio di cui avevamo parlato molto su ADC: “La Sesta Estinzione“, vincitore del Pulitzer 2015 per la non-fiction) seguendo un processo di ammodernamento dei sistemi di divulgazione scientifica rispetto alla quale il saggio tradizionale si ritrova oramai a offrire prestazioni di scarsa penetrabilità specie nei riguardi delle nuove generazioni.
“L’Odissea di Omero” è la seconda incursione nel mondo della Grecia Antica per l’illustratrice Camilla Pintonato, che aveva già collaborato con Feltrinelli e Zanetto per il volume “In Grecia, terra di miti e di eroi” (2014).

 

Ciò che più ha stupito dell’incontro è stato effettivamente l’incredibile appeal che simili narrazioni hanno avuto sul pubblico presente in sala. Argomenti di non facile comprensione quali le fondamenta del mito classico, la metodologia di approccio a un sito archeologico o all’atlante geografico, passando per il concetto di vendetta umana e divina tipico del mondo antico fino all’ancestrale predisposizione delle popolazioni mediterranee verso l’accoglienza del migrante (di cui Odisseo fa indubbiamente parte), sono stati affrontati utilizzando, oggi come oltre duemila anni fa, la fascinazione che deriva dal carattere prettamente orale del racconto epico. Racconto che ancora una volta, a distanza di millenni, conferma la propria capacità atemporale di divenire strumento didattico.

La tela che Penelope tesse di giorno e disfa di notte per evitare il matrimonio, l’episodio di Polifemo che tanto appassiona i bambini (e spinge anche al meccanismo della catarsi: “Va recitato col vocione”, ammonisce Zanetto), le tempeste, i naufragi, le guerre, e per finire il cavallo di Troia: episodi che i bambini hanno fatto a gara per raccontare, tra alzate di mano (tante: c’è ancora speranza per la scuola pubblica!) di chi già li conosceva e bocche aperte per i più piccini che li ascoltavano per la prima volta. Uno stupore che oggi come allora mostra il significato profondo di alcuni meccanismi atavici che riguardano tutti noi.

Tanta parte naturalmente hanno fatto le capacità del relatore: e dico questo non tanto al fine di una captatio benevoletiae (che risulterebbe ormai tardiva!) nei confronti di uno dei professori che durante i miei studi universitari ho più apprezzato ma per schierarmi come al solito contro quella certa tuttologia imperante che spesso predilige l’immagine (o i followers) dell’invitato di turno alla sostanza di una preparazione tecnica che giudico imprescindibile e, a latere, contro l’utilizzo quasi del tutto esclusivo, per tante manifestazioni culturali, di location centrali e sicuramente più cool rispetto a una biblioteca comunale di periferia – che indubbiamente, tra l’altro, avrebbe urgente bisogno di diversi interventi di ristrutturazione.

Insomma: “Andata e ritorno nell’Antica Grecia” è stato l’esempio che portare valore, cultura e integrazione in periferia si può e si deve, specie se ci sono persone disposte a farlo. E ce ne sono, basta cercarle. Ecco il perché del mio hashtag #PiùZanettoPerTutti.
Buona lettura 🙂
Ps: gli abitanti di Torretta sono circa 7000 ma nel quartiere, almeno fino al 2013, non esisteva nemmeno uno sportello Bancomat. Come in ogni zona di periferia che si rispetti, i residenti combattono contro la carenza di infrastrutture e microcriminalità. Questo per dire che nonostante il fascino verso le periferie che indubbiamente si rivela dai miei racconti, proprio le mie esperienze di vita ai margini mi spingono a evitare qualsiasi tipo di “pornografia dell’immagine” e qualsivoglia estremismo estetico (in proposito, si veda qui).Di seguito, lo Storify raccolto durante il livetwitting dell’evento.

"Città in Fiamme", di Garth Risk Hallberg

“L’albero di Natale sembrava solo e triste nel suo angolo, senza mobili attorno. Ecco lì tutto quello che serve per rendere sgradevole un abete: la luce solare diretta” (pag.119)

cityDue milioni di dollari di anticipo, la vendita dei diritti cinematografici in anteprima, un battage pubblicitario senza precedenti supportato dalle migliaia di copie spedite in anteprima a giornalisti e critici, l’endorsement di gran parte dell’establishment culturale americano. Novecentoundici pagine fitte, sostenute da un apparato iconografico che comprende riproduzioni di lettere scritte a mano, facsimili di fanzine anni ’70, pezzi giornalistici dattiloscritti, fotografie in collage – tutto materiale necessario all’economia della vicenda, di imprescindibile lettura.

Questi i numeri e i fatti che hanno accompagnato, a metà 2015, l’uscita di “City on Fire”. L’autore è l’esordiente Garth Risk Hallberg, giovinotto trentaseienne cresciuto in una cittadina del North Carolina ma nato il Louisiana, e la leggenda ormai vuole che l’idea folgorante gli sia venuta nel 2003, durante uno dei suoi viaggi quotidiani in pullman verso New York, ascoltando “Miami 2017” di Billy Joel.

Questi i numeri e i fatti che hanno accompagnato, a metà 2015, l’uscita di “City on Fire”. L’autore è l’esordiente Garth Risk Hallberg, giovinotto trentaseienne cresciuto in una cittadina del North Carolina ma nato il Louisiana, e la leggenda ormai vuole che l’idea folgorante gli sia venuta nel 2003, durante uno dei suoi viaggi quotidiani in pullman verso New York, ascoltando “Miami 2017” di Billy Joel.

 
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“Nella sua mente il libro continuava a crescere in lunghezza e complessità, quasi come se si fosse assunto il peso di soppiantare la vita reale, invece di evocarla. Ma com’era possibile per un libro essere grande come la vita?” (pag.946) 
“Città in Fiamme” – trama e personaggi
Riassumere “Città in Fiamme” significa prima di tutto tenere a mente due date: la notte del 31 dicembre 1976 e quella del 13 luglio 1977. Hallberg utilizza la prima, un banale capodanno newyorkese come tanti, per mettere in scena l’omicidio fittizio di Samantha Cicciaro, una giovane studentessa universitaria – ultima erede di una sfortunata famiglia italoamericana specializzata nella costruzione artigianale di prestigiosi fuochi d’artificio, ora caduta in disgrazia a causa dell’avvento della produzione in serie e della tecnologia – che viene ritrovata in fin di vita in un angolo di Central Park, vittima di una sparatoria.
Credits @NYCDailyPics
Credits @NYCDailyPics
In un continuo scambio di punti di vista e piani temporali (dal presente della narrazione ai numerosi flashback 1950-’60 fino ai flashforward del dopo-millennio) Hallberg segue non soltanto gli ultimi mesi della vita della ragazza ma anche e soprattutto le vicende di coloro che in un modo o nell’altro erano entrati in recente contatto con lei: un paio di amici del Lower East Side, tossici e disoccupati, che l’avevano iniziata al movimento punk; alcuni insospettabili membri della facoltosissima dinastia Hamilton–Sweeney con i rispettivi figli, consorti e tirapiedi di stanza a Manhattan; Mercer Goodman, maestro e aspirante scrittore emigrato da Altana, Georgia; Richard Groskoph, un reporter alcolizzato in cerca di riscatto e infine Lawrence Pulaski, viceispettore (poteva mancare?) claudicante, a fine carriera, deciso a risolvere il rompicapo dell’omicidio. I destini di questo gruppo così eterogeneo si riuniscono nella notte – non altrettanto banale – del 13 luglio dell’anno successivo, notte in cui New York piomba in un drammatico black-out che diviene pietra miliare nella storia (vera) della metropoli.
Alvin Langdom “Night in NY” 1905-1911
L’arte di Hallberg nell’organizzazione della materia è evidente e si tocca con mano.
Le parti descrittive, specie quelle relative alla città di New York, sono quasi sempre valide, contestualizzate e rivelano conoscenza diretta, ispezione, esperienza. Oggettivamente stupisce il risultato raggiunto da questo esordiente trentaseienne, per altro non originario della metropoli:

“Il centro di Flower Hill, con tutta la buona volontà del consiglio del Village, non poteva librarsi oltre i suoi limiti intrinseci. Di giorno simulava un ambiente urbano senza qualità – c’erano un fioraio, un salone per feste di nozze, un negozio di dischi niente di che – ma di sera, le luci delle facciate dei negozi sparavano in faccia le coordinate delle vere urgenze cittadine. Massaggi. Tatuaggi. Banco dei pegni. Davanti a una caffetteria vuota, un Babbo Natale animatronico con le gambe incatenate a una recinzione ruotava rigido su se stesso al tempo di Jingle Bells” (pag.19)

I protagonisti vengono presentati inizialmente uno a uno per capitolo ma l’autore è abile a scardinare presto anche questo prevedibile meccanismo perché nel momento in cui l’introduzione di un’altra figura standing-alone avrebbe potuto creare una sensazione di effetto cinematografico a fruizione passiva (ndr: fra il terzo e il quarto cap.) modifica tono e struttura. Attraverso l’inserimento di tutti gli altri personaggi per mezzo di una tecnica ad avvicinamento lento, Hallberg consegna i collegamenti nelle mani del lettore che quindi viene coinvolto in prima persona, come per ogni giallo che si rispetti.
Edward Hopper credits @HopperAtoZ
“Città in fiamme” è sicuramente un romanzo d’atmosfere e la dinamica di dialogo poco serrato insieme all’osservazione sempre contestualizzata della realtà ne limitano l’effetto cinematografico che tuttavia permane – o meglio si rende evidente – in alcuni punti ben precisi e che tendono a ripetersi nel corso della narrazione: l’abitudine ad accostare immagini e colonne sonore, una certa teatralità di espressioni ad effetto tipiche della filmografia USA, alcune inquadrature dietro le quali si intravede la telecamera e l’età anagrafica dell’autore che comunque è persona cresciuta, come tutti noi, con la televisione in salotto.

“Lei la considerava una tipica attività californiana, guardare la tua vita da lontano, cercando di riconoscere dai profili degli alberi e delle strade e dai ristoranti costruiti con la stessa forma delle loro specialità culinarie quale casa fosse la tua. (Questo prima di trasferirsi a New York e scoprire che riscrivere la propria vita in chiave cinematografica era un fenomeno nazionale, forse anche globale)” (pag.579)

E non è certo un caso che uno dei passi più riusciti dell’opera sia l’evidente tributo al Kubrick di “Eyes Wide Shout” delle pagg.40-90.
Night in NY Alfred Stieglitz 1896
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“All’inizio avevo intenzione di scrivere un pezzo che specchiasse l’enigma che cercavo di risolvere: in che modo, dai contenitori grandi come macchine per il caffè e pieni di materiale inerte, escano sfolgoranti trame di colore che riempiono il cielo. Ho immaginato me stesso ricavare con maestria da pezzi separati un’unica esplosione. Invece adesso scopro di avere tentato di andare a ritroso, di aver provato a ricostruire un corpo unico dagli elementi che lo scoppio aveva disperso a caso” (Richard Groskoph, “Gli artificieri”, pag.31 – in “Città in Fiamme”)
“Città in Fiamme” – Il nuovo GRA
L’interesse statunitense per l’esordio di Hallberg è presto spiegato se si considera l’affanno con cui la critica a stelle e strisce è da tempo alla ricerca del nuovo GRA, il Grande Romanzo Americano. Giusto un anno fa, in occasione dell’uscita di “Purity” di cui venne proposta un’anteprima in traduzione italiana, IL pubblicò un interessante reportage in proposito (ospitando diversi interventi tra cui quelli di Christian Rocca e Marco Rossari), a uso e consumo del pubblico italiano. Philip Roth, Don De Lillo, Cormac McCarthy, John Updike e Toni Morrison – e poi, David Foster Wallace, Jonathan Franzen, Zadie Smith, Nathan Englander e Jeffrey Eugenides sono soltanto alcuni degli autori citati.
Non sorprende quindi l’ansia sempre crescente dell’audience americana, in attesa di quella nuova leva di scrittori casalinghi in grado di dare testimonianza dei mutamenti più recenti occorsi al mondo oltreoceano.
Hallberg in questo senso stupisce per furbizia, va notato. Con una captatio benevolentiae intelligente e sottile, che percorre tutto il testo, non si espone mai direttamente ma si schermisce e affida le sue (pur numerose) riflessioni a riguardo a due personaggi si potrebbe dire minori – e per altro destinati a fortune incerte: il primo è Mercer Goodman, il fidanzato di colore di William Hamilton-Sweeney, giunto a New York per “la divorante ambizione di scrivere il Grande Romanzo Americano” (pag.5-6) ma poi costretto a un impegno frustrante e a tempo pieno, quello dell’insegnante in una scuola privata d’elite (episodi di razzismo e omofobia compresi), e vittima di una relazione sentimentale complicata e di certo non alla pari, neppure dal punto di vista economico; il secondo è il giornalista sbandato Groskoph che, caduto in disgrazia dopo un esordio promettente, cerca con fatica di risalire la china – e si tace dell’esito.
 
Più di una volta Hallberg stempera le buone idee di cui è innegabilmente disseminato “City on Fire” attraverso l‘autoironia e l’impegno nel ridimensionare il ruolo dello scrittore, che se da una parte quasi mai risulta all’altezza alle aspettative a causa di limiti intrinseci (“Non illuderti di trovare qualcosa sotto la superficie” – pag.80), dall’altra è dichiarato vittima di un sistema che considera l’arte della narrazione soltanto come un mezzo attraverso cui autoincensarsi (“Non c’era niente che NY amasse leggere di più che di se stessa” – pag.194).
D’altro canto Hallberg non fa mistero della propria affezione (“…un tradizionalista” – pag.376) per un certo tipo di narrativa (“…la vecchia idea che il romanzo possa insegnare qualcosa” – pag.377) e del proprio debito nei confronti di tanti predecessori (“Truman [Capote] aveva i suoi demoni – chiunque avesse scolato un bicchiere insieme a lui lo sapeva- ma nessuno avrebbe potuto negargli quello di cui stavolta era stato capace: scomparire del tutto nelle vite degli altri” – pag.195) e raramente cede all’autocompiacimento (“…un giovane poeta [Balzac] arriva dalla provincia a Parigi per far fortuna, e alla fine scopre di essersi sbagliato su tutto. Tutti quelli che credeva dei geni sono degli idioti e viceversa” – pag.260). 
Non manca comunque una discreta dose di positive thinking – non averla sarebbe stato del tutto contrario ai principi del GRA – sia per quanto riguarda il Romanzo in sé (“…era ancora convinto che l’arte americana dovesse essere Grande” – pag.597) sia per quello che concerne l’istruzione pubblica statunitense – ricca com’è l’opera di riflessioni riguardo la necessità di mantenere alto il livello dell’offerta culturale del Paese, tanto quanto quello delle istituzioni scolastiche e degli spazi d’arte e cultura come musei e biblioteche, veri e propri luoghi di sviluppo della società civile.
 
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“…c’erano ballerini impegnati in una danza al rallentatore sotto gli alberi rivitalizzati. Famigliole sedute in ordine sui teli, in una luce vinosa. Continuo a vedere scene simili dappertutto, arte pubblica difficile da distinguere dalla vita pubblica. (…) Quasi che i sogni potessero essere piatti alternativi nel menu delle esperienze possibili (…) [la] razionalizzazione di ogni ultimo desiderio” (prologo)
“Città in Fiamme” – il mondo artefatto
 
Early Spring Afternoon in Central Park
Willard Metcalf 1911 Credits @MichikoKakutani
E’ chiaro come il fil rouge di tutta l’opera di Hallberg sia la riflessione sull’essere e sul divenire, e la responsabilità individuale che questa trasformazione da <> a <> porta con sé. E’ un tema tipico della letteratura US – imprescindibile dal sistema-GRA – che viene direttamente dall’epica del selfmade-man – artefice del proprio destino e della propria fortuna, maglio se conquistata con fatica e sofferenza – così cara all’immaginario americano. Naturalmente a ciò fanno seguito l’altrettanto tipica ossessione per il raggiungimento del successo sia personale sia professionale, il problema connesso alla gestione del senso di colpa in caso di fallimento e il senso di profonda ingiustizia percepita nel momento in cui, pur avendo fatto tutto il possibile, ciò per cui ci si è spesi non accade, o non si ottiene:

“…l’esistenza di una causa logica significa che le cose non sono così incontrollabili. Ma per sua esperienza, a cercarne una con troppo accanimento si rischiava di sentirsi colpevoli, di rendere se stessi la causa quando invece si era ben lontani dall’esserlo” (pag.348)

Nonché l’idea dell’esperienza di vita unica e perfetta, irripetibile (“Il momento clou della giornata” – pag. ), che deve essere cercata e goduta a tutti i costi che tuttavia come conseguenza porta con sé l’idiosincrasia nei riguardi del momento della scelta. Una continua serie di bivi che, come ovvio, escludono a priori altre strade che non potranno più essere battute:

“…sembrava che oggi ogni americano avesse il suo gemello oscuro, la possibilità di una vita vissuta in un modo diverso, a fissarlo dalle vetrine e dallo specchio del bagno” (pag.290)

Tant’è che la passione tutta newyorkese per il racconto delle nevrosi – vere o posticce che siano, irrompe sin da pagina 45 e investe un po’ tutti i protagonisti specie quelli dell’alta società: manie di controllo, disturbi ossessivi, ipocondria, disordini alimentari, nient’altro se non i sintomi di un disagio profondo che rivela la tensione sempre crescente tra il desiderio di un cambiamento e il terrore del giro di boa all’uscita dalla propria zona di comfort. La situazione della classe operaia è da trattare a parte, densa com’è di fenomeni sociali al limite tra cui abbandono scolastico, bullismo, dipendenza dall’alcool, utilizzo di stupefacenti (e a far da collante tra operai e upper-class, l’eroina).
Edward Hopper credits @HopperAtoZ
La rappresentazione visiva di questo struggimento è, e sempre sarà, la metropoli newyorkese, che nell’immaginario di ogni statunitense è il “luogo in cui si concentra il cambiamento” (pag.320) per antonomasia tanto che, in un continuo disallineamento di aspettative, essa diviene l’unica entità in grado di insegnare ad ognuno “non quello che ti occorreva per vivere, ma prima ancora, quello per cui valeva la pena vivere” (pag.231). Una final destination che tuttavia, lungi dall’essere vissuta con rispetto e senso del dovere, è spesso depauperata e bistrattata in maniera parassitaria, per poi finire abbandonata nel momento in cui si ritiene abbia offerto tutto quello che era nelle sue possibilità offrire (o in assenza di un feedback giudicato adeguato):

“(…) gli americani non amano molto questa città, non la ammirano, non la stimano, non credono in lei e non ne hanno molta fiducia” (pag.161)

“(…) suo fratello William a diciassette anni era separato dal mondo che lo conteneva solo da una membrana sottilissima. In altre parole, era un ragazzo di città fatto e finito” (pag.172)

“(…)perfino i bambini, dietro il riflesso della strada che fluttuava nel vetro, avevano imparato l’arte di fingere di non vedere” (pag.671)

Il problema dell’aderenza a un canone è un altro tema tipico del romanzo di Hallberg e in generale della letteratura US, e nasce dalla necessità di inserirsi in un gruppo sociale coeso, definito da determinati parametri all’interno dei quali occorre rientrare. Chiaramente, non essendo tutto assoggettabile al raziocinio, la ricerca di un’identità propria diviene spesso una corsa al raggiungimento di una perfezione assolutamente astratta che nel migliore dei casi porta a una pantomima di inganno e finzione in cui sogni e desideri si mescolano a dar vita a una storia ideale, che non è reale, (una delle parole chiave che forse si potrebbero usare per capire qualcosa di più su “Città in Fiamme” è “coreografia” [pag.90]) e nel peggiore a un immobilismo decisionale se possibile ancora più pericoloso:

“(…) aveva preso tutte le carenze del suo matrimonio e della sua vita e le aveva suste per dare forma a una fantasia” (pag.360)

Da qui, l’impossibilità di sostenere una felicità qualunque (specie l’altrui: “la vicinanza al fascino del successo” pag.232) e la spinta a crogiolarsi nel decadente collettivo, nel momento della presa di coscienza: quell’attimo in cui si comprende la banalità della propria esistenza. Il sogno americano si spezza, i figli scappati di casa tornano dai genitori (nota a margine: il tema del ritorno in famiglia è molto forte in questo ultimo periodo, complice anche la crisi economica che mina l’indipendenza dei giovani e il drastico calo di stima nei confronti dei celeberrimi campus universitari che a parte qualche rara eccezione da IVY League si sono dimostrati, negli anni, centri di aggregazione di scarsa qualità e poco utili allo sviluppo personale e professionale dei teenagers), ogni scelta personale è foriera di gravi conseguenze, a volte drammatiche. La verità è una sola e Hallberg non fa mistero della sua tesi: nella città in cui tutti corrono per farcela, qualcuno ci riesce ma qualche altro, inevitabilmente, no.
Conclusioni: 1- mi è sembrato di vedere un gatto (cit.)
Se vi assale improvvisamente una certa sensazione di dejavu non preoccupatevi, siete in buona compagnia – ossia quella di tutte le persone che hanno pensato a Donna Tartt dopo aver letto le prime dieci pagine di Hallberg.
In verità c’è solo da rassegnarsi, perché è squisitamente inutile sforzarsi di combattere le assonanze che per tutta la lettura di “Città in Fiamme” il vostro cervello continuerà a produrre con “Il Cardellino”.
C’è da dire che i temi in comune sono davvero tanti, dalla location, naturalmente, all’intersecarsi di molteplici vicende su più piani temporali sfalsati, alla questione della Grande Disgrazia: dall’adolescente Charlie – adottato, asmatico, sfigato – a Samantha Cicciaro – abbandonata dalla madre e cresciuta da un padre assente, fino ai fratelli William e Regan (per la serie: anche i ricchi piangono) – insomma tutti i personaggi della saga non fanno altro che porre l’accento su un tema che alla Tartt è sempre stato a cuore, quello della genitorialità disfunzionale. Sia “City on Fire” sia “The Goldfinch” sono prima di tutto storie di padri e di madri anormali, e poi storie di figli che con fatica e dolore cercano in qualche modo di rimettersi in piedi, pur portando sul proprio corpo le cicatrici di anni di indifferenza e abbandono. Ambito riguardo al quale la letteratura d’oltreoceano s’interroga ormai da tempo.
Ma se Donna Tartt con “Il Cardellino” riesce nell’impresa di creare e mantenere viva una pluralità di voci e d’esperienze, focalizzando l’attenzione specie sull’infanzia abusata (le pagine sulla permanenza californiana del giovane Theo Decker sono tra le più belle della letteratura contemporanea, per intensità del lirismo e veridicità dell’introspezione), non si può dire lo stesso di Hallberg, che nonostante un’analisi complessivamente buona del mondo infantile molto probabilmente ne esce penalizzato dalla propria età anagrafica, riuscendo a perforare il muro del cliché letterario soltanto a tratti e restituendoci una serie di personaggi da questo punto di vista scarsamente caratterizzati.
 
Conclusioni: 2- guardo da qui o guardo da là?
Difatti è stato evidenziato da più parti come il punto debole di “Città in Fiamme” stia proprio nella pluralità di situazioni e personaggi che Hallberg, al pari della Tartt, decide di presentare.
In primis c’è la questione del punto di vista, che tecnicamente si avvicina più a un interno multiplo ma che poi in certi casi scivola verso un esterno quasi onnisciente, creando qualche strappo nel continuum della lettura. Pongono anche qualche difficoltà anche le connessioni tra i personaggi che non sono sempre intuitive e necessitano di una lettura attenta e soprattutto continua – il che non è semplice, data la mole dell’opera. Ciò che tuttavia ha impegnato di più (ad esempio su Minima&Moralia, per quanto riguarda la critica italiana) è stata l’analisi dello stile: sono proprio le sue peculiarità – forbito, sia per sintassi sia per lessico, erudito – moltissimi riferimenti letterari espliciti e impliciti – e complesso, a crearne il limite, quello dell’uniformità e del livellamento, fino al paradosso di avere personaggi completamente antitetici (Reagan Hamilton-Sweeney e Samantha Cicciaro, ad esempio, o il reporter Groskoph a confronto con Mercer Goodman) che pensano, riflettono, agiscono e si esprimono secondo modalità molto simili. Un risultato che in alcuni punti risulta poco credibile.
Un’altra critica mossa all’opera è la sensazione di collage che si respira leggendo alcuni capitoli che, è evidente, sono stati composti in tempi diversi (Hallberg ha impiegato quasi 10 anni per concludere la stesura). Alcune parti risultano convincenti e ispirate, altre invece funzionano meno perché ridondanti e poco coese, altre ancora convincono poco a livello di intreccio che per certi avvenimenti risulta un po’ semplificato e poco verosimile. Questo in verità è un difetto anche del Cardellino la cui autrice però, forte dell’esperienza e di una trama più accattivante, riesce ad attenuare con risultati migliori rispetto a quelli di Hallberg.
Conclusioni: 3- #punkeverywhere

“Il punk era un dio geloso che non tollerava l’esistenza di altra musica al di fuori di lui” (pag.250)

“(…) il paese è sfinito, le multinazionali controllano le nostre menti, i politici sono dei criminali. Potrei citarti capitoli e versetti, ma per quello ci sono i libri e, comunque, tu sai che è così se no non saresti davvero un punk” (pag.352)

Anche qui si potrebbe discutere per ore riguardo all’idea di Hallberg in merito, che se da un lato fa indiscutibilmente del suo meglio per inscenare un movimento punk credibile e aderente all’originale, dall’altro non fa mistero della coolness che deriva da una contestualizzazione di questo genere:

“Ultimamente tutto quello che era anni Ottanta, tutto quello che veniva da downtown, aveva acquisito lo status di icona del millennio” (pag.954)

Il risultato di tutto ciò è un’inevitabile sospensione del giudizio. Tecnicamente è impossibile mettere in atto un qualsiasi meccanismo di immedesimazione riguardo alcuno dei protagonisti della saga: i leader della vicenda sono da un lato imprenditori facoltosi, ricchissimi e cattivissimi e i loro discendenti dei casi umani debosciati e lagnosi che trovano conforto o nella droga o nel sesso promiscuo o nelle nevrosi alla Woody Allen. Dal punto di vista della classe operaia i personaggi potrebbero far pensare a una morale Dickesiana ma risultano troppo stereotipati per essere credibili: dal reporter alcolizzato al detective sottostimato e poliomielitico, dall’operaio italiano immigrato, tutto birra e televisione, al professore afroamericano, colto e gay, vittima di apartheid e omofobia. Anche volendo lasciar da parte la questione dell’immedesimazione, ci si chiede dove stia quell’idea dell'”insegnare qualcosa” attraverso la letteratura di cui Hallberg si fa ambasciatore: perché si rimane un po’ con la sensazione che sia stato tutto un gioco: giocare al giornalista, al detective, al tossico punk, all’adolescente disadattato, alla MILF vittima di disturbi alimentari. Ma un bel gioco, si sa, è bello fino a che dura poco e fino a che si è in grado di smettere.
Buona lettura (perché, comunque, è da leggere).

NB: Doverosa lode merita la traduzione di Massimo Bocchiola: musicale, dinamica, sciolta e croccante.

cityCredits @NYCDailyPics

Nota: il tweet di cui sopra #punkeverywhere fa riferimento alla mostra fotografica “Punk in Britain” che potete visitare ancora per una settimana alla Galleria Sozzani . Un buon modo per approfondire la questione, con i dovuti accorgimenti perché si fa riferimento appunto al movimento inglese e non a quello del cugino americano.

"Il Ciclope", di Paolo Rumiz

“A chi, come me, è nato in Adriatico, non la darete a intendere che i fari più belli d’Europa stanno in Bretagna o Cornovaglia. Sappiatelo, voi che amate il mare e vi fate infinocchiare dalle foto che glorificano torri oceaniche assediate dai marosi. Il Mediterraneo non è da meno” (pag.87)

Da diversi anni il giornalista triestino Paolo Rumiz – che, lo ricordiamo, da inviato speciale ha testimoniato attraverso i suoi scritti i momenti più salienti delle vicende mediterranee, dai conflitti balcanici agli eventi dell’Afghanistan – ogni estate intraprende un viaggio che poi riporta sulle pagine di Repubblica in forma di reportage a puntate.
Accompagnato da amici, poeti, registi, attori, scrittori e utilizzando i mezzi di trasporto più diversi (dalla bicicletta a una Topolino del ’53, dalla barca all’autostop) in più di dieci anni ha percorso migliaia di chilometri tra l’Italia e i Balcani, dall’Europa all’Artico, fino a Gerusalemme e Istanbul, con gli intenti più disparati: seguire le Alpi in tutta la loro estensione, raggiungere il sepolcro di Cristo, percorrere il lungo tragitto della Via Appia, visitare insediamenti industriali e civili in rovina. Da molti di questi itinerari sono stati tratti non solo delle inchieste giornalistiche ma anche dei docu-films alcuni dei quali presentati con successo di pubblico e critica.
Gita al faro
Nell’estate del 2014 Rumiz per la prima volta parte da solo, per trascorrere tre settimane su uno sperduto e deserto isolotto nel mezzo del Mediterraneo, all’interno di un impianto di segnalazione luminosa ancora attivo e comandato manualmente da un manipolo di guardiani in turnazione continua.

“Ora dovrei dirvi dove sono. Per esempio, che questa è un’isola lontana da tutto eppure al centro di tutto. Uno scoglio che, nonostante la distanza, è impossibile mancare. Dirvi che è microscopia, ma sulle mappe nessuno la dimentica, perché è un punto nave fondamentale. (…) Dovrei darvi le coordinate, latitudine e longitudine. Ma non lo farò. Non vi dirò nemmeno la nazione cui appartiene. (…). Non chiedetemi altro. Troppo facile, con i motori di ricerca. Bastano due-tre nomi e anche un bambino distratto ci arriva. Voglio che fatichiate a trovarla, che la navigazione si ardua, che vi perdiate nei libri prima che negli arcipelaghi. (…) Vi prego dunque, nel caso la trovaste, se siete affezionati alla mia scrittura e non volete che un luogo benedetto si invaso dall’orda degli infedeli, non ditelo a nessuno” (pag.17)

Nel volume “Il Ciclope”, edito da Feltrinelli come la maggior parte dei testi di Rumiz, il giornalista raccoglie in corpus le note di questo “viaggio immobile”, già pubblicate su Repubblica in precedenza.
L. Feininger

 

In realtà questo testo mi ha interessato non tanto per l’argomento in sé quanto perché esempio di un certo tipo di approccio al tema del viaggio, quello psicogeografico (che include anche, in questo caso, la prospettiva del turismo eco-compatibile), e inoltre per l’attraente assonanza tra le osservazioni di Rumiz e le caratteristiche che, almeno nelle opere di base anglofona, definiscono l’appartenenza al genere letterario definito del New Nature Writing.
Pronti, partenza, via
In completa antitesi con la formula contemporanea del mordi e fuggi all-inclusive, magari coadiuvata da qualche bel buono sconto per esperienze one-shot dichiarate imperdibili e relative foto sui Social, Rumiz celebra un turismo diverso, fatto prima di tutto di una progettualità che affonda le sue radici nel desiderio di trascorrere un tempo libero qualitativamente valido. Questo momento altro, che è segnato dalla consapevolezza per lo spazio e il tempo che ci si trova a occupare e che mira a evitare la trappola dello sfruttamento consumistico del territorio, è oltremodo speciale nel caso di Rumiz, il cui interesse si concentra soprattutto nei riguardi dell’interazione tra le vicende umane e lo spazio terrestre all’interno del quale si sono svolte, con particolare attenzione verso la Storia, antica e moderna.

 

 

Fa il resto l’approccio giornalistico del professionista che è caratterizzato da un impegno costante per la ricerca, la scoperta, la documentazione e la condivisione del sapere.
In questo caso tuttavia Rumiz va ancora oltre, scegliendo deliberatamente un luogo di reclusione assoluta all’interno del quale l’esperienza del viaggio – che occorre porti con sé non tanto avventure da spartire sul momento quanto conoscenze da condividere in seguito, una volta elaborate – diviene di necessità un percorso intimo all’interno di se stessi.
La reclusione è anche l’occasione per riflettere su analoghe esperienze passate ed è su questi racconti, trasfigurati nel più puro stile marinaresco, che si concentra tanta parte del reportage di Rumiz. Ecco allora la mente si affolla di ricordi: vecchi lupi di mare che in osterie fatiscenti, davanti a un buon bicchiere di vino, raccontano di naufragi e bastimenti fantasma affondati al largo di coste perigliose; luoghi remoti visitati da solo o grazie al talento dei compagni d’avventura (qualcuno dei quali anche in grado di recitare l’Odissea a memoria): le coste e i faraglioni del Pembrokeshire, nel Sudovest dell’Inghilterra, le acque attorno a Itaca fino a Corinto, Mikonos e le Cicladi, la visita alle rovine del carcere dell’Asinara; una gita a Capo Colonna, sulle orme di Annibale; quella al faro disabitato di Capo Trionto, a nord di Crotone; la spedizione a Point Hope, nell’estremo nord dell’Alaska.
E’ la perizia di skipper consumati, di maestri di vela, di anziani capitani in pensione che attraverso l’arte del racconto e del passaparola tessono una rete fittissima di notizie, rimandi, suggestioni che a poco a poco, con la lentezza vecchia di anni tipica del racconto orale di matrice ellenica, avvicinano Rumiz alla meta desiderata che si fa via via più vicina in un continuo “approccio pelagico” lontano anni luce dall’insipida rapidità del click al computer.

“La scelta di venire in questa Isola misteriosa la devo anche a un grande narratore di mare, Antonio Mallardi da Bari. Difficilmente conoscerò un’anima più omerica della sua. Pescatore, contadino, violoncellista, maestro d’ascia e consulente editoriale, ha inseguito dentici e murene dalle Tremiti alle Jonie e oltre ancora, fino al mare infuocato di Haifa. Con Fosco Maraini ha circumnavigato Itaca sott’acqua, una settimana a caccia di pesce di scoglio, con una barca d’appoggio. (…) Anche lui, cinquant’anni prima, aveva sognato di fare il guardiano di un faro. Gli mancava solo quello, nella sua vita inquieta. Il ministero della Marina lo aveva chiamato a sostenere gli esami e lui l’aveva detto a Mara, sua moglie. “O me, o il faro”, era stata la risposta. E così il desiderio inappagato è rimasto a covare in lui nelle notti di vento” (pag.22)

 

E. Hopper (@HopperAtoZ)
A ciascuno il suo (di New Nature Writing)
Su Medium, a proposito di tutt’altra narrazione – (fiction vs. non-fiction, e anche qui sta anche un po’ il succo – si rifletteva sulla declinazione nostrana del tema del New Nature Writing. Se per gli scrittori d’oltreoceano il NNW si definisce nel rapporto tra una natura aliena e insondabile e un’Umanità sempre meno propensa (e sempre più incapace) a comprenderla, probabilmente per noi il canone si svilupperà – parlo al futuro perché nessuno ha ancora provato a stilare un elenco – tenendo conto del ruolo che l’uomo ha, o ha avuto, sul nostro territorio, specie per quanto riguarda il rapporto con il Mediterraneo: e i reportage psicogeografici ne sono (forse) un esempio. E’ comunque stupefacente osservare come certe suggestioni travalichino geografia e generi letterari, ad esempio accomunando la scrittura del californiano Jeff Vandermeer, visionario, prolifico e apprezzatissimo sci-fi writer, con l’esperienza del più anziano Rumiz, appartenente a tutt’altra scuola:
  • l’idea di una natura che cerca in ogni modo di riprendersi i propri spazi difendendo se stessa dall’invasione dell’uomo (“Il mare si svuota: e a ripulirlo non è la pesca dei miei due simpatici bucanieri, ma quella industriale e sistematica. I tre-quattromila gabbiani sulle praterie e gli strapiombi non hanno quasi più niente da mangiare in acqua e cercano cibo in terraferma. Qualsiasi cibo. Sono diventati feroci. Da allora molto è cambiato per me. La natura, cui all’inizio avevo guardato con l’imbecillità contemplativa dell’uomo urbanizzato, si è svelata tutt’altro che pacifica. (…) Il loro urlo senza voce dice che in trent’anni il Mediterraneo si è svuotato del settanta per cento della sua ricchezza ittica. Me l’aveva svelato Tamara Vucetic, biologa marina croata, durante un viaggio in Dalmazia” [pag.65-66] “Siamo pieni di paure, certo, ma paure di cose senza significato, e le paure a vuoto si chiamano paranoie. Ci manca il timore vero, quello supremo. L’orrore di noi stessi, incapaci di sentire il grido della natura che boccheggia (…). [pag.69])
  • un viaggio che è esplorazione e racconto, pieno di note e diari (“Rileggo il diario di quel primo giorno. Frasi brevi, quasi degli haiku” [pag.13]); una meta che si distingue più per quello che non è, un non-luogo denso di storia che crea nel visitatore uno sdoppiamento dell’individualità (“Troppo improvviso il passaggio dal pieno al vuoto di questo luogo. Forse è il corpo che tenta di resistere al risucchio del nulla. Perché davvero, qui, se sei solo, rischi di diventare matto. Parli con te stesso, ti viene naturale, e non ti accorgi di farlo per il semplice motivo che hai il tuo Doppio accanto” [pag.15]) ; l’archetipo dell’Isola, quasi una creatura senziente gettata di traverso a intersecare coordinate universali altrimenti imperscrutabili (“Per leggere ora devo accendere la lampadina frontale. Sento che l’Isola è un sensore nell’universo che la circonda. Un’antenna parabolica di pensieri vaganti” [pag.92] “La torre solitaria in cima alla montagna è un ripetitore di suoni ultraterreni, un’antenna sintonizzata su frequenze non udibili ai vivi” [pag.114])
  • il misticismo religioso, l’esigenza di contatto con il divino e la ricerca di un significato superiore (“Qui sei un miserabile nulla davanti all’immensità della natura. (…) Quanto ci farebbe bene, penso, un po’ di sano, superstizioso timore dell’ira d’Iddio – o degli dei – per guarire da questa oscena sicumera che nasce dal sentirci garantiti e sazi in un mondo pieno di strepito e incoscienza” [pag-15]); il faro come luogo di culto, legato non solo al divino tradizionale (sia esso Cristiano, Musulmano o pagano) ma anche a una dimensione ultraterrena che affonda le sue origini nel mistero (“Non so perché ci ho messo tanto a guadare dentro i cristalli concentrici dell’apparato ottico. (…) Quel capolavoro millimetrico ti costringeva quasi a prostrarti, come davanti a una divinità, un enigma. O la pupilla di una sfinge” [pag.53-54])
  • l’inesprimibilità dei concetti, la meditazione sul linguaggio e in generale sulla lingua (“A ripensarci, mi rendo conto di non aver scritto io questa storia. Sono stati il vento e la marea. Io non ho fatto che registrarne la voce amplificata dal ventre cavo della torre” [pag.14] Ho anche la sensazione che il mare aperto lentamente disidrati i pensieri, renda superflua la sintassi, le spiegazioni, come se fosse vano comunicare l’incommensurabile. (…) Scrivo per disciplina, per mestiere o per autosuggestione. Scrivo perché lascio che sia il mare a dettare la storia. Ma sento che, se davvero non opponessi resistenza, quello stesso mare mi porterebbe pian piano al silenzio” [pag.93])
Una nota a parte merita la riflessione, sempre presente ma mai né ridondante né stucchevole, sulla storia e le civiltà del Mediterraneo che da sempre, e per millenni, ha ricoperto l’importantissima funzione di crocevia e luogo di scambio di lingue, culture, mestieri e materie. E’ un tema chiaramente difficile da affrontare, specie di questi tempi; Rumiz lo gestisce con sapienza e serietà, senza mai abbandonare una certa leggerezza di approccio (cfr. il capitolo “Ego Adriaticus Sum”), che doveva necessariamente caratterizzare questo reportage.
 
L’unico appunto al testo potrebbe derivare da una fruizione che evidentemente non è per tutti, in special modo per coloro che non provengono dall’area delle lettere classiche. Non solo perché il testo è denso di rimandi espliciti ma anche impliciti alla grecità antica in tutte le sue forme – storia, arte e letteratura – ma anche perché la lettura di alcuni punti necessita, per essere apprezzata appieno dal punto di vista stilistico, di una parziale sospensione del giudizio. Mi riferisco in special modo alle parti relative ai racconti in stile marinaresco e alla poetica che ruota intorno al cibo e al nutrimento: due temi per i quali Rumiz utilizza un linguaggio ricercato, costruito e arcaicizzante che mira alla creazione di particolari corrispondenze mentali. Tali assonanze tuttavia risultano evidenti soltanto a chi è pratico di certi studi mentre c’è rischio che vengano fraintese e interpretate solo come uno stucchevole gioco letterario da parte di orecchie meno allenate. 
 
Buona lettura

“The Southern Reach Trilogy”, di Jeff Vandermeer

Avvertenza: data la lunghezza (lettura stimata 13 minuti) il post è stato originariamente pubblicato su @MediumItaliano: ho scelto poi di copiarlo su ADC per facilitare l’utilizzo di Google Translator così come mi hanno richiesto alcuni followers anglofoni. Cliccare qui per essere reindirizzati alla pagina originale – e ai commenti.
In cui si cerca di riflettere, tra le altre cose, su: l’evoluzione del sistema New Weird e la nuova frontiera dell’eco sci-fi — o climate fiction che dir si voglia; cosa sia il *new #NatureWriting*, per quale motivo se ne parli così tanto all’estero e così poco qui da noi, e del perché lo si ponga in correlazione con la SRT; le belle amicizie che si fanno su Twitter, specie durante le ferie estive. Non ultimo, su “Accettazione”, il terzo e ultimo volume della trilogia di cui al titolo.

 

1. Il New Weird. Corrispondenze, interferenze

 

“Kerans si disse che aveva fatto bene a restare all’interno dell’albergo: le tempeste scoppiavano con frequenza sempre maggiore via via che la temperatura andava aumentando. Ma Kerans sapeva benissimo che il reale motivo della sua decisione era l’accettazione ormai passiva del fatto che gli restasse ben poco da fare. Le rilevazioni biologiche erano diventate un gioco senza senso e privo di alcuna utilità, dato che la nuova flora seguiva pedissequamente le tendenze anticipate dagli scienziati vent’anni prima, ed era sicuro che nessuno a Camp Byrd, nella Groenlandia settentrionale, si preoccupava di archiviare i suoi rapporti, figuriamoci poi di leggerli” . (JG Ballard, “Il mondo sommerso”, Feltrinelli 2005, trad. Stefano Massaron, pag.5)

“Il microscopio era abbandonato da tempo in un angolo, coperto di muffa, semisepolto dal passare degli anni . Non avevo la forza di prelevare un campione, di scoprire quello che già sapevo. In fondo, un microscopio non poteva dirmi niente di quel gufo che già non sapessi. Niente che non avessi capito in anni e anni di stretta interazione e osservazione”. (Jeff Vandermeer, “Accettazione”, Einaudi 2005 pag. 148)

 

Edward Hopper. Credits @HopperAtoZ

 

E’ sufficiente questa simmetria tra il biologo Kerans e la biologa senza nome protagonista della SRT a rendere evidente il debito di Jeff Vandermeer nei confronti di James Graham Ballard, debito a cui segue di necessità un tributo che percorre tutta la “Southern Reach Trilogy”. In verità però ho scelto questo paragrafo, uno tra i tanti recuperati dal mio Feltrinelli sgualcito, anche perché credo che confrontato con quello di Vandermeer, citato appena sotto, riesca a identificare meglio di molti altri (forse più evocativi ma meno efficaci) le motivazioni che hanno determinato la scissione di cui Jeff Vandermeer è stato artefice: quella tra la fantascienza propriamente detta e il movimento New Weird.

Del fenomeno New Weird avevamo già avuto modo di parlare in occasione dell’uscita di “Annientamento” e ancor più con la pubblicazione di “Autorità”, SRT parte seconda, che aveva innegabilmente risvegliato le attenzioni della critica nostrana fino ad allora sicuramente entusiasta dell’opera ma poco avvezza a trattare certi argomenti più consoni, per tradizione, alla narrativa d’oltreoceano.

[Ricordiamolo cos’è, questo New Weird, utilizzando proprio la definizione data dallo stesso Vandermeer nel lontano 2008: “A type of urban, secondary-world fiction that subvert the romanticized ideas about place found in traditional fantasy, largerly by choosing realistic, complex real-world models as the jumping off point for creation of settings that may be combine elements of both science fiction and fantasy”]
Il columnist Joshua Rothman, l’Archive Editor del The New Yorker, con l’articolo “The weird Thoreau” (01/2015) dimostra inequivocabilmente come in realtà la critica anglofona, guardando ancora più avanti, non solo abbia affrontato il fenomeno NW con dovizia di interventi ma si sia ritrovata ad accostarlo, e non senza ragione, a uno dei temi che da un paio d’anni tengono banco sulle maggiori riviste culturali UK/US: la rinascita del Nature Writing.
 
2. Il “New Nature-Writing”. Parte prima: dalla nostalgie della boue all’Antropocene

“Try sci-fi and sci-fi film (…). “It opens up worlds of imagination. (…) “Some of the most exciting thinking about identity and landscape seems to me to be happening in science fiction and speculative fiction, which I teach in these terms: the extraterrestrial pastoral as a means of radically rethinking notions of belonging and place”.

Tra i tanti espedienti attraverso cui cominciare a parlare di #NatureWriting ho scelto deliberatamente questo, ossia riferirmi a un passo dell’articolo “Toward a Wider View of “Nature Writing” a firma della giornalista e scrittrice Catherine Buni, pubblicato sul Los Angeles Review of Books il gennaio scorso. In verità qui la Buni sta citando altre due fonti (Nikky Finney e Robert Macfarlane) e la questione centrale dell’articolo si basa non tanto sul NNW quanto su una sua particolare interpretazione (lo studio delle relazioni che legano “culture, place, *race* and identity”) — ma questo al momento ci interessa relativamente.
Cito questo passo non perché sia il primo sull’argomento, o il più interessante; la realtà è che mi ci sono affezionata perché leggendolo sono riuscita per la prima volta a fissare nei miei appunti un concetto fondamentale: il New Nature Writing ha ormai travalicato il genere letterario da cui è nato; il che, a mio parere, non è poco. Poi vedremo perché.
Ma facciamo un passo indietro. Ai primi di marzo appare su Rivista Studio un intervento di Francesco Guglieri dal titolo “Dire attraverso la natura”. FGuglieri (per primo) ad uso e consumo di noi residenti nelle province dell’impero si propone di fare il punto sulla questione dello “scrivere secondo natura” differenziando la tradizione tutta britannica dello scrivere sulla natura dall’approccio moderno al tema dell’ambientazione rurale, che diviene, piuttosto, un dire qualcosa utilizzando la natura. [Qui su ADC potete trovare un po’ di bibliografia sull’argomento, nel post dedicato all’ultimo romanzo della scrittrice canadese Frances Greenslade pubblicato in Italia da Keller Editore]. Guglieri è seguito più o meno a stretto giro da Fabio Deotto che dalle pagine della Lettura (2/08/2016) addirittura si spinge fino ad annoverare la SRT tra gli esempi più felici e recenti della climate-fiction.
Ricominciamo. Nel suo saggio Guglieri citava tra gli altri l’articolo — divenuto ormai un must-read sull’argomento — del giornalista Steven PooleIs our love of nature writing bourgeois escapism?” (The Guardian, 6/07/2013). Poole, pur tecnicamente abbastanza scettico (“L’aumento del moderno appetito dei lettori metropolitani nei riguardi di opere che parlano di passeggiate e della scoperta di se stessi nella natura è l’equivalente letterario dei mercatini a chilometro zero che vediamo nascere e crescere nel nord di Londra” — e citando questo passo ho detto tutto) pone l’accento su una questione specifica, quella del rewilding:

“On one hand, nature is considered as something we should not attempt to manage — what is wild is just what is not cultured. Rewilding, Monbiot promises, “is about resisting the urge to control nature and allowing it to find its own way”. There is a certain smug hands-off paternalism to this image, as though the rewilder is watching from a safe distance while nature, like an adorable little child, wanders off haltingly on its own path

che se ne porta dietro inevitabilmente un’altra:

Nature writers do tend to whitewash the non-human world as a place of eternal sun-dappled peace and harmony, only ever the innocent victim of human depredation (Leach even says nature is like a “hostage” and we her “captors”) — always somehow forgetting that nature has exterminated countless members of her own realm through volcanic eruption, tsunami, or natural climate variation, not to mention the hideously gruesome day-in, day-out business of parts of nature killing and eating other parts. (…) If you go back far enough, human beings aren’t native to any part of the world except Africa. So we must be among the most invasive species of all. We’re eternal immigrants to a nature where we don’t belong. This assumption, too, is common in modern nature writing. We are interlopers, intruders. Nature is no longer our home”.

Va bene, questa cosa dell’Antropocene l’abbiamo già sentita. Dove? Ma certo, vi ricordate l’hashtag dell’agosto scorso, #TheSixthExtinction? Si tratta del titolo di quel documented book che zitto zitto ha scalato le classifiche US e alla fine s’è vinto pure il Pulitzer 2015 per la non-fiction e che, in sostanza, raccoglie gli ultimi reportage riveduti e corretti della giornalista statunitense Elizabeth Colbert, specializzata in temi ambientali. In Italia è stato pubblicato da Neri Pozza e io ne avevo parlato qui, ammorbando i miei followers con decine di twitts sull’argomento.
Ma parlando di Antropocene, a darci il colpo di grazia in tutta questa storia, ingarbugliata di suo fin dalla nascita, come si vede, è stato infine il bravo Gianluca Didino che con l’articolo “Alle radici del nature writing contemporaneo: da Ballard a Sebald, la scrittura della natura al tempo dell’Antropocene racconta molto più di quanto si possa pensare” ci è venuto in soccorso poche settimane fa associando il NNW al superamento del genere letterario di origine.
D’altra parte, già nel 2013 così si esprimeva lo scrittore Tim Dee nell’articolo “Supernatural: the rise of the new nature writing”:

“Until relatively recently, things were clearer; the British branch of nature writing was mostly about the countryside, its landscape and creatures; it was non-fiction, non-scientific prose characterised by close attention to living things that were known and often loved by its writers. It almost always felt as if it had come from the pre- or barely industrial past and, with rare exceptions, nature writing was nice writing and it walked — stout shoes and knapsack — a thin green lane between hedges of science on one side and a wild wood of poetry on the other. It was different from either, though fed by both, and it bled palely back into each. It developed through letters (for example, Gilbert White),diaries (Francis Kilvert), essays (Edward Thomas) and journalism (WH Hudson). (…) In this crisis of the end of nature, poetry, polemic and scientific prose have vastly lengthened the nature-writing booklist. Meanwhile old taxonomies, hierarchies and clarities have disappeared”.

The High Shore, (1923) Lyonel Feininger. Credits TBC
3. Il “New Nature-Writing”. Parte seconda: “a religious experience”

“Books on nature and landscape follow fashion, just like everything else. At present, the dominant mode is the transcendental: muddy-booted birdwatchers are out, and high-minded Emersonians are in. Arguments from authority — the lab smarts of the ecologist or zoologist, the field knowhow of the naturalist — have lost their clout. The writer Melissa Harrison has made the case that “some experts forget that fostering a love of nature doesn’t start with facts and statistics, but stories and experience: things that engage our hearts and bodies as well as our minds.” Facts are less interesting than personal experience. But this is not any old personal experience. It is, to all intents and purposes, religious experience”.

Lascio da parte la questione dell’Antropocene per soffermarmi su un altro aspetto del NNW che mi sta particolarmente a cuore. A scrivere quanto sopra è il giornalista Richard Smyth, che nell’aprile scorso pubblica sulla rivista New Humanist un saggio dal titolo inequivocabile: “The cult of nature writing. A resurgence in nature writing offers secular transcendence. But are we being led up the garden path?”. [O.T. : “Authority”: ora, non so voi, ma io a volte ho, onestamente, l’impressione che Jeff Vandermeer mi stia prendendo in giro, seminando sassolini qui e là che poi mi tocca raccogliere e conservare. Comunque, andiamo avanti]. Smyth si occupa di un aspetto a suo dire fondamentale del New Nature Writing, ossia l’esperienza religiosa, spesso a un passo dal misticismo, che il NNW o per lo meno quello di ultimissima generazione porta con sé.
“Ora che la maggior parte degli scrittori ha escluso la divinità dai propri progetti, siamo rimasti o di essa sguarniti, oppure, viceversa, ci troviamo nella condizione di dover cercare qualche altro punto di riferimento”: cosi Smyth cita David George Haskell, autore di The Forest Unseen. E continua:

“The many stories of the universe from which we sprang provide one such center: transcendent power, inscrutable complexity, and humbling vastness. When we get a taste of these we’re inclined to preach the revelation to others. I see this move as directly parallel to the impulses underlying mystical religious writings. This parallelism results in not a convergence of language, but language flowing from the same source. (…) Haskell is a writer who can combine a kind of transcendentalism with a clear, human prose style. He also has a Cornell PhD in Ecology and Evolutionary Biology. Others of those who come down to us from the mountain bearing strange writings might not have PhDs or years of hands-on experience, but that’s precisely the point — they don’t need those things, because they have something better. They speak with the voices of prophets”.

[Nota a margine: per complicare ulteriormente le cose, accenno soltanto al fatto che Smyth citi tra le altre sue fonti anche Philip Hoare, che scrisse l’introduzione a “Leviathan” di Samuel Johnson (2008), opera poi pubblicata in Italia da Einaudi e recentemente suggerita su Twitter dallo stesso Guglieri quale esempio di testo NNW].
Smyth affronta la questione anche dal punto di vista stilistico quindi, evidenziando come all’aumentare della dimensione trascendentale vada in crescendo anche una certa, tipica “prosa da pulpito” che “duplica l’oscurità e crea qualcosa che può essere potente ed evocativo — e che può, forse, essere poeticità – ma che non è realmente interessato a spiegare alcunché” . Né più né meno di quel che accade nella SRT (“Leaning towards obscurity may be an honest reflection of the writer’s priorities — after all, putting the personal ahead of the general is what novelists and poets do all the time” chiosa bonariamente Smyth):

“It’s interesting to note, by the way, that while the Victorian heyday of popular nature writing was dominated by Anglican clergymen exploring the science of their subject, the big players in today’s scene are writers of a humanist bent pushing a transcendentalist angle”.

Non è possibile fare altro se non concludere così questo terzo punto:

“La mano del peccatore esulterà, perché non c’è peccato nell’ombra o nella luce che i semi dei morti non possano perdonare” (Jeff Vandermeer, “Accettazione”, Einaudi 2005 pag. 259). Detto e fatto.

French Coast, (1892) Van Rysselberghe. Credits @MichikoKakutani
4. Appunti in breve: “Accettazione”, di Jeff Vandermeer
Con “Accettazione” si conclude infine la Trilogia dell’Area X: tra continui flashback e ritorni al presente torniamo a seguire le vicende della biologa (o meglio, del suo doppio, l’Uccello Fantasma) e di John Rodriguez (“Controllo”), del guardiano del faro Saul Evans, di Cinthya, la direttrice, e della sua vice, Grace Stevenson, fino alla conclusione (o presunta tale?) che non disattende di certo le premesse e il piano dell’opera.
Non ci si aspetti neppure in questo volume — che va assolutamente letto di seguito ai precedenti pena la perdita di una consequenzialità tematica e stilistica difficile da recuperare a distanza, ecco il perché della pubblicazione a date ravvicinate — una lettura facile, svelta e di chiara interpretazione.
La struttura di questa terza parte è già di per sé complessa, definita com’è dai continui salti temporali a cui il lettore è costretto: il presente — la fuga della biologa e di John Rodriguez all’interno dell’Area X e, in parallelo, quella della vicedirettrice Grace; un passato recente — la spedizione misteriosa e non autorizzata della direttrice e del suo vice Whitby; un passato invece più remoto — quello del guardiano del faro, Saul Evans; il racconto della biologa, anch’esso ormai trascorso, che narra in prima persona i momenti passati all’interno dell’arcipelago e del faro sull’isola contaminata.
La lettura è complicata anche da un progetto stilistico che raggiunge una forte ed evidente complessità sintattica e lessicale (ben resa anche in traduzione) mai fine a se stessa ma vòlta a dimostrare l’inutilità della più alta espressione umana nel momento in cui sia necessario descrivere un reale altro e completamente estraneo.
Vandermeer è preparato in materia e sono evidenti la consapevolezza riguardo il genere letterario affrontato e la conoscenza dell’opera dei predecessori. Specie la stampa estera si è domandata, all’uscita di “Acceptance”, se la “Southern Reach Trilogy” sia da considerarsi oltre che un manifesto programmatico del fenomeno New Weird un esempio di quel complesso sistema “New Nature Writing” che sta facendo tanto parlare di sé. Gli elementi come si diceva ci sono tutti: dalla riflessione, se vogliamo più banale e intuitiva, sul ruolo del genere umano all’interno della biosfera fino alla suggestione del rewilding (i conigli di “Authority”, ve li ricordate?), per non parlare dei temi legati all’utilizzo del linguaggio, ai sistemi di comunicazione, alla loro interpretazione e al misticismo religioso. Parallelismi che sembrano non lasciare dubbi sulle origini dell’opera ma anche sull’intenzione dell’autore di travalicare anche questo sottogenere letterario con un lavoro che, come abbiamo visto, raccoglie in sé le tendenze più innovative della letteratura contemporanea.
5. Il “New Nature Writing” autoctono: sogno o realtà? & Thanks to…

“Era quella che si dice una giornataccia. Salivo per il sentiero a picco sul mare lottando con le raffiche, e nel buio dovevo badare a dove mettere i piedi. Da ovest arrivava il temporale, la folgore mitragliava un promontorio lontano simile a una testuggine. Ero sbarcato appena in tempo: con quel mare in tempesta non sarebbe arrivato più nessuno per chissà quanti giorni. Ero solo, non conoscevo la strada del faro e l’Isola era deserta. Miglia e miglia lontano, il resto dell’arcipelago era inghiottito dal buio e dalla spruzzaglia. Non una luce, niente”.

“Rileggo il diario di quel primo giorno. Frasi brevi, quasi degli haiku. ‘Ore tre. Impossibile riprender sonno. Aprile, notti fredde’”.

Scale a chiocciola, una porta bianca, una scala di ferro, una seconda scala. Oltre non vado. Ho paura che l’occhio di Polifemo si possa guardarlo solo nel riflesso dei vetri esterni, e da un angolo più basso. Oltre, temo che la luce sia intollerabile. (…) A ripensarci, mi rendo conto di non aver scritto io questa storia. Sono stati il vento e la marea. Io non ho fatto che registrarne la voce amplificata dal ventre cavo della torre”.

“E’ la notte della Risurrezione, ma sembra quella del Golgota: chissà se il Nazareno ha già spostato la pietra del Sepolcro. (…) Quanto ci farebbe bene, penso, un po’ di sano, superstizioso timore dell’ira d’Iddio — o degli dèi — per guarire da questa oscena sicumera che nasce dal sentirci garantiti e sazi in un mondo pieno di strepito e incoscienza”.

“Forse è il corpo che tenta di resistere al risucchio del nulla. Perché davvero qui sei solo, rischi di diventare matto. Parli con te stesso, ti viene naturale, e non ti accorgi di farlo per il semplice motivo che hai il tuo Doppio accanto (…). Lo sento anche ora: se aprissi gli occhi lo vedrei seduto al capezzale. Ieri per due volte volte, esplorando l’Isola prima della pioggia, mi sono voltato per capire di chi erano i passi dietro di me, ma non c’era nessuno”.

Edward Hopper. Credits @HopperAtoZ

Questi brani non sono tratti dalla SRT bensì da “Il Ciclope”, l’ultimo lavoro di Paolo Rumiz uscito a novembre 2015 per Feltrinelli e credo parlino da soli, senza bisogno di commento. Mi piacerebbe avere il tempo e le risorse (nonché il talento! — piccolo particolare) per raccogliere la sfida lanciata da Luca Albani via Twitter: cominciare a definire un corpus di testi su cui poter poi innestare una riflessione critica riguardo la potenziale esistenza di un New Nature Writing tutto italiano: a quanto pare, il materiale non mancherebbe.

Per il momento però non posso fare altro che ringraziare non solo Luca Albani ma anche Francesco Guglieri che con pazienza e passione, tra un twitt e l’altro, mi hanno accompagnato in questa mia avventura da autodidatta alla scoperta del New Nature Writing. Spero di aver ricambiato con queste note, almeno in parte, la loro infinita cortesia.

Buona lettura

 

"La Duchessa", di Caroline Blackwood

L’impegno di Codice Edizioni nel recuperare le opere di Caroline Blackwood si apre con la pubblicazione del suo reportage più celebre: un prezioso documento di giornalismo investigativo che, avvincente come una spy story ma purtroppo frutto di una vicenda realmente accaduta, tenta di svelare l’ultimo e più incomprensibile mistero della strabiliante vita di Wallis Simpson.

Lucian Freud, “Girl in Bed”, 1952
[Credits: Wikipedia]

Tutto ha origine dall’articolo sulla Duchessa di Windsor che il Sunday Times commissionò alla Blackwood nel 1980. Assegnazione non casuale visto che questa dinamica, preparatissima e prolifica scrittrice – una delle firme di punta del ST – altra non era se non, all’anagrafe – Lady Caroline Maureen Hamilton-Temple-Blackwood (Londra 1931, NewYork 1996). Di famiglia anglo-irlandese, la primogenita del Marchese di Duffen & Ava e della di lui consorte Maureen Guiness (sì, proprio i magnati della brewery) dopo il debutto in società e il trasferimento a New York si dedica con passione a talento all’attività giornalistica, divenendo in pochi anni abile columnist e, in aggiunta, chiacchierata socialitè. Una vita tumultuosa, quella della Blackwood, tra frequentazioni di alta aristocrazia, eccessi e turbolente avventure sentimentali culminate in tre matrimoni dall’esito infausto; esperienze che per altro hanno fatto da sfondo a una serie di opere narrativo-autobiografiche tra cui “Mrs. Webster” e “The Stepdaughter”, caratterizzate da un’ironia pungente attraverso cui l’autrice denuncia e demolisce le realtà più drammatiche da lei sperimentate – a cominciare dal mondo ipocrita e corrotto della nobiltà britannica.


La foto, scattata nel 1949, ritrae Lady Caroline in compagnia del primo marito, il pittore Lucian Freud, durante la luna di miele. Il pittore immortalò il fascino e la bellezza di Caroline in numerose tele e dopo il divorzio tentò il suicidio.
In seconde nozze Blackwood sposò il pianista Israel Citkowitz, molto più anziano di lei, da cui ebbe due figlie, e poi una terza che lui crebbe come sua ma che in realtà era frutto di una relazione extraconiugale della moglie. Infine Lady Caroline si sposò con il poeta Robert Lowell, che nel 1977 morì di infarto per le strade di New York, chiuso in un tassì mentre tornava dalla prima moglie, abbracciando il ritratto di Freud “Girl in Bed”.
[Credits: The Telegraph]

L’articolo su Wallis Simpson avrebbe dovuto comprendere oltre all’intervista esclusiva alla Duchessa anche un servizio fotografico a firma Lord Snowdon, ex marito della Principessa Magareth, ma né l’intervista né il servizio fotografico furono mai realizzati per il semplice fatto che né Caroline né Snowdon – malgrado l’abilità professionale e le conoscenze personali – riuscirono ad avvicinarsi all’ormai anziana e malata Wallis, segregata a Parigi, nella sua casa-museo sul Bois de Boulogne e tenuta in ostaggio dal terribile avvocato di famiglia, “Maitre” Suzanne Blum, che alla morte del principe Edoardo aveva ottenuto la tutela legale della Duchessa e del suo patrimonio.

Lady Caroline, ritratto.
Photo by Walker Evans
(St.Louis 1903, New Haven 1975)
[Credits: Codice Edizioni]

Ciò che venne dato alle stampe invece – e si dovette attendere, per timore di azioni legali, non tanto la morte di Wallis (1986) ma soprattutto il decesso della stessa Blum (nel 1994, all’età di 95 anni) – fu il reportage intero che comprende l’imponente attività di ricerca della Blackwood, fra raccolta di documentazione e interviste sul campo; materiale che testimonia l’impegno profuso dalla giornalista nel tentativo di avvicinarsi a una Duchessa di Windsor ormai in punto di morte, sottoposta a cure mediche prossime all’accanimento terapeutico, allontanata a forza dalle poche amicizie rimaste e pericolosamente vicina alla bancarotta.


Figlia di un Alsaziano fuggito in Francia per evitare la cittadinanza tedesca, un ebreo “de bonne famille” (come lo descrive Blum) costretto poi a occuparsi di commercio per sopravvivere, “Maitre” fu educata in maniera tradizionale ma ben presto si ribellò alla famiglia e continuò gli studi fino alla laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Poitiers nel 1921
Il terribile avvocato Suzanne Blum
[Credits: DailyMail]

Ne seguì una brillante carriera internazionale costellata d numerosi successi professionali (tra i sui clienti: major cinematografiche e attori di fama hollywoodiana, da Chaplin a Rita Hayworth) e infine l’incontro con la famiglia reale britannica, di cui da sempre subiva il fascino. Ottimo avvocato, spietata con avversari e colleghi, irascibile e collerica, ossessionata dal potere, dal denaro e dalla chirurgia estetica, la Blum divenne dopo la morte di Edoardo l’unico procuratore legale della famiglia reale e dal quel momento cominciò il suo costante e sistematico impegno di appropriarsi, in maniera sempre più maniacale e ossessiva, della vita di Wallis Simpson – o meglio di quello che ne rimaneva (“Last of the Duchess”, appunto, recita il titolo originale del reportage).

“Era, quello di Suzanne Blum, un morboso e insieme straziante fenomeno d transfert possessivo, la divinizzazione di un’icona più che la descrizione reale di una persona, e insieme la sua idealizzazione nel nome di un puritanismo con cui l’avvocato investiva la sua assistita: <>. Come osserverà la Blackwood, bastava osservare le foto mentre barcollavano da un night club all’altro: Parigi, Palm Beach, New York”
Stenio Solinas per “Il Giornale”
 (28 agosto 2015)

[Credits: NYPost]

Perché si sa, la modesta Bessie Wallis Warfield (maritata Simpson in seconde nozze: “l’orribile divorziata americana”, come era comunemente definita all’epoca dello scandalo), orfana di padre, vissuta grazie all’elemosina dei parenti e spinta dalla madre a frequentare le migliori scuole nella speranza di un matrimonio di comodo, resta sempre e comunque una delle donne più controverse del novecento inglese. 
Un carattere forgiato dagli anni duri dell’infanzia e della giovinezza, l’esperienza dei viaggi in terre esotiche – da cui riportò anche, come si vociferava, le nozioni di arte amatoria attraverso cui irretì il Sovrano – il gusto di circondarsi di lusso e piacevolezze fino all’eccesso (resta famoso l’acquisto di più di cinquanta paia di scarpe tutte insieme, ma questo episodio non è che un aneddoto tra i tanti che si potrebbero raccontare); e poi ancora, la venerazione di Edoardo nei suoi confronti e i misteri che circondano la sua vita a partire dai celebri gioielli appartenuti alla Regina Alessandra, che si dicevano ormai in suo possesso e poi incomprensibilmente svaniti nel nulla, fino ai suoi rapporti con le frange filo-naziste della più estrema destra britannica.

[Credits: NYPost]

E poco importa se con il passare degli anni anche l’opinione pubblica più intransigente si sia ritrovata a considerare l’entrata in scena di Wallis di certo non benefica ma perlomeno utile, specie per quanto riguarda le conseguenze politiche che vennero dall’abdicazione: su tutte, il pericolo scampato di un’alleanza con il Terzo Reich di cui, ormai è assodato, la coppia Windsor era simpatizzante – e non si esclude che la ferma opposizione al matrimonio messa in atto dalla famiglia reale e dai politici a essa più vicini non derivasse da questo timore; per non parlare dell’ascesa al trono dell’amata Elisabetta II, chiaramente frutto dell’incoronazione di Giorgio VI.

“La Duchessa” non interessa soltanto perché documenta una vicenda poco nota e dall’esito tragico, ma anche e soprattutto perché è una questione di donne, e tra donne. Tre personalità fortissime ed enigmatiche che pur partendo dalle medesime condizioni socio-economiche si sono trovate a vivere, ognuna a suo modo, il medesimo periodo storico; è la particolare declinazione che ciascuna di esse ha dato alla propria esistenza a restituirci un quadro d’insieme che va molto oltre le singole vicende personali e che aiuta a far luce su un momento della storia europea ancora lontano dall’essere definitivamente chiarito.

Buona lettura

"L’uccello dipinto", di Jerzy Kosinski

“Vado a dormire un po’ più a lungo del solito. Chiamatela pure Eternità”

Così lascia scritto su un biglietto Jerzy Kosinski – all’anagrafe Josef Lewinkopf, nato a Lodz (Polonia) il 14 giugno 1933 – prima di suicidarsi nel suo appartamento di Manhattan, all’età di 58 anni. 

Emigrato negli States da più di un trentennio, ricercato professore universitario (dottorato alla Columbia, cattedra di lingua e letteratura americana a Yale, Princetown, Davenport e Wesleyan), Kosinski era apprezzato autore di saggi e di varie pubblicazioni – nonché marito di una ricchissima vedova facente parte dell’upperclass industriale pre e postbellica e poi, in seconde nozze, di Katherina “Kiki” von Fraunhofer, erede dell’omonima aristocratica famiglia bavarese, con la quale trascorse vent’anni di vita mondana e spregiudicata tra amicizie altolocate, show televisivi e riconoscimenti pubblici.

Eppure, nonostante la celebrità e i luccichii, tante sono le ombre nella vita di Kosinski. Ha disturbi ossessivi, soffre di disagi psichici; su di lui girano parecchie voci (c’è chi lo vuole addirittura implicato con la CIA) e nel 1982 viene messa in dubbio, dalle pagine di una rivista, l’autenticità di alcuni suoi scritti compreso quella de “L’uccello dipinto”, la sua opera più famosa, data alle stampe nel 1965. Questa vicenda lo segnerà per sempre e sarà alla base della depressione che lo condurrà al suicidio. 
Resta fitta di nodi irrisolti, infatti, anche la sua biografia. A parte il rocambolesco arrivo negli Stati Uniti, organizzato attraverso la falsificazione sistematica di documenti e lettere di raccomandazione a firma di professori universitari inesistenti che Kosinski per anni presentò al Partito, per convincerlo della bontà delle intenzioni e della fedeltà al regime, ciò che ha sempre sollevato questioni è il suo trascorso di infanzia e prima adolescenza. 
La famiglia ebrea Lewinkopf, benestante e istruita, alla vigilia dell’occupazione nazista si trasferisce lontano dalla città e cambia cognome. A Josef viene fornito un nuovo certificato di battesimo, ma poi tutto si confonde. Come l’autore più volte ha sostenuto, ma anche smentito, parrebbe che i genitori ad un certo punto, temendo i campi di sterminio, lo avessero affidato a dei contadini.

“Steps” (“Passi”), pubblicato da @ElliotEdizioni nella collana Raggi (Settembre 2013),
in traduzione di Vincenzo Mantovani – che cura anche “The Painted Bird” nell’ed. qui proposta.
*
L’opera, accolta freddamente dalla critica soprattutto a causa 
della spietatezza e dell’estremo erotismo contenuto in alcuni passi, esce nel 1968 e vince il National Book Award
divenendo presto un classico della letteratura contemporanea USA

Il problema è che di tutto questo Kosinski scrive ne “L’uccello dipinto”, raccontando appunto le vicende di un ragazzino poco più che seienne costretto dalle circostanze a vagabondare, solo e sperduto, nelle più profonde campagne rurali della Polonia invasa dai nazisti, messa a ferro e fuoco dai partigiani e infine conquistata dall’esercito sovietico.
Senza nome, il bambino viene indicato soltanto come “The Gipsy”, lo zingaro, o “il nero” – a far riferimento i capelli scuri e l’incarnato che ne tradiscono la provenienza etnica rispetto al biondo teutonico e che ne certificano lo status di paria e ricercato, nonché portatore di sventure e malattie nell’immaginario superstizioso e arcaico dei poverissimi villaggi contadini che si trova ad attraversare.
Esposto a qualsiasi forma di brutalità, il bambino della storia è oggetto di pestaggi e privazioni, sottomesso alla fame, al freddo, ai malanni e al lavoro dei campi; è testimone di stupri e violenze e proprio a causa di tutti questi traumi a un certo punto perde anche l’uso della parola. Recuperato a fine conflitto da un contingente dell’armata rossa, viene mandato in un orfanotrofio attraverso cui poi riesce a ricongiungersi ai genitori, in maniera completamente fortuita. Un ricongiungimento che tuttavia riesce tardivo e per certi versi ormai inutile, sicuramente non risolutivo.

Naturalmente l’opera ha un ritorno deflagrante. In patria il volume viene proibito (fino al 1984) e tacciato di antinazionalismo a causa dei toni utilizzati nel descrivere le condizioni della Polonia rurale: effettivamente Kosinski non si avvale di tinte neutre per dipingere una dimensione sociale le cui più evidenti caratteristiche sono, agli occhi dell’autore, la violenza che permea ogni aspetto della vita familiare e sociale, la mentalità primitiva e superstiziosa ai limiti della paranoia (fino ad arrivare perfino all’omicidio rituale), la povertà estrema, l’assenza di qualsiasi organismo statale o religioso a far da collante sociale, la sistematica risoluzione dei conflitti attraverso la sottomissione dei più deboli. In patria i sostenitori di Kosinski – colpevole due volte, perché scrivendo in inglese rinnega sia nazione sia lingua madre – vengono minacciati e costretti a sottoscrivere pubbliche dichiarazioni di condanna nei confronti dell’autore mentre i pochi che riescono a recuperare qualche copia clandestina non esitano a evidenziare il carattere edulcorato del testo, le esperienze raccontate all’interno del quale non sarebbero talvolta neppure minimamente paragonabili al reale inferno degli anni ’42-45.

Vien fuori però che “L’uccello dipinto” non se la passa bene neanche negli States. Il testo scandalizza per la sua crudezza, giudicata eccessiva e a tratti voyeuristica. La brutalità di certe scene destabilizza un pubblico che, se pure ormai abbastanza disincantato, non è ancora pronto per opere di questo tenore.
Per altro gli americani, così ligi alle classificazioni, faticano a inquadrare l’opera che per stessa ammissione dello scrittore non è soltanto una narrazione autobiografica (mai Kosinski ha ceduto ai giornalisti che gli domandavano quanto di personale ci fosse nelle vicende del piccolo orfano), ma non è neppure un romanzo, avvicinandosi più a un documentario non-fiction dato il carattere indiscutibilmente oggettivo di alcune fonti utilizzate. Proprio in questa criticità affonda ancora gli artigli la rivista Village Voice quando ben 17 anni più tardi accusa Kosinski di aver spacciato per realmente accaduti i fatti narrati ne “L’uccello dipinto” quando invece doveva apparire ben chiaro (in accordo con la propaganda polacca, e fu proprio questo punto a distruggere Kosinski) che non fossero altro se non il frutto dell’immaginazione dell’autore.

Presenza comprovata o meno di un certo realismo magico, quel che stupisce è la freschezza dello sguardo, un osservare di bambino che, come tutti gli sguardi infantili, è sempre ricco di meraviglia qualsiasi siano le circostanze; una curiosità immediata e atemporale, fissa nell’immediato presente, del tutto priva di retropensiero sul prima e sul poi. A far da contrappunto alla crudezza degli episodi, la voce poetica dell’innocenza e dello stupore, specie per quanto riguarda l’osservazione della natura e delle stagioni:

“D’inverno, quando infuriava la tormenta e il villaggio giaceva nel forte abbraccio di nevi insormontabili, stavamo insieme nella capanna riscaldata e Olga mi parlava di tutti i figli di Dio e di tutti gli spiriti di Satana” (pp65-66)

“Nello scricchiolio dei fitti rami di faggio,nel fruscio dei salici che tuffavano le foglie nell’acqua, sentivo le parole delle mitiche creature di cui Olga mi aveva parlato” (p80) 

“La sinfonia della foresta era interrotta solo dallo sbuffare di una locomotiva, dallo strepito dei vagoni, dallo stridore dei freni. La gente s’immobilizzava, guardando verso i binari. Gli uccelli tacevano, la civetta si ritirava nel suo buco avvolgendosi dignitosamente nel suo mantello grigio. La lepre si alzava sulle zampe posteriori, drizzando le lunghe orecchie, e poi, rassicurata, riprendeva i suoi balzi” (p162) 

quasi che l’interpretazione magica della natura e del creato possa in qualche modo esorcizzare il dramma di un presente insostenibile, il cui orrore si rivela a tratti:

“Mi sembrava di cadere in un pozzo profondo dalle pareti umide e lisce coperte di muschio spugnoso. In fondo al pozzo, invece dell’acqua, c’era il mio letto caldo e sicuro dove potevo dormire tranquillamente e dimenticare ogni cosa” (p142)

Una magia che presto ha fine, un momento, nel racconto, in cui il protagonista, di quel bambino che era stato, perde le fattezze; la fiamma della speranza, la luce dei ricordi passati, va a spegnersi, paragrafo per paragrafo, allo stesso modo della voce.

“Fu allora che compresi quanto fosse misericordiosa la volpe quando uccideva le oche spezzandogli il collo con un morso” (p183)

“Dio non aveva motivo d’infliggermi un così terribile castigo. Probabilmente ero incorso nell’ira di qualche altra forza, che stendeva i suoi tentacoli sopra coloro che Dio aveva abbandonato per una ragione o per l’altra” (p212)

“(…) l’ordine del mondo non aveva nulla a che fare con Dio, e Dio non aveva nulla a che fare col mondo. La ragione era semplicissima. Dio non esisteva” (p267) 

“Cercai di immaginare cos’aveva pensato prima di morire. Quando era stato buttato giù dal treno, i genitori o gli amici gli avevano indubbiamente assicurato che avrebbe trovato persone disposte ad aiutarlo, persone che lo avrebbero salvato da un’orribile morte in un grande forno. Forse si era sentito ingannato, tradito. Avrebbe preferito restare aggrappato ai corpi caldi del padre e della madre nel vagone affollato, sentire la pressione e gli odori aspri e roventi, la presenza di altra gente, sapere che non era solo, sentirsi dire da tutti che il viaggio era soltanto un malinteso” (p161)

“Disteso sulla schiena, guardavo le nuvole. Mi galleggiavano sopra la testa in un modo che anche a me sembrava di galleggiare. Se era vero che madri e figli potevano diventare proprietà di tutti, allora ogni figlio avrebbe avuto molti padri e molte madri, e innumerevoli fratelli e sorelle. Mi pareva troppo bello per poterlo sperare” (p250) 

Buona lettura.

"La sesta estinzione", di Elizabeth Kolbert

Dovete sapere che il Pulitzer per la non-fiction (ossia la categoria che raggruppa quei “distinguished and appropriately documented book[s] of nonfiction by an American author that [are] not eligible for consideration in any other category”) è stato assegnato quest’anno a Elizabeth KolbertGiornalista statunitense, nata nel Bronx (1961) e laureata a Yale, per anni ha collaborato con il New York Times e dal 1999 è firma stabile del The New Yorker per il quale scrive – ormai con una certa autorevolezza riconosciuta anche a livello internazionale – di ecologia e temi ambientali

Salita alla ribalta nel 2008 pubblicando “Field Notes from a Catastrophe: Man, Nature, and Climate Change” (Bloomsbury 2006), in “The Sixth Extinction” la Kolbert raccoglie in volume i reportage sul campo da lei stessa effettuati nel corso degli ultimi cinque anni. Il filo rosso che accomuna tutte le spedizioni a cui la giornalista decide di aggregarsi, dalla foresta Amazzonica all’Australia, dalla Barriera Corallina fino all’Italia, centinaia di chilometri percorsi a seguito di scienziati, naturalisti, antropologi e colleghi columnists impegnati in vari progetti di caratura internazionale, è l’intenzione di approfondire gli esiti delle ultime ricerche scientifiche relative ai cambiamenti climatici e al ruolo che, nel loro sviluppo quanto mai rapido, ricopre la presenza umana sul pianeta Terra. Un’ingerenza “infestante”, quasi mai pacifica, che ha modificato radicalmente i delicati equilibri che da milioni di anni regolavano, tra estinzioni lentissime e altrettanto lentissime speciazioni, la vita animale e vegetale del nostro mondo. 

Basti pensare alla rana d’oro di El Valle de Anton, Panama, specie endemica dell’area, simbolo di fortuna, stampata addirittura sui biglietti della lotteria, estintasi in natura nel giro di dieci anni (ora è presenza, sempre a rischio, soltanto in cattività) a causa del Batrachochytrium dendrobatidis, un fungo introdotto nelle Americhe probabilmente attorno agli anni ’60 del Novecento dalle rane africane, che venivano importate perché utilizzate – udite udite – nei test di gravidanza (umani) – (Cap.1).

Oppure al rinoceronte di Sumatra, che ha camminato sulla Terra, indisturbato e pacifico, giusto per quei banali venti milioni di anni e che oggi sopravvive solo nelle riserve, ridotto a poche centinaia di esemplari a seguito del disboscamento del suo habitat naturale cominciato alla fine dell’Ottocento, e che riesce a riprodursi in cattività solo grazie alla devozione di un coraggioso manipolo di studiosi (Cap. 11). 
Naturalmente, come si può ben intuire, il problema non si limita soltanto alla scomparsa di alcune specie qui e lì ma alle reazioni a catena che nascono da queste sparizioni improvvise, sempre più frequenti e tutte originate dall’intervento umano. Ad esempio la disgregazione della barriera corallina e, in conseguenza, di tutto il suo habitat faunistico a causa dell’acidificazione degli oceani – questione che va a braccetto con l’innalzamento delle temperature (Capp. 6 e 7) – o la moria di ben 6 milioni di pipistrelli nordamericani Myotis lucifugus sterminati in pochi anni da un fungo importato dall’Europa (Cap.10, intitolato per l’appunto “La nuova Pangea”).

Elizabeth Kolbert riesce nell’impresa di costruire un’opera che, come indicato dalla giuria del premio: forces readers to consider the threat posed by human behavior to a world of astonishing diversity” grazie prima di tutto alla completezza e alla specificità della documentazione. Proprio per questo motivo il testo, solidissimo nella bibliografia e nelle fonti, risulta credibile e fortemente sconcertante mentre l‘impostazione di chiaro intento divulgativo, che comunque quasi mai (s)cade nella trappola della cronaca sensazionalistica, rende “The Sixth Extinction” una lettura accattivante e scorrevole.

Qui di seguito i twitts che hanno accompagnato questa lettura estiva e i links ai vari approfondimenti (solo alcuni tra i tanti) che la stampa nazionale ed estera ha dedicato all’argomento e che ADC ha segnalato nel corso di questi ultimi mesi. Ringrazio @NeriPozza per i retweets e per il supporto nella ricerca bibliografica e Riccardo Staglianò per la gentilezza nel segnalarmi la sua intervista all’autrice, che non ero riuscita a recuperare sul web.


Buona lettura 🙂

"Le mani della madre", di Massimo Recalcati

L’ultima opera di Massimo Recalcati ha portato con sé, come fiume in piena, una quantità non indifferente di ritorni. Plausi e giudizi venuti non solo dalla comunità scientifica ma anche a mezzo di chi, pur intendendosi poco della materia, ha voluto comunque dire la sua, dal columnist generalista agli interventi degli utenti sui forum dedicati alle cure parentali.
Sì perché se con “Cosa resta del padre” e “Il complesso di Telemaco” lo psicoanalista milanese aveva indagato il “tramonto dell’autorità simbolica del Nome del Padre” e la necessità, da parte del figlio, di una sua reinterpretazione – tenendosi in sostanza ben alla larga dalla questione del materno – con “Le mani della madre” nella tana del serpente ci si ficca consapevolmente e pure di prepotenza. 
Si capisce quindi la levata di scudi, da una parte e dall’altra (ché si sa, guai a toccare certi argomenti), tanto più per il fatto che Recalcati sceglie di offrire al lettore non un’interpretazione del materno sociologicamente rassicurante seppure di rottura, con buona pace di chi da questo saggio si aspettava l’ordinario, confortante collage di casi clinici con relativo commento, ma una serie di riflessioni aperte e declinate in chiave quasi esclusivamente psicanalitica, attraverso uno stile che di necessità si fa, specie nei punti salienti, più accademico che divulgativo. 

“Bisognerebbe non ridurre la madre a un appetito di morte, a una spinta a divorare il proprio frutto, a diventare proprietaria esclusiva e incestuosa della vita che ha messo al mondo. 

Bisognerebbe non dimenticare che il bestiario che accompagna immancabilmente la sua figura (la piovra, il coccodrillo, la chioccia, il vampiro) fornisce solo il suo lato in ombra, patologico abnorme, che non fa giustizia della sua forza positiva che oltrepassa di gran lunga quel bestiario. 

Bisognerebbe non identificare la madre con il virus di ogni malattia psichica”. (pagg.183-184) 

Chiosa Recalcati nelle conclusioni al volume. Una excusatio non petita, puntano il dito alcuni; una doverosa precisazione, rammentano altri, vòlta a evitare le solite generalizzazioni non tanto per quel che riguarda il vecchio e caro clichè della madre apprensiva e sacrificata che tutti conosciamo (o meglio, che pretendiamo di conoscere) quanto rispetto al punto saliente e più contestato del saggio:

“Alla madre dell’abnegazione si è sostituita una nuova figura della madre che potremmo definire madre narcisistica. Questa madre è figlia (legittima?) dell’ideologia della liberazione sessuale del ’68 e del ’77; è una madre che ha conosciuto su di sé, come figlia, l’artiglio sadico della madre-coccodrillo e che ha giustamente lottato per emanciparsi da una versione solo cannibalica del desiderio materno. La ricaduta di questa istanza – critica nei confronti del modello patriarcale della madre cannibalica – può però sfociare in una nuova patologia della maternità. Si tratta dell’alterazione ipermoderna della madre-coccodrillo(*)” (pagg.125-126)

Studi tassonomici a parte, Recalcati – che, va detto, con onestà intellettuale non fa mistero di alcuni suoi passati convincimenti poi disattesi dalla pratica psicoanalitica – punta, più che sulla classificazione sociologica, a dimostrare la tesi secondo cui paradossalmente ogni ordinamento troppo stretto quando si affronta la questione del materno sia foriero di interpretazioni limitanti se non decisamente deviate:

“Il problema non è correggere i comportamenti delle madri, ma verificare l’esistenza di un desiderio non-anonimo, capace di un “interesse particolareggiato” per il proprio figlio. La madre più solerte, più attenta e precisa nello svolgimento delle sue mansioni ma priva di desiderio può essere un incontro assai più nocivo di quello con una madre semplicemente assente. Le risposte della madre non sono buone perché corrispondono a comportamenti corretti o scorretti, ma in quanto espressioni del suo autentico desiderio” (pagg.77-78)  

Ciò significa, a conseguenza logica, indagare non soltanto gli aspetti più degradati della “divorazione reciproca” (pag.116) ma anche, e con il medesimo approccio critico, quelli derivati dalla “difficoltà per una donna a conciliare le esigenze della maternità con quelle della propria legittima necessità di affermazione personale e professionale” (pag.126) nonché le dinamiche che vengono a crearsi all’interno di famiglie allargate o mono-genitore (ad esempio quelle composte da madri single). 
Da qui ad affermare che Recalcati sia vittima di un’impostazione vòlta al ripristino della famiglia tradizionale asservita, si è detto anche, alla morale cattolica, tanto ce ne vuole e occorre attenersi con scrupolo al testo, evitando l’abbaglio di quegli specchietti per le allodole dai quali lo psichiatra mette in guarda il lettore – ma su cui è complicato e non necessariamente utile soprassedere.

E’ da apprezzare in Recalcati la varietà della bibliografia e degli spunti suggeriti, specie riguardo alla cinematografia: “La madre di Torino” di Gianni Bongioanni, “Changelling” di Clint Eastwood, “Anni felici” di Daniele Lucchetti, “Tacchi a spillo” di Almodovar o “Sinfonia d’autunno” di Ingmar Bergman sono soltanto alcuni dei titoli proposti dallo psichiatra quali esempi illuminanti di un certo modo, acuto e in certe pellicole addirittura rivoluzionario, di intendere la maternità.

(Dicotomia presunta tra Morante e Ferrante a parte, tirata in ballo dalla scrittrice Silvia Avallone in un articolo apparso quest’estate su La Lettura. Ferrante che, en passant, non sappiamo ancora se sia femmina o maschio, quindi c’è caso che la Avallone abbia pure preso un bel granchio quando sostiene la grandezza dell’autrice della Quadrilogia nel descrivere la dimensione del materno [oppure lei SA qualcosa che noi non sappiamo], supponendo che – come per la Morante – sia frutto della sensibilità particolare data dall’essere donna – no che poi la domanda qui sorgerebbe spontanea: madre o non madre? Perché pare che, sempre secondo la Avallone, anche questo faccia la differenza – per altro con anni di ritardo sulla critica letteraria internazionale che già ne aveva trattato, ma appunto anni fa).

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Buona lettura 🙂 

(*) Mica tanto ipermoderna in verità, come giustamente fa osservare Giovanna Pezzuoli dalle pagine della 27ora: “(…) nemmeno mi sembra una novità dell’oggi la versione della mamma narcisistica (…). Basti ricordare la celebre canzone italiana del periodo interbellico <>” a cui mi permetto di aggiungere, solo a titolo di esempio, l’opera di Irene Némirovsky (1903-1942), che del rapporto conflittuale con la madre assente ha fatto il punto nodale di molti suoi scritti.

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"Una famiglia quasi perfetta", di Jane Shemilt

Incuriosisce sempre questo connubio, di come la disciplina medica non smetta mai di prestare risorse alla letteratura – o viceversa, ovviamente, il che dipende unicamente dal punto di vista dal quale si sceglie di osservare la questione. 
Ultimo esempio in ordine di tempo, l’esordiente britannica Jane Shemiltstudi in Psicologia e Fisiologia al college, laurea in Medicina, esperienza sul campo come General Practitioner (ndt: il medico di base in Inghilterra, che assiste i pazienti iscritti al servizio sanitario nazionale all’interno degli ambulatori pubblici di zona), nonché moglie di un neurochirurgo e madre di cinque figli
Ad un certo punto della sua vita – suppongo tra un figlio e l’altro, ipotesi che al momento non mi riesce di suffragare attraverso fonti bibliografiche certe ma a logica è l’unica probabile – Jane consegue anche una laurea in Scrittura Creativa presso l’Università di Bristol e poi una successiva specializzazione a Bath. 
E finisce che il suo romanzo di esordio, il thriller psicologicoDaughter” (sul titolo originale dell’opera torneremo poi) pubblicato per Penguin nel 2014 viene menzionato per il Janclow & Nesbit Award – un riconoscimento che la famosa agenzia letteraria omonima assegna ogni anno presso l’Università di Bath – e per il Lucy Cavendish Fiction Prize della Cambridge University.
Nonostante Jane Shemilt possieda una formazione scientifica, “Daughter isn’t a medical drama“, come l’autrice stessa non manca di sottolineare dalle pagine del suo sito web. Al contrario, “it’s a story about a missing girl and the themes of grief, loss, harmful secrets, betrayal and fear do resonate with others in this genre”.
Bristol, inverno 2009. Naomi, una ragazza di buona famiglia, scompare misteriosamente. La quindicenne sparisce nel nulla in una fredda sera di novembre, al ritorno dalla recita scolastica di cui è protagonista. Nessuno sa più nulla di lei, né le amiche, né il fidanzatino, né i due fratelli gemelli Ed e Theo. Il padre e la madre sono disperati, la famiglia è allo sfascio e gli inquirenti brancolano nel buio anche perché le indagini rimandano a un ritratto di Naomi ben diverso dall’immagine che la ragazza aveva dato di sé in famiglia – o che la famiglia aveva avuto modo di recepire.

Poco più che un canovaccio, dunque, su cui si innesta – alla maniera tipica dei più quotati Creative Writing Courses anglosassoni – il contributo dello scrittore che attraverso le scelte tematiche e stilistiche ha il compito di determinare l’originalità del proprio prodotto. Originalità che anche in questo caso è data non tanto dall’idea di partenza quanto, appunto, dalle modalità del suo svolgimento. 

“I began Daughter initially as a way of exploring loss and grief, something I was familiar with from work. No one it seemed, was unscathed. Survival of loss particularly interested me, the question of the day after day after day”

Scrive sul suo blog l’autrice. Il punto di vista adottato è infatti esclusivamente quello di Jenny, la madre di Naomi, che in un attimo vede la propria vita e quella della sua famiglia disintegrarsi nell’angoscia di una scomparsa misteriosa e nell’orrore di una consapevolezza appena acquisita e forse ancor più devastante:

“I giorni passavano in fretta. Giorni normali? Erano normali? Allora sembrava di sì. (…) Normali, sebbene fossero gli ultimi giorni di vita familiare; normali, anche se venne fuori che quasi tutti stavano mentendo” (kindle, pos.832)

Decisa la via da percorrere – focalizzarsi sul post-trauma, evitare accuratamente qualsiasi contaminazione con il poliziesco, approfondire il dramma familiare, senza dimenticare la necessità di giungere alla risoluzione dell’enigma – rimane soltanto da definire il modo in cui affrontare la materia. E qui sta l’idea originale: attraverso un racconto a flashback continui creare uno “spazio di quiete” (come lo definisce l’autrice stessa) all’interno del quale il lettore avesse modo di concentrarsi interamente sui temi di cui sopra ma allo stesso tempo mantenere la suspance che il genere thriller richiede (“pages turning”). Il drammatico momento della scomparsa e i giorni ad esso appena successivi non vengono narrati infatti in presa diretta ma sono evocati dal ricordo di Jenny, a un anno di distanza. Jenny che – non sappiamo ancora per quali motivi – non vive più nella grande e accogliente casa di Bristol insieme ai figli e al marito ma si è ritirata, sola, nel Dorset, in un vecchio e isolato cottage appartenente alla famiglia materna. E il mistero della sparizione di Naomi è più vivo che mai: aspetta solo di essere svelato.

 
L’originalità del testo non sta soltanto nello svolgimento della trama ma – paradossalmente – anche nell’estrema contestualizzazione che nell’atto della scrittura “a tavolino” (sì, ci risiamo, vedi sopra alla voce Creative Writing Courses) si vuole frutto dell’esperienza autobiografica. Scrivi di quel che sai, insomma, e niente di più vero, almeno in questo caso, dato che Jenny non è altro che un GP impegnato in un day by day denso di fatica e dedizione mentre il padre Ted è un neurochirurgo ospedaliero. Tre figli adolescenti, un lavoro full-time, la casa da mandare avanti, una passione (per Jane la scrittura, per Jenny la pittura) che riempie il cuore ma che rende la quotidianità un’estenuante lotta contro il tempo. Una chiave di lettura interessante e non così scontata perché pone l’accento su uno degli aspetti più inquietanti della maternità: il senso di colpa.

“Tutto ciò che ho sbagliato o frainteso si trova in un punto imprecisato nello spazio mutevole fra l’aspettarsi troppo e il non osservare abbastanza” (pos.3767)

“Doveva aver osservato e ascoltato suo nipote come io non avevo fatto con i miei figli” (pos.3988)

“Cosa ne so io di quanto spazio una persona ha bisogno di avere intorno a sé? Pensavo che Naomi avesse bisogno di spazio, ma forse ero io a pensare che fosse quello il suo bisogno primario. Era più facile, in quel modo” (pos.3997)

E non soltanto. 
“Daughter” (per tutto ciò di cui sopra, quindi, non piace anche a voi un po’ di più, il titolo originale?) – ricordiamo: romanzo scritto da un’autrice britannica e in primis rivolto a un pubblico nazionale – contiene in sé, in maniera neppure troppo nascosta, un’interessante serie di riflessioni critiche a proposito di alcuni tra gli scottanti temi sociali che attanagliano da decenni il mondo anglosassone (ricordate? Ne avevamo già parlato qui). La questione della sanità pubblica ad esempio, carente sotto molti aspetti tra cui quello diagnostico vuoi per incapacità medica vuoi per deficit strutturali e attese bibliche. La piaga dell’abuso di sostanze stupefacenti e di alcool tra i liceali. I numeri, sempre in drammatica crescita, delle teen-mums. Il sistema scolastico fortemente competitivo che vede i ragazzi, a partire dalla secondary school, vittime di corsi extracurricolari, tirocini, esperienze più o meno formative che pur potendo contribuire all’arricchimento e allo sviluppo di competenze professionali future spesso si limitano a sradicare giovani ancora immaturi dalle proprie famiglie catapultandoli in universi assolutamente inadeguati per animi non ancora sufficientemente pronti ad affrontarli. E infine l’istituzione stessa della famiglia. (“[A novel] that explores the aftermath of a teenager’s disappearence. It examines the dangers that lurk for those who take their luck for granted; it explores the emptiness at the heart of a contemporary middle-class family, and what happens when doctors play God” racconta l’autrice nel blog).

Ultima nota, i contrasti d’atmosfera, sempre ben resi. Descrizioni di ambienti chiusi, protetti, confortevoli, e a far da contrappunto il buio della notte invernale, il gelo dell’attesa. Una lingua viva e mutevole nell’agile traduzione di Daniela Di Falco.

Buona lettura 🙂

"La memoria di Elvira", Aa.Vv.

Uno degli eventi più partecipati ed emotivamente coinvolgenti del Salone del Libro è stato il ricordo di Elvira Sellerio (Palermo, 1936-2010) attraverso la presentazione del numero 1000 della collana “La Memoria”, a lei appunto dedicato. 

In questo volume ventitré autori, tra scrittori e collaboratori della casa editrice, onorano il ricordo della Signora con narrazioni vivide e accorate, chi raccontando aneddoti particolari, figli di un rapporto professionale cresciuto negli anni, chi invece ripercorrendo il valore di un progetto editoriale unico e irripetibile.

“Inseguì Bufalino come un cane da tartufi sino a fargli tirare fuori dal cassetto la Diceria dell’untore (A. Camilleri, p12)

“Questo era il suo modo di lavorare: credeva nell’opera e nella libertà e responsabilità dell’autore. Non credeva negli editor che ti rimettono a posto un qualsiasi testo, secondo i loro canoni o il loro arbitrio, o criteri puramente di mercato. Per lei l’unico responsabile di un libro era l’autore, e questo carica lo scrittore di qualche responsabilità in più, soprattutto quella di consegnare un testo finito e non provvisorio. Se poi non la convinceva non è che ti indicasse dove e perché, di curare meglio un personaggio, di tagliare quelle venti pagine, di sviluppare un nucleo narrativo, di virare di rotta sulle strutture ideologiche; diceva, o almeno disse a me: <>” (F. Recami, p27)

“(…) l’orgoglio di fare, da un angolo d’Italia apparentemente periferico, in realtà da un’antica capitale carica di memoria e di cultura, un lavoro che sfidava, in modo vittorioso nonostante le tribolazioni e le difficoltà, le leggi del gran mercato editoriale” (R. Ceserani, p165)

“Il calore delle abitazioni nelle città da lei più frequentate attenuava una sorta di suo rifiuto fisico per i viaggi che sempre affrontava molto malvolentieri (…)” (G. Dioguardi, p195)

“[anno 2007] Elvira aveva le mani coperte da un paio di mezzi guanti neri che le lasciavano libere le dita” (A. Giménez-Bartlett, p231)

“Credeva che un editore dovesse starsene silenzioso, nascosto, taciturno, che il suo fosse un mestiere d’umiltà” (G. Scaraffia, p238)

Un testo che richiede una lettura attenta, ricco com’è di rimandi, echi letterari, storia di un’Italia che fu. A testimonianza di un mondo autoreferenziale talvolta – forse – ma innegabilmente colmo di una sapienza a cui non è possibile accedere così, per caso, ma che va conquistata (e questo vale per ogni epoca) attraverso lo studio, la contemplazione e la condivisione dell’essenza del bello.

“La memoria di Elvira”, Sellerio Editore, Palermo 2015, con scritti di:

Buona lettura 🙂

Chi ha acquistato “La memoria di Elvira”: ADC, al Salone del Libro di Torino, domenica 17 maggio, appena pomeriggio: fuori sole e vento forte.