"La preda", di Irene Némirovsky

Più riguardo a La preda  “<Finanza e politica – aveva detto un giorno a Dourdan – sono le due mammelle a cui si attacca l'ambizioso. Ma una è per metà prosciugata – aveva risposto Dourdan, perché era l'epoca dei grandi crac. Sì, il denaro era un merce effimera e deperibile. Solo per il denaro non avrebbe venduto la sua vita, ma c'era dell'altro… Non avrebbe pensato di sposare una ragazza semplicemente perché provvista di una bella dote, come avrebbe fatto un ragazzo privo di mezzi venti o cinquant'anni prima. Quello che bisognava inseguire non era tanto il denaro quanto un certo mondo, vicino al potere, o che il potere ce lo aveva in mano…” (p49) 
“Il mondo dei Sarlat, quello della finanza e della politica, era il solo in cui fosse ancora possibile progredire, non ristagnare, intraprendere qualcosa e portarlo a buon fine. Giacché per il resto… Lavoro non ce n’era da nessuna parte, né c’era la possibilità, o anche solo la speranza di progredire, di soddisfare le ambizioni più naturali dell’uomo. A costo di privazioni inaudite lui aveva ottenuto un titolo di studio il cui valore era pari al peso della carta sulla quale era stampato” (p60)
“Tutto si mercanteggiava nel segno dell’amicizia, della fiducia, dei favori dati e ricevuti, e così facilmente… Con una parola, un sorriso, un’alzata di spalle, degli imbecilli venivano portati alle stelle, dei ladri perdonati e uomini senza virtù né intelligenza forniti di laute prebende” (p78)
“Qual era stata l’esca usata da Abel Sarlat per riuscire a coinvolgere Langon in quelle speculazioni finanziarie che erano andate così male, che vanno male così facilmente? …Con ogni probabilità non c’era nemmeno stata un’esca… era bastata la leggerezza dell’uomo politico, dell’uomo importante, viziato dal successo…” (p108)
“Come si affezionavano in fretta, quegli uomini… Sembravano creati per nutrire e allevare i loro futuri rivali, o loro nemici. L’abitudine a vivere in pubblico, in una perpetua rappresentazione, li induceva a dare con facilità non la loro fiducia, ma le apparenze di una fiduciosa familiarità”(p112-113)
“Nelle tribune della Camera, una folla immobile, stipata tra le colonne, aspettava le sue star con silenziosa soddisfazione. Una folla sensibile non tanto alla precisione o alla profondità delle argomentazioni quanto al tono della voce, all’efficacia di una parola, di un gesto, di un’esclamazione” (p119)
Stiamo parlando dell’Irene, che scrive questo “La Preda” nel 1936 su suggerimento della rivista “Gringoire”, che poi pubblica il testo a puntate. La trama è (relativamente) semplice: il giovane Jean-Luc Daguerne, nato da famiglia povera, accecato dalla sete di riscatto sociale ed economico, spende la giovinezza alla ricerca del denaro e dell’affermazione personale nell’unico modo in cui gli pare conveniente, ossia gettarsi a capofitto nel mondo (fumoso e corrotto) dell’economia e della finanza. Finirà sì benestante, ma solo e corrotto, vittima – no meglio, “preda” – di tutto ciò che non è stato in grado di apprezzare durante gli anni migliori della vita: gli affetti familiari e filiali, le bellezze della vita, le amicizie profonde, uniche e durature, e, soprattutto, l’amore. Poiché la crisi economica crea e modella un tutto mercificabile la cui acquisizione, tuttavia, richiede pur sempre un obolo: “Il titolo, La Proie, è emblematico di un periodo in cui tutto, dai sentimenti al benessere, alla dignità, è oggetto di rapina” (OPhilipponat / PLienhardt “La vita di Irène Nemirovsky”, Adelphi 2010 p265).
Curiosamente, si veda l’articolo a firma Massimo Gaggi su @La_Lettura #73, di ultima uscita, che abbiamo riportato martedì su Twitter: “Tutto si vende, anche l’onore”, con sottotitolo “Michael Sander contesta la dilagante mercificazione dei costumi e dei valori: Posti in fila, celle singole, uteri: il mercato della nuova società di mercato”. 
La versione completa dell’opera viene data alle stampe nella primavera del 1938, vende più di diecimila copie (op cit p281) e stupisce i contemporanei per il vigore del giovane Daguerne (dal carattere tipicamente “nemirovskiano”) e l’acume stilistico con cui il personaggio viene dipinto malgrado una certa lentezza e prevedibilità della trama “a tesi”, che ad alcuni, per altro, risulta eccessivamente politicizzata. E da parte dei critici contemporanei il confronto con il protagonista della Nausée, opera di un “certo” Jean-Paul Sartre e pubblicata nello stesso anno, viene naturale… ma di risultato non scontato.
Buona lettura 🙂

"La Trilogia Steampunk", di Paul Di Filippo

More about La trilogia Steampunk, vol. 1 Piccolo breviario steampunk, e per chi volesse affrontare la materia per la prima volta e per i fedeli puristi nel caso in cui volessero ritornare alle origini e alle linearità di un sottogenere letterario “di nicchia” poi inevitabilmente trasformato dal trascorrere degli anni e dalla fama crescente. 
Un must have, dunque, non fosse altro perché PdiFilippo (Providence, Rhode Island, classe 1954) altri non è se non colui che per primo ebbe l’ardire di utilizzare il termine steampunk ficcandolo direttamente in prima pagina, all’interno di un titolo, e classificandone così, imperituramente, il genere. 
Parliamo di breviario steampunk perché la Trilogia contiene in sé, per temi e struttura, alcuni dei tratti fondamentali di questo sottogenere letterario fantastico/fantascientifico che, di fatto, nelle opere di altri autori successivi si sono un po’ persi, o si stanno perdendo, a favore di altri tipi di narrazione vicina al romance più o meno commerciale (i.e. qui) e/o a temi di carattere esplicitamente sociale (regimi militari, colpi di stato, realtà politiche alternative etc). 
Uno di questi temi “a grado zero” è rappresentato dall’ironia e in special modo dal dissenso, espresso attravero la satira, nei confronti del tempo passato rappresentato (in questo caso, l’epoca Vittoriana) che quindi in qualche modo diviene anche critica verso il presente, in un gioco consapevole di continui rimandi metaletterari. Ecco il senso del “punk” che va a formare il neologismo assieme allo steam – del vapore e delle aeronavi, due dei tratti caratteristici delle ambientazioni di genere, che tuttavia, nel caso di PdiFilippo, non sono certo accessori, ma neppure sostanziali, poiché l’autore (altro tema zero del nostro breviario) predilige al particolare del “gadget” (*), che pure non manca, quello della contestualizzazione e della ambientazione. 
The Steampunk Trilogy è pubblicata in USA nel 1995 e consta di tre racconti distinti: “Victoria” (USA 1991, Italia, Ed. Nord, 1996), “Hottentots” – più che un racconto, un romanzo breve, e “Walt and Emily” (entrambi inediti in Italia): tutti e tre meritevoli di essere letti, riletti e copiosamente citati proprio perché, pur nelle loro evidenti e necessarie differenze di temi e stile, condensano in sé quelle peculiarità omogenee che hanno fatto dello steampunk delle origini un genere così particolare e definito. 
Il testo è corredato dalle belle immagini di Luca Oleastri e dall’interessantissima prefazione a firma Salvatore Proietti (*)
Buona lettura 🙂

"La sinfonia di Parigi e altri racconti", di I Némirovsky

More about La sinfonia di Parigi e altri racconti Dopo “Tony & Susan” eccoci a voi con un altro dei nostri Christmas’ reading: si tratta di “Natale”, “racconto” breve a firma I Nemirovsky contenuto nel volumetto di cui al titolo, appena edito (Novembre 2012) da @Elliotedizioni. In realtà ci troviamo di fronte a tre vere e proprie micro-sceneggiature più che a un esempio tradizionale di narrazione composta da pezzi minimi. 
La fascinazione di I Nemirovsky per la Settima Arte è nota ed evidente, già espressa al meglio sin dai tempi della trasposizione cinematografica di “David Golder” (6 marzo 1931) che tanto scalpore suscitò tra pubblico e critica (Philipponat – Lienhardt 2009: si vedano le pagine in proposito [196 e segg.]) sia per arte sia, ovviamente, per contenuti. 
“Quanto al parlato, lei ne vede unicamente i vantaggi: *Il muto ci faceva viaggiare tra i fantasmi… Grazie tante! Il cinema sonoro è un arricchimento prodigioso…*. *Il cinema è l’arte che più si avvicna alla vita, che ha la parentela più stretta con la verità…*. (I Nemirovsky) Lo ama talmente, e ne riconosce così volentieri l’influenza sulla propria arte – taglio delle scene, tecnica dell’inquadratura, vivacità dei dialoghi, priorità del suggestivo, avversione per il commento – che pensa addirittura di scrivere delle sceneggiature vere e proprie tralasciando provvisoriamente il romanzo (…) *Nella mia testa medito progetti di film, perché, come sempre, penso per immagini*” (op. cit. pag 199-200) 
Commenti ai contenuti del pezzo che vi abbiamo segnalato?! Solo uno: attenzione, maneggiare con cautela, perché l’Irene non si smentisce mai.

Buona lettura (natalizia) 🙂

"L’isola del tesoro!!!", di Sara Levine

More about L'isola del tesoro!!!Il bello dei pirati è che spesso sono solo un pretesto.

Riuscite ad immaginare che cos’è solcare l’Oceano. Per settimane non vedere altro che l’orizzonte, perfetto e vuoto. Vivi nella morsa della paura: paura della tempesta, di un’epidemia a bordo, paura dell’immensità. E allora devi spingere bene quella paura in profondità, e studiare le carte; osservare la bussola, pregare per un vento favorevole, e sperare: pura, autentica, fragile speranza.

Da principio non è altro che una nebbia all’orizzonte. Allora osservi meglio. Osservi meglio. Così diventa una macchia, un’ombra in lontananza sull’acqua. Passa un giorno, poi un altro giorno. E quel segno lentamente si spande lungo la linea dell’orizzonte prendendo forma, finchè il terzo giorno permetti a te stesso di credere e osi sussurrare la parola: Terra.
Vita, resurrezione.
La vera avventura, generata dalla vastità dell’ignoto, sorta dall’immensità a nuova vita. Questo, Vostra Maestà, è il nuovo mondo.” (*)

Così l’affascinante navigatore, corsaro e poeta Sir Walter Raleigh (ca1552 – Londra 1618) nella verisione cinematografica Shekhar Kapur / Clive Owen si rivolge a una Regina Elisabetta di età ormai matura che, immalinconita dalla complessità della vita di corte e piegata dalle pesanti responsabilità che il ruolo le impone, altro non brama se non la freschezza di un vento puro, foriero di una resurrezione a nuova vita.

Questo per dire che la forza del “L’isola del tesoro!!!” (non dimenticate i punti esclamativi) sta nell’aver dimostrato, ancora una volta, di come la lettura di un grande classico dell’avventura (prima ancora di essere un “romanzo di pirati”) possa fare la differenza – sia dentrosia fuori dal testo.
E pazienza se poi l’interpretazione che ne viene è quella che è, del tutto personale. Quella giusta arriverà, in seguito.

Dentro il testo succede che l’autrice, Sara Levine, che di mestiere fa l’insegnante (e si sente), già vincitrice di alcuni premi letterari come scrittrice di short stories, ci invita a fare la conoscenza di una 25enne ne più ne meno differente da una delle tante giovani universitarie (o post-universitare) tra quelle che probabilmente le capitano davanti, a lezione, quasi tutti i giorni.
La protagonista, di acuta intelligenza, figlia della media provincia americana, possiede una laurea in non si sa bene cosa – un titolo di studio che comunque al momento non le è di alcun vantaggio – un impiego part time in un pet-shop, un fidanzato capitato più per caso che per scelta, un’amica storica un po’ stralunata, una famiglia levemente disfunzionale e sulle spalle il peso costante dell’affitto del monolocale da saldare a fine mese.
E’ questione che la giovane antieroina (intraprendenza pari a zero, interesse per un avanzamento sociale e uno sviluppo personale nullo etcetc: “Io, invece, la figlia maggiore, lasciavo sconcertati i miei perché non scrutavo l’orizzonte alla ricerca di occasioni per fare volontariato, perché scappavo via da chiunque puzzassse di persona bisognosa e perché bazzicavo il centro commerciale e correvo dietro ai ragazzi. Che interessi avevo? Perché insistevo a guardare la tivù? Perché non mi applicavo?” [p89]) un giorno si imbatte per caso in una copia sdrucita del classico di Stevenson, e da esso ne trae, come dire, la Rivelazione.

Ossia decide, rapita dalle gesta del giovane Jim, di stravolgere, anche lei, tutta la sua vita, per altro applicando quelli che crede siano i grandi “Valori Fondamentali” del racconto: Audacia, Risolutezza, Indipendenza e “Battersi la Grancassa”.

Da qui al disastro totale la strada è ovviamentre brevissima: perché nella foga liberatrice dell’esaltazione data dall’avere – finalmente – un “progetto” di vita da seguire e da portare avanti sino alla fine, a farne le spese saranno un po’ tutti: la titolare del negozio di animali, la migliore amica Rena, il fidanzato (che diventerà ex), la sorella Adrianna, i genitori che si troveranno, dopo anni passati tra sereno affetto e caldo clima familiare, a vivere da separati in casa, l’una asserragliata in cucina tra pentole e fornelli, l’altro ermeticamente chiuso nella Taurus di famiglia parcheggiata in garage.

La luce arriverà, come si diceva sopra, un po’ per intimo convincimento (“Se mia madre incarnava i Valori Fondamentali meglio di me, non gliel’avrei mai perdonato” [p137]) e un po’ grazie a qualche spintarella esterna (“Non ci definirei ‘indipendenti’, ma che importa? Le persone interdipendenti sono molto più simpatiche. Tu, invece, vivi come se fossi l’unica persona presente in questa stanza!” [Rena – p178]) e poi, come nella migliore e più classica tradizione piratesca, avrà infine le fattezze di un magnifico tesoro, tanto più prezioso quanto più scovato per caso (in questo caso, nella tasca sdrucita di una borsa consunta): una mappa misteriosa, vergata a mano, con tanto di X rossa e una stella dorata a segnare la meta.

(*) from “Elizabeth, the Golden Age” qui, dal minuto 1:29 

Buona lettura 🙂

Ps. Per quanto riguarda il fuori dal testo, che dire. E’ inutile, l’avventura per mare ci prende, sempre, ad ogni età e una volta ch ci sei entrato, lì dentro, non puoi più uscirne. Noi ne avevamo parlato qui, occupandoci di un libricino targatoSellerio 1996 (“Il canto dell’equipaggio” di Pierre Mac Orlan). 
Da “L’isola del tesoro” a “Cast away”, passando per “Moby Dick” e l’ “Odissea”.

Special thanks to @martatraverso per la bella Twitter-chiacchierata sull’opera, su cui ha speso interessanti riflessioni (here, mi permetto il link). Messaggio in codice: Richard forever. 

"Il Sostituto", di Brenna Yovanoff

More about Il sostituto Strizzando l’occhio a opere letterarie e cinematografiche ormai parte dei classici del genere, da Tim Burton (“La Sposa Cadavere”, “Nightmare before Christmas”, “Edward Mani di Forbice”, per citarne solo alcuni) a Neil Gaiman (uno su tutti, “Coraline”), Brenna Yovanoff costruisce un thriller gotico dalle atmosfere dense, affiancando uno stile narrativo fluido, equilibrato ed incisivo – a cui deve di necessità adeguarsi ogni opera letteraria che al Young Adult di matrice gothic-horror si ispiri – ad una caratterizzazione iconografica dei protagonisti e del paesaggio così forte e particolare tanto da rasentare quasi l’espressione artistica più pura del fumetto black&white. 
Mackie Doyle, il sedicenne protagonista della vicenda, vive a Gentry, una cittadina della provincia americana creata ad arte dall’autrice eppure così reale e viva nell’immaginazione di ognuno di noi: l’onnipresente Highschool, la piccola chiesa fulcro della vita spirituale del paese, i luoghi di ritrovo dei teenagers – dal parco in disuso, tra altalene sbreccate e immondizia varia, al vecchio teatro polveroso chiuso da anni e poi riadattato, forse dai giovani stessi, in un tripudio di anarchia ed autogestione, a luogo adibito alla musica rock e punk, che tanta parte avrà, per titoli citati e sonorità ben definite, nello svolgersi del romanzo. 
Non manca neppure, accennata in un soffio ma ben presente nell’economia dell’opera (come dire, esce dalla porta ma rientra dalla finestra), l’attualità della crisi finanziaria, fatta di piccole cittadine di provincia rese fatiscenti dalla depressione economica e industrie primarie abbandonate al proprio triste destino – quasi delle Chernobyl moderne, tra mucchi di scorie lasciate morire al sole e dipendenti pronti a tutto pur di recuperare quel poco di dignità, e di sicurezza economica, che la fabbrica aveva garantito. 
Il mondo di Mackie è il tipico universo YA fatto di prom, feste, amici, rivalità tra i banchi e i vassoi della mensa scolastica, reginette di provincia elette al ballo di fine anno ed esclusi di turno. Eppure, “Il Sostituto” è un fantasy. “Ma senza vampiri assetati, angeli caduti o stucchevoli fatine” (SColombo *). 
La parte soprannaturale c’è, eccome, ma viene tutta costruita, con un’abilità leggera e all’apparenza senza sforzo che si merita davvero l’aggettivo di “innovativo” (o forse, al contrario, siamo di fronte a un “back to basics”? Il dubbio ci assale), al di là della dicotomia standard belli, buoni e coraggiosi / brutti, cattivi e codardi. Perché nessuno, a Gentry, è quello che sembra. Mackie è un adolescente allampanato il cui passatempo preferito è fare il possibile per rendersi invisibile agli occhi degli altri studenti e dei concittadini. Impegno massimo, come da copione – e poi capirete il perché – ma, come ovvio, risultato nullo. Gli fanno da spalla la sorella Emma, uno dei personaggi più riusciti del romanzo per complessità e coerenza narrativa, l’amico fidato Roswell e i due fratelli Corbett, gemelli dai modi inquietanti che nel tempo libero si dedicano alla costruzione di strani oggetti e meccanismi che evocano con non poca enfasi e rigore il più puro genere steampunk. Quest’armata Brancaleone, fatta di persone che vivono sopra, ha come corrispettivo una sarabanda di creature magiche e demoniache – di età immemorabile ma dall’aspetto spesso bambinesco o al massimo adolescenziale – che abitano il sotto, tra tumuli di vecchie discariche tossiche, tombe sconsacrate e cunicoli invasi dall’acqua e dal trascorrere del tempo. 
Come accade nella “Sposa Cadavere”, in “Coraline” ma anche nella più classica e datata favola di Biancaneve, non sempre l’aspetto fisico è specchio dei moti interiori dell’animo. Tanto che i civilissimi abitanti di Gentry – la parte adulta della società con cui i giovani si misurano quotidianamente (tra i quali spicca il pastore della chiesa, nonché padre di Mackie) – paiono accettare di buon grado che una volta all’anno, nella notte di Ognissanti, gli spiriti più violenti e ancestrali che popolano un altro sotto escano dai propri lugubri nascondigli per partecipare ad un rito cruento di espiazione: il sacrificio di un bambino, rapito dalla culla, sostituito con una creatura del sottosuolo e offerto in tributo. Già, perché come ce ne sono due, di sopra, così ce ne sono due, anche di sotto. E quello che fa più paura è proprio questo secondo sotto: più “adulto”, più perfetto nel suo orrore, popolato da creature evanescenti nella loro bellezza di anime perdute nel sangue e nell’eternità. 
In mezzo a tutto questo equilibrio precario sta Mackie, che per nascita dovrebbe stare da una parte ma per affetti dall’altra, e che tenterà, senza particolari prove di coraggio o poteri straordinari ma soltanto attraverso quel che ha di più prezioso, l’amore per i suoi cari e l’affetto per il mondo che lo circonda (sia sopra sia sotto), di rimarginare una ferita infetta, rimasta aperta da troppo tempo. (Il melodramma sentimentale comunque – altro pregio dell’opera – è sapientemente evitato grazie alle solide virate splatter che strappano al lettore puri brividi di orrore genuino, a metà strada tra la repulsione e il “guilty pleasure”). 
Tutto, nel romanzo di Brenna Yovanoff è, come dire, sostituito e nulla occupa il posto che, a rigore, dovrebbe. Come accade per la matrigna di Biancaneve, sovrana bellissima ma crudele nell’animo, o la casa di pan di zenzero della strega cattiva di Hansel e Gretel, o come i genitori-allo-specchio che Coraline inconsciamente desidera e che poi si trasformano in (no, meglio, si rivelano essere) marionette mostruose dagli occhi a bottoni e denti affilati. O come la Sposa Cadavere, che nel suo orrore di carne putrefatta, ossa sporgenti e bulbi oculari alla deriva dimostrerà un’umanità molto superiore a quella propria dei vivi. 
Un interessante articolo di Severino Colombo (i virgolettati * gli appartengono) apparso su @La_Lettura di qualche settimana fa (qui, dal sito della casa editrice) ha avuto il merito di farci conoscere Brenna Yovanoff e il suo romanzo di esordio. Affascinante già dalla copertina: un’immagine studiata e lavorata nei dettagli che per una volta ci libera da quei tratti romance così cari oramai alla narrativa YA (e che spesso hanno poco a che fare con il contenuto dell’opera) per riportarci, anche visivamente, ad un sentimento coinvolgente di inquietudine e timore, che ci aiuta ad apprezzare emotivamente il testo e a mantenere costante la tensione e il giusto ritmo di lettura. 
Peccato per un paio di refusi di troppo.
Buona lettura 🙂

"Vampire Empire" – part II, di Susan and Clay Griffith

More about Vampire Empire Il secondo volume della trilogia non delude gli ormai numerosi fans.  

L’opera, per la maggior parte incentrata sulle vicende della Principessa Adele, vera eroina della serie, tra un colpo di scena e l’altro affronta più nello specifico quei temi “tecnici” che nel primo volume erano rimasti in sospeso: vari gli approfondimenti sulle questioni dinastiche e sulle lotte di potere che dominano sia la società degli umani sia i clan vampireschi, e più strutturato l’approccio ad un altro tipico filone della narrativa steampunk: la presenza fondamentale dell’occulto e delle società segrete, in un continuo, deviante gioco di specchi, appassionante e mai troppo macchinoso.  

Tra le tante scene stilisticamente ben riuscite, per esempio quella della descrizione delle pratiche mediche affrontate in una sala operatoria che risponde ai canoni del più puro stile steampunk-decadente. (Eh, via, non possiamo divi di più, niente spoiler). Un anfiteatro racchiuso nel cuore di un antico palazzo, fatto di buio e gradinate deserte che scivolano verso il centro della scena, occupato dalla luce bianca e asettica puntata sul tavolo operatorio, tra marchingegni antichi e moderni e strumenti per la chirurgia.  
Oppure, le descrizioni molto accurate dell’abbigliamento dei protagonisti, sempre perfettamente aderenti all’estetica steampunk, o gli scorci sulla città imperiale e le sue numerose stratificazioni architettoniche fatte di imponenti palazzi di foggia medievale, stretti vicoli bui che serpeggiano tra suq e botteghe di ogni tipo e figura, obelischi e statue che paiono giungere direttamente dall’Antico Egitto. Non mancano chiaramente, come facile intuire, passaggi segreti e porte nascoste che si rivelano soltanto al tocco di dita esperte.  

L’opera può essere classificata senza dubbio tra quelle appartenenti al Fantasy Young Adults e tuttavia non si può dire che sia di tematica prettamente leggera: la presenza di un’eroina consapevole del proprio ruolo nella società, poco influenzabile dal “clan” di turno ma ben disposta nei riguardi dei consigli che vengono dalle poche persone fidate e di famiglia di cui, con spirito critico, sa circondarsi, forte e decisa al di là delle sue capacità magiche (che di necessità debbono essere presenti dato il genere letterario a cui l’opera consapevolmente si richiama ma che in questo caso non caratterizzano la protagonista se non in maniera complementare), avvezza all’impegno dello studio e alla disciplina dell’allenamento fisico e capace, nonostante la giovane età – e certo nei limiti della fiction letteraria – di scelte impopolari e di lucida consapevolezza delle conseguenze che ogni decisione trascina con sé, porta i lettori (e soprattutto le lettrici) a riflettere, in senso più generale, sulla validità, o meno, delle figure femminili che ultimamente popolano la narrativa di genere.  

Note:  Qui l’analisi ADC, effettuata alcuni mesi fa, sul fenomeno Vampire Empire. E per chi fosse interessato, ci permettiamo di segnalare il Twitter degli autori; belle novità e notizie dal mondo steampunk e non solo: @clayandsusan.
Buona lettura! 🙂

"Venti corpi nella neve", di Giuliano Pasini

L’estate sa di giallo. E di inverno, neve e tempesta sull’Appennino emiliano tra nebbia e sassi, case antiche e vecchie storie mai dimenticate.

Giuliano Pasini è l’autore di questo “Venti corpi nella neve”, uscito già l’anno scorso in ebook con il titolo “La giustizia dei martiri”, una delle 30 opere vincitrici della prima edizione del torneo letterario “Io Scrittore” promosso dal Gruppo Editoriale Mauri-Spagnol. 
Caratteristica peculiare di quello che è divenuto uno dei più noti concorsi web del settore è la modalità di partecipazione dei concorrenti, che ricoprono il doppio ruolo di autori e critici: sono sempre solo i partecipanti a definire la classifica (due manches e una graduatoria finale) e di conseguenza i vincitori. 
L’iscrizione al torneo è gratuita e in palio v’è la pubblicazione in formato ebook per le prime 30 opere ed edizione cartacea per le prime classificate.

Ecco uno stralcio dell’interessante pagina di presentazione del torneo.

“È passato un altro anno e una nuova, fortunata edizione del torneo letterario IoScrittore si è conclusa, (…) dimostrando una volta di più la validità di una formula di scouting innovativa, democratica e al tempo stesso attenta alla qualità delle storie, un’alternativa al self-publishing, così in voga di questi tempi quanto sotto osservazione. Il claim del torneo letterario IoScrittore non vuole infatti essere “Se l’hai scritto, va stampato” quanto piuttosto “Se l’hai scritto, va valutato”. È la logica di un torneo completamente gratuito che garantisce la piena libertà degli autori.

Con questa iniziativa il Gruppo editoriale Mauri Spagnol intende rilanciare una competizione paritaria affidata alla rete che dia nuovamente luogo a una forte comunità di lettori e di scrittori in grado di dar vita a una sfida letteraria democratica e appassionata. La scommessa ancora una volta è che siano gli autori, nei panni di lettori, ad avere l’ultima parola.

Ambientato sull’Appennino emiliano tra Modena e Bologna a metà degli anni novanta, il noir risponde a ben precisi canoni di genere, che siamo felici di ritrovare, limpidi e chiari nei dettagli e nella struttura. Intreccia infatti le vicende personali del poliziotto Roberto Serra, tormentato da un passato angoscioso e vittima di un presente professionale e sentimentale drammatico, a quelle corali della gente del borgo di Case Rosse, comunità ancora scossa dalle vicende dolorose e tragiche ivi accadute durante il secondo conflitto mondiale. Proprio a questi accadimenti si fa riferimento in entrambi i titoli, che rimandano alle numerosi “stragi minori” fatte di lotte partigiane e rappresaglie nazifasciste che insanguinarono diversi paesi dell’area appenninica tra il 1944 e il ‘45.

La trama, lineare, appoggia su una struttura equilibrata – il buon ritmo è scandito dai capitoli che, a seconda dell’oggetto narrativo, variano di lunghezza e alternanza sempre ben tesa tra dialogo e parte descrittiva – e su una scrittura agile e secca, che riduce aggettivazione e ipotassi al minimo. Il legame con la letteratura di genere viene mantenuto sempre chiaro e forte evitando (abilmente) il rischio di scivolare nel temibile gorgo della fiction ad uso e consumo cinematografico.


Capodanno 1995: su un pianoro poco distante dal borgo di Case Rosse, piccolo paese arroccato sulle pendici dell’Appennino tra Modena e Bologna, ai piedi di una stele funeraria a ricordo di alcuni martiri caduti in guerra vengono ritrovati tre corpi, una famiglia orribilmente distrutta. Ad indagare, l’investigatore Serra, che ricopre il ruolo di sostituto commissario nel piccolo paese e che dovrà confrontarsi non soltanto con la strage appena scoperta ma anche, e soprattutto, con i fantasmi di un passato drammatico con cui il borgo di Case Rosse ancora non ha trovato modo di fare pace.


I personaggi sono presentati con destrezza e abilità narrativa attraverso un’attenta selezione dei dettagli e limando la parte descrittiva sino ad ottenere un mix perfetto che, pur guidando il lettore nella giusta direzione, lo lascia libero di sviluppare le proprie doti immaginative creando da sé volti, luoghi e ambientazioni – che nella descrizione secca e precisa di GPasini risultano dipinte a tratti precisi, di acquerello ben teso, e particolarmente evocative. Si pensi alla piazza principale del borgo, avvolta dalla nebbia e illuminata a stento da qualche lume giallo e dalle luci fioche che provengono dalle vetrine dei pochi esercizi commerciali che affacciano sull’acciottolato e sulla statua dell’angelo della morte, vendicatore dei martiri caduti in guerra, a dominare, con il suo nero profondo, l’antico quadrilatero.


Nonostante gli evidenti influssi della narrativa straniera, da Connely a Larsson, “Venti corpi nella neve” è un noir dalle profonde radici italiane, fortemente contestualizzato e caratterizzato nei particolari (evidente la cura bibliografica sottesa alla narrazione). L’opera paga certamente quel debito che l’autore, come dichiarato nelle numerose interviste, dichiarava di avere da una parte con la propria famiglia, anch’essa in qualche modo vittima delle “stragi minori” avvenute nell’ultimo anno di guerra – nel timore che la morte dei protagonisti e lo scorrere del tempo possano portare ad una riscrittura della storia poco veritiera; dall’altra con la propria terra di origine, che l’autore definisce concretamente attraverso le descrizioni paesaggistiche, le tradizioni culinarie e l’uso delle varianti regionali della lingua.


Un romanzo di esordio vivo e brillante, acuto. Autoconclusivo nella narrazione, strizza tuttavia l’occhio a un sequel che speriamo non tardi ad arrivare.

"Il fuoco amico dei ricordi" I&II, di Alessandro Piperno

More about Persecuzione More about Inseparabili Per parlare di Piperno inizieremmo dalle bellissime, e significative, illustrazioni di Werther Dell’Edera che accompagnano i due volumi. 
Una in particolare, non disponibile on line, la trovate in “Persecuzione” e raffigura un atletico Leo Pontecorvo a cavallo. Il pregiato oncologo, agghindato con perfezione metodologica, governa, sciolto, la bestia domata.
Leo, Filippo e Samuel Pontecorvo si misurano, allo stesso modo anche se in momenti e con declinazioni diverse, con un unico demone: la società dello spettacolo. Mostro marino, Giano Bifronte che tramite la gogna mediatica ha l’abilità di trasformare in un delinquente patentato anche l’individuo più mite e tranquillo oppure, al contrario, di innalzare ad eroe civile e icona di stile uno sconosciuto giovane di buona famiglia, che nei primi 35 anni della sua vita non ha certo brillato per doti personali o professionali. 
Da una parte, quindi, c’è Leo Pontecorvo, oncologo pediatrico all’apice della carriera ospedaliera, incastrato in un brutto fattaccio di sesso e pedofilia da cui verrà scagionato solo 20 anni più tardi attraverso una casuale e fortuita riabilitazione intima, familiare – mai pubblica – niente affatto significativa. Peccato che le accuse in questione, e il relativo processo, penale e mediatico, l’abbiano portato nel frattempo ad una prematura (e macabra) scomparsa. 
Dall’altra, Filippo Pontecorvo, primogenito un po’ sfortunato negli studi, lievemente imbolsito dall’età e dalla passione per la buona cucina, vittima di ipocondrie e crisi depressive che tiene a bada con iniezioni di adrenalina (esperienze para-militari, missioni “umanitarie” – che di umanitario hanno poco o nulla se non l’idea di salvar se stesso) e psicofarmaci, affrancatosi dalla vita professionale grazie al matrimonio con una ex-valletta televisiva che, attraverso il conto in banca del padre, gli garantisce un presente florido e un futuro di relativo agio. Il giovane rampollo, grazie ad un’unica opera d’arte composta un po’ per gioco un po’ sul serio, assurge all’olimpo della cinematografia per poi cadere rovinosamente nel turbine del successo e del tritacarne di masse adoranti e/o inneggianti ad una sua precoce dipartita, favorita e auspicata da certi ambienti estremisti. 
Per non parlare di Samuel Pontecorvo, secondo genito brillante e affermato, che finirà per cadere vittima dell’avidità e della spregiudicatezza del mondo finanziario di cui bramava fare parte. 
Descrivendo l’improvvisa e inattesa ascesa di “Fili”, che tutto si aspettava, dall’interno del caldo bozzolo di spettatore passivo del mondo che con gli anni si era ritagliato, tranne che divenire oggetto di culto (e di vendetta) da parte di masse isteriche e pronte a tutto (sia per amarlo, sia per ammazzarlo) pare quasi che A. Piperno ci metta in guardia contro se stesso, e contro quel certo effetto che talune opere di ingegno possono creare nella mente dello spettatore che dell’opera, quale che sia, si trova a fruire. 
E’ questione che il successo molto probabilmente è arte vana, un castello di carte che può cedere al minimo refolo di vento. 
Il brillante oncologo pediatrico cade, vittima prostrata di un meccanismo di caccia alle streghe perverso e morboso (manca solo B. Vespa, con la bacchetta e il diorama della “Villa Pontecorvo” con tanto di scorcio del seminterrato). E poco importa di chi sia la colpa: di certo siamo di fronte ad un delirio di onnipotenza; ma di chi? Di una Lolita de’ noartri, scipita e slavata oppure – perché il dubbio sino alla fine rimane – di un uomo di mezza età che grazie a posizione sociale ed economica pensa di poter dare sfogo a tutte le sue più pruriginose fantasie? 
Allo stesso modo il giovane rampollo si esalta e perde se stesso, grazie ad un’opera d’arte sì interessante e peculiare ma partorita un po’ per caso, un po’ per fortuna, un po’ per nulla, e destinata a non replicarsi. 
Così, ci viene da pensare. 
Chi è Alessandro Piperno: il nuovo Philip Roth, tanto esaltato dai fans e dallo zoccolo duro dei suoi recensori più fidati? Quello che da anni aspettavamo, febbricitanti, in fremente attesa di un altro suo epico, struggente, apocalittico, affresco familiare? Oppure è soltanto uno dei tanti prodotti di un marketing editoriale aggressivo e mirato, un autore come tanti, benedetto dalla dea fortuna, un personaggo qualunque, che dopo tanti anni passati ad arrovellarsi il cervello in attesa dell’idea fulminante non sarà in grado di replicare il successo d’esordio? 
Insomma, Piperno ci strizza l’occhio e ci parla, tra le righe, del criterio della buona misura. E lo fa in maniera gentile, delicata, a-celebrativa. 
Di misura non ne ha avuta Leo Pontecorvo che da perseguitato si fa persecutore di se stesso e della sua famiglia, auto-precludendosi ogni speranza di redenzione attraverso una regressione involutiva consapevole: alla maniera quasi Ballardiana, si reprime e assoggetta se stesso a uno stadio di uomo cavernicolo privato(si) dello spazio vitale, del cibo, della parola, della ragione. 
Non ha misura nemmeno Rachel Spizzichino in Pontecorvo che vittima della buona creanza e di un certo qual puritanesimo che ha il sapore acido della superstizione e della bigotteria, non esita a far proprio il comportamento dei tre primati della vignetta: non vedo, non sento, non parlo (e se c’ero, dormivo). 
Non hanno misura né Filippo né Samuel Pontecorvo, ma non hanno misura nemmeno le rispettive consorti, Anna e Silvia, perse nei propri, personali deliri di onnipotenza. Delirio di onnipotenza che si esemplifica nel comportamento della massa: figure indistinte che possono, allo stesso modo e allo stesso momento, idolatrare e sconfessare – e tanti saluti al senso della misura. 
Piperno ci mette in guardia anche da se stesso, e – ancora una volta, ma com’è che ultimamente ritorna sempre, questo tema? – dall’American dream. Che è un’American Dream casereccio, fatto di questionucole e privilegi di gusto dubbio e sicura provincialità ma sempre permeato dal gusto per il  riconoscimento privato ma soprattutto pubblico e sociale. 
Non c’è sarcasmo nella sua strizzata d’occhio. Piuttosto un impegno che ha del morale senza per forza scivolare nell’epidittico o nel paternale; è per questo che ci sentiamo di consigliare la lettura di “Piperno” sempre con un occhio puntato all’autore, Alessandro Piperno, e alla sua esperienza di scrittore.

"L’alba di Talulla", di Glenn Duncan

More about L'alba di Talulla Nuovo, appassionante capitolo della saga del Moderno Lupo Mannaro, che vede protagonista non più il caro, oramai estinto, Jacob Marlowe (di cui avevamo parlato qui) ma la rispettiva consorte, Talulla Mary Apollonia Demetriou, Lulu per gli amici più intimi. Glenn Duncan non ci fa rimpiangere la figura maschile protagonista del primo volume, presi come siamo nel vortice della narrazione e dall’energia, vigorosa, erotica, animalesca, di un’eroina femminile che finalmente si riappropria con destrezza di tutte le caratteristiche tipiche di un personaggio di successo. 

Talulla Rising è racconto horror, gothic novel, pulp fiction, pregno com’è di fenomeni soprannaturali, sangue – bevuto e versato – e atmosfere mistiche (da una Londra di fascino Vittoriano alle mura bianche di calce e luce lunare del monastero sconsacrato, in terra Greca). Eppure è anche spy story, grazie al tema ben identificato dei complotti internazionali tra società segrete paragovernative e cellule deviate che si contendono, in una lotta senza esclusione di colpi, fra tradimenti, doppi giochi e azioni sul campo degne di Ludlum, il controllo e il dominio su licantropi e/o vampiri (o il merito della loro estinzione definitiva), ma anche diario epistolare, riflessione intima, raccolta di haiku

Qui, in redazione, noi Talulla ce la immaginiamo bella tonda, femminile, braccia forti e seno evidente. Chè siamo un po’ stanchi di queste figurette pallidine, davanti e dietro piatte come tavole da stiro, lacrima facile, spalle curve, occhio languido e sgomento. La forza e la concretezza di Talulla stanno in una compresenza che diviene ad un certo punto paradigmatica: come in lei convivono l’essere umano e il mostro sovrannaturale che – ribadito perentoriamente nel corso di tutta l’opera – non possono essere disgiunti l’uno dall’altro ma al contrario si compenetrano a vicenda, inscindibili, così Talulla è donna e madre, combattente coraggiosa ma allo stesso tempo figura femminile delicata, romantica, appassionata, che ricorda con ardore, nostalgia e rimpianto la breve stagione d’amore passata con l’amato ma che, con evidente senso pratico (senso pratico che l’autore spesso esemplifica attraverso il ricorso alla voce della madre defunta, che Talulla immagina di udire ancora), considera inaccettabile il ruolo di giovane vedova votata alla castità imposto dalla corrente morale (umana). 

Duncan gioca con noi, agile, e lo fa su diversi livelli, stratificati, analizzando vari temi cui occorre prestare attenzione. 

Fortissime per esempio, per lingua e significato, le pagine iniziali sulla maternità (e stupisce – ma forse no – che a scriverle sia stato un maschio): l’atto fecondo di dare la vita attraverso il parto ha come necessaria conseguenza l’espulsione del bambino dal ventre della madre ma non altrettanto necessariamente – e succede spesso – la nascita immediata del sentimento di amore materno verso il neonato. 
La maestria di Glenn Duncan in questo caso è duplice. Senza perdersi in filosofiche interpretazioni dell’argomento, da una parte accenna alla questione, finto vago, attraverso un espediente magico e perfetto: il ricordo ossessivo di Talulla per uno spot pubblicitario di una nota marca di pannolini per neonato. Nel più chiaro e tipico dei cliché moderni sulla maternità, la madre rappresentata in televisione ha pelle e capelli come fosse appena uscita dal centro estetico, indossa vestiti di un bianco verginale, puliti e stirati, e sorride, composta nel suo amore immenso verso la creatura (naturalmente anch’essa sorridente, pulita e vestita di tutto punto) che tiene tra le braccia. Talulla immagina, nel delirio dei pensieri pre (e post) maternità, che la donna in questione, con una torsione di busto degna dei migliori stop-motions di Tim Burton, giri il capo verso l’esterno del televisore, scoccando uno sguardo indignato e disgustato verso la Madre Indegna Del Momento. 

Dall’altra parte, Duncan tende un filo rosso che si dipana lungo tutto il progresso della narrazione e che parte dall’idea di Talulla di aver consapevolmente (e quindi colpevolmente) abbandonato il neonato maschio nelle grinfie dei rapitori – che con un assalto mirato lo hanno strappato alle braccia materne pochi minuti dopo la nascita – a causa della sua tardiva reazione all’assalto; reazione tardiva dettata dall’indifferenza (e forse anche dal fastidio) provata nei confronti della creatura uscita dal suo ventre di mostro. Peccato che questa interpretazione della questione (lo sappiamo noi, lo sa Duncan, ma non lo sa Talulla) proprio non regga. 

In verità non ce n’è una che non ci piaccia, di figura femminile presente nell’opera, anche perché Duncan non fa mistero della sua viscerale passione per il sesso femminile che trasuda da ogni suo approccio descrittivo verso l’altro sesso: si va dalla bella Madeline, bionda lunare sempre pronta stupire se stessa e chi la circonda, all’amore senza tempo della madre-vampira, per arrivare alla chioma rossa – tutina di lattex e coscia tornita – di Josephine, tutta compresa nel suo ruolo di vampira-in-carriera. 

Malgrado le scene pulp, il sesso violento, il sangue versato, la tematica horror e lievemente trash, Talulla rising è per noi un libro dalla femminilità prorompente. Le donne sono i personaggi chiave del romanzo, eroine a tutto tondo per altro in contrapposizione con maschi che per una volta – santo cielo! – non vengono presi, in primis dall’autore, troppo sul serio: si va dai machi super pompati e anabolizzati che passano la loro vita a giocare con pistole e fucili sparattutto (!) nel tentativo di sdoganarsi da vecchie madri e sorelle iperprotettive a cui avevano votato infanzia e adolescenza, a energumeni paleopreistorici – ascella pezzata e microcervello, pugni, alitosi e aggeggio sempre pronto allo stupro – a giovani lupi mannari che, una volta rapiti dall’estasi dionisiaca, dimenticano qualsiasi responsabilità etica, civile, morale. 

Se per certi versi Talulla rising dovrebbe essere seguito con distacco, senza tante pretese di immedesimazione, assaporando gli eccessi, le atmosfere pulp e il divertimento che ne consegue, dall’altra occorre di necessità soffermarsi con attenzione sulla parte più intima del romanzo, per godere appieno della scrittura e dell’arte di un narratore che affabula e rapisce. 

*** 
Un ringraziamento particolare agli amici di @Bookrep e @isbnedizioni (@albaditalulla) che con pazienza e perizia sono riusciti a domare un file #ebook particolarmente… capriccioso. Grazie!

“Stoner”, di John E Williams – una serata di lettura condivisa (terza e ultima parte)

More about Stoner Terzo e ultimo appuntamento nel salotto di @tempoxme_libri per concludere la lettura e l’analisi di #Stoner, insieme alle bravissime @leggendolibri e @SedCetta che hanno animato una discussione appassionante, ricca di spunti e di confronti. 
Aree di analisi, come sempre suggerite da Giuditta: 
  1. Valutazioni generali e conclusive 
  2. Letteratura e Amore 
  3. Grace 
  4. La morte del protagonista 
Valutazioni generali e conclusive 
Il testo, completata la lettura nella sua interezza, ha restituito alle lettrici impressioni e sensazioni mutevoli e cangianti. 
– Per @Sedcetta l’autore ha raggiunto lo scopo; fondere stile e contenuto nel rappresentare, attraverso una scrittura piana ed essenziale, un’esistenza caratterizzata dalla presenza di pochi avvenimenti di rilievo “in una sorta di silenzio ovattato in cui la vita vera resta fuori”. 
– Per @tempoxme_libri invece il giudizio sull’opera si è modificato radicalmente: la trama da avvincente si è fatta sempre “più lenta e scontata (…) rasentando la noia e la ripetitività”, malgrado questo fosse, molto probabilmente, l’effetto esatto a cui l’autore dell’opera voleva tendere: l’incompiutezza (@Tempoxme_libri) e l’inganno teso al lettore, sempre in attesa del riscatto che invece non arriverà mai. 
La storia di Stoner, indubbiamente, non vuole essere consolatoria. Questa analisi porta con sé, di necessità, alcune altre osservazioni: 
– Le ultime 13 pagine: il racconto, lirico e denso di significati, della morte del protagonista. 
– La “mediocrità” del personaggio Stoner, il ricordo lasciato ai posteri (si veda la diatriba con il collega Lomax, che in pratica sarà l’unico ricordo che studenti e professori avranno del professor Stoner, malgrado gli anni spesi dal protagonista nell’insegnamento e nella condivisione di quel sapere raggiunto con così tanta fatica). 
“Il personaggio Stoner non ne esce bene. Perdente nella vita e nella morte anche nel ricordo che lascia di sé. Quasi come una sottile vendetta dell’autore per aver banalmente lasciato scorrere la sua vita senza viverla” per @SedCetta; “Credo che con la morte Williams voglia riscattare il suo personaggio, attraverso il lirismo e la consapevolezza (credibile)?” per @Tempoxme_libri 
Altro punto analizzato è la concezione del femminile, che a tratti pare scivolare verso connotazioni maschiliste e vagamente misogine. Si approfondisce il tema nelle sezioni relative. 
Letteratura e Amore 
Che sono le “uniche due occasioni” (@tempoxme_libri) in cui Stoner potebbe decidere del proprio destino – “ma l’inettitudine prende il sopravvento” (@tempoxme_libri). 
La storia d’amore con Katherine è figlia del suo tempo. Nonostante l’intensità del sentimento è destinata a fallire dal principio, proprio perché extraconiugale e a-sociale. Impensabile (e poco credibile) che un uomo dell’epoca potesse anche solo tentare di opporsi alla morale corrente difendendo a spada tratta un amore adulterino. Sentimento che comunque non morirà neppure a seguito dell’allontanamento e della separazione, vedasi la dedica con cui Katherine “pagherà il debito di riconoscenza dei confronti di Stoner” (@Tempoxme_libri) inviandogli “quasi un messaggio d’amore in codice”. 
Lo studio delle lettere è appagante per Stoner, e l’insegnamento lo completa. Per @Tempoxme_libri la rappresentazione dell’ambiente universitario è positiva, malgrado competizioni e rivalità. E’ il luogo della realizzazione e dell’amicizia profonda e duratura. Eppure, curioso il ricordo che studenti e professori serberanno di lui (“Nient’altro se non il carattere particolare, le sue “stranezze”, spesso i falsi aneddoti” – @Tempoxme_libri nella sezione “Valutazioni generali”), che sarà irrimediabilmente collegato alla diatriba ventennale con il collega Lomax. Un altro “feroce attacco del destino” (@Tempoxme_libri nella sezione “Valutazioni generali”)? Al posto della passione per le lettere, del saggio pubblicato, delle lezioni appassionanti, tutto ciò che verrà ricordato sarà, ahinoi, puro gossip. 
Un’osservazione più generale si impone a questo punto sul presunto “vittimismo” del protagonista, che pur avendo davanti a sé l’esempio, sia nella vita culturale, sia in quella politica e sociale, di uomini e studiosi illustri, non accenna ad un alcun, seppur vago, miglioramento personale. Vittimismo (@appuntidicarta) o mera inettitudine (@Tempoxme_libri)? 
“Stoner è vittima di se stesso, per cui non si lamenta. (…) C’è quasi un sottile compiacimento (…). Infondo chi è vittima e carnefice può sempre puntare il dito e delegare le responsabilità ad altri. Al mondo accademico chiuso, alla moglie mai cresciuta, alle regoli sociali. (…) Stoner fallisce perché non ha gli strumenti per andare oltre. E questa è incapacità. Però di questa incapacità si compiace, è rassegnato” (@SedCetta). 
@appuntidicarta: “Da una parte si celebra l’iniziativa personale (il figlio di contadini che si emancipa con lo studio) lodando l’idea del yes we can. Dall’altra si sconfessa questa idea – tant’è che una delle questioni fondamentali del libro, non dimentichiamolo, è l’incomunicabilità tra le generazioni. (…) E’ una questione molto attuale che serpeggia e viene spesso analizzata da molti autori USA contemporanei che evidentemente si trovano, in questo periodo di forti cambiamenti, a fare i conti con un modello di vivere personale e sociale a cui avevano dato cieca fiducia nel passato ma che ora, pur con tutti i suoi pregi, evidenzia anche i molti difetti, primo tra tutti la mononuclearità famigliare”. 
La discussione si conclude con un bellissimo intervento di @SedCetta: 
“Il fatto che molti scrittori contemporanei negli USA avvertano il disagio di aver posto cieca fiducia in un modello sociale fallimentare la dice lunga sull’incomunicabilità generazionale. Forse noi non concepiamo un simile modello perché, nonostante gli errori evidenti, abbiamo ancora radicato un modello familiare più attento e protettivo”. 
Grace 
“Forse la più tragica e sconfitta” (@Tempoxme_libri). 
Anche Grace è figura del suo tempo, al suo tempo adeguatasi in tutti i cliché: dall’infanzia inamidata di fiocchi e crinoline, all’adolescenza postbellica e ribelle, all’età adulta segnata dall’alcolismo. Incuriosiscono i modi secondo cui Williams pare incrudelirsi nei confronti delle figure femminili che, a parte Katherine, vagano tutte per il mondo in stato semicomatoso tra isteria e fallimento. 
Si riflette sul punto di vista della narrazione
@appuntidicarta: “Banalmente, Grace è il risultato. Un esperimento scientifico, quasi: – metti un tipo come Stoner, che si sposa con una tipa come Edith. ecco cosa ne può nascere – 
Ho l’impressione che ogni tanto Williams si sia “divertito” nell’osservare questa famiglia dall’esterno. Ogni tanto, poi non ne è capace neanche lui, ed è questo che mi ha interessato, questo continuo “andar fuori e poi di nuovo all’interno” … gettando una briciola di formaggio, iniettando delle sostanze velenose, come topolini da laboratorio”. E vedere… l’effetto che fa. 
Nella sezione “Valutazioni generali” si era fatto cenno (@leggendolibri) all’importante tematica della contestualizzazione dell’opera, che pur nella sua evidente attualità, è, e rimane, datata 1965: durante  il secondo conflitto mondiale le donne cominciano appena a sostituirsi agli uomini nelle attività quotidiane e nel lavoro in fabbrica, quindi è “consona” (@leggendolibri) una certa lettura delle figure femminili. E’ Grace ad essere “avulsa” da questo contesto: “Perché la morte di Stoner avviene dopo un po’ di tempo dopo che è finita la seconda guerra mondiale, quindi è plausibile che la ragazza viva un periodo di riscatto delle donne che hanno lavorato mentre i mariti erano in guerra e quando questi ritornano non sono disposte a tornare a far le pulizie e a ricamare. Quindi le opportunità che ha grace sono ben diverse, da quelle che ha avuto per esempio sua madre” (@SedCetta)
La morte del protagonista 
Eccoci qui, alle famose 13 pagine sui cui @leggendolibri (qui) riflette con attenzione e a cui vi rimandiamo. 
“Un lungo, estenuante addio alla vita, vissuto senza eroismi” (@Tempoxme_libri). Tutte concordi nell’osservare il profondo lirismo delle pagine perfettamente equilibrate nella sostanza e nella forma a parte @Tempoxme_libri che lamenta un eccesso di “impressioni diluite e immagini metaforiche”. 
Assistiamo sicuramente ad un momento di epifania. Stoner, che non è mai riuscito (o non hai mai desiderato) possedere una percezione chiara di se stesso, nel momento della morte raggiunge, in qualche modo, una consapevolezza più intensa di sé e del mondo che lo circonda. Ma la consapevolezza si risolve in una morte “come l’aveva desiderata” (@SedCetta) oppure in una “epifania del nulla”?
“Tra le mani il libro da lui pubblicato, decenni addietro, fuori dalla finestra la primavera e alcuni ragazzi che corrono sul prato” (@appuntidicarta) “nell’illusione che la sua vita abbia avuto un senso” (@Tempoxme_libri). 
Io ringrazio tutte le protagoniste che hanno allietato queste tre serate, che ho vissuto con attesa, interesse e partecipazione: prima di tutto Giuditta, gentilissima padrona di casa, seguita dalle brave – e competenti – @SedCetta, @leggendolibri @colvieux). Grazie a tutte per l’impegno, la passione, la discussione, il confronto.

-> potete trovare qui e qui rispettivamente la prima e la seconda parte della lettura condivisa su #Stoner.