
“Una delle donne ha inchiodato una croce sulla porta, e più che una benedizione per chi è all’interno sembra uno scongiuro contro chi non c’è.” (pag.25-3)
Vardø, nel Finnmark, è il comune più orientale della Norvegia. Questa cittadina, in origine un antico villaggio di pescatori, sta su una piccola isola collegata alla terraferma dall’Ishavstunnelen – detto anche tunnel del mar Glaciale Artico (3km di lunghezza, 88mt sotto il livello del mare). “La contea rientra nella fascia climatica artica e le temperature massime, da queste parti, non superano mai i 10°” recita Expedia. Oltre che per aver dato i natali al chitarrista degli Europe, Vardø è famosa per un altro paio di motivi: Vardøhus, la fortezza più a nord del mondo, edificata da re Cristiano VI (1699-1746), e lo Steilneset minnested (2010), il memoriale che l’architetto svizzero Peter Zumthor e l’artista francese Louise Bourgeois hanno dedicato alle vittime della caccia alle streghe. A Vardø infatti, nell’arco di circa un secolo tra la fine del 1500 e il 1690, furono accusate di stregoneria più di 100 persone, di cui 91 (in specie donne e perfino bambine) vennero condannate al rogo.
Per le mie letture è stato un autunno complicato. Da una parte c’era il desiderio di evadere, di pensare ad altro, dall’altra la necessità di restare ancorata al presente: ho aperto tante pagine – ma altrettante ne ho lasciate a metà. Poi, a novembre inoltrato, ho incontrato Kiran Millwood Hargrave: poetessa, drammaturga britannica nonché scrittrice di premiati libri per l’infanzia, che con “Vardø dopo la tempesta” esordisce nella complicata impresa del romanzo storico. Lo fa prendendo spunto dalla storia nera di questo avamposto noto alle cronache per via dei processi per atti diabolici che vi furono celebrati intorno al 1620 e che portarono alla morte quasi cento persone – tra cui anche dei Sami.
Nella notte di Natale del 1617 il mare di Vardø è scosso da una burrasca repentina. E’ violentissima ma si acquieta all’improvviso, lasciando sulla spiaggia i corpi di quaranta pescatori – tutti gli uomini del villaggio, usciti la sera prima, come di consueto. In riva al mare restano le donne: mogli, madri, sorelle degli annegati, che dopo lo smarrimento non si perdono d’animo e si danno da fare per sopravvivere, chi indossando i pantaloni del marito, comodi per coltivare la terra e nutrire le renne, chi adoperando i remi con mani che si fanno sempre più callose e scorticate, chi conciando le pelli con gli stivali immersi nel sangue degli animali scuoiati. Tuttavia pantaloni da uomo, vita di mare, indipendenza economica e invocazioni propiziatorie nella lingua lappone mal s’accordano con il luteranesimo strettissimo professato da Chiesa e Stato.
“Non sembra giusto, dopo tutto quello che le donne hanno visto, dopo che hanno raccolto i corpi dei loro uomini sulle rocce e li hanno vegliati per l’intero inverno, stare a guardare adesso qualcun altro che scava le fosse.” (pag.30-4)
La cura con cui l’autrice dipinge – con pochi tratti, liberi dal manierismo – un mondo femminile fatto di estrema sorellanza e assoluta ferocia fa di “Vardø dopo la tempesta” un libro da leggere – e il primo libro che dopo diverso tempo sono riuscita a finire per intero. Perché se è vero che per definizione il romanzo storico sta più dalla parte della fiction che da quella del reportage, è vero anche che Kiran Millwood Hargrave racconta una storia non troppo lontana da qui – niente che non ci riguardi. Le voci femminili si fanno memoria: Maren Magnusdatter che nel naufragio ha perso padre, fratello e promesso sposo, Ursa, giovane moglie norvegese del sovrintendente Absalom Cornet chiamato a Vardø per indagare sui presunti malefici, le donne del villaggio come coro da tragedia greca, presepe vivente sullo sfondo, ombre danzanti – da una parte chi s’aggrappa alla kirke con la disperazione di una fede mutata in fanatismo, dall’altra chi combatte per la propria sopravvivenza confidando nell’essere umano e in una Natura descritta dall’autrice con l’arte fine del realismo magico e del nature writing. Memoria, testamento e monito: a ricordarci che la discussione sul femminile è eredità antica. Di questi tempi, non è poco.
” – Parlare della burrasca. Credo che molte di noi lo vorrebbero. È ora. Io sono pronta. (…) Lei non riesce ancora a trovare le parole, nemmeno a un anno di distanza. Adesso tutte loro raccontano allo stesso modo la burrasca, passata così spesso da una lingua all’altra da aver perso gli spigoli più aspri, lisciata dall’usura come vetro di mare.” (pag47-6)
Con “Vardø dopo la tempesta” si recuperano tante altre questioni. Per esempio sul ricordo e sul racconto della disgrazia. Curioso il proliferare, in questo tempo pandemico, di “diari”, “cronache”, inchieste. Ci siamo ancora in mezzo eppure (mi vien da dire) si sente urgenza della parola. Con quali forme? In che maniera? Per chi? Dimenticando il tempo rituale del lutto, del sedimentare?