“Cuori vuoti”, di Juli Zeh (trad. Madeira Giacci)

“Chiunque abbia bisogno di un attentatore non è più costretto a rivolgersi a dei fanatici jihadisti con disturbo narcisistico, o a dei bambinoni con il feticismo per le armi né a degli psicopatici che odiano gli stranieri e le donne. Loro invece gli consegnano un martire formato professionalmente, rigorosamente selezionato, che desidera morire per un fine alto. Il Ponte ha messo fine all’anarchismo terrorista. Ci sono accordi fissi e un numero controllato di vittime. Con il tempo il settore ha aderito a questo modello di business.”

Quanto mi piace Juli Zeh. L’ho scoperta l’anno scorso in biblioteca, con “Turbine“, e poi ho camminato a ritroso per recuperare tutto il resto. Zeh è laureata in giurisprudenza e specializzata in diritto internazionale; viene da una famiglia in cui di politica si parlava a colazione (suo padre è Wolfgang Zeh, giurista ed ex direttore del Bunderstag) e da più di vent’anni scrive romanzi pluripremiati. E’ mia coetanea (Bonn, 1974) e forse è stato proprio il punto dell’età a incuriosirmi perché questa scrittrice possiede uno sguardo in cui mi riconosco: un piede di qui, nel lontano secolo scorso, e uno di là, in un futuro che di fatto mi appartiene poco e che osservo – come lei – mescolando la famelica curiosità allo scetticismo proprio dei diffidenti.

A me pare che “Cuori vuoti” possa essere ben identificato come una summa degli argomenti che a Juli Zeh interessano da sempre; se qualcuno mi chiedesse da quale titolo cominciare a leggerla penso che consiglierei di partire proprio da qui. Da questo futuro di pochi anni avanti a noi – il 2025 – in una Germania distopica in cui il BBB (“Besorgte Bürger Bewegung” ovvero “Movimento dei Cittadini Preoccupati”), spodestata la cancelliera Merkel, ha preso il potere e lavora alacremente per ripristinare un certo tipo di ordine novecentesco di non nuova fattura che ha come effetto collaterale – guarda caso – il progressivo allontanamento dei cittadini dalla vita politica, il pugno di ferro nei riguardi delle migrazioni, la creazione di un’eccellenza d’élite la cui costruzione parte sin dalla scuola. Nel resto del mondo, intanto, Trump ha vinto le elezioni, Putin è all’apice del potere e l’Europa si sta disgregando sotto il peso dell’inefficienza.

“(…) la folla che gridava «La Merkel se ne deve andare!» riunita davanti alla Cancelleria, il momento in cui Angela, dopo l’annuncio ufficiale dei risultati, era apparsa davanti alle telecamere e si era assunta la responsabilità dello straordinario risultato della BBB. Aveva unito le mani a forma di rombo e aveva dichiarato, con il suo tono pacato e leggermente bleso, che quei risultati elettorali non erano solo una catastrofe per la Germania, ma anche il fallimento della sua carriera personale. Tra i vari «Buuuh» di alcuni giornalisti presenti, alla fine la ex cancelliera era crollata. Una lacrima le era scivolata lungo il viso, mentre, cercando di evitare interruzioni, urlava al microfono: «Auguro al nostro paese, auguro a noi tutti, buona fortuna!». Poi aveva abbandonato il podio, con la testa china, e improvvisamente era apparsa terribilmente invecchiata.”

Il punto di forza di Juli Zeh non sta solo nella profonda conoscenza del sistema politico tedesco – la qual cosa le permette di modellare intrecci di genere legal thriller molto dettagliati – ma anche nella capacità di penetrare la scena privata: quel contesto intimo di rapporti familiari, in specie genitoriali, che aggiungono alla trama i tratti caratteristici del giallo psicologico. In questo modo, mettendo in scena, qui in “Cuori vuoti”, l’agiata realtà familiare di Britta – una manager sofisticata, sposata con un imprenditore e madre di una bambina di sette anni – Zeh riesce a coprire tutti gli argomenti che le sono cari: dalla spy story fino alle questioni filosofiche sollevate proprio dal thriller psicologico, ad esempio l’interrogarsi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, o sul sistema valoriale delle nuove generazioni, oppure ancora sull’etica del lavoro; senza dimenticare la riflessione, importantissima, sui pericoli delle derive democratiche.

“In verità la teoria tratta soprattutto del fatto che il capitalismo del corpo sia, in fin dei conti, un comunismo dell’anima.”

In questo tempo pandemico si parla spesso di distopia e il termine, ormai, rischia di essere abusato: in verità, non tutto ciò che è rappresentazione di un futuro alternativo merita automaticamente la definizione di distopico e non è nemmeno detto che una ricostruzione post-apocalittica, per dire, sia sufficiente a determinare di per sé la distopicità di un racconto. L’invenzione distopica esiste soltanto nel momento in cui, paradossalmente, lo sfondo si ritira perché a tener banco non siano tanto le descrizioni cataclismiche di manufatti umani sprofondati nelle sabbie quanto i punti di critica al sistema socio-economico che al mondo distopico ha portato e che in esso è reso fattuale: la crisi dell’attivismo politico individuale e della responsabilità civile collettiva, per esempio, o l’espansione delle correnti di pensiero esistenzialista, o ancora le conseguenze politico-sociali dei regimi fondati sul capitalismo. Juli Zeh di tutto questo ha gran contezza tanto che, con arguzia sottilissima, sceglie per “Cuori vuoti” un’ambientazione green che accosta – attraverso un sistema descrittivo molto vicino al Nature writing – le linee di pensiero del vivere suburbano e della prossimità territoriale all’idea di una città sostenibile e smart – ad uso e consumo di chi ha possibilità e diritto a goderne.

“Un paio di anni fa hanno fatto un’inchiesta», racconta Britta, «hanno chiesto alle persone cosa farebbero se dovessero scegliere tra il diritto di voto e la lavatrice».
«Cosa ne è venuto fuori?».
«Il sessantasette per cento ha scelto la lavatrice. Quindici per cento gli indecisi».”

La Germania di Juli Zeh è un mondo allo specchio all’interno del quale nessuno è chi crede di essere e nulla è come sembra; in un continuo gioco di rimandi, echi e memorie, pagina dopo pagina capita anche di dimenticarsi il fatto ovvio della distopia e proprio questo punto, l’esistere di quell’attimo – del passaggio tra la dimenticanza e il rinnovamento della presa di coscienza – rende il distopico di Juli Zeh così preciso, perfetto e terrificante.

Ringrazio Fazi Editore per l’invio dell’ebook.

“Chiaroscuro”, di Raven Leilani (trad. Stella Sacchini e Ilaria Piperno)

“La responsabilità di esaminare l’oppressore non spetta all’oppresso” (pag122)

Ci sono libri che raccontano storie e che, nello stesso tempo, riescono a mostrare la maniera in cui queste storie devono essere raccontate. E’ il caso di “Chiaroscuro”, romanzo breve dell’esordiente Raven Leilani; trentenne del Bronx, cresciuta in una famiglia di artisti, diploma in arte e master in fine arts conseguito alla New York University sotto l’egida di – per dire – Zadie Smith e JS Foer, R. Leilani ritrae in prima persona singolare le vicende della ventitreenne Edith, che abita a Brooklyn in un appartamento condiviso, lavora in una casa editrice dopo aver abbandonato la promettente carriera artistica e “sceglie solo uomini sbagliati”, con una preferenza per relazioni disfunzionali e scompensate. La storia di Edith – o meglio, quello spicchio di memoria di cui R.Leilani decide di renderci informati – comincia quando, proprio a causa di una di queste storie sbagliate, la ragazza viene licenziata e perde così posto di lavoro, appartamento, assicurazione sanitaria. Di più non voglio dire perché sono convinta che tante peculiarità di queste pagine si colgano meglio se si affronta il testo così d’impatto, senza saperne quasi nulla.

“Puoi essere te stessa con me, lo sai,” dice, e faccio una gran fatica a non scoppiargli a ridere in faccia. “Grazie,” dico, anche se so che non è vero. Vuole che io sia me stessa come potrebbe essere sé stesso un leopardo in uno zoo di città. Inerte, in attesa di cibo. Non libera e allo stato brado, con i legamenti paradontali ben allenati.” (pag20)

Ho pensato alla storia di Edith come a uno di quei what if che segnano spesso la narrativa distopica. Il “cosa sarebbe successo se” e poi via, verso mondi alternativi. Questo perché il colore della pelle dell’afroamericana Edith, di cui per altro veniamo informati en passant, è il punto discriminante di ogni episodio della vita di Edith che ci viene raccontato. Per esempio: perché la ragazza viene scelta in chat dall’attempato Eric, archivista in piena crisi da quarantenne represso? Perché interessante di per sé, disponibile al sesso estremo, lontana da qualsiasi progetto di coppia, giovane e dal seno prosperoso, o – semplicemente – perché nera? (Domanda non oziosa: la motivazione sta nella trama, credetemi sulla fiducia). Oppure ancora: il licenziamento è causato soltanto dalla sgradevole condotta di Edith, che non si fa effettivamente scrupolo nel mettere in atto comportamenti decisamente poco adatti all’ambito professionale, o – anche – perché nera?

“Non mi viene in mente un solo momento in cui lei sia mai stata onesta con me, e anche adesso eccola che svia il discorso con parole come tolleranza e inclusività prima che l’addetto delle Risorse umane arrivi al punto e dica che in azienda alcuni uomini e alcune donne hanno la sensazione che io abbia tenuto una condotta sessuale inappropriata”. (pag76)

E ancora: l’abbandono della scuola d’arte o la necessità di vivere in un appartamento economico e fatiscente – è tutto capitato a causa di difficoltà personali riconducibili – anche – alla pelle nera? L’autrice è attenta a instillare il dubbio nel lettore (che in questo modo si trova a friggere senza nemmeno rendersene conto, come la rana nella pentola dell’acqua calda perché dal razzismo sistemico nessuno di noi è immune), a dimostrazione di quella fatica che occorre sostenere ogni volta che si entra in contatto con la parolina magica dell’intersezionalità – che non è tanto la questione di star meglio o peggio di qualcun altro, come se il dolore o le complessità della vita fossero quantitativamente misurabili da farci una classifica, quanto quel meccanismo in base al quale c’è gente che dalla vita ne viene fuori meglio (o meno peggio) di altra per via di alcuni benefici (altrimenti detti privilegi) che di fatto cadono dall’alto e che per la maggior parte non si ha facoltà né di scegliere né di rifiutare.

Con uno stile dinamico e svelto, preciso nella scelta del lessico e molto materico, Raven Leilani ci infila a forza nella vita di Edith: una ragazza intelligente e ironica, bella in modo forte, immediato ma che non sapremo mai (magra, grassa, alta, bassa – nulla di lei è detto a parte il seno grande e i piedi piatti), con una gran cultura musicale e uno spiccato senso artistico, vittima di una pigrizia molesta e disordinata, incapace di un giudizio critico sui maschi, difettosa di amicizie e di “relazioni buone”. Di Edith sappiamo unicamente quello che l’autrice vuole raccontarci e fino a un certo punto, dato che il romanzo punta a un finale aperto. E’ un sistema del raccontare che a me, personalmente, piace molto: mi viene in mente per esempio il bellissimo “Gun love” che è un romanzo sull'”amore armato” (uno dei punti di “Chiaroscuro”), la cui autrice, Jennifer Clement (laurea in inglese e antropologia, master MFA), è presidente del PEN international e attiva su certi temi sociali e politici “di frontiera”. In “Gun Love”, infatti, il lettore è trascinato nel mondo di Pearl, ragazzina homeless, di cui viene narrata la storia per episodi: senza filtri, senza giustificazioni, senza che venga dichiarato il principio di scelta. Mi piace questa totale negazione dell’onniscienza perché alla fine è, per me, il sistema del raccontare che più si avvicina alla realtà del nostro quotidiano in cui spesso ci si confronta con decine di individui dei quali non si conosce nulla a eccezione di quelle poche informazioni offerte dal momento.

La svolta, per Edith, sarà l’incontro con un’adolescente di pelle scura e i capelli bruciati dalle lisciature chimiche nascosti sotto una parrucca rosa: il momento in cui il what if si trasformerà concretamente da presente alternativo a destino già scritto …o futuro ancora da costruire. “Chiaroscuro” ci insegna qualcosa di importante: occorre imparare il linguaggio, dal femminismo intersezionale al white savior complex, se si desidera parlare di certi argomenti; ma va anche oltre: R. Leilani ci suggerisce, prima di tutto, l’opportunità del silenzio – un silenzio che deve farsi ascolto attivo di storie che possono essere raccontate solo dalle voci che, quelle storie, le hanno vissute.

“Non esiste nessuna superficiale parola alternativa per quel che sto cercando di farle capire, nessun modo di spiegare con efficacia quel tipo di abusi che è difficile riconoscere. È un inferno retorico. Uno sminuire l’altro così frequente da apparire banale. Quasi troppo banale per lo sviluppo della parola con la r, come in una certa setta di Brave Persone Bianche l’accusa fa passare in secondo piano l’azione”. (pag121)

Note: 1. Per una volta ho apprezzato la modifica del titolo, dall’originale “Luster”, termine che in traduzione avrebbe perso gran parte della sua risonanza colma di rimandi, al nostro “Chiaroscuro” – un sostantivo sfumato (di cui per altro in inglese esiste scarsa corrispondenza) che suggerisce al lettore l’importanza della dimensione artistica del testo. Potete trovare qui nel thread lo scambio in proposito, avuto con la traduttrice S. Sacchini. 2. A proposito di intersezionalità, è chiaro il punto sui privilegi della stessa R. Leilani: è possibile che l’autrice, data la sua storia familiare, finisca per rappresentare soltanto una parte di quelle own voices? Quale potrebbe essere il modo per narrare una vicenda dell’uno – che mantenga la propria unicità e nello stesso tempo si alzi a rappresentazione dell’universale? La discussione è aperta. 3. Ringrazio Feltrinelli per l’invio dell’ebook.

“Vardø dopo la tempesta”, di Kiran M. Hargrave (trad. Laura Prandino)

“Una delle donne ha inchiodato una croce sulla porta, e più che una benedizione per chi è all’interno sembra uno scongiuro contro chi non c’è.” (pag.25-3)

Vardø, nel Finnmark, è il comune più orientale della Norvegia. Questa cittadina, in origine un antico villaggio di pescatori, sta su una piccola isola collegata alla terraferma dall’Ishavstunnelen – detto anche tunnel del mar Glaciale Artico (3km di lunghezza, 88mt sotto il livello del mare). “La contea rientra nella fascia climatica artica e le temperature massime, da queste parti, non superano mai i 10°” recita Expedia. Oltre che per aver dato i natali al chitarrista degli Europe, Vardø è famosa per un altro paio di motivi: Vardøhus, la fortezza più a nord del mondo, edificata da re Cristiano VI (1699-1746), e lo Steilneset minnested (2010), il memoriale che l’architetto svizzero Peter Zumthor e l’artista francese Louise Bourgeois hanno dedicato alle vittime della caccia alle streghe. A Vardø infatti, nell’arco di circa un secolo tra la fine del 1500 e il 1690, furono accusate di stregoneria più di 100 persone, di cui 91 (in specie donne e perfino bambine) vennero condannate al rogo.

Per le mie letture è stato un autunno complicato. Da una parte c’era il desiderio di evadere, di pensare ad altro, dall’altra la necessità di restare ancorata al presente: ho aperto tante pagine – ma altrettante ne ho lasciate a metà. Poi, a novembre inoltrato, ho incontrato Kiran Millwood Hargrave: poetessa, drammaturga britannica nonché scrittrice di premiati libri per l’infanzia, che con “Vardø dopo la tempesta” esordisce nella complicata impresa del romanzo storico. Lo fa prendendo spunto dalla storia nera di questo avamposto noto alle cronache per via dei processi per atti diabolici che vi furono celebrati intorno al 1620 e che portarono alla morte quasi cento persone – tra cui anche dei Sami.

Nella notte di Natale del 1617 il mare di Vardø è scosso da una burrasca repentina. E’ violentissima ma si acquieta all’improvviso, lasciando sulla spiaggia i corpi di quaranta pescatori – tutti gli uomini del villaggio, usciti la sera prima, come di consueto. In riva al mare restano le donne: mogli, madri, sorelle degli annegati, che dopo lo smarrimento non si perdono d’animo e si danno da fare per sopravvivere, chi indossando i pantaloni del marito, comodi per coltivare la terra e nutrire le renne, chi adoperando i remi con mani che si fanno sempre più callose e scorticate, chi conciando le pelli con gli stivali immersi nel sangue degli animali scuoiati. Tuttavia pantaloni da uomo, vita di mare, indipendenza economica e invocazioni propiziatorie nella lingua lappone mal s’accordano con il luteranesimo strettissimo professato da Chiesa e Stato.

“Non sembra giusto, dopo tutto quello che le donne hanno visto, dopo che hanno raccolto i corpi dei loro uomini sulle rocce e li hanno vegliati per l’intero inverno, stare a guardare adesso qualcun altro che scava le fosse.” (pag.30-4)

La cura con cui l’autrice dipinge – con pochi tratti, liberi dal manierismo – un mondo femminile fatto di estrema sorellanza e assoluta ferocia fa di “Vardø dopo la tempesta” un libro da leggere – e il primo libro che dopo diverso tempo sono riuscita a finire per intero. Perché se è vero che per definizione il romanzo storico sta più dalla parte della fiction che da quella del reportage, è vero anche che Kiran Millwood Hargrave racconta una storia non troppo lontana da qui – niente che non ci riguardi. Le voci femminili si fanno memoria: Maren Magnusdatter che nel naufragio ha perso padre, fratello e promesso sposo, Ursa, giovane moglie norvegese del sovrintendente Absalom Cornet chiamato a Vardø per indagare sui presunti malefici, le donne del villaggio come coro da tragedia greca, presepe vivente sullo sfondo, ombre danzanti – da una parte chi s’aggrappa alla kirke con la disperazione di una fede mutata in fanatismo, dall’altra chi combatte per la propria sopravvivenza confidando nell’essere umano e in una Natura descritta dall’autrice con l’arte fine del realismo magico e del nature writing. Memoria, testamento e monito: a ricordarci che la discussione sul femminile è eredità antica. Di questi tempi, non è poco.

” – Parlare della burrasca. Credo che molte di noi lo vorrebbero. È ora. Io sono pronta. (…) Lei non riesce ancora a trovare le parole, nemmeno a un anno di distanza. Adesso tutte loro raccontano allo stesso modo la burrasca, passata così spesso da una lingua all’altra da aver perso gli spigoli più aspri, lisciata dall’usura come vetro di mare.” (pag47-6)

Con “Vardø dopo la tempesta” si recuperano tante altre questioni. Per esempio sul ricordo e sul racconto della disgrazia. Curioso il proliferare, in questo tempo pandemico, di “diari”, “cronache”, inchieste. Ci siamo ancora in mezzo eppure (mi vien da dire) si sente urgenza della parola. Con quali forme? In che maniera? Per chi? Dimenticando il tempo rituale del lutto, del sedimentare?

“Pimpernel”, di Paolo Maurensig

Leggere “Pimpernel” significa recuperar contezza di quanto significhi l’avere passione per un romanziere. Succede a Paolo Maurensig con Henry James – il più importante prosatore nordamericano di fine Ottocento, ça va sans dire – riguardo al quale l’autore si prende perfino la libertà della fanfiction, dopo averlo a quanto pare completamente eviscerato attraverso uno studio pluriennale matto e disperatissimo.

Ebbene sì, questo racconto lungo alla maniera maurensighiana è un fittissimo gioco di rimandi, riferimenti, citazioni che prende avvio proprio da un what if; un gioco di scatole cinesi di racconto-nel-racconto che immerge le radici, per struttura, non solo nel profondo della nostra letteratura ma anche nella tradizione orale, antichissima, delle storie-nelle-storie. Si comincia con l’impasse di uno scrittore non altrimenti identificato che, imprigionato nel vicolo cieco di una creatività bloccata e capricciosa, viene a scoprire attraverso il passaparola di fumose conoscenze le pagine slabbrate di un taccuino appartenuto, come sembra, niente meno che a Henry James (di cui lo scrittore, “piccato di fare il regista”, s’era impegnato a trascrivere “Il carteggio Aspern” in forma di sceneggiatura, senza però riuscire né a venderla né a trasformarla in pellicola).

Il fuoco della curiosità brucia lo scrittore che, spinto dalla passione nei confronti del romanziere e non del tutto insensibile alla fama che il ritrovamento di un inedito potrebbe riservare, si dedica anima e corpo alla ricostruzione del testo (recuperato in una misteriosa libreria antiquaria veneziana), operazione per la quale impiegherà anni. Ciò che lo scrittore presenta in “Pimpernel” è proprio “Pimpernel” stesso: il racconto inedito che Henry James inviò in lettura a Constance Woolson, la scrittrice amica del romanziere, morta suicida a Venezia nel gennaio del 1894. Cosa conteneva la scatola di biscuits au chocolat Delacre, all’interno della quale giacevano quelle carte sbiadite dall’acqua? Furono quelle parole a determinare il suicidio della donna che, come tutti sapevano, serbava per il romanziere americano sentimenti fortissimi, al limite dell’ossessivo?

“Non aveva più di vent’anni, di carnagione chiara, già arrossata dal sole, gli occhi di un azzurro limpido e una mascherina di efelidi sulle guance, teneva stretto sotto il braccio un ombrellino di seta, proteggendosi dal vento con una sciarpa di tutte bianco, allacciata alla cupola di un ampio cappello di paglia che non voleva saperne di stare al suo posto” (pag31-32)

Miss Annelien Bruins – la protagonista femminile di “Pimpernel” è una delle iconografie fin de siècle più belle che ho mai incontrato. Chiarissima, morbida nelle sue crinoline mosse dalla brezza primaverile, negli occhi un fondo di mistero insondabile che rimanda al più terribile incubo gotico. La storia d’amore tra questa giovane donna dal viso spruzzato di lentiggini, che lotta contro le convenzioni in nome di un femminismo e di una auto-determinazione appena emergente, e il trentenne americano Paul Temple, scrittore di successo, è breve, intensissima e votata alla disgrazia – come si capisce fin dalle prime pagine.

Il sole della primavera veneziana con i suoi toni accesi, luminosi e implacabili mette a nudo per contrasto le parti più buie delle calli – e dell’animo umano, tra il brulicare dei mendicanti e la decadenza di un grand tour ormai al crepuscolo, spingendo lettore e personaggi alla riflessione su questioni di profondità universale come il significato dell’arte (fruizione d’élite oppure oggetto mainstream?), il soggettivo intrinseco nella Bellezza, l’idea del divino e – al rovescio – quella del maligno, un incessante rimbalzo di opposti complementari tipici dell’arte di Henry James nelle cui opere spesso si avvicendano temi riguardanti la contrapposizione tra epoche, geografie e società.

L’omaggio di Maurensig a Henry James si riversa non solo nel contenuto ma anche nella forma: una maniera descrittiva che si avvale di frasi lunghe e di una ricca – ma mai ridondante – aggettivazione; un’abilità di Maurensig, quest’ultima, che a me piace particolarmente: la capacità che possiede di scegliere, per qualsiasi aggettivo, la forma sinonimica meno banale o più ricercata, sapendone tuttavia trattenere la desiderata sfumatura.

Nota, già condivisa sul Twitter: le amiche che con precisione chirurgica, millimetrica, regalandomi libri riescono a farmi felice fino alla commozione, ecco, quelle amiche sono per me un dono. Grazie. ❤

“The Aspern Papers” (Venezia, 2017) – di Julien Landais. Con Vanessa Redgrave, Jonathan Rhys Meyers e Joely Richardson.

“L’enigma della camera 622”, di Joël Dicker (trad. Milena Zemira Ciccimarra)

“Secondo Bernard, un ‘grande romanzo’ è un quadro. Un mondo che si offre al lettore, il quale si lascerà catturare da questa immensa illusione creata con colpi di pennello. Il quadro mostra della pioggia e ci si sente bagnati. Un paesaggio glaciale e innevato, e ci si sorprende a rabbrividire. E diceva: ‘Sa chi è un grande scrittore? Un pittore. Nel museo dei grandi scrittori, di cui tutte le librerie posseggono la chiave, ci aspettano migliaia di tele. Se ci entri una volta, diventerai un habitué’” (pag315)

Da qualche tempo riesco a circondarmi di libri meravigliosi. L’ultimo della serie è questo enigma della camera 622, il nuovo lavoro di Joël Dicker. Seicentotrentadue pagine che si mangiano così, una dopo l’altra, di ogni parola apprezzando la limpidezza e la pulizia del gusto, dell’atmosfera, del pensiero e della cura estrema che sta dietro a ogni minima scelta – di forma e sostanza.

Il rompicapo della camera chiusa è il cadavere steso, due colpi di pistola sparati a bruciapelo, sul pavimento della lussuosissima suite 622 dell’hotel Palace de Verbier, nelle Alpi svizzere del Canton Vallese: un albergo principesco, riservato a una clientela selezionata, esigentissima; tutto torrette e tetti spioventi, è circondato dalla foresta di pini e affacciato a strapiombo sulla valle del Rodano, immerso nella neve e nel freddo di un inverno di quindici anni fa. E’ un caso irrisolto, quello del neo eletto Presidente della Banca Ebezener (istituto privato tra i più noti in Svizzera) trovato morto a poche ore dall’elezione avvenuta durante la convention annuale della banca, uno degli eventi più esclusivi della stagione ginevrina.

Spiace, lo diciamo subito: all’hotel Palace de Verbier è inutile che andiate, la camera 622 non esiste più. Al suo posto fa bella mostra di sé una targhetta, “621bis”, che rivela la ferrea volontà del direttore dell’albergo, dei suoi dipendenti e della buona società che ancora frequenta l’hotel nell’adagiare sulla vicenda una coperta morbidissima di silenzio denso e impenetrabile, fitto come la coltre di neve e di freddo che ricopriva Verbier la notte tra il 15 e 16 dicembre di quindici anni prima. Il silenzio, però, spesso fa più chiasso di un carnevale. E così capita – forse per caso, forse no – che Joël Dicker, scrittore che nel romanzo interpreta se stesso tra dolori privati, incombenze quotidiane, tensione verso la creatività e necessità pratiche, si trovi a indagare prima per mera curiosità, poi con sempre maggiore impegno e coinvolgimento, sul delitto della camera 622 (pardon: 621bis).

“L’enigma della camera 622” è un romanzo d’atmosfera che possiede la capacità di stimolare la fantasia del lettore in un modo che poca fiction contemporanea può vantare – e che non per nulla si rifà alle ambientazioni di certi sguardi ottocenteschi mitteleuropei e ancora più profondi. La naturalezza con cui Dickel racconta di fortune immense, residenze maestose, gioielli, somme di denaro ingentissime, moquette, tappeti, abiti preziosi, bastoni da passeggio incastonati di diamanti, anelli d’oro e zaffiro come promesse di matrimonio, caminetti accesi e samovar, colazioni alla vodka e caviale, spie e intrighi internazionali – e all’opposto di povertà sconfinate, diaspore, cappotti nerissimi e valige di cartone, antiche canzoni e lingue perdute – insomma la naturalezza con cui Dickel racconta tutto questo non mostra solo l’ingegno di uno scrittore ma anche quanto sia profonda la comunanza di noi europei con questo sistema del narrare che prima di tutto è il recupero del rapporto tra fabula e intreccio – un’architettura che prevede anche l’utilizzo di piani temporali diversi per scivolare dal particolare di una vicenda privata al collettivo del Novecento europeo. Quella di Dickel è una narrazione ipnotica perché fonda la sua struttura sul potere del racconto in quanto tale (sì, facciamocene una ragione, sono seicentotrentadue pagine): del descrivere quel che è, di ciò che si vede, del piacere di immaginare, del dipingere: ambienti, personaggi, dialoghi, paesaggi – tra luci e ombre, cieli buissimi e novembrini, giornate limpide di sfavillanti primavere alpine.

Tant’è, “L’enigma della camera 622” è anche un omaggio di Dickel al carissimo amico ed editore Bernard de Fallois (1926-2018) che di arte, come dire, se ne intendeva parecchio.

Attorno al delitto e alla suite 622 danza una serie di personaggi infiniti, tratteggiati come su un quaderno antico, rilegato in pelle – attori dalle origini incerte, perse nel profondo di quell’Europa dell’est crocevia di novecento, guerre, culture, saperi, religioni. Una profondità di lettura che viene direttamente (chissà con quanta consapevolezza, questo mi incuriosisce) dalla commedia degli equivoci plautina e dallo scambio di persona di tradizione omerica, con Ulisse che si finge mendicante, con la divinità che si traveste da umano o da fiera per sedurre l’amata.

“L’enigma della camera 622”, col senso di profonda spiritualità – e un pizzico di zolfo – che porta con sé, è l’umile inchino dell’autore al diavolo-demone della scrittura – e in un certo modo a tutte quelle passioni furibonde, d’amore e di odio, di vendetta, arrivismo, desiderio, attaccamento, che rendono l’uomo capace di qualsiasi gesto, anche il più estremo.

[Nota sulla traduzione: una lingua che schiocca, quella di Milena Zemira Ciccimarra, attentissima al particolare, all’etimologia, alla ricostruzione non solo del significato ma anche del ritmo e della musicalità del testo. Qualche congiuntivo in più non mi avrebbe dato noia ma non si tratta mai di sgrammaticature quanto di mia pura ed esclusiva preferenza personale].

“Terra Alta”, di Javier Cercas (trad. Bruno Arpaia)

“Argomentò che, per lui, uno scrittore era una persona come le altre, né migliore né peggiore, che bisognava essere consapevoli dei limiti della letteratura e bisognava bandire la presunzione narcisistica, petulante e atiquata che avesse qualche utilità, perché in fondo la letteratura non era che un gioco intellettuale, un intrattenimento incapace di insegnare qualcosa a qualcuno o di cambiare qualcosa”. (pag55)

Ho finito #TerraAlta la notte scorsa. Sono arrivata a Javier Cercas per una strada curiosa: seguendo il suo traduttore. Così funziona per me, a volte. E quello a cui più tengo in questo caso non è tanto “Terra Alta” in sé, che è un poliziesco bellissimo (non per niente ha vinto il premio Planeta nel 2019) intessuto di paesaggi, natura, letteratura, libri, citazioni – prime fra tutte quelle da “I Miserabili” – tenuto insieme da una trama fitta, ricca di colpi di scena e bei personaggi che non cedono mai allo stereotipo, ma l’aver scoperto uno scrittore pazzesco.

Ora penso proprio che andrò a ritroso, a recuperare quel che mi preme, per esempio “L’Impostore”. Cercas è un bravissimo giallista perché bada bene di conservare “Terra Alta” lontano da quella decontestualizzazione un po’ cinematografica che purtroppo è ormai parte integrante di molti polizieschi contemporanei. Ma Cercas non è soltanto un bravo romanziere: la sua opera è militante, mi par d’aver capito, perché per lui ogni dolore, anche quello più personale, è legato alla Storia: ogni fatto crudele, ogni rabbia, ogni desiderio di vendetta è, di base, alle origini, il frutto di un passato comune, di un danno sociale, di una crisi che non è solo intima ma anche collettiva. E tutto, voglio dire il privato e il collettivo, è sempre mescolato insieme, perché – come curiosamente ci sta capitando proprio ora:

“C’è gente che dimentica che quella guerra è stata anche questo. Una valvola per sfogare gli odi, i diverbi e i rancori accumulati per anni” (pag.356)

e siccome “la giustizia non è soltanto una questione di contenuto”, accade che “non rispettare le forme della giustizia è la stessa cosa che non rispettare la giustizia”. (pag258)

Sicché io penso proprio che Javier Cercas dovrei continuare a leggerlo.

“Il dolce domani”, di Banana Yoshimoto (trad. Gala Maria Follaco)

“Chi c’era fino a un momento prima d’un tratto non c’è più, le cose che avevamo ci sfuggono dalle mani. La sola certezza che ci rimane è che esistiamo. Vorremmo lamentarci, ma non c’è spazio per i nostri lamenti. Vorremmo perderci nei ricordi, ma siamo cambiati e non riusciamo a voltarci indietro.” (pag93-94)

Comincio agosto aprendo pagine delicatissime. Le ho chieste all’editore perché sapevo che mi avrebbero aiutata a tornare (forse per la prima volta) a questi mesi appena trascorsi, svestendomi di quello sguardo occidentale che mi porto addosso.

Banana Yoshimoto scrive “Sweet Hereafter” subito dopo Fukushima con l’intento di riflettere sulla tragedia nazionale del foglio bianco; lo fa partendo da un fatto individuale, attraverso la storia della giovane Soyo che dopo aver perso una persona cara per un incidente d’auto si trova nella necessità di costruire da capo la propria vita. Non è la prima volta che l’autrice affronta temi collettivi osservandoli all’interno di un quotidiano singolare: l’ha fatto con la malattia fisica, i disturbi psichici, con la tragedia di un lutto familiare, con la questione femminile e perfino con la gravidanza e la maternità. “Mi sono detta che in molti, forse, avrebbero pensato: “Ma chi vuoi prendere in giro? A che serve questo romanzetto ingenuo?” “ scrive l’autrice nella postfazione. Non è che Banana Yoshimoto non sappia affrontare la scrittura di un dolore collettivo – tutt’altro. E’ che sin dai suoi esordi è sempre stata profondamente, intimamente convinta del fatto che ogni angoscia, anche e soprattutto quella collettiva, sia da pensarsi prima di tutto come propria, personale. I modi differenti che ognuno ha di entrare dentro una sofferenza – i punti di vista differenti che Banana Yoshimoto è sempre riuscita a interpretare con grazia, attenzione e rispetto, dall’adolescente inquieta al trentenne gay, dalla madre di famiglia alla coppia di anziani – sono la chiave attraverso cui si sviluppa quella com-passione che è il cardine di un certo modo di guardare al presente.

“Non so come avvenga, ma la bellezza dei nostri paesaggi interiori si trasmette, sotto forma di una grande forza, a chi ci sta intorno.” (pag128)

Banana Yoshimoto a me piace perché nelle sue parole ho sempre trovato l’esortazione a una presa di coscienza personale (che nel suo mondo non occorre perché è già parte intima della vita quotidiana, di ogni tipo di rapporto interpersonale e anche di una certa spiritualità e prossimità con i defunti): lo sforzarmi di non pensare me stessa al centro del processo decisionale – e nemmeno quale unica proprietaria del mio destino o del mio tempo.

Nella sua finitezza delle piccole cose, questa autrice riesce a destabilizzarmi per questo suo modo di rendere visibile la nostra impotenza di fronte agli accadimenti del destino. Il suo sguardo sull’inatteso significa sempre non un senso di sconfitta ma l’idea dell’accettazione e dell’abbracciare – umilmente – un cambiamento inevitabile all’interno del quale l’essere umano non è, di fatto, né fulcro né chiave di lettura.

“Ci vuole tempo per accettare tutto ciò, devo occuparmene senza avere fretta” (pag82)

Ringrazio Feltrinelli per l’invio della copia.

“Se l’acqua ride”, di Paolo Malaguti

“E poi era profumata, di un aroma magnetico e profondo, che prendeva al naso per poi scendere alle viscere. Non era semplice freschìn, il sentore di fossi e canali familiari a chiunque viva nella grande pianura, c’era anche la punta della salsedine, gusto salato di vita rapida e guizzante mescolato in strana alchimia con le note dolciastre e smaganti di alghe morte, di reliquie biancastre di lische e seppie che si puliscono e si consumano nel moto lento dei bagnasciuga limacciosi” (pag55)

Quante domande vengono fuori da “Se l’acqua ride”. Sono proprio andata a cercarle in libreria, le parole chiuse in questo libro, perché sapevo che mi avrebbero riportata indietro, a delle estati lontanissime che ho vissuto ma che ero troppo piccola per capire.

L’Italia è piena di mestieri antichi; per esempio quello del barcaro, l’esperto capitano del burcio – il burchio o barcòn – la barca a fondo piatto impiegata nei fiumi e nei laghi del Nord Italia per il trasporto mercantile.

“Se l’acqua ride” è una storia di nonni, padri e figli, nell’intersecarsi di quelle tre generazioni che a cavallo tra gli anni ’50-’70 hanno scompaginato così nel profondo le carte della società, del lavoro e della politica, fra abbandono della tradizione e spinta verso la modernità. Tra l’estate del 1965 e la primavera del 1967, tra le terre di argini e laguna che dall’Emilia Romagna vanno fino al Friuli passando dal cremonese a Treviso, si snoda il racconto-ricordo di Ganbeto, sempre con un piede di qui e uno di là: la scuola media e la fatica dei mesi estivi sulla Teresina – il burcio del nonno Caronte – i compagni di classe e le ragazze incontrate lungo le rotte, il maestro Gatti Benito Detto Libero (in arte “Oio”) e i cavalanti con le loro epiche storie d’avventura e tragedia, le voci d’osteria e il bianco e nero delle prime televisioni, il bagno col bidet che nessuno sa a cosa serva. Su tutto: Gianni Morandi e la Vespa, i Beatles, l’emigrazione per andare a lavorare in fabbrica, l’aqua granda del ’66.

Di temi l’autore ne tocca parecchi, dall’insegnamento – la scuola non per tutti, difficile, a tratti incomprensibile nonostante la volontà dei maestri e gli scappellotti dei genitori – alla questione femminile, alla riflessione sul destino d’adulto già segnato.

“L’errore più comune dell’ignorante è ritenere che la vita basti a se stessa, che l’istruzione, la cultura, la fatica sui libri siano orpelli inutili” (maestro Gatti Benito Detto Libero, pag50).

L’esperienza di vita raccontata nel libro, fatta di manualità tramandata da padre in figlio, per paradosso non mostra soltanto quanto l’istruzione sia necessaria per svincolarsi da un destino altrimenti segnato alla nascita (lezione, questa, con cui Ganbeto fa pratica soltanto alla fine del percorso scolastico) ma anche come, attraverso l’emancipazione stessa, diventi inevitabile la perdita di tradizioni e memoria. “Se l’acqua ride” ha il pregio di portare alla luce anche un’altro argomento spinoso: il mondo novecentesco, cosiddetto patriarcale (in cui, va detto, nemmeno i maschi se la passano granché bene, come s’è visto di recente anche in un altro testo, “Sud” di Mario Fortunato), espone in realtà sfaccettature e sottocategorie che oggi rischiano la semplificazione. Se è vero che nel romanzo di Malaguti la donna si mostra relegata in casa, dietro a fornelli e bambini, o mandata a bottega a dodici anni in attesa di maritarsi, è vero anche che la figura femminile conserva in sé un’autorità decisionale unica all’interno del nucleo familiare, depositaria di intelligenza, saggezza e senso morale, oggetto di profondo rispetto. Se è vero che il maschio è rappresentato all’apice del suo ruolo di indiscusso pater, d’altra parte è pur reale e concreta la tenerezza nei riguardi dei figli o l’impegno con cui s’adopera per offrire alla famiglia un futuro libero dalle ristrettezze. È un discorso importantissimo che il libro estrae a forza da noi stessi e con cui in un modo o nell’altro occorre fare i conti.

“Il padre di Ganbeto osservò suo figlio come se guardasse per la prima volta una strana bestia emersa dai fondali della laguna” (pag63)

Da più parti, mi sembra, si sta cercando di riprendere il contatto con le nostre strutture formali passate. Pur con tutti i limiti che il realismo in letteratura ha sperimentato, l’esigenza di raccogliere l’eredità del passato è viva. Lo sguardo del ragazzino-senza-nome (identificato sempre per quel che fa), in bilico tra la paura e l’emozione che provoca la bellezza del mai visto, avvicina il testo a quella narrativa post-bellica che ha il suo centro proprio nel punto di vista “straniato di chi è attore o vittima” (cfr. “La letteratura italiana” dir. Cecchi/Sapegno). Il peso di quest’eredità letteraria non è da sottovalutare per via delle linee ideologiche che da sempre attraversano questo tipo di scritti: il patrimonio del realismo recuperato da Malaguti, insomma, va trattato con cautela. Senza entrare nei dettagli di una riflessione sull’antinovecentismo, mi piace pensare che al di là del ripudio (che è un processo non nuovo, con buona pace di chi pensa alla modernità della cancel culture), questo momento sia quello giusto – proprio per via del presente che stiamo vivendo – per dimostrare che le forme di espressione novecentesche possono essere ricontestualizzate dall’interno, alla luce di un modo nuovo di guardare la Storia. Un recupero teso a mostrare non la conoscenza narcisistica di certi temi ma il tentativo di riappropriarsi di una memoria letteraria condivisa, e da ri-condividere, all’interno di una nuova “sensibilità tematica” (op. cit.).

Non c’è ombra di patetismo nel racconto di Paolo Malaguti e nemmeno di quel guilty pleasure della retronostalgia instagrammabile, del mostrar malinconia per un passato mai vissuto. Semplicemente il cerchio si chiude proprio col ganbeto, il ferro ricurvo che occorre per unire due anelli oppure la catena all’ancora. Ganbeto è uno che con la scuola ci azzecca poco; privo di particolari talenti a parte la curiosità verso il mondo e l’immaginazione, vive alla giornata confidando nei familiari e in un futuro che seppur limitatissimo sembra certo. È un ragazzino come tanti, che s’arrangia come può, affascinato dall’uniche due forma di cultura e modernità accessibile, i racconti biblici e il cinema, e come tale sufficientemente decontestualizzato da apparire per certi versi a noi coevo. Questa connessione crea come un ponte tra passato e presente anche nella forma, che spinge più verso una continuità che verso una rottura a tutti i costi, espressa nell’utilizzo del dialetto (in questo caso, quello della bassa padovana). Nessuna novità, nemmeno la sua funzione quasi “crepuscolare” (op. cit.), eppure questa storia del dialetto apre questioni molto attuali: l’espressione di chi certe vite le vive è necessaria ma la mancanza di strumenti con cui farlo pone il problema del sostituirsi nella parola, specie scritta. Chi ha le parole difetta dell’esperienza ma chi possiede l’esperienza spesso non ha le parole, relegate nella loro essenza fortissima nel dialetto o in una lingua madre di cui si perde l’uso. Sicché ci si pone la domanda, quanto sia lecito sostituire il soggetto della narrazione, specie in una lingua come la nostra che, spesso, è fatta di letteratura regionale.

“Rientrando a casa ha pensato anche di farsi dare l’indirizzo per scrivergli, ma poi la cosa l’ha fatto quasi ridere. Scrivere a Scaia. E cosa, poi. E soprattutto in che lingua? Non in quella imparata a scuola, che in fin dei conti era l’unica in cui sapesse più o meno scrivere… Non c’entrava niente con lui e Scaia.” (pag156)

E se proprio vogliamo trovare una parvenza di lirisimo, che non punta al sentimentale ma al poetico, possiamo recuperarla nella descrizione della natura – quel modo del nature writing che, di nuovo, lega il passato del racconto alla modernità della narrazione.

“Ma d’estate, quando il sole decide di piantarsi in mezzo al cielo, e non scende mai da lì, cucinando per ore, forse per giorni interi la campagna come un bambino che tortura un formicaio, allora la faccenda diventa qualcosa di pi del sudore sulla pelle, del sale che fa prudere le ciglia, del respiro che quasi duole perché a ogni fiato incameri vetro fuso nei polmoni. IN quella dimensione allucinata, senza ombre, ovunque ti trovi loro arrivano, i fantasmi, che si tratti di colpa, di rancore, di rammarico” (pag140)

Ci sarebbe ancora molto di cui parlare ma lo spazio a disposizione era già abbondantemente finito almeno tre paragrafi più sopra. Sul Twitter trovate altri fili, su altre questioni – tante delle quali ho potuto condividere con l’editore: è bello quando le pagine fanno incontrare chi i libri li legge e chi li produce.

“Magari è il mestiere di barcaro a renderti un po’ cantastorie, perché passi la vita ad ascoltare il lento e sommesso chiacchiericcio dell’acqua che scivola via lungo le fiancate di larice del burcio” (pag107)

“La linea del colore”, di Igiaba Scego

“Lo spagnolo Quevedo – in quel 1887 appena iniziato Lafanu Brown stava scoprendo la prosa del Seicento spagnolo – nei suoi sonetti scriveva con il suo solito sarcasmo: “In Roma cerchi Roma, o pellegrino. E proprio in Roma Roma non ritrovi”, ma era in quel cercare Roma, proprio in quel non trovarla, che alla fine lei, la pellegrina Lafanu Brown, si era imbattuta improvvisamente in se stessa. Ma questo Hillary non lo poteva capire, era bianca, tutto le era dovuto, gli onori, le bellezze, persino le stravaganze. Lei era Hillary in America ed era Hillary a Roma. Ma Lafanu poteva essere Lafanu solo a Roma, e nemmeno sempre. In America era solo una negra, un incrocio bastardo tra una nativa americana Chippewa e un haitiano dalle strane idee sovversive” (pag26)

Ho domandato a Bompiani “La linea del colore” per capire meglio certe questioni.

Avevo iniziato tempo fa, con quello sta’ in silenzio e ascolta che mi è sempre parso, sin da tempi non sospetti, l’unica maniera d’imparar qualcosa; sicché avevo letto articoli, visitato il web, seguito alcuni profili su Twitter – insomma, come si dice, ho cercato di informarmi. Il fatto è che a un certo punto ho cominciato a non trovarmi più a mio agio con forme d’espressione che percepivo come specialistiche e talvolta anche polarizzate, finanche escludenti. Lo so, il problema è mio o, dicendola in altro modo, “sono io a essere parte del problema”. Tant’è; e mi parrebbe ipocrita omettere pure che il mio è anche un problema di linguaggio: guardo troppo alla forma, sono poco incline a uscire dalla mia zona di conforto letterario, ho un cattivo rapporto con tante parole nuove tra cui, per esempio, privilegio o rieducazione, perché per me – per il mondo antichissimo da cui provengo – non sono affatto parte di un “nuovo lessico”, anzi.

Possibile che non si fosse già pensato – mi chiedevo – a come rendere evidenti certe questioni attraverso una tecnica espressiva disgiunta da un particolare tipo di narrazione, magari per mezzo di un sistema codificato, già in uso, in maniera da creare come un ponte, un ancoraggio tra il passato e il presente? Creare cioè una familiarità stilistica che producesse empatia, e non respingimento, senza tuttavia eliminare la realtà dei fatti, né edulcorarla, né separare il linguaggio dalle persone che quel tipo di linguaggio dovrebbero essere le uniche ad avere il diritto di maneggiarlo?

Ebbene, il linguaggio giusto io l’ho trovato nella tradizione del romanzo vittoriano. Stupefacente, forse, ma anche una conferma del fatto che il nostro passato letterario riesce sempre, per il solo fatto di esistere, a passarci qualcosa di buono. Con “La linea del colore” Igiaba Scego conclude la sua “trilogia della violenza coloniale” (“Oltre Babilonia” – 2008 e “Adua” – 2016), un romanzo storico che affonda le radici nello stile di Dickens, Goethe, Wharton, James e tanti altri (Forster, Stendhal, Byron, M. Shelley: tutti citati dall’autrice nella parte finale del libro). Lo fa mettendo in scena le vicende di Lafanu Brown, pittrice vissuta nella seconda metà dell’ottocento: figlia di una chippewa e di un haitiano, Lafanu viene adottata, poco più che bambina, da una mecenate abolizionista che ne fa la sua protetta curandone – non senza una gran parte di autocelebrazione e autocompiacimento – istruzione e inserimento in società; a causa di episodi di razzismo e violenza di cui è vittima, la giovane donna viene mandata in Inghilterra, sempre in qualità di protégé, e poi in Italia, dove finalmente riuscirà a seguire la vocazione di artista. La figura di Lafanu Brown è finzionale ma strettamente ispirata a due donne realmente esistite: Sarah Parker Remond (morta a Roma nel 1894), l’ostetrica nera, attivista e femminista, in servizio presso l’ospedale di Sant’Antonio, e l’artista statunitense Edmonia Lewis (1844-1907), divenuta una grande scultrice dopo una vita in equilibrio tra il desiderio di indipendenza artistica e la necessità di sottostare ai precetti del mecenatismo.

La storia di Lafanu è un racconto di crinoline e miseria, di nebbie e salotti fumosi, di boccoli, forcine, abiti sontuosi; di serve, analfabetismi, violenze, stupri; di passioni struggenti e infelicità profonde come l’oceano su cui Lafanu si troverà a navigare e nelle cui onde getterà le ciocche dei capelli dei figli di coloro che in quelle onde persero la vita, durante le traversate di morte e catene a cui erano sottoposti. A riportare Lafanu nel nostro presente – attraverso lettere, testimonianze, taccuini – è Leila, giovane romana di origine italo-somala, attiva nel mondo dell’arte, che una volta venuta a conoscenza delle vicende di Lafanu si propone di esporre i lavori della pittrice alla Biennale di Venezia. Grazie a questo espediente letterario, Igiaba Scego riesce a creare, come Lafanu con le sue tele, uno sfondo che accoglie e rende evidente, proprio perché costruito attraverso la pittura, la più immediata delle arti, i temi fondanti del libro: dalla questione sulle migrazioni alla necessità di una riflessione post-coloniale che prima di tutto sviluppi una sguardo libero dall’eurocentrismo, fino al dibattito politico-artistico che si compone di due parti fondamentali, il rapporto con il nostro passato e quella spinta verso la cancel culture che non è possibile ignorare. Come non è possibile ignorare la domanda che già covava nascosta dietro le beneficenze delle mecenati di Lafanu: quanto si mettono in discussione le persone bianche quando parlano di razzismo?

Nelle pagine finali del libro Igiaga Scego racconta la genesi di questo suo romanzo e definisce un’altra questione secondo me importantissima – ed è proprio questo punto ad avermi spinto alla lettura: “Anche se parlo di una donna afroamericana – scrive l’autrice – questo non è un romanzo afroamericano. Non scimmiotto l’America. Il mio intento è stato fin da subito costruire una storia che parlava di Italia, una storia quindi afroitaliana. (…) Non si tratta di appropriazione di cultura, ma della costruzione di un personaggio-ponte”. Ecco, qui per me sta il punto: io credo, forse a torto, che non sia possibile, o quantomeno non utile, utilizzare i medesimi costrutti per lo studio di fenomeni che, di fatto, hanno interessato e interessano aree geografiche e contesti storici molto differenti tra loro. Ciò non significa affatto che non sia necessario attenersi a linee guida comuni: al contrario, la mappa deve esistere. Allo stesso tempo però penso che occorra costruire un sistema fluido – forse …intersezionale? – all’interno del quale sia possibile modulare gli interventi in modo da evitare la generalizzazione nei riguardi di realtà diversamente complesse.

Avrei ancora molto da scrivere, per esempio sull’approccio profondamente pedagogico che percorre tutto il libro, un intento spinto sempre all’apertura – che ho amato moltissimo (“Fu allora che il futuro mi apparve chiaro. In quel momento decisi, ma ne fui consapevole solo nei giorni seguenti, che avrei aiutato le persone a guardare meglio. Ad andare oltre la superficie, a decodificare i dipinti, i bassorilievi, le statue che avevano attorno” – pag62); oppure sulla capacità che ha l’autrice di dipingere senza ipocrisie un panorama femminile vastissimo. Ma come si sa, un blog a certi testi molto lunghi non si presta volentieri.

NB: l’apparato iconografico citato dall’autrice è immenso e tutto da scoprire. Vi invito a tenere sotto mano internet per recuperare via via tutte quelle immagini di dipinti, affreschi, architetture, che rendono “La linea del colore” oltre che un romanzo appassionante ricco di spunti di riflessione anche un puntualissimo trattato d’arte. Le pagine finali del volume sono dedicate inoltre al progetto “NOI NELLA PIETRA”, con le fotografie di Rino Bianchi che immortalano alcuni dei luoghi e delle architetture più importanti citate nel libro.

“Ogni riferimento è puramente casuale”, di Antonio Manzini

“Devi viaggiare basso – risponde amaro Pinelli – non alzare la posta, essere comprensibile, rassicurante, non insinuare dubbi e soprattutto sembrare il vicino di casa un po’ sfigato. Se poi sei pure cafone e aggressivo allora sì, sei veramente autentico” (pag82)

È molto curioso, un effetto straniante, leggere adesso “Ogni riferimento è puramente casuale”. Lo avevo sul comodino e l’ho aperto l’altra notte, quando non dormivo. Se all’uscita, nel 2019, aveva la parvenza di un ironicissimo e gustoso pamphlet sul mondo editoriale, ora, nel dopo, rivela in tutta la sua scabrosità il cuore nascosto che la sua lustra buccia contiene: un’agghiacciante denuncia di quel che non andava nell’editoria – e ora sappiamo che quel tutto è stato, per una buona parte, la causa del disastro dell’adesso.

Si comincia con “Lost in presentation”, un breve racconto, amaro ma ancora buffo, diciamo compiacente, in cui attraverso la carnevalesca storia del neoscrittore Samuel Protti si narra dell’inutilità di certi modi di far promozione dei libri attraverso il sistema delle presentazioni. L’autore procede poi con “Critica della ragione”, dove si raccontano le vicende di Curzio Biroli, noto critico letterario, costretto da un complesso sistema di do ut des clientelare tra case editrici, direttori editoriali, giornalisti e autori, favori da restituire finanche ricatti morali, a scrivere una recensione di comodo. E qui sta il nodo, questo punto di deriva a-morale appena accennata che trasforma “Ogni riferimento è puramente casuale” da narrazione sarcastica e pungente, sorniona, indulgente, in una discesa agli inferi che somiglia sempre più, racconto dopo racconto, a un cuore di tenebra a tema editoriale. C’è dunque questo “Racconto andino” su uno scrittore sudamericano, gallina dalle uova d’oro, che a un certo punto deraglia dalla confortante narrazione di un’autoreferenzialità tutta editoriale e prende la piega di un grottesco horror movie di serie b in cui per un best seller il mondo editoriale sarebbe disposto a tutto – anche a nascondere cadaveri (veri e metaforici). Oppure “E’ tardi”, che per argomento e tempi strettissimi della scrittura, del canto poetico e dell’ambientazione mi fa tornare alla memoria i brividi di Edgar Allan Poe.

L’idea che una volta si potesse sorridere di fronte a certe dinamiche è interessante – e mi domando quanto ironia e sarcasmo abbiano contribuito a sminuire il problema, quel dire ma sì, è sempre stato così, come se nulla alla fine avrebbe potuto scalfire il sistema.

Unico protagonista della filiera editoriale non pervenuto è il lettore. Del lettore non si parla quasi mai dentro a “Ogni riferimento è puramente casuale” e quando lo si fa, accade in modi non troppo lusinghieri. E’ oggetto a cui si tende, si mira a riempirlo, per altro con una certa disistima. Quasi fosse possibile comunque ingannarlo, giocando sul giudizio di pancia, sulla sua scontata impossibilità al comprendere, su quella presunta spinta al godere sempre e comunque di un acritico panem et circenses.

“L’amore per i libri non è una questione di dna o di ambiente o di educazione. E’ come l’arte, inspiegabile, o ce l’hai o non ce l’hai” (pag227)

“(…) i suoi consigli psicoanalitici parascientifici fanno presa sul pubblico soprattutto femminile. E fin qui questo tribunale non ha niente da eccepire (…)” (pag262)

Anche se i protagonisti diventano di necessità macchiette schizofreniche, resta sempre il dubbio che non tutta l’iperbolica esagerazione della rappresentazione sia in qualche modo lo specchio di una verità. “Ogni riferimento è puramente casuale” è un libricino curatissimo, che fa pensare molto.

“In fondo cosa sono i libri? Roba che non salva il mondo, non sana vite, lasciano il tempo della lettura per sparire poco dopo. Fra cento anni di questi giorni terribili, lui lo sa, resteranno sì e no una decina di scrittori, (…) tutti gli altri verranno inghiottiti dall’oblio delle sabbie del tempo” (pagg87-88)