“Orrore”, di Pietro Grossi

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“Se solo. Di tutti i momenti per cui da anni mi maledico, questo è l’unico indipendente da me e da qualunque mia volontà. Dunque, il più immacolato. Di questo posso evitare di domandarmi se sia il frutto di altri fatti o scelte precedenti, ripercorrendo la mia vita all’indietro fino a perdere traccia dei ricordi. No, questo è un momento esatto, libero da qualunque necessità di analisi. Se solo. Tre semplici, striscianti sillabe, capaci di sgretolare esistenze come termiti in una trave di legno” (pag14)

“Orrore” l’ho letto in meno di due ore, accartocciata dentro lo scomodo sedile di un Frecciarossa seconda classe, un venerdì sera di esodi estivi e temporali. Mentre il treno di tanto in tanto rallentava e scricchiolava un po’, per via della grandine, e fuori dal finestrino il cielo si faceva prima giallo e poi color del carbone, io non potevo fare altro se non girare le pagine, una dopo l’altra, di questo racconto nerissimo che ha la capacità di riportare il lettore indietro nel tempo, schiaffeggiando i suoi sensi intorpiditi.

Pietro Grossi (classe 1978, vincitore del premio Campiello Europa 2010 – edizione Gran Bretagna – con la raccolta di racconti “Pugni“) alla sua prima esperienza nel mondo dell’horror utilizza gli archetipi del genere attraverso un lavoro di recupero meticoloso attingendo sia dalla letteratura più nera, da Bram Stoker a Poe, sia a certa, precisa filmografia che evidentemente ha fatto parte della sua infanzia, dati i rimandi presenti nel testo.

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“Superate una zona industriale e una rotonda, prendemmo a salire lungo una bella e larga statale a curve. Attraversammo una piccola valle, passammo qualche paesino e imboccammo una strada a destra. Salimmo e scendemmo un paio di colline. La strada si srotolava in mezzo ai boschi, corteggiata da querce con indosso appena qualche foglia secca. I rami spogli si allungavano intorno ai tronchi come scariche elettriche” (pag32)

Impegno accurato che travalica il fine utilitario per diventare omaggio alla tradizione di quell’horror classico che non ha né nome né volto ma che è, prima di tutto, sensazione, atmosfera, introspezione. E che diviene ancora più convincente per via delle ambientazioni coeve.

L’inverno rigido e nevoso dei boschi umbri, un vecchio mulino isolato e fatiscente, la provincia italiana più profonda. Le luci dell’albero di Natale e la malinconica irrequietezza che il clima delle feste spesso porta con sé; l’infiacchimento di uno scrittore in crisi di identità che nemmeno la nascita del suo primogenito riesce a rianimare, ma che si tutto d’un tratto si esalta di fronte all’insperato dono di una bella storia da raccontare.

L’orrore non ha né nome né volto. Alberga in certe case borghesi, dai corridoi lunghi, scuri e stretti, nelle collane di perle di vecchie signore, nell’odore di flanella dei copriletti. Quasi scaturisce proprio dall’interno degli oggetti stessi: una stanza ammuffita al cui interno giace un tavolino perfettamente tirato a lucido, una porta chiusa a chiave affacciata sul nulla: il topos della casa stregata che, come un animo senziente – il nostro, quello di ciascuno di noi – contiene in sé il germe del male che siamo noi stessi a richiamare al mondo, spalancando la porta proibita.

“Orrore” si attiene ciecamente alla regola del “se solo” come ogni horror che si rispetti. Se solo l’amico Diego non avesse fatto cenno al protagonista (ndr: il racconto è redatto in forma di lunga lettera, scritta in prima persona dal protagonista scrittore e indirizzata al figlio) di quella brutta avventura accadutagli in montagna. Se solo lo scrittore fosse stato un po’ meno sensibile al richiamo di una trama promettente, se soltanto avesse riflettuto un po’ di più sul suo ruolo di padre, così nuovo, così giovane e pieno di ricchezze. Se solo, quel giorno, non avesse preso una decisione che avrebbe cambiato, nel giro di pochi minuti, non solo la propria vita ma anche quella di tutti coloro che lo circondavano.

“Il punto, in fin dei conti e fin dall’inizio, restava sempre lo stesso: valeva la pena stare lontano da casa e da voi per seguire le fumose tracce di quella vicenda?” (pag69)

Ripercorsi in un lampo la mia vita e mi tornarono in mente tutte le occasioni in cui mi ero pentito di essere stato frettoloso. Il mio passo era sempre stato la marcia e – a differenza di altri che dovevano imparare a sveltirsi – la sfida per me era sempre stata imparare ad avere pazienza. Ripensai alle innumerevoli volte in cui mi ero ripetuto questa semplice frase, *nel dubbio, fermati*, a quanto spesso mi ero pentito di non averla seguita e quanto invece mi aveva giovato quando ci ero riuscito.

Eccomi dunque, innanzi alla grande prova: lontano da casa, al freddo, in un inospitale paesino sperso nei boschi, di fronte a una storia grigiastra e con tutti i buoni motivi per andarmene, sarei invece rimasto, e avrei atteso” (pag79-80)

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Buona lettura 🙂

“L’estate muore giovane”, di Mirko Sabatino

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“L’estate muore giovane” racconta una storia che mi sta a cuore. Ho avuto notizia della pubblicazione quasi per caso e ciò rafforza in me, ancora una volta, la convinzione che spesso sia il libro a scegliere il proprio lettore e a trovare da solo la strada per raggiungerlo.

La verità è che questo romanzo breve racchiude in poco meno di trecento pagine svelte, e la trattiene in sé senza lasciarsela scappare nemmeno per un istante, tutta la ferocia di quell’estate garganica che conosco bene, segnata dal sole di campagna cattivo e cocente, così lontano dalla frescura della brezza marina, che ha accompagnato per anni i miei pomeriggi di luglio. Un sole polveroso e fragrante di oleandro che ha marchiato, tatuando sulla mia pelle le esperienze di quegli anni, la modalità attraverso cui ancora oggi mi trovo a percepire la stagione estiva, o la sua assenza.

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“La macchia mediterranea premeva da tutti i lati, e noi ragazzi camminavamo a passo medio e deciso, come viandanti medievali in rotta verso un luogo sacro. Non parlavamo mai durante il tragitto, e dialogavamo, in silenzio, con gli arbusti e la vegetazione che si sparpagliava disordinata tutt’intorno. Mimmo spezzò un rametto da una pianta di rosmarino e ne sniffò l’esistenza; me lo passò e io feci lo stesso. (…) Poi gli arbusti infoltivano per un ultimo tratto e all’improvviso si ritraevano, e solo i nostri passi proseguivano fino al limitare della scogliera: e ogni volta era una vertigine nuova sbilanciare la testa in avanti e affacciarsi sul blu profondo del mare” (pagg.104-105)

Mirko Sabatino, originario di Foggia, classe 1978, parla di quel che sa. Parla di tre ragazzini cresciuti tra i vicoli di un paese incastrato tra le colline e la scogliera, un microcosmo universale che nemmeno la modernità del boom economico può scalfire nelle sue dinamiche essenziali. Racconta di riti antichi, tempi dilatati, del colore della terra e del grano, della polvere dentro i sandali e le giornate lunghe da tirar sera, quando ancora non si parlava di videogames e la televisione si poteva guardare solo al bar o a casa del sindaco e del farmacista.

Ma parla anche di molto altro. Di un mondo arcaico all’interno del quale ogni protagonista ha l’obbligo di muoversi seguendo percorsi prestabiliti e dettati dalla consuetudine e dalla tradizione, ogni deviazione dai quali viene considerata devianza, insubordinazione, finanche scandalo e onta; e all’interno del quale la minima, involontaria distrazione può rappresentare il drammatico punto di inizio di una serie di eventi dalle conseguenze inconvertibili.

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“La vita è ciò che ti capita tra la nascita e la morte. Tu scegli poco. Le persone e gli avvenimenti ti si impigliano addosso, ciechi, tenaci, e durante il percorso qualcosa resta, qualcosa si aggiunge, molto si perde, poi tutto” (pag.27).                                                                                                              Noi dimentichiamo le persone, completamente, spietatamente, dopo averle sentite per telefono, o incontrate per una visita o un’uscita, o averci pensato. Siamo con le persone solo quando ci troviamo con loro nella stessa stanza, o ci pensiamo. Poi scompaiono, anche quelle che amiamo di più, e nel tempo lungo dell’assenza non esistono” (pag.102-103)

Una società ancora prettamente patriarcale dalla quale il maschio di famiglia viene esautorato – per mano della collettività stessa o della Natura – nel momento stesso in cui pare ribellarsi alle regole comuni e non scritte che, pur nella loro paradossalità, garantiscono il mantenimento dello status quo all’interno del gruppo. Una società che richiede ai figli di crescere alla svelta e in autonomia, malgrado la presenza forte di un elemento femminile, che lungi dall’essere in grado di gestire al meglio la transizione dall’infanzia all’età adulta della propria progenie ondeggia, indeciso, a metà strada tra il ruolo defilato e sottomesso che però non si addice più alla modernità dei tempi e l’urgenza di un rinnovamento di condotta che tuttavia porterebbe con sé un affrancamento considerato inopportuno.

Alla base sta la riflessione di Sabatino sull’imposizione fiduciosa e ingenua di schemi precostituiti, proposti confidando acriticamente in una tradizione che, sempre apparsa come salvifica nei confronti del mondo esterno, si trova invece a determinare la rovina di quel costrutto di base rappresentato, allora come oggi, dal nucleo famigliare.

E’ un libro duro e dolente, ma vero e concreto perché non si attarda mai dove non dovrebbe e concede pochissimo spazio alla spettacolarizzazione di un’epoca e di un dolore che ben poco ha di nostalgicamente invidiabile. Il valore del testo, indipendentemente dalle sensazioni individuali, sta proprio nella forma mai scontata, mai banale, attraverso cui l’autore riesce a consegnare al lettore una orribile favola moderna che affonda sì le radici nella terra grassa di un meridione antico e bigotto, ma che assume ben presto una validità e una contemporaneità che travalica qualsiasi collocazione geografica e temporale.

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“Una piazza, una chiesa, una drogheria, una macelleria, un bar, un forno, una scuola elementare, una scuola media, un’edicola, un ambulatorio medico, un ambulatorio veterinario, un negozio di vestiti e calzature a buon mercato, le case bianche e basse. E i vicoli. Dove le madri nei pomeriggi sonnolenti richiamavano i figli con voci lente e cantilenanti, e le vecchie di sera se ne stavano sedute sulle sedie, sulla soglia delle loro case, a sventolarsi pigramente col ventaglio, mentre i loro mariti passeggiavano con le mani incrociate dietro la schiena, ostinatamente, obsoletamente eleganti nel loro unico vestito, le facce serie e dure incise dal sole” (pag.12-13)

Si parla spesso di New Nature Writing declinato all’italiana. Ho la sensazione che “L’estate muore giovane” potrebbe esserne un buon esempio, perché mi pare che sia uno dei pochi testi che al momento comprende tanta parte di quello che si deve considerare  necessario quando si parla di NNW:

  • l’dea di una Natura sostanzialmente estranea, insensibile alle questioni umane, che tenta in ogni modo di riappropriarsi dei propri spazi, spesso utilizzando la violenza degli elementi che la compongono (o la forza della malattia, della contaminazione);
  • il topos del viaggio del protagonista che attraversa l’elemento naturale, estremamente contestualizzato, per giungere tuttavia non a una destinazione precisa ma a un non-luogo che crea percezioni alterate del sé e della realtà circostante;
  • l’archetipo dell’isola, dell’acqua (anche benedetta…) e di tutto quanto in essa nasce, cresce, vive e muore;
  • la presenza di un forte misticismo religioso (e qui non si può dire di più);
  • la riflessione sul linguaggio e sull’incomunicabilità verbale, sostituita da un sistema di relazioni che oltrepassa la razionalità e affonda nel mistero.

Buona lettura 🙂

In calce, un messaggio per l’autore – e per chi sa di cosa parlo. Ho avuto la fortuna di passarle tutte a nuoto, quelle insenature di cui parla Mirko Sabatino. Con le infradito chiuse dentro un sacchetto di plastica che legavo sulla schiena, ancorato alle spalline del costume. C’erano pesci piccolissimi che ci solleticavano le gambe abbronzate, c’erano le onde corte di scoglio, il rumore della risacca e una volta soltanto, di notte, il canto dei delfini. Quando non esistevano i barconi delle gite organizzate, quando ai ristoranti sui trabucchi ci potevi arrivare solo a piedi e mangiavi quel che ti veniva servito senza tanti complimenti, all’ora in cui voleva il padrone, non quella a cui volevi tu, e le mietitrebbia riposavano ancora in fondo al mare, adagiate sulla sabbia.

Photo credits: ADC, #nofilter.

 

“La grande cecità” di Amitav Ghosh (trad. di Anna Nadotti e Norman Gobetti)

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“In un mondo sostanzialmente alterato, un mondo in cui l’innalzamento del livello dei mari avrà inghiottito le Sundarban e reso inabitabili città come Kolkata, New York e Bangkok, i lettori e i frequentatori di musei si rivolgeranno all’arte e alla letteratura della nostra epoca cercandovi innanzitutto tracce e segni premonitori del mondo alterato che avranno ricevuto in eredità. E non trovandone, cosa potranno, cosa dovranno fare, se non concludere che nella nostra epoca arte e letteratura venivano praticate perlopiù in modo da nascondere la realtà cui si andava incontro? E allora questa nostra epoca, così fiera della propria consapevolezza, verrà definita l’epoca della Grande Cecità” (p18)

.1 Intro: di chi parliamo quando parliamo di Amitav Ghosh

Il saggio più recente di Amitav Ghosh, presentato in traduzione italiana il maggio scorso in occasione del Salone del Libro, è tratto da una serie di lezioni che lo scrittore indiano ha tenuto meno di due anni fa alla University of Chicago. Parlare di Amitav Ghosh significa avere a che fare con il più grande scrittore indiano di lingua inglese e con tutti i suoi romanzi, da “Il cerchio della ragione” (Garzanti 1986) a “Il paese delle maree” (Neri Pozza 2005) fino alla “Trilogia della Ibis” (Neri Pozza 2008-2015) – ma anche confrontarsi con un antropologo di formazione internazionale (nato a Calcutta nel 1956, figlio di un diplomatico, laureato in antropologia sociale a Delhi, specializzato poi a Oxford) un professore di scrittura creativa della Columbia University e columnist del New Yorker. Tutto questo insieme.

A parlare di #climatechange Ghosh ci arriva potremmo dire per caso(*), seguendo tuttavia un filo rosso che di casuale, come si vedrà, ha proprio ben poco. “Rifugiato ambientale molto prima che si coniasse tale definizione” (p10 – ndr: i genitori erano originari di un villaggio sulle rive del fiume Padma, nel Bangladesh, che all’improvviso deviò il suo corso e sommerse l’abitato), durante la stesura de “Il paese delle maree” mentre studiava approfonditamente l’ecosistema delle foreste di mangrovie che ricoprono le isole Sundarban, nel delta bengalese, venne a scoprire due fatti: il primo, che le modifiche geologiche a cui la zona era sottoposta stavano diventando sempre più irreversibili – all’interno di un sistema dinamico “che non si limita ad esistere, ma [è] esso stesso protagonista” (p12); il secondo, la sua totale incapacità di “tradurre in forma narrativa queste intuizioni(*)” (p13).

Da qui alla riflessione sul ruolo della letteratura contemporanea nel racconto dei cambiamenti climatici il passo è breve – ma consistente, perché “La grande cecità” non è altro se non la denuncia della più totale e completa disfatta del genere di fronte a quell’impensabile rappresentato oggi dal climate change.

“Sono arrivato a convincermi che le sfide che il cambiamento climatico pone agli scrittori contemporanei, per quanto specifiche sotto certi aspetti, siano anche dovuti a qualcosa di più antico e profondo; e derivino in ultima analisi dalla griglia di forme e convenzioni letterarie che hanno modellato l’immaginario narrativo proprio nel periodo in cui l’accumularsi di anidride carbonica nell’atmosfera stava riscrivendo il destino della terra” (p13)

.2 “La Grande Cecità: il cambiamento climatico e l’impensabile”

Nella prima parte del saggio, intitolata “Storie”, Ghosh si confronta con il concetto stesso di narrativa contemporanea e in special modo con quello di romanzo partendo da un insindacabile assunto: non esiste alcuna forma letteraria a parte la saggistica e la narrativa di fantascienza che ad oggi abbia affrontato con successo il tema del cambiamento climatico: “(…) se certe forme letterarie sono incapaci di vedersela con simili flutti, significa che hanno fallito, e i loro fallimenti dovranno essere visti come un aspetto del più generale fallimento immaginativo e culturale che sta al cuore della crisi economica” (p14)

Le motivazioni sono endogene e vanno cercate per Ghosh all’interno della struttura stessa del romanzo moderno che a differenza delle narrazioni antiche (dai poemi epici al “Le mille e una notte”) ha via via cessato di “compiacersi dell’inaudito e dell’imprevedibile” (p23) per rifugiarsi nella confortante, borghese presumibilità del quotidiano, “razionalizzandosi” (p26). Però, ahinoi, la verità è un’altra, perché “il romanzo moderno, a differenza della geologia, non è mai stato costretto a fare i conti con la centralità dell’improbabile” (p30). Fino a ora.

“(…) il calcolo delle probabilità è diverso a seconda che lo si faccia all’interno del mondo immaginario di un romanzo o fuori da esso; perciò si usa dire: – se questo accadesse in un romanzo nessuno ci crederebbe. Tra le pagine di un romanzo, un avvenimento non troppo improbabile nella vita reale (…) può apparire del tutto inverosimile, e lo scrittore dovrà mettercela tutta per sembrare convincente. Se ciò vale per i casi fortuiti, si pensi quanto più duramente dovrà impegnarsi lo scrittore per allestire una scena del tutto improbabile anche nella vita reale” (p31)

E che cosa c’è di più improbabile – e spaesante –  ai nostri occhi, del cambiamento climatico? Non per nulla Ghosh fa riferimento esplicito ai limiti che in questo senso ha irrimediabilmente incontrato la “scrittura ecologica“, mettendola di necessità in correlazione con un’altra questione: quella del #NewNatureWriting, e del #NewWeird (ndr: che non nomina mai esplicitamente).

La questione è complessa e interessa anche, ad esempio, la decontestualizzazione spaziale a cui è soggetta tanta parte del romanzo contemporaneo (quando invece “il senso del luogo è notoriamente una delle grandi magie della forma romanzo” – p68) verso cui invece il cambiamento climatico costringe nuovamente lo sguardo:

“A quanto pare, (…) gli eventi spaesanti e improbabili che battono alle nostre porte sembrano aver stimolato una sorta di riconoscimento, la consapevolezza che gli esseri umani non sono mai stati soli, che siamo sempre stati circondati da una molteplicità di creature che condividono con noi capacità che consideravamo precipuamente nostre: volontà, pensiero e conoscenza” (p38). (…) Tutto ciò fa dei cambiamenti climatici un soggetto particolarmente resistente ai consueti schemi che la letteratura applica alla Natura: sono troppo potenti, troppo giganteschi, troppo pericolosi e troppo accusatori per essere descritti in tono lirico, elegiaco o romantico. Anzi, proprio perché non appartengono interamente alla Natura (qualunque cosa essa sia), tali eventi mettono in crisi l’idea stessa di Nature Writing, o scrittura ecologica: sono piuttosto esempi della perturbante intimità della nostra relazione col non-umano” (p40)

“Proprio quando l’attività umana cominciava a modificare l’atmosfera terrestre, l’immaginazione letteraria cominciò a concentrarsi esclusivamente sull’umano. Ammesso che si scrivesse del non-umano, ciò non avveniva nella dimora della letteratura seria, bensì in quegli umili annessi dove la fantascienza e il fantasy erano stati esiliati” (p75)

.3 Climate change e climate fiction: il non-umano che c’è tra noi

E’ innegabile che la fantascienza resti forse il sottogenere “meglio equipaggiato” (p82) per affrontare il cambiamento climatico. “Dopotutto esiste ora un nuovo genere di fantascienza, la climate fiction (comunemente detta cli-fi) o fantaecologia, che però racconta soprattutto storie catastrofiche ambientate nel futuro” (p82) mentre il problema del raccontare il climate change è proprio quello che esso non afferisce né a mondi immaginati, né a tempi o luoghi altri da noi.

“Quelli che stento a trovare sono scrittori le cui opere di finzione trasmettano una comprensione più precisa dei cambiamenti in corso nell’ambiente. Fra i romanzieri di lingua inglese me ne viene in mente solo una manciata: JG Ballard, Margaret Atwood, Kurt Vonnegut Jr, Barbara Kingsolver, Doris Lessing, Cormac McCarthy, Ian McEwan e TC Boyle.” (p155)

Ma non solo. Ghosh pone l’accento anche su un’altra questione, ossia la perdita della dimensione collettiva in favore della “psiche individuale”:

“Così oggi, proprio quando si è capito che il surriscaldamento globale è in ogni senso un problema collettivo, l’umanità si trova alla mercé di una cultura dominante che ha estromesso l’idea di collettività dalla politica, dall’economia e anche dalla letteratura” (p91)

“Più la sfera pubblica diventa performativa, a ogni livello, dalle campagne presidenziali alle petizioni on line, più si affievolisce la sua capacità di influenzare il vero esercizio del potere” (p159)

e last but not least anche su quella del linguaggio (ndr: punto nodale anche della trilogia dell’Area X, per esempio), che di necessità deve essere ripensato sia dal punto di vista dell’interazione con il non-umano (“Sarebbe legittimo […dire che] il nostro pianeta è diventato il nostro interlocutore, e che pensa attraverso di noi?” – p94) sia rispetto alla necessità di un apparato linguistico congruo da parte dello scrittore, che torni ad avvalersi di immagini ed elementi pittorici – anch’essi da tempo eliminati dalla storia del libro stampato (e tornati in auge, in parte, attraverso l’exploit della graphic novel).

.3 Storia e Politica

La seconda e la terza parte del testo (“Storia” e “Politica”) affrontano più da vicino gli eventi storici ed economici che hanno fatto del continente asiatico un polo di importanza fondamentale per quel che riguarda il riscaldamento globale, dalle conseguenze del decolonialismo, tra cui l’impennata dell’industrializzazione, alla condanna di una sostanziale eurocentricità nell’analisi delle questioni relative al global warming (tra cui la spinosa applicazione di un’eventuale “giustizia climatica“). Un punto di vista quello di Ghosh interessantissimo proprio perché non proviene dal primo mondo e offre al lettore una visione altra, esterna, che lo caratterizza fin nei minimi particolari e ci costringe a una prospettiva nuova:

“Il fatto che all’interno dell’Anglosfera le idee liberiste siano ancora dominanti è cruciale per la crisi climatica. Smentendo l’idea che il libero perseguimento degli interessi individuali conduca sempre al bene comune, il surriscaldamento globale mette in crisi anche il sistema di credenze su cui si fonda un’identità culturale profondamente radicata. (…) Molta della resistenza alla scienza climatica viene da qui, e qui sta probabilmente il motivo per cui nei paesi dell’Anglosfera il tasso di negazionismo del cambiamento climatico è insolitamente alto” (pp166-167)

Ma parlare di storia e politica, avverte Ghosh, non sia escamotage per il rimpallo delle responsabilità individuali:

“Quando le generazioni future si volgeranno a guardare la Grande Cecità, certo biasimeranno i leader e i politici della nostra epoca per la loro incapacità di affrontare la crisi climatica. Ma potrebbero giudicare altrettanto colpevoli gli artisti e gli scrittori, perché dopotutto non spetta ai politici e ai burocrati immaginare altre possibilità” (p166)

.4 Bibliografia

Un’ultimo paragrafo per qualche osservazione sulle note alle tre sezioni, ricchissime di spunti bibliografici. Ecco qui solo degli esempi:

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(*) “Quando guardo il mio passato, ho la sensazione che il fiume incroci il mio sguardo e mi fissi negli occhi, quasi a domandare: mi riconosci, dovunque tu sia? Il riconoscimento segna notoriamente il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza. Riconoscere, pertanto, non è la stessa cosa che entrare in contatto per la prima volta, né abbisogna di parole: quasi sempre il riconoscimento è muto. E riconoscere non significa in alcun modo capire ciò che incrocia il nostro sguardo: la comprensione non ha alcun ruolo in un atto di riconoscimento. L’aspetto più importante del termine “riconoscimento” sta dunque nella prima sillaba, che rimanda a qualcosa di anteriore, una consapevolezza preesistente che rende possibile il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza: il riconoscimento avviene quando una consapevolezza anteriore balena dinanzi a noi, provocando un repentino mutamento nella comprensione di ciò che si ha davanti. Eppure quel baleno non può darsi spontaneamente; non può divampare se non in presenza del suo altro perduto. La conoscenza che ne risulta è dunque diversa dalla scoperta di qualcosa di nuovo: deriva piuttosto dal prendere coscienza di una potenzialità ancora inespressa” (pp10-11)

“Triste America”, di Michel Floquet

 

“Io arrivavo pieno di fiducia. Come quando si va a trovare la famiglia lontana. Tutti quei cugini che non si vedevano da anni, che si farà fatica a riconoscere, ma che sentiamo così vicini… (…) L’America è questo. Noi siamo convinti di conoscerla. Peggio ancora, crediamo che ci assomigli. (…) L’America è un mistero che ciascuno di noi vive a modo suo” (prologo)

triste_america_01Se volete capire qualcosa di più su Trump – non su cosa farà una volta insediatosi alla Casa Bianca, ma su come alla Casa Bianca ci è arrivato – dovete per forza leggere #TristeAmerica, reportage in quindici brevi capitoli scritto in tempi non sospetti (2016) da Michel Floquet, giornalista, anchorman di France Télévision 1 e corrispondente dagli States, in cui risiede da anni.

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"Questa vita tuttavia mi pesa molto", di Edgardo Franzosini

Il movimento è una delle questioni che più lo ossessionano. 
(Non è il solo in famiglia: il fratello Ettore ha una fissazione per la velocità, cioè per la forma più estesa e più esasperata del fattore movimento, mentre il nonno Giovanni Luigi si è lambiccato il cervello, sin quasi a perdere la ragione, attorno al fenomeno del moto perpetuo, un altro aspetto eccessivo, quasi inverosimile, del movimento).
 
1. da “Picassiette” a Bela Lugosi

La creatività visionaria del “Picasso delle stoviglie” Raymond Isidore, costruttore della cattedrale dei detriti di Chartres; le ultime ore di Béla Blasko (che la leggenda vuole esser spirato in volo di pipistrelli); l’accusa di stregoneria rivolta al Cardinale Giuseppe Ripamonti, famigliare di Federico Borromeo e prima fonte storica di Alessandro Manzoni: la verità è che Edgardo Franzosini ci ha abituati – per non dire incatenati – a un’arte della biografia che fa del fascino per il peculiare, lo strambo, il misterioso e in certi casi anche del grottesco la propria, principale caratteristica. Niente di più lontano, tuttavia (è bene sottolinearlo) da un certo tipo di non-fiction novel a cui le mode del momento cercano di inclinare il gusto del pubblico, solleticandolo attraverso il guilty pleasure della biografia romanzata.

2. “Uno snob, un ragazzino esile e timido, un uomo serio e contegnoso, una malinconica marionetta”
Franzosini, sempre attento alle testimonianze e meticoloso nella ricostruzione, decide di concentrarsi questa volta sull’affascinante figura di Rembrandt Bugatti (Milano 1884 – Parigi 1916), fratello minore del più famoso Ettore – fondatore della casa automobilistica omonima – scegliendo di raccontarne la vita, breve e indiscutibilmente freak, attraverso episodi succinti, sprazzi di luce a illuminare significativamente il buio di una personalità tormentata e soggiogata dall’estro artistico. Pochi, emblematici segnali luminosi contigui nel tempo, inframmezzati ad alcuni flashback dell’infanzia e della gioventù, il tutto strutturato nel tentativo di definire appieno la personalità di questo cosmopolita e raffinatissimo gentlemen, artista solitario e inquieto, contestualizzandola all’interno della cerchia familiare e soprattutto dell’entourage artistico di cui la famiglia Bugatti si circondava da generazioni.

Le difficoltà di salute, lo spettro della guerra, la fascinazione al limite del morboso per la scultura animalista, l’atmosfera decadente dell’ultima Art-Nouveau tra Milano, Parigi e Anversa: tutto collabora alla costruzione di un racconto suggestivo, tanto più attraente quanto più alta è la consapevolezza del lavoro accurato di ricerca e documentazione che lo sostiene e che ne testimonia la veridicità.

3. Materiali

“Le otiti croniche hanno reso Rembrandt quasi sordo. Un anno fa ha iniziato a sentire fitte dolorose, fischi, ronzii e la propria voce che gli risuonava nelle orecchie. I rumori hanno preso ad assomigliare tutti a un brusio. Riesce ancora a distinguere solo i versi degli animali – i barriti, i ruggiti, i nitriti – e al pensiero di questa cosa non può fare a meno di sorridere” (pag.11)

 

“Rembrandt si sente a proprio agio solo in mezzo agli animali, solo a contatto con quella comunità senza parole. Il giardino zoologico è la mia consolazione, ha scritto un giorno al fratello. Quando sono di fronte a loro e li fisso negli occhi, racconta alla madre, mi sembra, non metterti a ridere, di rendermi perfettamente conto delle loro gioie e delle loro pene” (pag.18-19)

 

 

“In compagnia di Albéric Collin e di Oscar Jespers, Rembrandt trascorre spesso il tardo pomeriggio e la sera seduto a un tavolo sulla grande terrazza dell’Hotel Weber. I tre scultori animalisti bevono assenzio, giocano a domino, chiacchierano” (pag69)

 

 

(Wikipedia)

“A sinistra si innalza un palazzo a grandi vetrate sormontato da due cupole: è il Feestpaleis, il Palazzo delle Feste. A destra una limonaia e, poco più avanti, un padiglione di legno circondato da lampioni, sedie e tavolini, sotto la cui tettoia sono disposti in cerchio dei leggii per gli spartiti musicali. Si alza un vento che fa cadere alcuni leggii, e intanto comincia una pioggia fitta e violenta. Rembrandt trascina la valigia sotto le gocce pesanti che gli entrano nel colletto della camicia e raggiunge un edificio dalla facciata vagamente moresca: è il Palazzo delle Scimmie. L’interno ospita alcune gabbie gigantesche in fondo alle quali si distinguono i profili scuri di parecchi primati. Le bestie strillano e si agitano, eccitate dal temporale” (pag.60-61)

“A Milano Bugatti si lascia andare al vuoto e alla noia. In città non c’è uno zoo, ma solo alcune gabbie sparpagliate qua e là per i Giardini Pubblici di corso Venezia, dove sono rinchiusi una giraffa, un leopardo, qualche cervo, una scimmia, alcune vecchie gazzelle” (pag95)

“Non sopporta più Milano. Ha l’impressione che sia questa città che gli impedisce di scuotersi di dosso l’estenuante tristezza e il disgusto che, dentro di lui, hanno sopraffatto qualsiasi altro sentimento” (pag96)

Buona lettura