“Il giudizio universale”, di Luc Lang (trad. Maurizio Ferrara)

“Quanto a me, credo nell’ira degli spettri all’approssimarsi della morte! «Così la notte fosse già venuta! Fin allora, tieniti tranquilla anima mia: le turpi azioni risorgono, benché tutta la terra le sopraffaccia, agli occhi degli uomini».”

Nel 1998 il romanzo “Mille six cents ventres” del quarantaduenne Luc Lang, scrittore e professore di estetica all’École nationale supérieure d’arts de Paris-Cergy, vince il Prix Goncourt des lycéens.

Creato nel 1988 da Fnac, rettorato di Rennes e accademia Goncourt, il premio Goncourt des lycéens viene assegnato annualmente da una giuria di circa 2000 studenti scelti fra tutte le scuole superiori francesi a partire dalla seconda classe e chiamati a votare l’opera preferita fra una lista di libri proposti dall’accademia Goncourt stessa. I volumi vengono distribuiti nelle scuole, senza distinzione d’ordine anzi includendo in maniera dichiarata e specifica tutti quegli istituti, tecnici e professionali, “notamment ceux les plus éloignés d’une culture littéraire” tra cui scuole francesi all’estero e, per dire, istituti penitenziari. Nel corso degli anni il Goncourt des lycéens è divenuto uno dei premi più ambìti nel panorama letterario francese1.

Milleseicento ventri” arriva da noi in Italia due anni più tardi, nel 2000, pubblicato da Passigli in traduzione di Maurizio Ferrara. La casa editrice decide di mantenerne il titolo originale che si riferisce – e qui sta il punto di questo giro introduttivo – al numero dei detenuti presenti fra le mura di Strangeways, il carcere cittadino di Manchester, al momento della rivolta dell’Aprile 1990.

Le proteste di Strangeways, con i detenuti in sommossa a denunciare le condizioni insostenibili della vita quotidiana all’interno della prigione, le vessazioni subìte dal personale, l’ingiustizia delle pene comminate (Strangeways in origine doveva essere un luogo di recupero per detenzioni non superiori ai cinque anni, ma poi – come prevedibile – divenne ben altro), diedero il via, in piena epoca Thatcheriana, a un fenomeno mediatico imponente le cui conseguenze furono una serie di rivolte all’interno di altri centri di detenzione fra Inghilterra, Galles e Scozia e svariate inchieste che toccarono punti nevralgici della struttura governativa dell’epoca2.

“Le ragioni invocate dai carcerati non sono del resto totalmente dei falsi pretesti”

Ricapitoliamo: uno dei più promettenti scrittori francesi, da poco professore di filosofia alla ENSAPC, sceglie di ambientare il suo quarto romanzo – quindi l’opera con cui o la va o la spacca – tra le casupole che compongono la zona suburbano/residenziale sorta alle pendici di uno dei penitenziari più problematici dell’intero Regno Unito, mettendo in scena, come su un teatro, uno degli episodi più drammatici di lotta sociale avvenuti in Gran Bretagna durante il governo di Margareth Thatcher: la rivolta di un manipolo di giovani uomini imbestialiti contro il sistema – perché di fatto la popolazione di Strangeways era composta per la maggior parte dai figli del sottoproletariato urbano fra abbandono scolastico, disoccupazione, microcriminalità e spaccio – chiusi in un carcere di massima sicurezza per reati di furto e ricettazione (“giovani che vanno dentro per una macchina rubata ed escono tossicomani”), costretti a condividere la cella con criminali della peggior specie in condizioni di detenzione disumane, abusi, malagiustizia. E in che modo decide di strutturare il racconto di questi venticinque giorni di sommossa, il nostro Luc Lang? Tramite la prima persona singolare, prendendo come protagonista uno dei residenti del quartiere: il sessantenne, raffinatissimo Henry Blain – proprietario di una delle casette più graziose del sobborgo, gran estimatore di donne e vini, mobili d’antiquariato e miscele di tè, nonché capocuoco della prigione di Strangeways e avvelenatore seriale dei detenuti; milleseicento ventri, appunto, su quali Blain regna incontrastato.

Fra spedizioni punitive – potenti lassativi nel minestrone dei carcerati giudicati maleducati o molesti, somministrazione di alimenti avariati a gruppi etnici di specifico taglio – e smerci di derrate consone in cambio di cibi etichettati come mangime animale, Blain da anni governa nell’ombra le cucine del penitenziario così come per anni aveva esercitato le proprie, disgustose perversioni sul personale delle navi da carico a bordo delle quali era arruolato. Abile manipolatore, malvivente astutissimo, meticoloso trafficante, Blain si ritrova al centro dell’azione che, come un miracolo letteralmente sceso dal cielo (i rivoltosi occupano i tetti, scagliando giù nella strada qualsiasi oggetto capiti a tiro: dalle pesantissime tegole di ardesia che vanno a infrangersi nei giardini delle casette fino a delicati e meravigliosi origami, farfalle che in mezzo allo spettacolo pirotecnico di lampeggianti, fuochi e sirene atterrano sulle teste del pubblico pagante), gli dà modo – unica volta nella vita – di autocelebrare pubblicamente il narcisismo patologico di cui è pregno: sfruttando l’indubbio vantaggio topografico, Blain apre la propria casa a cameramen e giornalisti che, previo pagamento, possono godere di una posizione di favore per riprendere gli scontri, nonché della testimonianza di un prezioso insider (che ovviamente se ne guarda bene dal proclamarsi parte del problema).

Riassumiamo (di nuovo): in Francia, un neoassunto professore universitario decide di giocarsi l’appena avviata carriera di scrittore mettendo insieme un romanzo basato su un fatto di cronaca dolorosissimo, che riguarda un Paese terzo e che ha per protagonista un lurido infame. Il romanzo tratta di violenza minorile, stupri, droga, delinquenza, abbandono scolastico, malattia mentale e femminicidio. Il libro esce, viene proposto a un pubblico adolescente/liceale – e vince il Prix Goncourt des lycéens.

“Louise sembra una zitella emancipata, sa quel che vuole, è lei a condurre il gioco, ma non è insensibile ai complimenti di un uomo. (…) Ha inoltre ritrovato in individui cosiddetti spacciati, lei predica fiduciosa, slanci di compassione verso gli altri, la natura umana è insondabile. (…) La compagnia di Louise un po’ brilla mi conveniva benissimo un attimo fa, ma davanti ai miei amici distinti ho una voglia quasi incontrollabile di schiaffeggiarla, un paio di sberle ben assestate, l’impronta viola della mano sulle guance bianche, si svegli dunque, si riprenda!”

Pausa – perché potremmo addirittura finirla qui, già sarebbe sufficiente (la domanda provocatoria potrebbe essere quale dei nostri attuali scrittori sarebbe in grado di osare tanto, ma ce la teniamo per un altro momento). Il punto in realtà è un altro e sta tutto nella figura di Henry Blain, che sotto la maschera di un’elegante normalità, fra aperitivi e merende nel salotto-tinello, nel profumo delle copertine di pellame pregiato con cui sono rilegate le edizioni dell’opera Shakespeariana di cui è avido collezionista, nasconde il più abominevole degli orrorie no, non stiamo parlando dei suoi maneggi avvelenati.

“«È un fior di donna, la sua fidanzata», mi confessano. «Sì, ma è di origine tropicale, ha sete e debbo innaffiarla spesso», rispondo per fargli piacere.”

Fra le meravigliose aiuole di aeonium e tillandisia, beloperona guttata, azalee e camelie che compongono il suo giardino – l’unico della strada a non essere invaso dai detriti di una vita ai margini e dai rifiuti della depressione economica, ecco sta lì, il raccapriccio mortale di un individuo scellerato rispetto alla cui moralità nessuno, nemmeno noi che leggiamo (con l’eccezione del pubblico femminile adulto, forse) avremmo potuto nutrire il benché minimo sospetto. Henry Blain è, in sostanza, l’uomo perbene: un vicino di casa un po’ fissato con l’ordine e la disciplina (“Dio solo sa quanto detesto che mi scompiglino le ondulazioni dei capelli pazientemente rifatte ogni mattina”), ma così premuroso all’occorrenza; il compagno di bevute forse un po’ eccentrico, ma a chi di noi, se ciucco tradito, non scappa lo sproloquio razzista e misogino? L’amante esigente, certo, ma così attento, e facile allo scatto d’ira ma figuriamoci, si pensi a cosa deve sopportare, poveretto, sul posto di lavoro e via così, con quei tratti che oggi nella neolingua si chiamerebbero red flag ma che nel linguaggio vecchio del racconto scritto bene entrano spogliati da qualsiasi orpello woke (linguaggio politicamente scorretto e scene triggering incluse) a indicare l’analisi sapiente dello scrittore sul tema del predatore sessuale – sul modo che ha di prendere di mira gli strati deboli del tessuto sociale mascherandosi da benefattore (allenatore, maestro, zio acculturato, metteteci chi volete), sulle maniere subdole che mette in atto al fine di penetrare la fragilità di donne scelte appositamente per la loro intrinseca debolezza.

Luc Lang, con una lingua colta e affilatissima e un sistema di romanzo a scene che prende a piene mani dal teatro antico, costruisce un giallo sociale che fa della normalità percepita il proprio cardine. La domanda, quindi, risulta ancora più delicata, spinosa da affrontare: se sia possibile, oggi, nel momento attuale, proporre un testo come “Il giudizio universale” al medesimo pubblico a cui era stato proposto vent’anni fa e se addirittura si dovrebbe sentire la necessità di proporlo, in tutto il suo scabroso e didascalico orrore di vomito e diarree, corpi mutilati e sangue, sciacallaggio mediatico e turismo dell’orrore – insomma nulla che non appartenga all’oggi – scrittore maschio bianco incluso che per altro afferisce a un sistema culturale completamente differente dal retroterra descritto (giusto per rimarcare bene il fatto che se uno è bravo a scrivere può scrivere della qualunque).

“Il giudizio universale” esce ora per Clichy, rivisto direttamente dall’autore nella traduzione – e la scelta di questo nuovo titolo è conveniente e adeguata, non solo perché riprende uno dei temi ricorrenti del libro, quello della differenza fra pena e giustizia, ma anche perché segna bene il riferimento a un aspetto interessantissimo della vicenda: la trasformazione finale del protagonista in un moderno Ebenezer Scrooge che, costretto a letto e divorato dalla febbre e dai sudori, viene visitato dagli spiriti degli orrori commessi, in una notte senza fine per la quale forse esisterà giustizia, ma non redenzione.

“I suoi capelli sono stringhe di cuoio, sembra che abbia passato sul viso un lucido da scarpe, quando ride le rughe e le guance scavandosi le screpolano la maschera, immagino la pelle lattiginosa di sotto. È sempre così arrogante, tende una mano verso di me, le sue unghie smaltate sono coltelli smisuratamente lunghi, dice: «Ricordati di Eleanor nel momento della tua caduta. Il tuo corpo non ha raggiunto il suolo ma si è già separato dal suo zoccolo, sta cadendo, le leggi della gravità sono più forti delle legge del tempo. Quando ti spappolerai, miscuglio di ossa e carne, pensa alla tua sposa davanti a Dio».”

Luc Lang non piace a tutti: è un autore che sceglie di trattare temi difficili utilizzando una scrittura raffinata e nello stesso tempo rarefatta, su cui occorre tornare più volte, e delle strutture temporali complesse, pluridimensionali, che necessitano di un impegno mentale importante. Non è certo uno scrittore della buonanotte, insomma. Eppure io lo trovo geniale: precisissimo nella forma, riduce all’osso le necessità del dire, strapazza il lettore, rendendolo allo stesso tempo dipendente dalle allusioni e dai sottintesi e libero di ampliare le proprie, personali riflessioni relative alla materia analizzata. In questo guinzaglio lungo, tirato e smollato con sapienza filosofica, nell’invenzione caleidoscopica di protagonisti grotteschi e disperati, esaltati o depressi, vittime e carnefici, ecco proprio lì sta per me il talento dell’autore.

  1. L’edizione 2023 appena trascorsa è stata vinta dalla scrittrice Neige Sinno con “Triste tigre” (di cui Neri Pozza ha giusto acquisito i diritti), un memoir in cui l’autrice francese trapiantata in Messico racconta le violenze sessuali e gli abusi domestici a cui fu sottoposta durante l’infanzia da parte del padre adottivo. ↩︎
  2. Ancora oggi, la Strangeways Prison riot è oggetto di acceso dibattito interno. ↩︎

“Kallocaina”, di Karin Boye (trad. Barbara Alinei)

“Sapevo che una volta, all’epoca dei civili, gli uomini dovevano essere attirati al lavoro e alla fatica dalla speranza di ottenere case più grandi, cibi più raffinati e vestiti più belli. Ormai non ce n’era più bisogno. L’appartamento standard – una camera per chi non era sposato e due per le famiglie – era più che sufficiente per tutti, dai più umili ai più meritori. I pasti della cucina condominiale nutrivano il generale come il soldato semplice. L’uniforme comune – una per il lavoro, una per tempo libero e una per il servizio militare o di polizia – era uguale per tutti, uomini e donne, di basso o alto rango, eccetto che per i distintivi di grado. Ma anche questi non differivano l’uno dall’altro per eleganza. Ciò che rendeva desiderabile un distintivo di grado superiore era unicamente il suo valore simbolico. Tale è il livello di spiritualizzazione.”

Poetessa di ampia produzione e scrittrice di cinque romanzi di cui “Kallocaina” è il più noto, Karin Boye nasce a Goteborg nel 1900; la famiglia si trasferisce presto a Stoccolma dove la Boyle, agevolata dal clima che si respira tra le mura domestiche, compie studi umanistici ed eterogenei che vanno dalla letteratura alle religioni orientali, dal greco antico al norreno. Durante gli anni universitari si unisce al movimento Clarté, le cui basi sono da ritrovarsi nel pacifismo e nella critica sociale socialista. Viaggia in Europa, visitando perfino l’Unione Sovietica e la Germania agli albori del Nazismo; nel 1929 si sposa con un collega di movimento ma divorzia poco dopo, a seguito di un percorso di psicoanalisi – altra materia di studio approfondito – che le permette di accettare la propria omosessualità, fino ad allora negata e repressa. Nell’aprile 1941, poco dopo aver completato “Kallocaina”, viene ritrovata senza vita, morta suicida, in un bosco di campagna non distante dall’abitazione che condivideva con un’amica malata di cancro, di cui si era innamorata e che da tempo accudiva.

Affrontare l’opera di Karin Boye significa immergersi in un mondo in cui le esperienze di viaggio, gli studi su materie specifiche e la vita privata dell’autrice si compenetrano in un sistema di pensiero attuale e composito. È in particolare il caso di “Kallocaina”, distopia da manuale perché recupera tutti i temi fondativi del genere, dalla critica sociale nei riguardi dei regimi totalitari fino al minimalismo della rappresentazione ambientale, e allo stesso tempo ne aggiunge uno specifico, di chiara influenza autobiografica: la necessità – che per Boyle non differisce da una volontà personale, autoimposta – di conformarsi a un modello sociale prestabilito tramite un quotidiano, controintuitivo e problematico processo di adeguamento.

In “Kallocaina” la rappresentazione finzionale di questo conflitto interiore nel momento esatto della sua nascita – la presa di coscienza della discrepanza – è affidata all’integerrimo Camerata Leo Kall, funzionario di una non ben identificata “Città Chimica numero quattro”. All’interno di questa megalopoli vige il sofisticato sistema politico dello “Stato Universale”, regime totalitario (di impronta prettamente socialista ma non scevro da alcuni elementi vicini al nazifascismo) che per tramite sia dei propri funzionari sia dei cittadini stessi, direttamente coinvolti nei processi quotidiani di gestione e controllo, domina l’intera collettività dal punto di vista politico, economico e sociale.

L’occhio del potere scruta ogni anfratto della vita individuale che, suddivisa in tempi di lavoro, svago e servizio alla comunità, è regolamentata in ogni aspetto e secondo rigidi protocolli di fruizione nel tempo e nello spazio. In particolare, la dimensione personale è limitata e ogni individuo è precocemente inserito nella collettività: ad esempio, le relazioni di coppia si basano su frequentazioni e matrimoni di fatto combinati e gli eventuali figli (ndr: Leo Kall ne ha tre) sono presto allontanati dal nucleo familiare per essere distribuiti fra le città dell’impero a seconda delle necessità governative – che prevedono anche l’addestramento militare, poiché l’impero è sotto costante minaccia da parte di altri regimi limitrofi.

“Dovresti ben capire che non è la mancanza di difetti che fa un buon compagno, e ancor meno l’irreprensibilità in quelle questioni in cui l’etica pubblica è ancora in elaborazione. No, la cosa più importante è la capacità di abbandonare il proprio punto di vista per abbracciare quello giusto.”

Malgrado le restrizioni, tuttavia, la vita sotto lo Stato Universale non viene percepita poi così disturbante o limitata – o almeno questo è ciò che appare: il sistema soddisfa tutte le necessità materiali, comprese quelle di vitto e alloggio, e a ciascun individuo sono assegnati, pur nei contorni di un principio di scelta oltremodo ristretto, un contratto di lavoro a tempo indeterminato e anche momenti di svago e di relazione più o meno in linea con l’interesse personale, che comunque viene agevolmente tralasciato in favore di un’ormai interiorizzata disposizione d’animo a favore del collettivo. Il potere governa con pugno di ferro ma o per deliberato calcolo o per inconsapevole inerzia tende a limitare gli interventi più invasivi: in questo modo le maglie vengono ad allargarsi e sono molte le situazioni in cui, pur nella restrizione, l’individuo riesce a gestire la propria quotidianità in maniera in un certo qual modo accettabile (relazioni extraconiugali comprese). Anche la pena, ove si riscontri una lieve infrazione, possiede spesso carattere simbolico e la giustizia viene applicata in maniera sostanzialmente corretta. Escludendo la perenne situazione di emergenza bellica – che alla fin fine potrebbe anche essere del tutto costruita ad arte, per quanto si mostra indeterminata e aleatoria – la vita dei cittadini dello Stato Universale scorre tranquilla e la popolazione, complice anche un assiduo lavoro di propaganda vòlto a magnificare il presente a fronte di un passato insalubre, violento e socialmente instabile, pare possedere un’opinione tutto sommato positiva, quando non apertamente favorevole e financo devota, come nel caso del Camerata Kall, nei riguardi delle strutture governative al rispetto per le quali viene affiancato un alto livello di responsabilità collettiva.

E difatti “Kallocaina” parte proprio da qui, dalla riflessione su quel che a lato pratico non manca ma di cui, in un modo o nell’altro, non si può fare a meno di sentire la mancanza.

“Rigettai con tutte le forze il pensiero della Città Deserta, forse non tanto perché fosse chimerica quanto perché era repellente. Repellente e al tempo stesso attraente. Mi ripugnava l’idea di una città – per quanto in rovina, squarciata dai gas e invasa da batteri, abitata da esseri asociali che vi cercavano il loro misero rifugio nascondendosi tra i sassi, perseguitati dall’angoscia e dal terrore, spesso vittime degli agguati della morte – una città dove comunque il potere dello Stato non arrivava, un territorio al di fuori della comunità. Ma perché attraente? La superstizione ha spesso un suo fascino, mi dicevo con sarcasmo. È uni scrigno nel quale si custodiscono come tesori le proprie illusorie tentazioni: il timbro profondo di una donna, il tremito nella voce di un uomo, un attimo, mai vissuto, di completa devozione, un riprovevole sogno di fiducia illimitata in un altro, la speranza di una sete saziata e di un profondo riposo.”

Il libro è strutturato come un lungo flashback in prima personasotto forma di diario dal carcere (e qui non si può rivelare la motivazione della prigionia, che copre per tutta la lettura del romanzo la funzione di efficace sistema “page turner”) nel quale il protagonista racconta le modalità attraverso cui, tramite i propri studi ed esperimenti, si imbatte una curiosa specie di siero della verità. Questa sostanza –brevettata con il nome dell’inventore, come si può intuire – una volta iniettata nei pazienti crea una sorta di trance durante in quale l’individuo non può esimersi dal rivelare ogni sentimento più recondito e quindi, va da sé, anche confessare eventuali momenti di debolezza, sconforto o franca ribellione nei confronti del regimeIl soggetto è spinto da un impulso irrefrenabile e disinibito a rivelare non solo accadimenti già avvenuti ma anche, e qui sta il punto, prossimi a compiersi, nella condivisione forzata non tanto di programmi già predisposti quanto di riflessioni e sentimenti ancora in bozza. L’invenzione viene brutalmente sperimentata su “materiale umano” e i volontari (in realtà cittadini che per mestiere hanno scelto il sacrificio estremo: una forma di lavoro, degna del massimo rispetto, che prevede la cessione del proprio corpo al regime per fini di sperimentazione) interrogati da un Kall incredulo, entusiasta ed efferato, si trovano ad ammettere ogni tipo di “delitto di pensiero”: dal desiderio di tradire il partner al senso di estraneità nei confronti del proprio mestiere, sino alla produzione di fantasie su un nuovo modo di concepire la vita personale, la famiglia o la società stessa. Naturalmente il preparato desta l’attenzione degli alti vertici e Kall assurge a inaudite vette di popolarità – salvo poi, come è possibile prevedere, cadere vittima del suo stesso sistema di delirio e mania di controllo nel momento in cui il dubbio comincia a erodere le sue personali, intime certezze: prima sui suoi collaboratori, poi sulla moglie e, infine, addirittura su sé stesso.

“Kallocaina” racconta un mondo al contrario – già solo per muoversi nella città pare sempre che occorra scendere, in un continuo di spazi chiusi fra ascensori e luoghi di scatole cinesi che assomigliano più al labirinto dei criceti che a un ambiente urbano – all’interno del quale il talento più ambito sembra identificato con la capacità di adattarsi, non certo con l’eccellenza individuale. Essa viene di riflesso poiché il principio dell’omologazione, giustificato per mezzo del bene collettivo, se ben attuato porta alla completa aderenza al regime, ossia all’approvazione da parte della comunità.

Il punto in realtà non è la messa in discussione di una sovrastante, malvagia struttura politica ma il comprendere cosa succede quando nella quotidianità viene a mancare il sentimento che deriva da un’azione unica, individuale, fatta – oseremmo dire – solo per sé. Ecco perché nel delirio indotto dal siero le cavie umane fanno riferimento non tanto a ipotesi di complotto e rovesciamento politico-militare come si aspettavano Kall e le autorità preposte ma a fantasie che insistono prima di tutto sull’intimità del quotidiano: vivere in un gruppo sociale scelto, altro da quello imposto, coltivando – guarda caso – discipline artistiche come la musica o il ballo (che ça va sans dire nello Stato Universale sono rigidamente proibite, se non nei limiti dell’utilizzo propagandistico), abitare nella Natura, al di fuori del contesto iperurbanizzato della città-trappola, e – addirittura – allevare i figli in piena autonomia decisionale, dando spazio a un rapporto genitoriale di lunga durata, empatico, costruito su misura, libero dai dettami imposti dal regime.

Cosa capiterà al Camerata Kall quando, terminata la dose di sonnifero mensile, pur senza essersi sottoposto al rito della Kallocaina verrà assillato – nel corso di notti sempre più inquiete – dalle medesime visioni apparse ai suoi pazienti? Fino a che punto siamo padroni del nostro pensiero? E fino a che punto, insomma, possiamo arrivare a negare noi stessi?

“Certo sapevo che ufficialmente ci veniva attribuito uguale valore che agli uomini, o quasi, ma un valore accessorio, in realtà, semplicemente perché potevamo mettere al mondo nuovi uomini, o nuove donne che avrebbero a loro volta messo al mondo altri uomini. (…) Le donne sono inferiori agli uomini, mi dicevo, non hanno altrettanta forza fisica, sono meno resistenti, meno salde di nervi sotto i bombardamenti e sul campo di battaglia: insomma, sono guerrieri e soldati meno validi degli uomini. Non sono che uno strumento per creare nuovi guerrieri. Che ufficialmente si attribuisca loro ugual valore è pura cortesia, lo sanno tutti, per farle contente e renderle compiacenti. Arriverà forse il giorno, pensavo, in cui ci si accorgerà che le donne sono superflue, il giorno in cui si potranno conservare le loro ovaie e gettare il resto nella fogna. Allora lo Stato potrà esser fatto di soli uomini, e non ci sarà bisogno di sprecare denaro per l’educazione e il mantenimento delle bambine.”

“Lenin ha camminato sulla Luna”, di Michel Eltchaninoff (trad. di Luisa Doplicher)

Art direction: Emanuele Ragnisco – Illustrazione in copertina: DR

“Verrà forse il dubbio se valga davvero la pena di interessarsi a questa piccola setta di pensatori e studenti esaltati, che vorrebbero sconfiggere la morte e invadere il cosmo. Non incarnano forse le derive peggiori del famigerato misticismo russo, mescolate all’utopia sovietica della creazione di un essere umano nuovo, alleggerito dal peso del passato? È possibile che sia così. Ma è innegabile che le speranze nutrite da questi uomini dimenticati, in parte, sono diventate anche le nostre. Non tanto in Europa, dove si guarda con sospetto al potere distruttivo della scienza e della tecnica, ma sull’altra sponda dell’Atlantico, soprattutto nella Silicon Valley. Oggi questo sogno di chiama transumanesimo.”

Nel 2018 Elon Musk, invitato a una tavola di discussione sul telefilm Westworld, richiama l’attenzione del pubblico su Konstantin Ėduardovič Ciolkovskij (1857-1935), filosofo, ingegnere, scienziato russo nonché padre della cosmonautica sovietica. Di famiglia povera e appartenente alla piccola nobiltà rurale (il padre era guardia forestale e amministratore locale), sordo sin dall’infanzia per via della scarlattina, dopo una formazione primaria da autodidatta frequentò scuole prestigiose e divenne insegnante di matematica e fisica, lavorando soprattutto sulla progettazione dei motori a reazione. Per volere di Putin, nel 2013 il suo nome fu utilizzato per ri-battezzare la città chiusa siberiana che secondo i faraonici progetti governativi russi dovrebbe (o avrebbe dovuto) sostituire il cosmodromo kazako di Bajkonur. Tuttavia pochi sanno che Ciolkovskij, insieme ad altri due esponenti della vita scientifica e intellettuale sovietica, il filosofo Nikolaj Fëdorovič Fëdorov (1829-1903), che intratteneva rapporti perfino con Dostoevskij e Tolstoj, e il mineralogista Vladimir Ivanovič Vernadskij (1863-1945) – che fra gli altri suoi studi si occupò di Biosfera e Antropocene – viene considerato l’iniziatore non solo dell’astronautica ma anche del pensiero cosmista russo.

“La più grande scoperta che forse avremo compiuto entro il 2001 è la possibilità di eliminare la vecchiaia (…). Troppa gente ritiene inevitabile il decadimento senile, e anche la morte stessa. Non è affatto vero, come ha scritto l’autorevolissimo scienziato russo Vasilij Kuprevič: «Sono sicuro che riusciremo a scoprire come disattivare i meccanismi che fanno invecchiare le cellule.»” L’autore di questo virgolettato non è Musk e nemmeno Putin: è Stanley Kubrick, intervistato da Playboy nel 1968, in occasione dell’uscita di 2001: A Space Odyssey.

Lenin ha camminato sulla Luna” è un ricco e variegato compendio di divulgazione filosofica. Michel Eltchaninoff, giornalista, docente di filosofia russa a Parigi nonché autore di “Nella testa di Putin“, attraverso una scrittura intensa e precisa ci invita ad approfondire il cosmismo russo, ossia quella corrente di pensiero filosofico che come un fenomeno carsico attraversa l’Unione Sovietica dagli ultimi decenni del 1800 sino a giorni nostri. Vale la pena, si chiede l’autore nell’introduzione, indagare il pensiero di questi sparuti esponenti, di questa tendenza di riflessione che alla fine non è mai nemmeno stata codificata apertamente, incastrata com’era fra l’esaltazione, l’abiura e le referenze interdisciplinari (dalla filosofia alla biologia, dalla geologia al misticismo religioso fino alla mistica di matrice ortodossa) che la caratterizzano? A quanto pare sì, dati gli aneddoti di cui sopra.

Attraverso la struttura classica della presentazione cronologica, quindi, Eltchaninoff ci prende per mano e ci conduce nel fantastico, caleidoscopico e sconcertante mondo di tutte quelle personalità sovietiche che – chi in qualità di scienziato, chi come esponente politico o militare, chi come religioso – hanno abbracciato una visione della realtà a cui afferiscono alcuni aspetti ben precisi, identificati come “elementi del cosmismo sovietico” ossia di quella forma di pensiero che si impegna a studiare e approfondire il concetto di interdipendenza fra esseri umani e cosmo, nella convinzione che l’essere umano possa essere in grado di determinarne e dirigere gli eventi di quest’ultimo. Detta così è riduttiva, poiché non si tratta di una teoria superomistica nella visione di un affrancamento individuale dai concetti del bene e del male ma di un legame tra specie umana e intero universo che nasce nientedimeno che dal misticismo religioso di matrice balcanico-asiatica: nel paese più esteso del mondo, “immensa pianura disseminata di chiese” che, nella tradizione bizantina da cui derivano, per struttura e iconografie testimoniano il legame unico e indivisibile tra cielo e terra, nasce e si sviluppa una speculazione filosofica nomade, che si nutre di eventi in grande scala, riflessioni di radicale ascetismo e feroce critica neoeuroasiatica all’occidente in qualità di luogo in cui viene “respinto ogni principio infinito” nel nome di un essere umano divenuto dio all’interno di una realtà priva dell’idea di dio.

Gli elementi fondativi del cosmismo sono vari e non posso prescindere dagli esponenti che di volta in volta li hanno approfonditi. Ecco perché “Lenin ha camminato sulla Luna” risulta in sostanza una piccola enciclopedia di nomi e relazioni fra le parti. Dalle lezioni di “umanità divina” di Vladimir Sergeevič Solov’ëv (1853-1900) alla monumentale, citatissima e proscritta (più e più volte nel corso dei decenni) “Filosofia dell’opera comune” di Nikolaj Fëdorovič Fëdorov (all’unanimità ritenuto il miglior teorico del cosmismo russo), figlio illegittimo del principe Pavel Gagarin nonché coltissimo bibliotecario del Rumyanzev, la più prestigiosa biblioteca moscovita, nella quale l’autore introduce il concetto di resuscitazione; dalla crioconservazione teorizzata da Leonid Borisovič Krasin, spregiudicato militare tra i più vicini ai vertici del potere bolscevico, dai raccapriccianti esperimenti sulle scimmie africane del biologo Il’ja Ivanovič Ivanov fino all’empiriomonismo anticapitalistico dello scienziato e pensatore Aleksandr Bogdanov – che scappato in Europa fra un’epurazione e l’altra si pregia di scrivere pregevoli romanzi di fantascienza socialista tra cui “La stella rossa” e “Ingegner Menni” e infine muore fra atroci tormenti nello scantinato di un inquietante palazzo principesco al centro di Mosca in seguito a un esperimento transumanista a cui si era sottoposto… insomma come vediamo ce n’è per tutti.

L’intento del transumanesimo, ricordiamo, è quello di “superare la natura umana nella sua finitezza tramite progressi congiunti di biologia, medicina, nanotecnologie, scienze cognitive e informatica” (Eltchaninoff, nell’introduzione). Che esistano delle convergenze evolutive fra cosmismo e transumanesimo è evidente, come altrettanto chiari sono i rapporti di reciproca conoscenza che i cosmisti russi – di fatto esponenti di certo livello intellettuale e respiro internazionale (in molte occasioni addirittura spinti dal regime all’approfondimento all’estero, ove e quando il cosmismo era considerato utile alla causa politica) intrattennero con la più quotata intellighenzia europea. Altrettanto chiare tuttavia sono le differenze fra i due movimenti, in specie quando si prende in considerazione l’ideologia libertaria del transumanesimo statunitense che, pur sempre a favore di una élite – non diversamente dal movimento sovietico – è in realtà fondato su una libertà individuale completa che spinge ad alcune conclusioni (auto-esclusione dalle imposizioni morali, emancipazione culturale) estranee ai cosmisti russi.

“Lenin ha camminato sulla Luna” è un saggio interessantissimo perché riesce a far luce su un aspetto della filosofia russa che, sebbene ancora privo di una trattazione sistematica, ha influenzato le scienze e il pensiero sovietico in maniera profonda e per certi versi ancora ignota. Per leggerlo occorre pazienza e metodo, poiché la divulgazione in ambito filosofico non può prescindere da una struttura che ha l’esigenza tecnica di rimanere accademica. Ma sarà tempo ben speso.

[Qui e qui alcuni articoli che su ADC hanno raccontato di transumanesimo. Potete trovare altro anche sul Twitter)

“Tornare a casa”, di Mark Boyle (trad. Carlo Branchini)

“Ero anch’io un ambientalista una volta, ai tempi in cui si trattava di difendere luoghi vergini e mondo naturale dall’incontenibile ambizione degli esseri umani, piuttosto che dal carbonio e da quella cosa oscura chiamata ‘sostenibilità’. Negli anni mi sembrava che gli ambientalisti si stessero sempre più preoccupando di addomesticare certi luoghi selvaggi, come deserti, oceani e montagne, per imbrigliare energia verde con cui rifornire il nostro stile di vita, in particolare di quello di una piccola percentuale degli abitanti del pianeta.”

Oh Mark, che pasticcio. E sì che eri partito così bene, con questa storia del ripensare al mondo in cui viviamo e farti giusto due domande su quell’assurdo controsenso dello sviluppo sostenibile.

[Un passo indietro.] Mark Boyle (Ballyshannon, IE, 1979) è un attivista, columnist e scrittore molto conosciuto in Irlanda e nel Regno Unito – malgrado abbia più volte dichiarato di non aver mai voluto intraprendere consapevolmente la carriera di divulgatore. . Già durante gli studi superiori comincia a interessarsi agli esiti, in specie locali, della globalizzazione e dell’ipertecnologia. Dopo aver conseguito la laurea in economia, ottenuta con successo seppur fra inciampi e occupazioni precarie, inizia a viaggiare e a lavorare nell’industria, anche per il comparto dell’alimentare biologico, maturando consapevolezza nei riguardi dei temi ambientali e dello sfruttamento delle risorse naturali. Sperimenta modi di vivere alternativi ed ecosostenibili sino ad arrivare, nel 2008, alla decisione di abbandonare completamente e per almeno un anno (che poi diventeranno tre) l’uso del denaro. Questa scelta susciterà scalpore e curiosità sia nel mondo dell’attivismo sia fra le gente comune tanto che Boyle da questo momento in poi verrà conosciuto come “the Moneyless Man” (l’uomo senza soldi) nonché fondatore della Freeconomy Community. Dal 2016 vive a Loughrea, un paese della contea di Galway, in una baita autocostruita e priva di strumenti elettrici. Non possiede interruttori né acqua corrente, si sostiene praticando raccolta, caccia, pesca – per le quali si serve unicamente di attrezzi manuali e a cui aggiunge una minima coltivazione – e utilizza il baratto e lo scambio di aiuto per recuperare ciò che gli è necessario ma non riesce a produrre in maniera autonoma. Per gli spostamenti, ridotti all’essenziale, utilizza bicicletta, autostop o mezzi pubblici. Accanto alla baita ha costruito The Happy Pig, una foresteria che è anche spazio eventi e sibin. Su richiesta del Guardian, dai primi dodici mesi di questa esperienza ha tratto un memoir: “The Way Home: Tales from a Life Without Technology”, appunto.

“Quando cammino di solito sono sempre alla ricerca: bacche, piante, chiarezza, o lezioni da tutti quegli esseri che non ricordiamo più come si ascoltano.”

“Il cacciatore-raccoglitore primitivo che è in me dice invece che dovrei ucciderlo e considerare il gesto come parte dell’unica cultura che per me abbia mai avuto senso.”

“Non sono sicuro di quando un’arte trascendente possa favorire una cultura più tangibile.”

[Ora torniamo a te, Mark.] Se ci si prende la briga di andare sul sito del The Guardian e sfogliare le centinaia di commenti che affollano ogni pezzo a firma Mark Boyle, possiamo trovare un po’ di tutto: c’è chi gli ride in faccia (effettivamente, Mark, un po’ l’aria da ultimo fricchettone ce l’hai, siamo onesti), chi non vede l’ora di crearsi la propria baita autoprodotta – meglio se nel giardino della casa di famiglia, chi gli rivolge con garbo domande interessanti sui temi pratici più scottanti (per esempio: se ti viene un ascesso a un dente come lo curi? E come ti lavi?) e infine chi tenta di riflettere sulla replicabilità dell’esperimento, sul target e pure sull’intrinseca fallacia del metodo. Sì, perché in realtà Mark Boyle, pur non dichiarandolo mai apertamente, fa proprie le linee di pensiero appartenenti a quel movimento che nel tecnico viene definito dell’Anarco-primitivismo. L’accademia pone tra gli antesignani di questa filosofia radicale H.D. Thoreau, che più o meno per primo teorizzò – e mise in pratica, anche se poi la biancheria la mandava a lavare a casa, ma sono dettagli – il ritorno a una vita di auto-sufficienza in ambiente naturale. Di base, il movimento anarco-primitivista auspica il recupero (ecco perché Boyle parla di “tornare a casa”) di uno stile di vita pre-civilizzato che si declina tramite alcuni punti fissi: il rifiuto della tecnologia, ossia di tutto ciò che è prodotto/funziona attraverso un interruttore, la deindustrializzazione, l’abbandono dell’economia in larga scala e l’abolizione delle strutture sociali basate sulla divisione del lavoro e sulla specializzazione delle competenze. Più nello specifico, possiamo dire che fulcro dell’Anarco-primitivismo è la critica a quel preciso momento dell’evoluzione umana in cui si passò dal nomadismo alla sedentarietà, o meglio ancora quando smettemmo i panni di raccoglitori/cacciatori per indossare la casacca da contadino – cioè… quando abbandonammo la wilderness (qualunque cosa essa significhi, il che non è poco).

“So bene che la coltivazione del cibo non è sempre stata così, ma l’agricoltura ha aperto la strada all’industria, e non c’è voluto molto tempo perché l’una sposasse l’altra”.

Letto in quest’ottica, “Tornare a casa” assume un significato ben preciso. Peccato che Boyle se ne guardi bene dall’avvertirci (in realtà qualche sospetto viene, ad esempio seguendo la scia dei testi fondativi che l’autore cita di tanto in tanto, però non è che siamo tutti esperti in materia), il che crea una serie di scompensi in fase di lettura per via di una certa sensazione di inganno latente. La vita che Mark Boyle sceglie per sé – va detto, l’intento non è quello di convincere né di provocare – è potente, per certi versi rivoluzionaria e in parte adottabile. Essa pone tuttavia dei dubbi che sono prima di tutto etici e che stanno alla base di tutte le critiche metodologiche rivolte appunto non alla persona Mark Boyle in quanto tale ma al movimento a cui Mark Boyle si trova ad afferire. Dimenticandosi di dichiararlo, Boyle crea uno scarto di giudizio, che dal metodo vira sulla sua persona, privandosi di focus – ed è proprio questo, caro Mark, ciò che personalmente non ti perdono.

[Concedetemi un approfondimento – riferimenti al testo inclusi.] Una delle critiche più diffuse è quella secondo cui il movimento faccia proprio un certo imperialismo culturale accompagnato dall’esaltazione quasi ascetica per il mito del buon selvaggio. Ironicamente, Boyle – in una delle sue tante invettive contro la contemporaneità disseminate fra i vari capitoli – utilizza proprio l’argomento dell’imperialismo culturale quale espressione della modernità attuale, da cui ça va sans dire desidera svignarsela. Con incredibile tempismo, inoltre, frammischia al memoir il racconto di un viaggio, fatto insieme alla fidanzata Kirsty durante il primo anno a Loughrea – nelle Blasket Islands, arcipelago del sud est irlandese e luogo di residenza di una enclave di grande interesse antropologico, culturale e linguistico, che fu fatto evacuare nel 1954 a causa delle condizioni proibitive in cui versavano i 170 abitanti, di cui Boyle non cessa di lodare l’estrema resistenza fisica e la grande solidità mentale (attribuendo la causa dell’evacuazione unicamente al danno sull’ecosistema causato dalla pesca industriale. Spoiler: sì ma anche no).

“Mentre sono fuori nel bosco, (…) tra alberi sospesi e rami rotti, e sego tronchi e sudo sette camicie, Kirsty è nella baita a preparare la cena. (…) Stiamo ricoprendo i ruoli tradizionali dell’uomo boscaiolo e la donna al paiolo? Sembrerebbe di sì, ma inconsapevolmente. Siamo entrambi liberi di fare qualsiasi lavoro di cui abbiamo voglia, semplicemente il più delle volte io preferisco andare a far legna e lei cucinare.”

” A trentott’anni il pensiero della vecchiaia è diventato più concreto, come se non fosse qualcosa che capita solo agli altri.”

“A una conferenza qualche di settimana fa qualcuno mi ha chiesto cosa farò quando sarò vecchio. Ho risposto che come tutti penso che morirò. Non desidero essere l’uomo che arriva sano in punto di morte, a ottantotto anni, attaccato a una maschera per l’ossigeno, spaventato dal lasciarsi andare, terrificato da cosa verrà dopo. Il rapporto che abbiamo con la morte modifica profondamente quello con la vita. È molto alto il rischio di vivere una vita lunga e malsana senza essersi mai sentiti vivi.”

L’altro punto comunemente sollevato da chi mette in dubbio le teorie anarco-primitiviste è legato alla questione della (in)coerenza. Ritorniamo a Boyle: in primis, il suo stile di vita è congruo, e questa evidenza è incontrovertibile, soltanto per individui in piena salute e giovani – o relativamente tali. Il ritiro Boyleano quindi possiede, di fatto, due fondamentali caratteristiche: è abilista e di impronta per certi versi patriarcale* (chiunque mi conosce sa che solitamente mi tengo lontana da certa abusata terminologia, eppure penso che in questo caso non ci siano aggettivi più opportuni); da ultimo, esso è – per stessa ammissione di Boyle – temporaneo e completamente reversibile.

Studi effettuati nel tempo hanno stimato che nelle società di cacciatori-raccoglitori poco più della metà della popolazione raggiunge/va i 15anni e che l’aspettativa di vita si colloca fra i 20 e i 35-37 anni. Per quanto riguarda le cause dei decessi, abbiamo 70% per malattie, 10% patologie degenerative, il resto distribuito fra incidenti/morte violenta. In “Tornare a casa” Boyle sorvola allegramente sulla questione delle cure mediche, salvo sottolineare in più punti l’utilizzo di metodi naturali, in specie erboristici, per la cura dei fastidi quotidiani. A patologie più gravi non accenna, lasciando intendere di non averne mai sofferto; né a quanto pare si è mai infortunato, ha avuto incidenti con animali selvatici o di rischio alimentare. Insomma sembra che a Boyle vada tutto bene: è un uomo sano, trae giovamento dalla vita all’aria aperta, da un’alimentazione di qualità, varia, proteica e primitiva (consumo di erbe spontanee, verdure e radici, selvaggina e crudi di pesce, interiora – zuppa di sangue di luccio compresa) e da rimedi naturali che mirano a mantenere il corpo in salute invece di curarlo quando malato. Le percentuali di cui sopra, tuttavia, ci raccontano un’altra storia, fatta di altissima mortalità infantile, decessi per parto, infezioni e traumi, una vecchiaia che comincia a 40anni, terza età non pervenuta. Boyle, insomma, rientra nella percentuale di quelli che per ora ce la fanno e ci fa credere che ciò avvenga in virtù della vita che ha scelto – ma ciò è vero solo in parte poiché il suo punto di partenza non è il medesimo degli antenati a cui vorrebbe riferirsi: per esempio, nell’infanzia non ha certo sofferto di malnutrizione, avrà sicuramente ricevuto cure dentistiche, gli saranno state somministrate vaccinazioni – se non a lui direttamente, per lo meno a molti del suo gruppo sociale -, anti-infiammatori e antibiotici (“medicine industriali”, le chiama lui).

Checché ne dica, insomma, quello di Boyle non è tanto un ritorno a casa quanto un pacchetto-viaggio acquistato con assicurazione sanitaria base e biglietto di ritorno inclusi. Il punto è però ancora un altro: in una delle interviste rilasciate ai media nel corso di questi anni, Boyle racconta i suoi dubbi non solo riguardo l’utilizzo di apparecchiature mediche ma anche nei confronti della genitorialità: veniamo a sapere che, contro il parere di familiari e sanitari, a trent’anni decise di farsi sterilizzare, poiché di bambini da regalare al nostro mondo così malato non ne voleva sapere. Nell’economia di pensiero di Mark Boyle, insomma, le persone anziane o disabili sarebbero una rarità e non non si capisce bene cosa bisognerebbe farne dei bambini – e quindi di tutte le criticità, le sfide e i bisogni di chi copre il ruolo di caregiver (tra i quali inserisco anche i maestri di scuola). Nella società pre-industriale a cui Boyle agogna non esiste né ascensore sociale né emancipazione dalla famiglia di origine, poiché ognuno sta dove è nato e con chi è nato, facendo il mestiere che ha sempre fatto e che farà per sempre. E a quanto sembra non esisterebbe nemmeno l’autodeterminazione della donna nella gestione del proprio corpo (come evitare di concepire bambini senza anticoncezionali chimici o meccanici… questo resta un mistero che Boyle si guarda bene dall’affrontare) né del proprio ruolo all’interno del gruppo sociale**.

[Concludiamo, ché l’abbiamo già tirata in lungo.] Insomma, “Tornare a casa” è presentato come un testo vòlto a rilanciare la riflessione sul significato che attribuiamo all’espressione “qualità della vita”, sviluppando un pensiero critico e consapevole su concetti quali la mutua collaborazione e l’egualitarismo. Ce la fa? No – o meglio sì, ma solo in parte, proprio perché l’appartenenza o quanto meno la simpatia di Boyle verso il particolare modello culturale dell’Anarco-primitivismo viene taciuta. E quindi, Mark, se tutta ‘sta manfrina l’avessi scritta a capo del libro ci saremmo risparmiati della gran fatica e ne avremmo guadagnato un poco in onestà intellettuale – e, da’ retta, il tuo racconto non avrebbe perso né in freschezza, né in riflessione, né in capacità di stimolare nel lettore un ragionamento autocritico.

“(…) non appena il giornalismo diventa un concorso per la popolarità e premia il sensazionalismo, il pensiero di gruppo e l’inganno piuttosto che l’onesta esplorazione di argomenti complessi, ecco che a perdere sono i luoghi e le persone, e i vincitori coloro che dovrebbero essere giudicati. Di una vittoria poco lungimirante.”

Note: se volete saperne di più sull’Anarco-primitivismo, qui un approfondimento uscito per Il Tascabile alcuni anni fa (a firma Andrea Daniele Signorelli). L’intervista in cui Boyle racconta della vasectomia ed espone in maniera un poco più strutturata i suoi dubbi nei riguardi della “medicina industriale” e sulla apparecchiature mediche è qui, sul The Guardian (commenti inclusi). * Sì, lo so che gli studi sembrano confermare una certa prevalenza di strutture matriarcali all’interno delle comunità di cacciatori/raccoglitori. Bisognerebbe quindi chiedere a Boyle come mai lui sembri propendere, in certi punti, per il contrario. **Sì, lo so che una delle contro-critiche che il movimento rivolge ai delatori è la tendenza a giudicare un modello del passato utilizzando sistemi di pensiero moderni. Che però l’emancipazione femminile passi anche dall’autoderterminazione sul proprio corpo e sul proprio ruolo dentro e fuori dal nucleo familiare, possiamo considerarlo le basi, ve’?

“Anime selvagge”, di Emma Marris (trad. Michela Guardigli)

Longoform: tempo di lettura 12 minuti

“In questo viaggio impiego gli strumenti della filosofia per capire cosa dovrebbero fare gli esseri umani nei confronti degli animali selvatici. Quindi occorre saper argomentare in modo chiaro e convincente a favore del valore delle specie, se mi accingo a sostenere che è moralmente giustificabile fare del male, uccidere e compromettere l’autonomia di creature senzienti per salvare la specie.”

Cosa significa oggi parlare di “natura incontaminata” o di “specie nocive“? Ha senso ragionare di tutela della biodiversità riferendoci a mondi che per migliaia di anni sono stati plasmati dalle popolazioni che li hanno abitati? Qual è la nostra responsabilità etica nei confronti degli “animali selvatici” il cui habitat e le cui traiettorie evolutive abbiamo contribuito a modificare?

La giornalista scientifica Emma Marris (pluripremiata divulgatrice, con articoli apparsi su National Geographic, the Atlantic, the New York TimesWired) comincia da questa manciata di scomode domande – in realtà già argomento del suo primo libro (“Rambunctious Garden: Saving Nature in a Post-Wild World”, inedito qui in Italia) – per definire ancor meglio, in questo secondo testo che si vorrebbe dire programmatico, la propria visione nei riguardi della spinosa questione del conservazionismo. Come spiega l’autrice stessa, la “biologia conservazionista” è quel campo scientifico nato nel 1985 che a differenza dell’ecologia, sua “disciplina madre”, “ha un programma esplicito: salvare le specie“; se l’ecologia “cerca semplicemente di descrivere i meccanismi del mondo vivente”, il conservazionismo, racconta Marris, “poggia su valori morali “, ha una “base etica” e gli scienziati che ne sono fautori “non si limitano a studiare cosa sta accadendo, ma forniscono raccomandazioni su cosa dovremmo fare.”

Lo strumento che Marris utilizza per questa analisi è il confronto diretto, sul campo, con le figure di spicco attive nelle pratiche conservazioniste o che, al contrario, a esse si oppongono. Si tratta – è bene sottolinearlo – di eminenti scienziati, biologi di pluriennale esperienza, responsabili di gruppi di ricerca o di progetti di tutela ambientale nelle più remote aree del pianeta Terra. Dopo una premessa di carattere filosofico tesa a indagare e cercare di definire i quesiti morali che ci portano a determinare di volta in volta la validità – o la necessità – di un intervento di tutela ambientale, Marris ci trascina in un lungo e affascinante viaggio nello spazio e nel tempo terrestre, alla scoperta delle radici e delle conseguenze di quel dualismo uomo/natura che tanto appassiona noi occidentali categorici – e dei tanti danni di cui questa “narrativa ambientale misantropica” si è resa responsabile, dal concetto di “contaminazione genetica” a quello della “sfumatura morale” del pensiero occidentale contemporaneo nei riguardi della tutela ambientale.

“La cultura occidentale ama notoriamente le categorie, in particolare i dualismi. Uomo e natura, Oriente e Occidente, selvaggio e addomesticato. Il modo in cui affrontiamo la prospettiva di una cane lupo in natura evidenza il nostro profondo disappunto quando i binarismi si incrinano o si confondono. (…) Se gli umani sono cattivi per definizione, il rovescio della medaglia vuole la natura buona per definizione. È per questo che vediamo l’aggettivo _naturale_ appiccicato alla nostra colazione, al nostro shampoo, al nostro sapone per i piatti.”

Insomma, le definizioni correnti di selvaggio e di area incontaminata partono dal presupposto che l’uomo non faccia parte della natura, dando anzi per scontato che qualsiasi presenza o azione umana in natura consegni all’ambiente lo status di meno selvaggio. In realtà, come racconterà Marris proponendo esempi concreti e testimonianze, che la presenza umana su un dato territorio sia sempre e comunque non pertinente è questione ancora tutta da dimostrare (mentre in più di un’occasione è capitato proprio il contrario). L’autrice si spinge anche oltre, prendendo posizione nei riguardi di un sistema di analisi i cui risultati, in termini di definizioni, si possono dire non solo “ascientifici” ma addirittura “dannosi” poiché si fondano su fallacie metodologiche: prima di tutto è un fatto che uomini e organismi vivi si influenzino tra loro da millenni, in un rapporto difficilissimo da districare; in secondo luogo la retorica della natura selvaggia viene spesso utilizzata per giustificare interventi di impronta colonialista (pensiamo alle terre espropriate ai nativi americani nell’errata convinzione che fossero incurate ma anche alle attuali pratiche di eradicazione di specie allogene nelle isole della Nuova Zelanda, dai nativi considerate irrispettose delle tradizioni locali). Da ultimo, “pensare che natura ed esseri umani siano incompatibili rende impossibile far rivivere o scoprire modi di lavorare con e all’interno della natura, per il bene comune” e di fatto in alcuni contesti elude l’analisi e la presa di coscienza sui temi dello sfruttamento del territorio.

“Un assioma conciso non sempre è sinonimo di un sistema etico a prova di proiettile.”

La disanima del dualismo uomo/natura passa anche, nel testo di Marris, da un attentissimo focus sul linguaggio, nell’organizzare un sistema che per esempio sostituisce – almeno nei contesti tecnici – “naturale” con “disabitato” o “all’aria aperta” e “stato selvaggio” con “non destinato all’uso umano” o “ambiente non costruito“; in sostanza, l’autrice pone sotto inchiesta il “culto quasi religioso della natura e della selvaticità” a cui dovrebbe sostituirsi un approccio costituito da due particolari “impegni”: la prosperità degli esseri viventi (che comprende la loro autonomia) e l’umiltà, a cui segue il principio di moderazione, da parte degli esseri umani.

“Sostenere che i bisogni e i desideri umani non devono travolgere quelli di altre specie [è] un concetto ben diverso dal sostenere che gli esseri umani devono essere estirpati come una massa cancerosa da qualsiasi ecosistema che porta le nostre tracce.”

Interrogandosi sul concetto di tutela della biodiversità, che riconosce come corretto, Marris tuttavia mette in discussione i mezzi utilizzati a questo fine, rispetto ai quali occorre domandarsi “se ci siano dei limiti a ciò che siamo disposti a fare“.

In primo luogo (1) Marris si focalizza sulla pratica dell’allevamento in cattività di specie a rischio d’estinzione (fedele all’intenzione programmatica di portare a tema alcuni casi pratici, dedica un capitolo intero, per esempio, alle vicende di recupero e reintroduzione in natura del Condor della California), processo che non esita a definire “un esercizio di dominazione totale” che, seppure efficace – a volte, non sempre -, occorre giustificare alla luce di un certo numero di valori. L’altro nodo programmatico del testo è difatti il recupero e la ricollocazione del termine specie all’interno di un sistema di valori definito “etica ambientale” e di una prospettiva di studio che deve di necessità abbandonare il punto di vista antropocentrico e far buona pratica nella distinzione tra valore strumentale e valore finale – a sua volta soggettivo oppure oggettivo – di ciò che chiamiamo specie, sempre che sia possibile provare che “specie ed ecosistemi abbiano un valore finale oggettivo”. Uno dei punti critici del conservazionismo infatti è il concepire la specie come un “fermo immagine” e la biodiversità come la presenza di un certo numero di specie “fotografate” in un dato momento (ndr: che spesso tra l’altro è l’attimo in cui l’esploratore bianco sbarca sull’isola incontaminata e prende nota sul suo taccuino di quanto vede e sente). Si tratta quindi di un “restauro ecologico” vòlto per certi versi a emulare un passato comunque non più antico di 12mila anni fa (ossia relativamente giovane, perché “nessun ecosistema, definito dalla composizione delle sue piante, ha più di 12.000 anni”), che rivela incrinature nel momento in cui per esempio ci si trova a lavorare su spostamenti avvenuti in epoche così lontane de rendere impossibile estrapolare quelli derivati dall’influenza umana (l’albero di kukui, simbolo delle Hawaii, è un esempio). Conservare le specie tuttavia (2) significa anche eliminare gli intrusi, perché per i conservazionisti l’atto di rimozione di una specie non ha come fine il famoso viaggio nel tempo di cui sopra ma l’arresto di una o più estinzioni. Seguendo il filo rosso tracciato da Marris viene facile a questo punto ripensare alla serie televisiva Dark, nella quale ogni personaggio, spinto dal desiderio di tornare alla condizione precedente, operava modifiche nel continuum spazio-tempo che favorivano il proprio destino ma che andavano a danneggiare irreparabilmente la linea temporale di qualcun altro, giudicata minoritaria. Ciò che succede in Dark è esattamente quello che capita all’interno di contesti ambientali in cui venga determinata la necessità di distinguere tra esseri viventi non umani nativi e allogeni, peggio ancora nel caso in cui si venga a contatto con soggetti ibridi, che in questa fase evolutiva del nostro pianeta non sono rari. “I confini tra le specie possono essere labili” – avverte Marris – tanto che a volte esse sono più “concetti umani” che una realtà biologica. Spoiler: in Dark alla fine il bene trionfa, nei processi di eliminazione di specie un po’ meno, tra i patimenti orribili sopportati dai roditori avvelenati con il brodifacoum, le proteste degli abitanti di alcune isole neozelandesi secondo i quali l’eliminazione delle “specie invasive” (ritenuta per altro appropriazione culturale dato che per i nativi la caccia di alcuni animali ha valore rituale) di fatto copre le nefandezze dello sfruttamento intensivo del territorio, e la necessità di una biosicurezza intesa come una “vigile sorveglianza” inapplicabile nella pratica quotidiana. Per non parlare delle conseguenze ecologiche impreviste e potenzialmente catastrofiche (si veda l’infestazione di cespugli di more selvatiche sull’isola di Santiago) di un’eliminazione abborracciata.

“Quando siamo tentati di impedire il cambiamento di una discendenza o di evitare l’ibridazione delle specie, dobbiamo chiederci: stiamo davvero preservando la biodiversità con questi interventi, o la stiamo ostacolando?”

La pars destruens del saggio di Marris è corposa, come si vede. L’autrice si dice ancora nel mezzo delle riflessioni alla ricerca di una mediazione costruttiva che riesca a minimizzare il “residuo morale” e a coniugare il rispetto del “diritto alla sovranità” che ogni essere vivente non umano possiede con la responsabilità collettiva (perché va detto, di danni noi umani ne abbiamo fatti parecchi), nell’intento di costruire “narrative in alternativa”, in reciproco vantaggio. Se poi questo intento passi dalla teoria della “conservazione compassionevole” (che già si oppone concretamente alla biologia conservazionista ma che fatica a imporsi per via dei costi altissimi e dello scarso impegno delle istituzioni) o dalla manipolazione genetica – con le criticità che questa metodologia porta con sé, uplifting fantascientifico compreso, questo è ancora tutto da vedere.

“Anime selvagge” appartiene al genere della narrative non fiction ma, per temi e linguaggio, afferisce anche all’universo della saggistica tradizionale: abbiate quindi cura di dedicare a questo testo dei momenti di lettura attenta e meditata.

“Côte d’Azur”, di Mary S. Lovell (trad. Maddalena Togliani)

Articolo di media lunghezza; tempo di lettura: 10 minuti.

“La villa, candida e bassa, era incassata tra le rocce integrandosi perfettamente nel paesaggio circostante, e gli ospiti che guardavano fuori dalle finestre o uscivano sul balcone privato della loro stanza avevano l’impressione che fosse sospesa sul mare blu. La piscina, considerata la più bella della Riviera, si trovava in una vasca che era stata scavata nella roccia con l’esplosivo, ed era dotata di uno scivolo che permetteva ai bagnanti di arrivare giù, nel mare sottostante, e nuotare fino a una piattaforma un po’ più al largo. L’enorme terrazza tra la casa e la piscina era il cuore di quasi tutta la vita sociale, e a ciascuna estremità una scalinata curva di pietra scendeva alla piscina. Furono installate tende parasole avvolgibili, affinchè i tavoli da gioco offrissero agli ospiti una luogo ombreggiato dove bere e giocare a carte – bridge, bazzica a sei mazzi – o backgammon.” (pag86)

La storia dello Château de l’Horizon, meravigliosa villa bianca art déco che negli anni ’30 la celebre attrice Maxine Elliott fece costruire per sé e per i suoi ospiti facoltosi sulla Riviera francese, nel comune di Vallauris, è una biografia corale. Le pagine di questa vita favolosa, raccontata dalla scrittrice e biografa Mary S. Lovell (“Straight On Till Morning: The Life Of Beryl Markham”, “Le sorelle Mitford” – Neri Pozza 2017, e altri ancora) si strutturano per capitoli in ordine cronologico, ciascuno dei quali segue un singolo, un paio o addirittura una famiglia di protagonisti della vita sociale e politica dell’epoca le cui esperienze si sono trovate, per svago o per necessità, a incrociare quelle dello Château.

E così, se nei primi capitoli assistiamo alla fulgida ascesa di Jessie Dermot (Rockland, Maine, 1868) in arte Maxine Elliott – attrice di fama internazionale per via della dedizione al proprio mestiere, la capacità espressiva, la bellezza dello sguardo – che al culmine del successo e guidata da un intuito non comune acquista una porzione di terreno impervio e roccioso a picco sul mare della Riviera per costruire la sua esclusiva residenza estiva, nelle pagine successive vengono raccontati le vite, gli amori e l’impegno politico dei tanti aristocratici inglesi parte dell’entourage di cui la socialite Maxine – sfidando tutte le regole non scritte della nobiltà britannica – era riuscita nell’impresa di circondarsi e che presero parte alla prima guerra mondiale.

La parte centrale della narrazione è quella più corposa forse anche per via della mole, sia quantitativa sia qualitativa, di materiale a cui Lovell è riuscita ad accedere: in questo microcosmo relativamente piccolo ma estremamente autoreferenziale e prolifico di rapporti reciproci assicurati dalla parola scritta, la pratica della biografia, del diario e del memoir crea una fitta e dettagliatissima rete di rimandi. Elencare qui i personaggi raccontati o semplicemente citati dalla Lovell è di fatto impossibile (basti pensare che l’indice dei nomi a fine volume si compone di 10 pagine). Si va dalle amiche più intime Elsie de Wolfe ed Elsa Maxwell, alle socialite e “cortigiane” più discusse (una su tutte Doris Browne Castlerosse, nata Delevigne – prozia di Poppy e Cara), fino agli esponenti della più elitaria politica britannica, come Winston Churchill che fra le stanze soleggiate e ariose dello Château condivise con l’amica Maxine tanta parte della propria dimensione sociale, in specie durante i rovesci professionali, in un arco di tempo lungo decenni.

Alcuni capitoli sono quasi interamente monografici, come quello dedicato appunto a Churchill o alla coppia Wallis-Duca di Windsor (per anni stabili residenti in Riviera), al principe Aly Khan (che acquistò lo Château alla morte della Elliott), a Rita Hayworth. Il testo è una miniera inesauribile di aneddoti e curiosità ma anche uno strumento utile se si desidera approfondire in maniera agile le dinamiche personali, familiari, sociali ed economiche che hanno influenzato, per non dire governato, tanta parte della Storia inglese e americana – ma anche europea – del primo novecento sino alla fine della seconda guerra mondiale.

Quello frequentato da Maxine Elliott era un corpo sociale elitario molto coeso, profondamente snob e classista, al cui interno si consumavano ferocissimi micro-conflitti ad alta e bassa intensità (una scenata tra amanti poteva durare dieci minuti, un bisticcio tra famiglie decadi intere), fra tradimenti reciproci, maldicenze e pettegolezzi, figli illegittimi dati in adozione, cresciuti dalle governanti in luoghi appartati, spediti in collegi svizzeri prestigiosissimi, nel nome della sempiterna lotta tra chi la ricchezza la possedeva grazie al titolo e chi tramite la tanto vituperata attività imprenditoriale.

“(…) Winnaretta Singer, figlia del magnate americano delle macchine da cucire. Lesbica dichiarata e generosa mecenate degli artisti, la “principessa Winnie” (…) nel 1893 sposò per il titolo il principe Edmond de Polignac, anch’egli omosessuale, in un matrimonio di facciata. (…) Conscia di essere considerata un’arrichita dal gratin di Parigi, Winnie aveva però la sicurezza in sé delle persone ricchissime. Quando una duchessa cercò di umiliarla, dicendole con arroganza: “Il mio nome è migliore del vostro”, Winnie ribatté: “Non in calce a un assegno.” (pag74, in nota)

Un corpus sociale falcidiato dalla spiccata bellicosità intestina che tuttavia, come accade a tutte le élite, non esitava a riunirsi sotto la stessa egida nel momento in cui situazioni esterne venivano a minacciare lo status del gruppo inteso, per una volta, come collettività.

Le pagine di “Côte d’Azur” sono molto dense e malgrado l’opera sia presentata come una narrative non fiction adatta alla fruizione di un pubblico ampio, la quantità di informazioni e riferimenti è tale da rendere necessaria una lettura attenta e ponderata anche perché tra titoli nobiliari, nomi d’arte e nomignoli, secondi e terzi cognomi acquisiti o persi in conseguenza di matrimoni, divorzi e nuove unioni, seguire le vicende dei protagonisti diventa effettivamente impegnativo (a ciò bisogna aggiungere anche la lettura delle note sia a piè di pagina, contrassegnate da asterischi, sia per tramite dei rimandi bibliografici numerati in fondo al volume). Sebbene Mary S. Lovell tratti la materia con evidente competenza frutto della sua esperienza pluriennale nell’arte della biografia, l’impronta che tende a dare al volume è, in certi casi, personale – e quindi discutibile. Come per esempio nei punti (confronta Twitter per approfondire) in cui pare negare a bella posta, consapevolmente, le simpatie naziste – che sono ormai da anni un fatto di pubblico dominio e documentato – dei duchi di Windsor, dipingendo Edoardo VIII come un nobiluomo un po’ tontolone, ignaro delle conseguenze a cui avrebbero potuto condurre le visite in Germania, le cene all’ambasciata tedesca a Parigi, il saluto nazista riservato a Wallis e le selezione che la moglie operava nei confronti della servitù di casa (tutti alti, biondi e vestiti di nero*). Medesimo inciampo nella gestione della figura di Churchill: nei capitoli che lo riguardano la Lovell si impegna a presentare un punto di vista non lontano da un certo favoritismo, con una narrazione di alcuni controversi avvenimenti privati** e familiari che, seppure scevra di giudizi morali, è evidentemente inficiata da un sentimento di ammirazione che non consente una completa imparzialità.

In generale, se certe riprovevoli azioni dei protagonisti maschili vengono spesso presentate come coerenti nell’intento o in un certo senso giustificate in nome dei costumi dell’epoca, non così si può dire per le figure femminili, di cui talvolta si tende a sottolineare la spregiudicatezza intesa come scelta consapevole e non come ovvia conseguenza di una sottomissione sistemica e di una dipendenza economica impossibile da eradicare. Non mancano certo le prese di coscienza o gli atti di ribellione da parte di donne coraggiose ma restano casi isolati che per altro vengono presentati come esempi di emancipazione ma che in realtà, a ben guardare, sono frutto del privilegio economico e sociale.

Probabilmente per molti lettori le parti più interessanti restano quelle in cui Lovell racconta la Riviera del dopoguerra e in specie gli avvenimenti tra gli anni ’50 e ’60. Le ville principesche, svuotate dei loro storici ospiti e padroni (per lo più inglesi, che per convinzione politica o più spesso a causa delle avanzare dell’età non avevano fatto ritorno alle proprie residenze estive, per la maggior parte saccheggiate e trasformate in presidio miliare durante il conflitto***) furono affittate o addirittura vendute. Ad acquistarle, quella generazione di nuovi ricchi che comprendeva, tra gli altri, figure del calibro di Onassis, star del cinema Hollywoodiano, loschi faccendieri dell’Est. La diffusione dei rotocalchi e del gossip ha fatto in modo che fosse questa l’età della Riviera a farsi più evidente ai nostri occhi. Rispetto alle vicende di un mondo prettamente aristocratico all’interno del quale nel bene e nel male ogni scandalo veniva ben taciuto e si poteva ancora discutere e fare politica attiva, questa nuova generazione deve la propria fama a uno stile di vita chiassoso, all’interno del quale la ricchezza non era più considerata come uno strumento attraverso cui, in qualche modo – anche maldestro – migliorare se stessi e rendersi utili al proprio Paese ma come strumento tramite il quale assecondare ogni personale capriccio.

(*Fun fact: quando la Hayworth, dopo una visita a casa Wallis, volle (mostrando una certa goffaggine) imporre le medesime divise al personale dello Château, una cameriera si rifiutò di indossarle, e venne licenziata. **Churchill non era famoso solo per la mente acutissima, l’abilità politica e il talento per la pittura ma anche per la frequentazione di ambienti inadatti al suo ruolo e al suo rango, le visite frequenti al Casinò dove sperperava il denaro di famiglia e… le scappatelle – con gran disperazione della moglie Clementine che, pur restandogli a fianco per tutta la vita – più con lo spirito che con la vicinanza fisica, perché per tanta parte dell’anno vivevano separati non volendo lei mischiarsi con l’entourage dello Château – non fa mistero della sofferenza e della preoccupazione nei riguardi dello stile di vita del marito. ***Restaurare dimore di quelle proporzioni non era questione da poco nemmeno per chi di denaro ne possedeva in abbondanza e comunque le condizioni della Francia postbellica non permettevano, a causa della scarseggiare dei beni di consumo, di condurre la medesima vita agiata precedente al ’39.)

“L’altro mondo”, di Fabio Deotto

“Senza quasi accorgermene ho raggiunto Milano. Sono le cinque del pomeriggio e il sole ha già cominciato a nascondersi dietro l’orizzonte. (…) l’abitacolo viene inondato dalla luce di un tramonto mozzafiato. Lo smog e lo strato di nuvole rade appeso sopra la città si sono combinati a trasformare il cielo in un drappo arancione (…). È una visione così suggestiva che cedo di nuovo al mio lato adolescente, parcheggio l’auto e mi sporgo per scattare una foto. Ma poi mi tornano in mente i post frustrati su Instagram di tutti gli utenti che cercavano di catturare il cielo di San Francisco durante gli incendi incontrollati del 2020, quando il fumo aveva steso un’uniforme cappa arancione su tutta la California del Nord. Quell’assortimento cromatico era così insolito che gli algoritmi dei loro telefonini lo prendevano come un errore da correggere e restituivano immagini sbiadite o sovraesposte, in cui l’arancione si trasformava a volte in un giallo opaco altre in un rosa grigiastro.”

Non so dire il sentimento che mi ha preso a metà agosto, quando al telegiornale passavano le immagini dei passeggeri di quel traghetto – lo spettacolo dentro lo spettacolo come gli specchi che, nelle sale dei barbieri, guardano se stessi in un continuo infinito: io guardavo la televisione che a sua volta riproduceva delle immagini catturate con una telecamera, che a sua volta aveva inquadrato persone in calzoncini e ciabatte che riprendevano coi loro telefonini quelle fiamme altissime e il cielo rosso, infernale nella notte. Qualche giorno prima, isolata nella valle tra un fiume di fango che vomitava se stesso giù verso il lago e lo spavento della grandine notturna, chicchi come nocciole che sbattevano sui coppi del tetto, avevo deciso di cominciare “L’altro mondo”, un poco in anticipo rispetto al calendario delle letture che mi ero prefissata (ma ormai si sa, i programmi editoriali di ADC sono antica leggenda, di quelle che si raccontano ai bambini nelle sere d’inverno).

***

“L’Altro mondo – la vita in un pianeta che cambia” è un reportage che il giornalista Fabio Deotto ha realizzato a cavallo della pandemia, tra il 2018 e il 2020, con lo scopo non tanto “di convincere che il cambiamento climatico sia reale, né spronare a un’azione climatica più o meno pacifica” quanto di mostrare come il mondo attuale, nonostante la riottosità praticamente globale ad ammetterlo, sia già profondamente cambiato – con noi che più o meno consapevolmente ci viviamo dentro. Il saggio si articola in otto capitoli, ciascuno dei quali dedicato a un luogo e alle interviste sul campo (Maldive, Miami, New Orleans, Houston, Lapponia [per due], Pianura Padana e infine delta del Po con Venezia). Il filo conduttore che lega l’analisi di Deotto e la scelta dei propri interlocutori, è, come racconta lo stesso autore, lo scorrere dell’acqua:

“Il nostro ambiente ci sta comunicando la crisi climatica soprattutto attraverso l’acqua. Che si tratti di scioglimento dei ghiacci, aumento del livello dei mari o desertificazione, è questo il vettore principale.”

Le nostre cartoline mentali delle Maldive, per dire, certo non comprendono immagini dalle isole-discariche che contornano l’arcipelago o l’odore di uovo marcio che proviene dagli stabilimenti industriali al largo dei resort paradisiaci (nelle cui acque il corallo è morto e stecchito da anni), ma non comprendono nemmeno i progetti di innalzamento artificiale già tutt’ora in corso, intorno ai quali gravitano gli interessi e il denaro di superpotenze quali la Cina e l’India. Nemmeno il villaggio di Babbo Natale a Korvatunturi ce lo immaginiamo immerso in un’opaca luce crepuscolare che non riflette il biancore della neve semplicemente …perché di neve non ce n’è più; e forse non sappiamo nemmeno che i souvenir sami di cui sono piene le botteghe dei villaggi lapponi di autentico non hanno proprio nulla perché di Sami (ndr: per decenni deportati e costretti all’assimilazione) dediti all’artigianato ne rimangono ben pochi, avendo essi priorità un poco più stringenti dell’intagliar scodelle. Come forse ignoriamo l’inglorioso destino del quartiere afroamericano Lower 9th a New Orleans, “modello virtuoso di ricostruzione postcataclisma” voluto addirittura da Brad Pitt (spoiler: sommerso dall’acqua salmastra che tutto distrugge). Questo nostro errore di sistema di valutazione deriva, per la maggior parte, da tutta una serie di calcoli sbagliati che la nostra psiche ha ricevuto “in dotazione dal nostro passato evolutivo”; calcoli che, utili per la nostra sopravvivenza preistorica, ora possono perfino risultare fuorvianti se utilizzati per la ricerca di soluzioni globali e condivise per affrontare il cambiamento climatico. Attraverso nove parti, interposte ai reportage, Deotto analizza proprio queste “distorsioni cognitive” che vanno dall’illusione del controllo alla differente percezione nei riguardi del cambiamento climatico a seconda che esso sia affrontato da chi fa proprio uno stato d’ansia o un modo di porsi regolato dalla paura – o da chi utilizza “l’approccio cowboy” (guess who!) e chi invece vorrebbe spingere (o lo sta già facendo tra mille più una difficoltà) verso una “tutela sperimentale” lontana da ogni approccio muscolare; leggendo questi intermezzi capiremo cosa si intende con “amnesia ambientale generazionale” o il motivo per cui sarebbe ora di sostituire l’espressione “cambiamento climatico” con “crisi climatica” o l’ormai fuorviante “scetticismo climatico” con il più adeguato “negazionismo”.

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Chiunque oggi può leggere di “crisi climatica” poiché l’editoria offre una gran varietà di equipaggiamento: se fino a una decina di anni fa i temi del surriscaldamento globale e delle sue conseguenze erano relegati alla saggistica accademica o al romanzo postapocalittico (con tutti i limiti caratteristici di entrambi i generi), oggi possiamo scegliere fra più strumenti tra cui per esempio quello della narrative non fiction, che può comprendere come in questo caso anche il reportage. Lo sviluppo di generi nuovi per raccontare il presente (e il futuro) implica anche lo studio di nuovi linguaggi che, al momento, non possono trovarsi se non in fase sperimentale. Ad esempio l’utilizzo, nel caso di Deotto, di un sistema di narrazione che comprende concetti quali i bias cognitivi, la “tossicità del mito” o quello di “decostruzione delle distorsioni cognitive” e dello “stereotipo”. Non sono molto d’accordo con l’impiego di questo tipo di lessico multiuso che personalmente trovo eccessivamente polarizzato e in un certo senso ormai vittima d’inflazione; d’altra parte comprendo come la forza di queste pagine stia nell’impegno a stimolare una riflessione di tipo nuovo, un pensiero laterale di cui, va detto, in tanti siamo ancora privi. Il linguaggio appropriato nonché il superamento di certe espressioni “stereotipate” e traslitterate da una lingua inglese che in certi contesti non ci appartiene verranno poi.

In verità sono due i punti di carattere metodologico che mi hanno lasciata perplessa. Il primo riguarda, in senso lato, la presenza dell’opinione personale e del sentire politico dell’autore all’interno del sistema-reportage (cfr. in particolare il capitolo: “La nostra pretesa di stanzialità”, dedicato all’analisi dei fenomeni migratori). Il secondo riguarda la base tecnica su cui si fonda il capitolo “Il nostro bisogno di storie” all’interno del quale il mito (quello di origine indoeuropea) viene accomunato alla storia (la cui base latina è non il mito ma la fabula) e di conseguenza viene indicato come elemento suscettibile di necessaria “decostruzione” (ndr: il mito va semmai contestualizzato, non decostruito). Come ultima nota, mi pare che resti aperta – perché non discussa – la questione dell’accessibilità (intersezionale, mi verrebbe da dire) alle smart & green cities da parte degli utenti più deboli: non si tratta soltanto di persone appartenenti a classi sociali disagiate, minoranze etniche o immigrati (su cui si concentra parte dell’analisi di Deotto) ma anche di anziani e soprattutto delle persone con handicap. Mi sarebbe piaciuto un approfondimento su questo punto perché molto spesso lo sviluppo di “città ecologiche” prevede di fatto – per esempio – modelli di mobilità non inclusivi.

Parte delle note al testo, diverse citazioni e una rapida discussione su questi punti finali sono disponibili nel filo di twitt che, un po’ per comodità e un po’ per caso (al solito, ADC procede con gran criterio), è nato dalla lettura di queste pagine.

“Piccolo inventario dei saluti”, di Carla Corsi

“Madri e figli credo nascano in maniera opposta. Durante la gravidanza, viviamo un senso di pienezza che non compromette la nostra possibilità, ancora tutta intatta, di sperimentare lo spazio vuoto intorno a noi e godere delle braccia slegate. I figli, durante i nove mesi invece, riempiono uno spazio piccolo e stretto che finisce col permettere pochissimi movimenti. (…) Al momento della nascita di suo figlio, una donna si accorge quasi subito che, da qual momento in poi, al suo utero vuoto si è sostituito uno spazio tra le braccia che sarà sempre colmato da quella presenza nuova. Le braccia, prima libere e slegate, quasi ventose, si chiudono in un nodo insicuro che stringe al petto e che prova a proteggere il neonato.”

Siamo tutte uguali ma anche diverse. Se il dolore spinge fuori, dalla medesima origine, certo differenti sono la reazione e l’effetto. Se il dolore spinge fuori da una ferita identica, quella della maternità per esempio, ciascuna madre declinerà a propria maniera l’amore soverchio, il sentimento che strabocca, la rabbia, il disprezzo per sé, il senso della manchevolezza.

Ho sempre faticato ad apprezzare le narrazioni retorico-ridanciane sulla maternità: il simpatico episodio della puerpera che apre al postino indossando la maglia impatellata e neanche se ne accorge, il monologo finto consolatorio sulla disperazione iperbolica che prende quando il passeggino che “si piega in un clic” non si chiude manco con l’utilizzo d’una motosega. D’altra parte questo prendere le cose alla leggera, evitando d’esser trattate da squilibrate da internare, fino a tempi recentissimi è stato l’unico modo di rendere noto che sì, la maternità ha pure un lato osceno. Quindi il merito dello sdazio a queste narrazioni va dato. Resta il fatto che di fronte a queste divertenti storielle dal finale consolatorio alla “ma sì, facciamoci una risata”, a me veniva da pensare un’unica roba: “ma no, non c’è proprio un cazzo da ridere”. Poi, intendiamoci: il finale consolatorio può anche essere opzione percorribile perché non è che prendersi sul serio con severità da monaco in penitenza sia condizione necessaria o sufficiente al recupero di una chiave di lettura risolutiva sulla maternità; e va detto inoltre che quando si parla appunto di maternità il confine interpretativo tra l’esposizione del proprio disagio, rendendolo in tal modo effettivo, reale, sussistente – perché condiviso – e la pratica della lamentazione, della vittima, del senso di colpa diventa sottilissimo, quasi impalpabile – a favore di quest’ultima.

Sicché, dicevamo, per un certo periodo l’unica maniera in cui sdoganare le complessità del mondo materno senza apparire del tutto rincoglionite (“Vedete, guardatemi! Ho partorito ma sono ancora io! So fare le battute! So ironizzare sul mio stato di puerpera”) o fuori di testa (sì, esatto!) è stato quello di buttarla in caciara. Il passo successivo, difatti, s’è concretizzato nel raccontare la maternità attraverso la lente di ingrandimento del disagio mentale a essa collegato – in tutto o in parte. Il merito di queste narrazioni è, paradossalmente, di aver contribuito a separare il disturbo, che spesso cova come la brace sotto la cenere, dall’evento del parto o del puerperio (episodi scatenanti non diversi da altri di grande impatto emotivo) sbugiardando la formula del “si vede che non eri pronta a fare figli” frequentemente applicata a qualsiasi donna soffrisse, per esempio, di depressione post-parto.

Il vero coming-out però deve andare ancora oltre e noi, ora, siamo proprio qui, all’osservare quel qualcosa che cambia di nuovo, in perenne evoluzione: è avere il coraggio di mostrare che no, spesso non ce la si fa, e non ce la si fa perché la maternità è un evento travolgente e punto.

“E io non sapevo mai cosa fare, Nina. Se piangere, arrabbiarmi e obbligarti a mangiare o lasciare che ti nutrissi solo di budino alla vaniglia. E mi sentivo la madre peggiore del mondo, così incapace da non saper sfamare la figlia.”

Dell’idea che nessuno nasce imparato è Carla Corsi che col suo “Piccolo inventario dei saluti” ci dimostra che diventare madri nella testa quasi mai va di pari passo – e con la medesima, sconvolgente rapidità con cui si partorisce – del diventar madri nel corpo. Specie se non si posseggono validi modelli di riferimento familiare, specie se il momento del puerperio è vissuto, per distanza fisica o emotiva, lontano dalle persone che invece avremmo bisogno di avere accanto, specie se la maternità coincide con un completo ribaltamento delle proprie abitudini o caratteristiche (che spesso, ricordo, non ci scegliamo: ci nasciamo, “fatte così”).

“E a te, tanto piccola, che hai già perso tanto e a me, che scappo per salvarmi, dimenticandomi sempre di quanta delicatezza abbiano bisogno gli addii definitivi.”

Il “Piccolo inventario dei saluti” racconta, a mo’ di epistolario, una piccola porzione della vita di Agata, soverchiata dalle incombenze familiari e dalle cure per la figlia treenne Nina. Tanto sopraffatta da prendere una decisione drastica, d’impulso ma lucidissima: la fuga. Sì, diciamocelo pure: Agata abbandona il tetto coniugale. In seguito all’ennesimo capriccio della bambina, Agata ha sbroccato: ficca due abiti in valigia, stropiccia un telegrafico messaggio su un post-it, sale su un pullman e si dà a una disperata evasione. Ora è ospite di un’amica che l’accoglie nella sua casa-rifugio, al freddo di una primavera montana non ancora sbocciata.

Agata, in una serie di lettere indirizzate alla figlia (lettere che non aveva pianificato di scrivere ma che vengon fuori così, da sole, in un dialogo madre-fglia che si nutre di distanza), cerca pian piano di riordinare il proprio presente: un presente fatto, finalmente, di grandi dormite, bagni caldi e cibi bollenti ma anche di un lavoro nuovo e materico (sì, Agata trova anche un mestiere attraverso cui rendersi autonoma, il che non è da sottovalutare). Un presente che però è innegabilmente composto di una maternità potente e invasiva che si fa prima di tutto fatica fisica, tra notti insonni e ritmi personali soffocati da un orologio che appartiene soltanto ai piccoli, mai agli adulti (sommessamente ricordo: la tortura della privazione del sonno viene applicata ai prigionieri di guerra sin dall’antichità). È chiaro che poi la riflessione sul presente diventa anche studio del passato perché la provenienza da famiglie complicate certo non facilita il compito di crescerSI.

“Piccolo inventario dei saluti” è lontanissimo da quello stile “ascesa-caduta-rinascita consapevole” da autofiction d’oltreoceano. Anzi è un testo che, sia per l’impostazione a epistolario a dimostrazione di come sia possibile parlare di questioni nuove attraverso forme antiche, sia per l’approccio, mi pare molto “indo-europeo”; quel non affondare eccessivamente alla ricerca del motivo e della colpa, nel tentativo di abbracciare l’accettazione di un così è stato, rivendicando, nella negazione dell’ereditarietà irreparabile del difetto, la possibilità concreta di una ri-costruzione del sé, ciascuna madre a modo suo: da qui il rispetto che occorre nei confronti della sofferenza altrui.

“Ho pensato che una soluzione all’imperfezione potesse essere l’assenza. Ho riempito la mia valigia e sono sparita, perché se non potevate avermi perfetta era meglio non avermi.”

Nota: “Piccolo inventario dei saluti” racchiude pagine piene di microcitazioni fortunatissime, aiku perfetti da far la buona sorte di un twitt ipercondiviso. “Piccolo inventario dei saluti” però è uno di quei libri che vanno letti in silenzio – e così mi sono permessa di farlo io, lontana dal mio account. La pubblicazione di queste parole al di fuori del loro contesto originario – le pagine, e l’estrema cura lessicale che le contraddistinguono – si sarebbe trasformata automaticamente in eccesso, un chiasso esorbitante che la fragilità di certi dolori non consentono.

“Il futuro di un altro tempo”, di Annalee Newitz (trad. Annarita Guarnieri)

“I miei sforzi per modificare la linea temporale non erano niente a confronto di quello che facevano le persone per cambiare il proprio tempo con qualcosa di così semplice come le elezioni”.

Per raccontare chi sia Annalee Newitz non sarebbe sufficiente nemmeno un post dedicato. “I write about science, culture, and the future” scrive nella sua biografia on line e già il fatto che riesca a condensare in tre parole la sua vita da giornalista esperta di scienza e tecnologia, scrittrice, attivista lgbt+ può dare l’idea della complessità e della versatilità di questa autrice. Opinionista sul New York Times, fondatrice di io9 (uno dei più quotati blog di scienza/fantascienza), autrice di saggi e racconti pubblicati su Wired, Popular Science e diversi quotidiani, è finalista al Premio Hugo 2018 con il suo primo romanzo “Autonomous”, che racconta un futuro terrestre a noi sorprendentemente vicino nel quale si combatte per la legalizzazione di alternative economiche che possano rendere pubblica l’accessibilità a farmaci costosissimi. In “The Future of Another Timeline“, uscito nel 2019, Newitz si dedica alla teoria dei viaggi nel tempo e, sempre nel solco della speculative fiction, alla rappresentazione di realtà ucroniche.

“Il futuro di un altro tempo” è un racconto complesso di piani temporali sfalsati, all’interno dei quali ognuno fa del suo meglio (o del suo peggio) per modificare a proprio favore la linea temporale. Questo è possibile grazie all’esistenza di cinque misteriose “Macchine” presenti sulla Terra sin dalla preistoria, che permettono il ritorno nel passato e di conseguenza la correzione o addirittura la cancellazione di micro e soprattutto macro-eventi. “Il futuro di un altro tempo” però non si concentra tanto su episodi di vita personale (ai quali però torneremo*) quanto su momenti chiave legati a sociopolitica e questioni di genere.

La vicenda di questo gruppo di viaggiatrici del tempo, impegnate a reintegrare memorie perdute o cancellare ingiustizie compiute nel nome dell’omofobia, del patriarcato e del maschilismo – il suffragio universale, il diritto all’aborto, il divieto di istruzione universitaria per le donne, per esempio – mostra due questioni ben espresse quasi a formare un manifesto. Da una parte c’è l’impossibilità di modificare grandi eventi del passato agendo unicamente sull’essere umano che li ha prodotti (per esempio: assassinare Hitler per evitare lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale – nb. di questo sistema del “Grande Uomo” si era occupato, tra gli altri, anche Stephen King con 22/11/63, speculative fiction sulle “stringhe temporali” in cui il protagonista, viaggiatore nel tempo, si impegnava a evitare la morte di Kennedy). Questa incapacità di modificare il passato (che, scriveva King, rifiuta il cambiamento – quasi sia organismo vivo e senziente che con tutte le forze si oppone alla modifica del sé) rivela la necessità di lavorare, piuttosto, su tutti i piccoli accadimenti quotidiani. Indicazione forte e programmatica di quel che dovrebbe verificarsi nel nostro presente, come a dire che il cambiamento si costruisce ogni giorno, specie tra i giovani, nell’aula di scuola come nei rave-party in giardino. Il secondo punto è in parte conseguenza del primo e sua emanazione: se poniamo a cardine il cosiddetto rifiuto della “teoria del Grande Uomo” viene da sé la profonda condanna di ogni tentativo di rivolta violenta. Ciò porta a due corollari: in primo luogo la definizione dell’attivismo per le questioni di genere, all’interno delle quali la lotta armata non è mai opzione perché di fatto apre a ulteriori violenze, e la questione del ricordo e della cancel culture. Non a caso una parte fondamentale del libro è dedicata al racconto della memoria (i “manoscritti della caverna”) e queste parole – in tradizione orale e scritta – segnano una verità universale: senza ricordo non c’è memoria, né riflessione, né consapevolezza.

“Era così che funzionava la revisione storica. Solo i viaggiatori presenti al momento della modifica avrebbero ricordato la versione precedente della storia”

“Il futuro di un altro tempo” è una lettura adatta a qualunque età. Costruito come un Young Adult incontra non solo quel pubblico giovane che vi trova spiegata bene, finalmente, la questione della sorellanza ma anche quel target costituito da chi, in età più matura, a quel mondo desidera avvicinarsi. Il lettore più smaliziato potrebbe rinvenire alcune semplificazioni, o quel modo di scrivere che talvolta predilige l’azione allo spazio descrittivo ma è proprio lì, nello sforzo che occorre produrre nell’avvicinarsi, che si rivela il modo in cui occorre procedere.

(*) > sottomette la famiglia utilizzando metodi coercitivi di violenza fisica e psicologica. Non c’è nell’autrice né il desiderio né il bisogno di enfatizzare gli accadimenti attraverso il meccanismo della pornografia del dolore – perché lo scopo è (finalmente) diverso: aiutare chi legge – specie adolescente – a riconoscere determinati atteggiamenti. Attraverso la presa di coscienza della protagonista, l’autrice mostra bene il modo in cui nelle famiglie dove si verificano abusi la situazione venga costantemente “normalizzata” e ridimensionata, in specie attraverso il metodo del victim blaming Altro punto sollevato dall’autrice è il meccanismo di negazione messo in atto dalla madre.

Spiace che Fanucci sia poco attiva sui social: sarebbe stato interessante approfondire questi punti – magari attraverso un incontro on line con l’autrice – perché “Il futuro di un altro tempo”, nonostante qualche refuso di troppo e una traduzione in certi punti un po’ traballante, è un bel libro che racconta il rischio della radicalizzazione. In ogni movimento, dentro ogni scelta, c’è quel limite, a dividere l’idea dall’ossessione e le pagine di Annalee Newitz sono per questo da rispettare, profondamente. E’ un peccato che questi testi vengano considerati alla stregua di opere di nicchia e non vi sia dedicato quel tempo di analisi e quella copertura media che invece meriterebbero. [Da sottolineare anche l’uso dello /ə/ (scevà) per la traduzione di pronomi, articoli e suffissi di genere non binario].

“Antichi demoni, nuove divinità”, AAVV a cura di Tenzin Dickie (trad. Giulia Masperi)

“Può il nostro karma tollerare tanta abbondanza?” (“La valle delle volpi nere” di Tsering Dondrup, pos.2450)

…no, non credo – io non ne sono stata capace! Con quanta commozione ho accolto la notizia dell’uscita di “Antichi demoni, nuove divinità”, la prima antologia di narrativa tibetana coeva pubblicata in Italia. Questa bellissima selezione di racconti comprende i lavori dei più celebri scrittori tibetani contemporanei – ove per “tibetano” s’intende sia del Tibet annesso alla Cina sia del Tibet “della diaspora”. Si tratta di quindici narrazioni importanti, poiché affondano le radici nella questione dell’identità perduta, in quel problema complicato che è l’espressione della “propria voce” e, se vogliamo vederla a rovescio, dell’appropriazione culturale.

Racconta la curatrice della raccolta, Tenzin Dickie – poetessa, scrittrice, traduttrice, nata e cresciuta in un insediamento di rifugiati tibetani in India e poi (all’età di 14 anni) emigrata a New York: malgrado la letteratura tibetana possieda “una storia millenaria“, il suo corpus, “uno dei più ampi del mondo”, è costituito quasi per intero da “opere buddiste, trattati di etica, metafisica, medicina, epistemologia”. Se da una parte agirono in tal senso l’ideale buddista dell’eliminazione del desiderio e la conseguente limitazione “filosofica o ideologica”, dall’altra non si può negare l’influenza delle questioni pratiche, tra cui la difficoltà a reperire i costosi materiali per la stampa o la resistenza verso l’utilizzo dei caratteri metallici – considerati impuri. Si capisce quindi con quale enfasi fu salutata, negli anni Ottanta, la pubblicazione delle prime riviste in lingua tibetana, “Tibetan Art and Literature” e “Light Rain”.

Del Tibet, tuttavia, abbiamo sempre sentito parlare: testimonianze di esploratori, romanzi d’avventura, reportage. Tutti o quasi a firma di (bianchi) occidentali. La faccenda di “esprimersi con la propria voce”, in maniera da evitare che altri continuino ad appropriarsi delle esperienze di vita e di cultura di chi, di fatto, non si conosce (in specie minoranze) è una questione sulla quale in questo periodo si dibatte non poco. Il concetto di appropriazione culturale è di fatto originario degli Stati Uniti eppure mi pare che che, con le dovute cautele, possa riferirsi a tutte quelle realtà che, seppur per cause diverse, condividono lo stesso destino.

Questa antologia è ricca di pagine su cui ho riflettuto molto. Gli autori vengono da Tibet, Cina, India, Nepal, USA, Canada e scrivono in tibetano, inglese, cinese. Le pagine scorrono in una bellissima eufonia di voci, generi, sensibilità, argomenti. Come ascoltare una radio a basso volume, un suono continuo che porta con sé la presenza, quel dire noi siamo qui. Argomenti e stili divergono non poco e creano un complesso quadro che abbraccia fiaba e racconto popolare, leggenda, reportage e fiction, in un continuo alternarsi di equilibri instabili: tra la modernità delle applicazioni per il dating on line e la tradizione del matrimonio combinato, la durezza della vita in campagna e la spersonalizzazione dell’inurbamento irregimentato, l’emancipazione femminile e lo sgretolamento delle radici familiari, le tradizioni di una spiritualità millenaria e il compromesso insito nell’accettazione della modernità.

“Durante il suo viaggio senza fine, avvertiva i sensi mancargli uno dopo l’altro, e a volte era così stanco nel corpo e nella mente da pensare, semplicemente, di non poter andare avanti. Eppure continuava a seguire la strada e il suo viaggio, affrontando innumerevoli sfide, alla ricerca del sogno.” (“Il sogno di un Menestrello Errante”, di Pema Tseden, pos.1579)