"Un amore senza fine", di Scott Spencer

endlesslove

“Quando i campi poi sono bruciati e i cadaveri giacciono a mucchi sotto il sole, quel re si stringerà una mano al petto esclamando: L’ho fatto per amore” (pag36)

Chicago, 1967. David Axerlod, diciassettenne figlio di ebrei comunisti, e Jade Butterfield, sedicenne di buona famiglia, si innamorano perdutamente. Questa passione inattesa e sconvolgente è raccontata in prima persona da un David ormai adulto, che a metà degli anni ’70 ne ripercorre la storia, segnata da un passaggio drammatico: l’incendio che ha distrutto la casa dei Butterfield e quasi ucciso i cinque occupanti, appiccato dallo stesso David dopo che Hugh, il padre di Jade, gli aveva vietato di vederla per trenta giorni. Un episodio cardine che influenzerà l’esistenza successiva di tutti i protagonisti.

“Se qualcosa mi differenziava da tutti gli altri non erano i miei impulsi bensì la mia testardaggine, la mia disponibilità a portare il sogno oltre quei limiti che erano stati concordati come ragionevoli, a dichiarare che quel sogno non era un delirio della mente ma una realtà altrettanto tangibile dell’altra più tenue, più infelice illusione che chiamiamo vita quotidiana” (pag228)

(A)merica
Endless Love è il racconto dei Sixties Americani.
Speranze della nuova generazione e sconfitta delle precedenti; perbenismo di provincia e movimenti di protesta; Richard Nixon e Martin Luther King. Nulla di esplicito: le vicende sociali e politiche scivolano via, nell’oblio della vita quotidiana dei protagonisti ma impregnano ogni pensiero e ogni azione.

(B)aci
Endless Love è l’attesa di un bacio.

“Strane, le sue labbra. Piatte dove prima sporgevano. Molto più schiuse, non per l’impulso dell’attimo ma sulla scia di riflessi acquisiti” (pag400)


(C)ambiamento

Axelrod, non sei cambiato. Anche se una frase del genere la gente la dice con intenzioni cordiali, non sfugge mai del tutto a motivazioni censorie” (pag230)

“Chi ha un’intelligenza superiore alla media non ingrana col sistema. O si rompe in mille pezzettini o trova un modo per aggirarlo” (pag220)

Endless Love è la storia del Tempo. Una storia di cambiamenti e mutazioni – riuscite, mancate, fallite. Sviluppandosi in un arco temporale di un decennio e nutrendosi di assenze (una su tutte: l’allontanamento forzato dei due amanti che durerà quasi quattro anni) inevitabilmente gioca di contrapposizione tra un passato e un presente che non corrispondono più: David rimane fedele a se stesso, ancorato alla propria ossessione amorosa all’interno di una dimensione quasi atemporale, Jade invece attraversa la Storia e le proprie stagioni dalla giovinezza alla maturità.

Non sai chi sono disse infine Jade. Mi ricordi e basta (…). Tu hai fatto di tutto per tenerti aggrappato a ciò che abbiamo avuto, io invece ho lasciato andare. Ed è una di quelle cose che quando le lasci cadere non rimbalzano su, cadono e basta, cadono sempre più in basso” (pag391)


(D)ipendenze
Un mondo di fiaba insomma, in cui si poteva fumare ovunque ma nessuno si preoccupava delle conseguenze letali e c’era un drink per ogni ora del giorno e della notte.
Dalla high school dei golfini confetto allo studentato, dal perbenismo eredità dei postbellici anni ’50 alla promiscuità rivoluzionaria, il rapporto dei due ragazzi con la cultura hippie del momento è curioso, interessante, controverso. Ma quanto c’è di vero in Jade, o di artefatto? [Cfr (J)ade e (W)ASP].

(E)ros

“Molti lettori – come i registi che hanno frainteso il significato della storia e hanno provato a trasformarla in un dolce film romantico – credono che sia una storia d’amore, scritta nell’appassionato ricordo di una passione giovanile. Non desidero discutere con i critici e i lettori che hanno amato il mio libro, ma penso che a una lettura più attenta di si riveli un libro principalmente sull’Eros, che è un po’ diverso dall’amore” (Scott Spencer intervistato da Natalia La Terza, per Minima&Moralia)


(F)emminile – il tema del

“(scriveva Jade) (…) Noi siamo nostra madre, ma ciò che lei desidera riprendersi prende, ciò che non riesce ad accettare tenta di distruggerlo, e ciò che sopravvive è ciò che poi siamo. La nostra prima lotta: uscire da nostra madre. La seconda (e incessante): rimanerne fuori, resistere al riassorbimento…” (pag496)

Endless Love non è soltanto il racconto di un sentimento ma anche un romanzo familiare all’interno del quale spiccano le figure femminili e i rapporti dell’una con l’altra. In particolare il raffronto tra Rose (madre di David) e Ann (madre di Jade). Se Endless Love è il racconto di un amore è anche, paradossalmente, il racconto del fallimento della femminilità moderna.
Le motivazioni sono molte, anche corrette, ma la posizione dell’autore forse è da approfondire perché in superficie emergono talvolta tratti evidentemente pessimisti se non addirittura velatamente misogini, nei confronti di un ruolo materno abdicato e di una femminilità giovane volubile e inaffidabile. Approfondiremo [cfr. (J)ade e (R)ose].

(G)RA – Grande Romanzo Americano
Endless Love è un best-seller internazionale, candidato al National Book Award del 1979, anno di pubblicazione. La letteratura americana contemporanea misura il proprio valore a confronto di tali opere, chiaro che ne rimane inevitabilmente sconfitta (vedi #CityOnFire). [Cfr. (A)merica, (K)eith, (W)ASP].

(H)otel – camera di
La location della scena più famosa e discussa di tutta l’opera. Unica scena di sesso esplicito raccontata nel testo – malgrado di “fare l’amore” si parli fin dalla prima pagina per altro, arriva esattamente a metà del libro (374 pagine di attesa su 581 non sono poche). La costruzione dell’opera fa in modo che il crescendo erotico passi dai protagonisti al lettore. Lirismo, deriva fetish, fantasie violente da serial killer, giallo hard-boiled? Ognuno la pensi come vuole: qui non se ne dirà di più onde evitare spoiler.

(I)pocrisia

“M’era venuta a noia la facilità con cui si lasciavano imbrogliare, con cui riuscivo a riappacificarli mentendo, l’ostinazione che mettevano nel non dirmi mai la verità della loro vita. Erano persone la cui capitale menzogna consisteva nel ritenere che nulla fosse sbagliato, o stano, o inspiegabile o poco comune” (pag.52)

“Gestivano la nostra piccola famiglia secondo i principi del centralismo, nascondendomi le loro incertezze – comandanti d’un vascello pericolante che tentano d’evitare il panico dei passeggeri offrendo tartine e rassicurazioni di prammatica” (pag70)

“Il massimo del privato in cui osavano addentrarsi era costituito da un cordiale , che sarebbe andato altrettanto bene se fossi stato reduce non dalla clinica ma da un biennio di genetica socialista presso l’Università di Leningrado” (pag101)


(J)ade
[Cfr (W)ASP]. Da scriverne per anni. Uno dei punti in cui Endless Love mostra se stesso al lettore: un’opera in cui chiunque può (e rischia) di vederci quel che vuole. Piperno pensa a Nabokov: effettivamente siamo lì: chi è Jade. Ragazzina viziata? Unico membro mentalmente sano di entrambe le famiglie? Sciacquetta di turno di cui un povero adolescente si infatua fino alla morte? Una nuova Giulietta (cfr sempre Piperno)? La perfetta americana media ossessionata da successo sociale ed economico, soggiogata e dipendente dalla propria disturbata famiglia? Chi lo sa. Unica certezza: è il personaggio meno descritto, meno messo a fuoco, meno dialogato. Chiaro si tratta di una scelta precisa: in un mondo letterario in cui domina il bisogno di specificare tutto, la fuga nell’indeterminatezza è la carta vincente, Spencer lo sa.
“(…) persino incontrarmi con i miei (…) mi lascia il segno. Vederli uno per volta è dura, tutti insieme è la morte (…). Succede tutto nel momento sbagliato” (pag403)”Ho fatto di tutto per uscire da quella famiglia e più diminuiamo più mi ci trovo dentro” (pag431)
“Ha la straordinaria capacità di far sentire gli altri degli emeriti stronzi” disse Colleen scuotendo la testa in direzione di Oliver per consolarlo” (pag478)

(K)eith (&Sammy)
Famiglia disfunzionale, i Butterfield. Tre fratelli (Jade, Keith, Sammy), tra loro quasi incestuosi ma da bravi snob completamente estranei l’uno dall’altro mantengono sia da ragazzi sia da adulti un grado di formalità reciproca che sfiora l’indifferenza. Chi ci ricordano? I Barbour, ovviamente. Le tematiche familiari sono nel DNA di qualsiasi (G)RA

(L)uce – sinestesie

“Vi scovai nel soggiorno che ascoltavate la radio. Indossavate entrambi jeans e camicie azzurre di Oxford – eravate nella fase in cui volevate vestirvi in modo identico. Lì tutti e due sul pavimento, col fuoco nel caminetto. Soprattutto Jade era avvolta in una luminosità arancione e azzurra. Ricordo che pensai: Jade riflette la luce e David l’assorbe” (pag275)

“Dio come adoravo quella casa la sera, quando le finestre erano nere e i bambini a letto” (pag277)

“L’ultima cosa che vidi fu il cambiamento alla finestra: i vetri erano diventati di un opaco colore grigio-azzurro” (pag301)


(M)alattia mentale 
David dopo l’incendio viene arrestato e poi affidato a un centro di igiene mentale perché considerato instabile. Inizia qui il rapporto pluridecennale del protagonista con le forze dell’ordine americane che per ottusità, ignoranza, spocchia e violenza differiscono poco da quelle attuali. Il racconto dell’esperienza de manicomio criminale offre un fedele spaccato del sistema e del trattamento riservato alla malattia psichiatrica. Angosciante. Quante vite sprecate per incuria, imperizia, poca consapevolezza.

(N)evrosi e (O)ssessioni
Nevrosi. Sovrane della psiche di David Axelrod, le nevrosi stanno a metà strada tra il disagio mentale vero e proprio – riguardo al quale l’autore mostra una conoscenza profonda – e l’autocompiacimento GRA. Trasandatezza nella cura della propria persona, incostanza nel rendimento scolastico, difficoltà a socializzare con i coetanei: campanelli d’allarme che oggi non mancheremmo di individuare precocemente ma che all’epoca venivano considerati in tutt’altra prospettiva. La pericolosità insita in simili comportamenti, intuita dall’autore, è tanto più sottolineata da Spencer quanto più essi sono frutto dell’osservazione non di David (che li ignora) ma di chi lo circonda.
“(…) disse Rose. “E mi rifiuto di starmene qui ad ascoltarti se continui a far finta d’essere l’unica persona al mondo con dei problemi!” (pag70-71)
Ossessioni. Fulcro tematico di tutta l’opera, il sentimento per Jade ne sfiora pericolosamente i contorni.
“Se la mia mente avesse potuto emettere un suono avrebbe infranto una fila di calici di cristallo” (pag41)

(P)arents
Genitorialità e sue declinazioni. Occorre focus anche sui “maschi di casa” Arthur (David) e Hugh (Jade). Sembrano gli unici in grado di operare cambiamento e redenzione. Il padre di Jade dopo una prima fare “liberale”, moderna e permissiva rientra nel ruolo tradizionale e prende posizione nei riguardi della relazione sentimentale – fino alle estreme conseguenze. Il padre di David è il tradizionale “brav’uomo americano” che malgrado l’impotenza dettata da diversi fattori (istruzione/esperienze/scarsa consapevolezza) non viene mai meno al proprio ruolo. Ma le motivazioni, saranno quelle giuste? C’è un vincitore? Chi fallisce? Esiste una formula di educazione parentale che funzioni davvero

(Q)uest – la “cerca”
Interessante, Endless Love in alcuni punti recupera archetipi della letteratura della “cerca”: l’eroe parte per un lungo viaggio – avventure e pericoli – con lo scopo di recuperare o qualcosa di nuovo e mitico o qualcosa (ma anche qualcuno) che gli è stato sottratto. Naturalmente la dicotomia bene/male è qui superata e i topoi della narrazione classica rovesciati – con precisione chirurgica, non può non essere consapevole, per lo meno in parte.

(R)ose – e Ann
Le due figure femminili co-protagoniste del romanzo, in antitesi a quella di Jade. Completa contrapposizione caratteriale, benché non si relazionino mai direttamente sono i due perni attorno ai quali si sviluppa tutta la narrazione perché parte attiva di alcune vicende imprescindibili nello sviluppo della trama. Le madri dei due ragazzi condividono indole anaffettiva e desiderio manipolatore fortemente prevaricante che fa di loro due delle più malefiche matrigne della letteratura contemporanea. Eppure: carnefici o vittime, di un momento storico infelice e di una ancor più infelice segregazione all’interno di due ruoli (femminili, vedi sopra) squallidi e mortificanti?
“Come soffriva Rose per quel mio languore. Credeva nella forza di volontà con la stessa fede che Galileo riponeva in quella di gravità” (pag87)
“(Rose) aborriva da sempre i figli mammoni, e ora che quel pericolo non sussisteva più diceva a se stessa che la cosa migliore per me era che mi trovassi una mia strada, o un , come preferiva dire” (pag165)
“Ann era unica, irripetibile, amara, sicura, altezzosa, vulnerabile e calcolatrice in modo così esplicito che ogni sua parola, ogni suo gesto, almeno ai miei occhi, erano incandescenti di significato” (pag266)
(Ann): “Sto ancora aspettando che la vita cominci” (pag296)

(S)tile e (T)raduzione
Sellerio pubblica Endless Love conservando l’eccezionale traduzione di Francesco Franconeri che porta la data del 1980 (Milano, Mondadori Omnibus) e che rivela, proprio per il suo carattere agée, una straordinaria aderenza al testo a cui risulta coeva:

“Naturalmente era per uno SQUILIBRIO che attribuiva alle parole della madre la sua MANIA” (pag192-193)

“Attraversai la Fifth Avenue – non quella della GRAN MODA e delle INDOSSATRICI, ma quella dei fabbricanti di giocattoli” (pag248)

Merito del traduttore aver conservato anche nella versione italiana le particolarità dello stile di Spencer, poliedrico e duttile, in grado di modulare lessico e sintassi alle diverse esigenze espressive di ciascun protagonista (già parlato delle parti epistolari). Nota a margine, ricordarsi la feroce critica in merito rivolta a Hallberg (vedi ancora #CityOnFire)

(U)nderwear

“Rose entrò con in mano l’ultimo numero del . Indossava una vestaglia azzurra e le sue pantofole estive; fumava la sua Newport serale. annunciò. Di solito lo faceva per ferire Arthur, per fargli sentire che desiderava evitarlo, per sottolineare il fatto che non avrebbero fatto l’amore” (pag109)

(Ann) “indossava una vestaglia verde pallido lunga fino ai piedi, orlata di verde più scuro, con maniche larghe e pendole di stile medievale. I capelli scuri erano tirati indietro e mi osservò attraverso grandi lenti appena colorate. Odorava di profumo e le rosse unghie dei piedi spuntavano dalle pantofole ricamate d’oro. Teneva con una mano l’Ariel di Sylvia Plath, con l’altra un fianco” (pag254)

(Jade) “era uscita dal bagno con indosso una vestaglia verde pallido, lo stesso colore dei suoi occhi. (…) si sbottonò la vestaglia, togliendosela. Sotto aveva indossato un pigiama di stile orientale. Pareva bagnato e lucido. Un gesto dettato dalla modestia, quel suo terminare di spogliarsi a letto, protetta dall’oscurità”(pag407-408)


(V)ista – punto di
La narrazione in pdv interno singolo (David) è espediente che esemplifica al meglio la questione della parzialità: Endless Love è La Storia di David. Non quella di Jade, non quella degli Axelrod, non quella dei Butterfield. Come tale è di natura incompleta e faziosa, tanto più conturbante quanto più si capisce di aver a che fare con una personalità borderline. Unica concessione le lettere di Ann a David: capacità dell’autore di modulare magistralmente gli stili a seconda del punto di vista e del mezzo a disposizione (incursione nel romanzo epistolare). Parzialità del racconto si esprime anche quando per alcuni avvenimenti entra in scena un secondo punto di vista, altrettanto limitato, che tuttavia permette un’inquadratura comunque più ampia (Ann).

(W)ASP
Tensione dell’opera: passa anche dalla necessità di David di uscire da proprio contesto familiare e sociale. Per arrivare dove? A casa Butterfield: famiglia di tipici WASP dell’East Coast che, seppure economicamente decaduta, conserva intatte le proprie caratteristiche tra cui sostanziale e ovvio disprezzo vs. membri di altre classi sociali/enclave. Il presunto laissez-faire dei coniugi Butterfield che accolgono David in casa propria accettando la relazione amorosa (nb: dotano la stanza di Jade di un letto matrimoniale) è in realtà mero divertissement abbandonato senza troppi rimpianti nel momento in cui giudicato inopportuno (e fuori dalla comfort-zone).
“Ci sentivamo coraggiosi, certo, e molto più avanti dei nostri coetanei (…). Ma ci sentivamo anche talmente insicuri e poco abituati al nostro nuovo modo di vivere che non ci pareva di essere adulti al punto da poter redigere un codice di comportamento per chiunque” (pag153)
“Lo sai che mia madre gioiva a raccontare di non essere mai stata più in là della Fifth Avenue? Diceva: (…) Se solo avessimo avuto più soldi per giustificare le nostre piccole eccentricità. Senza soldi diventavano talmente sciocche, goffe come scimpanzé vestiti da uomo… (…) che suonano il pianoforte” (pag256)
“(Hugh)il quale continua ad andarsene a zonzo per gli Stati Uniti, facendo una vita bohème che più passée non potrebbe essere” (pag262)
E Jade? Dove si colloca all’interno di tutto ciò? [Cfr (G)RA, (J)ade, (K)eith].

(Y)ates
S’è parlato di molti autori a paragone con Spencer e per farlo si sono scomodati in molti, da Joice Carol Oates a Jonathan Lethem che cita FSFitzgerald, Roth e Yates. Qui (Sellerio) la rassegna stampa su Endless Love da qui si può ricavare una prima bibliografia.

(Z)ucchero

Possiamo permetterci il dolce? chiese Jade al termine del pasto. Mi commuovevo sempre quando usava la prima persona plurale, specie se lo faceva quasi soprappensiero. disse. ” (pag482).

Buona lettura

#BCM16 "Andata e ritorno nell’antica Grecia, terra di dei ed eroi", di e con Giuseppe Zanetto

Uno dei meriti di BookCity è la capacità di valorizzare, anche se per poche giornate, le periferie di Milano.
Da qualche anno interi quartieri periferici di Milano si sono impegnati attivamente a cercare un riscatto che coinvolga l’urbanistica in sé e gli abitanti che li popolano. Aree ai margini che fino a poco tempo fa venivano irregimentate all’interno di quell’infelice definizione di “satelliti dormitorio” che – a causa dell’accezione negativa del termine – per anni siamo stati abituati a citare con un misto di imbarazzo, fastidio o eccessivo campanilismo a seconda della provenienza di ciascuno.
Per citarne solo alcuni, ricordiamo Rogoredo Santa Giulia, l’ex area Ansaldo-Pirelli, Via Rembrandt con il suo centro culturale condominiale, la biblioteca comunale Dergano in Bovisa e il suo particolare fondo cinese in gemellaggio con Shangai – per un totale di 1200 volumi, fino all’esperimento di Cascina Cuccagna, un reintegro contestualizzato che tocca i temi cari della memoria opposta alla mera fascinazione estetica, e ai progetti curati dal Politecnico di Milano per la riqualificazione dei Magazzini Raccordati di Greco/Sammartini.
Questa volta #BCM16  ha toccato, tra gli altri, il quartiere Torretta.
Oggetto di una massiccia urbanizzazione negli anni ’60 del Novecento (parliamo di famiglie medio borghesi, impiegati, operai), questa area a sud di Milano, estrema propaggine del Naviglio Pavese, prende il nome da un avamposto romano che sorgeva nelle vicinanze; fin dal 1600 la zona delle cascine di Trenno era infatti indicata col nome di “Torretta”. Sì, siamo alla Barona ma in un’area ancora più particolare per via della sua estrema connotazione topografica dato che i nomi di tutte le vie richiamano curiosamente i personaggi di memoria manzoniana: abbiamo via Renzo e Lucia, largo Promessi Sposi e pure una stradetta dedicata a Don Rodrigo e una a Donna Prassede.
Incastrata fra due casermoni di mattoni rossi c’è la biblioteca comunale di Via Fra Cristoforo (situata nell’omonima via, ça va sans dire), che da anni è punto di incontro per gli adulti ma soprattutto per i bambini del quartiere.
Qui, lo scorso sabato mattina alle dieci e mezza, sotto una pioggia scrosciante che avrebbe scoraggiato chiunque, almeno un paio di decine di bambini con relativi genitori infradiciati hanno riempito la stanzetta delle conferenze per assistere a una lezione di Letteratura Greca, dal titolo “Andata e ritorno nell’antica Grecia, terra di dei ed eroi“.
A tenerla, il Professor Giuseppe Zanetto, ordinario della cattedra di Lingua e Letteratura Greca all’Università Statale di Milano. L’occasione era quella di presentare il suo ultimo libro per ragazzi, una rivisitazione dell’Odissea di Omero edita per la collana kids di Feltrinelli.
Si tratta, dice Zanetto, di “un’impalcatura tematica composta da sei linee narrative“, ossia di una serie di episodi – i più significativi del poema – narrati in prima persona, con linguaggio semplice e accattivante ma di certo mai banale, dagli stessi protagonisti o dai testimoni della vicenda: dal figlio di Ulisse al fedele servo Eumeo, dalla regina dei Feaci a Penelope.
In alternanza al testo troviamo le eleganti illustrazioni della giovanissima (classe 1991) Camilla Pintonato, che accosta il rigore e la fedeltà dovuta alla tradizione iconografica a cui il testo si riferisce alla freschezza del tratto, adeguato al pubblico di riferimento.
L’intento dell'”Odissea di Omero”, esplicita Zanetto – e in generale di parte della collana kids di Feltrinelli – è proprio il tentativo di introdurre l’elemento narrativo all’interno di un’opera di saggistica. Una scelta che negli ultimi tempi pare incontrare il favore dei lettori, giovani e adulti, e verso la quale tanta parte della saggistica si sta ormai orientando (ndr: un esempio di cui avevamo parlato molto su ADC: “La Sesta Estinzione“, vincitore del Pulitzer 2015 per la non-fiction) seguendo un processo di ammodernamento dei sistemi di divulgazione scientifica rispetto alla quale il saggio tradizionale si ritrova oramai a offrire prestazioni di scarsa penetrabilità specie nei riguardi delle nuove generazioni.
“L’Odissea di Omero” è la seconda incursione nel mondo della Grecia Antica per l’illustratrice Camilla Pintonato, che aveva già collaborato con Feltrinelli e Zanetto per il volume “In Grecia, terra di miti e di eroi” (2014).

 

Ciò che più ha stupito dell’incontro è stato effettivamente l’incredibile appeal che simili narrazioni hanno avuto sul pubblico presente in sala. Argomenti di non facile comprensione quali le fondamenta del mito classico, la metodologia di approccio a un sito archeologico o all’atlante geografico, passando per il concetto di vendetta umana e divina tipico del mondo antico fino all’ancestrale predisposizione delle popolazioni mediterranee verso l’accoglienza del migrante (di cui Odisseo fa indubbiamente parte), sono stati affrontati utilizzando, oggi come oltre duemila anni fa, la fascinazione che deriva dal carattere prettamente orale del racconto epico. Racconto che ancora una volta, a distanza di millenni, conferma la propria capacità atemporale di divenire strumento didattico.

La tela che Penelope tesse di giorno e disfa di notte per evitare il matrimonio, l’episodio di Polifemo che tanto appassiona i bambini (e spinge anche al meccanismo della catarsi: “Va recitato col vocione”, ammonisce Zanetto), le tempeste, i naufragi, le guerre, e per finire il cavallo di Troia: episodi che i bambini hanno fatto a gara per raccontare, tra alzate di mano (tante: c’è ancora speranza per la scuola pubblica!) di chi già li conosceva e bocche aperte per i più piccini che li ascoltavano per la prima volta. Uno stupore che oggi come allora mostra il significato profondo di alcuni meccanismi atavici che riguardano tutti noi.

Tanta parte naturalmente hanno fatto le capacità del relatore: e dico questo non tanto al fine di una captatio benevoletiae (che risulterebbe ormai tardiva!) nei confronti di uno dei professori che durante i miei studi universitari ho più apprezzato ma per schierarmi come al solito contro quella certa tuttologia imperante che spesso predilige l’immagine (o i followers) dell’invitato di turno alla sostanza di una preparazione tecnica che giudico imprescindibile e, a latere, contro l’utilizzo quasi del tutto esclusivo, per tante manifestazioni culturali, di location centrali e sicuramente più cool rispetto a una biblioteca comunale di periferia – che indubbiamente, tra l’altro, avrebbe urgente bisogno di diversi interventi di ristrutturazione.

Insomma: “Andata e ritorno nell’Antica Grecia” è stato l’esempio che portare valore, cultura e integrazione in periferia si può e si deve, specie se ci sono persone disposte a farlo. E ce ne sono, basta cercarle. Ecco il perché del mio hashtag #PiùZanettoPerTutti.
Buona lettura 🙂
Ps: gli abitanti di Torretta sono circa 7000 ma nel quartiere, almeno fino al 2013, non esisteva nemmeno uno sportello Bancomat. Come in ogni zona di periferia che si rispetti, i residenti combattono contro la carenza di infrastrutture e microcriminalità. Questo per dire che nonostante il fascino verso le periferie che indubbiamente si rivela dai miei racconti, proprio le mie esperienze di vita ai margini mi spingono a evitare qualsiasi tipo di “pornografia dell’immagine” e qualsivoglia estremismo estetico (in proposito, si veda qui).Di seguito, lo Storify raccolto durante il livetwitting dell’evento.

"Città in Fiamme", di Garth Risk Hallberg

“L’albero di Natale sembrava solo e triste nel suo angolo, senza mobili attorno. Ecco lì tutto quello che serve per rendere sgradevole un abete: la luce solare diretta” (pag.119)

cityDue milioni di dollari di anticipo, la vendita dei diritti cinematografici in anteprima, un battage pubblicitario senza precedenti supportato dalle migliaia di copie spedite in anteprima a giornalisti e critici, l’endorsement di gran parte dell’establishment culturale americano. Novecentoundici pagine fitte, sostenute da un apparato iconografico che comprende riproduzioni di lettere scritte a mano, facsimili di fanzine anni ’70, pezzi giornalistici dattiloscritti, fotografie in collage – tutto materiale necessario all’economia della vicenda, di imprescindibile lettura.

Questi i numeri e i fatti che hanno accompagnato, a metà 2015, l’uscita di “City on Fire”. L’autore è l’esordiente Garth Risk Hallberg, giovinotto trentaseienne cresciuto in una cittadina del North Carolina ma nato il Louisiana, e la leggenda ormai vuole che l’idea folgorante gli sia venuta nel 2003, durante uno dei suoi viaggi quotidiani in pullman verso New York, ascoltando “Miami 2017” di Billy Joel.

Questi i numeri e i fatti che hanno accompagnato, a metà 2015, l’uscita di “City on Fire”. L’autore è l’esordiente Garth Risk Hallberg, giovinotto trentaseienne cresciuto in una cittadina del North Carolina ma nato il Louisiana, e la leggenda ormai vuole che l’idea folgorante gli sia venuta nel 2003, durante uno dei suoi viaggi quotidiani in pullman verso New York, ascoltando “Miami 2017” di Billy Joel.

 
***
“Nella sua mente il libro continuava a crescere in lunghezza e complessità, quasi come se si fosse assunto il peso di soppiantare la vita reale, invece di evocarla. Ma com’era possibile per un libro essere grande come la vita?” (pag.946) 
“Città in Fiamme” – trama e personaggi
Riassumere “Città in Fiamme” significa prima di tutto tenere a mente due date: la notte del 31 dicembre 1976 e quella del 13 luglio 1977. Hallberg utilizza la prima, un banale capodanno newyorkese come tanti, per mettere in scena l’omicidio fittizio di Samantha Cicciaro, una giovane studentessa universitaria – ultima erede di una sfortunata famiglia italoamericana specializzata nella costruzione artigianale di prestigiosi fuochi d’artificio, ora caduta in disgrazia a causa dell’avvento della produzione in serie e della tecnologia – che viene ritrovata in fin di vita in un angolo di Central Park, vittima di una sparatoria.
Credits @NYCDailyPics
Credits @NYCDailyPics
In un continuo scambio di punti di vista e piani temporali (dal presente della narrazione ai numerosi flashback 1950-’60 fino ai flashforward del dopo-millennio) Hallberg segue non soltanto gli ultimi mesi della vita della ragazza ma anche e soprattutto le vicende di coloro che in un modo o nell’altro erano entrati in recente contatto con lei: un paio di amici del Lower East Side, tossici e disoccupati, che l’avevano iniziata al movimento punk; alcuni insospettabili membri della facoltosissima dinastia Hamilton–Sweeney con i rispettivi figli, consorti e tirapiedi di stanza a Manhattan; Mercer Goodman, maestro e aspirante scrittore emigrato da Altana, Georgia; Richard Groskoph, un reporter alcolizzato in cerca di riscatto e infine Lawrence Pulaski, viceispettore (poteva mancare?) claudicante, a fine carriera, deciso a risolvere il rompicapo dell’omicidio. I destini di questo gruppo così eterogeneo si riuniscono nella notte – non altrettanto banale – del 13 luglio dell’anno successivo, notte in cui New York piomba in un drammatico black-out che diviene pietra miliare nella storia (vera) della metropoli.
Alvin Langdom “Night in NY” 1905-1911
L’arte di Hallberg nell’organizzazione della materia è evidente e si tocca con mano.
Le parti descrittive, specie quelle relative alla città di New York, sono quasi sempre valide, contestualizzate e rivelano conoscenza diretta, ispezione, esperienza. Oggettivamente stupisce il risultato raggiunto da questo esordiente trentaseienne, per altro non originario della metropoli:

“Il centro di Flower Hill, con tutta la buona volontà del consiglio del Village, non poteva librarsi oltre i suoi limiti intrinseci. Di giorno simulava un ambiente urbano senza qualità – c’erano un fioraio, un salone per feste di nozze, un negozio di dischi niente di che – ma di sera, le luci delle facciate dei negozi sparavano in faccia le coordinate delle vere urgenze cittadine. Massaggi. Tatuaggi. Banco dei pegni. Davanti a una caffetteria vuota, un Babbo Natale animatronico con le gambe incatenate a una recinzione ruotava rigido su se stesso al tempo di Jingle Bells” (pag.19)

I protagonisti vengono presentati inizialmente uno a uno per capitolo ma l’autore è abile a scardinare presto anche questo prevedibile meccanismo perché nel momento in cui l’introduzione di un’altra figura standing-alone avrebbe potuto creare una sensazione di effetto cinematografico a fruizione passiva (ndr: fra il terzo e il quarto cap.) modifica tono e struttura. Attraverso l’inserimento di tutti gli altri personaggi per mezzo di una tecnica ad avvicinamento lento, Hallberg consegna i collegamenti nelle mani del lettore che quindi viene coinvolto in prima persona, come per ogni giallo che si rispetti.
Edward Hopper credits @HopperAtoZ
“Città in fiamme” è sicuramente un romanzo d’atmosfere e la dinamica di dialogo poco serrato insieme all’osservazione sempre contestualizzata della realtà ne limitano l’effetto cinematografico che tuttavia permane – o meglio si rende evidente – in alcuni punti ben precisi e che tendono a ripetersi nel corso della narrazione: l’abitudine ad accostare immagini e colonne sonore, una certa teatralità di espressioni ad effetto tipiche della filmografia USA, alcune inquadrature dietro le quali si intravede la telecamera e l’età anagrafica dell’autore che comunque è persona cresciuta, come tutti noi, con la televisione in salotto.

“Lei la considerava una tipica attività californiana, guardare la tua vita da lontano, cercando di riconoscere dai profili degli alberi e delle strade e dai ristoranti costruiti con la stessa forma delle loro specialità culinarie quale casa fosse la tua. (Questo prima di trasferirsi a New York e scoprire che riscrivere la propria vita in chiave cinematografica era un fenomeno nazionale, forse anche globale)” (pag.579)

E non è certo un caso che uno dei passi più riusciti dell’opera sia l’evidente tributo al Kubrick di “Eyes Wide Shout” delle pagg.40-90.
Night in NY Alfred Stieglitz 1896
***
“All’inizio avevo intenzione di scrivere un pezzo che specchiasse l’enigma che cercavo di risolvere: in che modo, dai contenitori grandi come macchine per il caffè e pieni di materiale inerte, escano sfolgoranti trame di colore che riempiono il cielo. Ho immaginato me stesso ricavare con maestria da pezzi separati un’unica esplosione. Invece adesso scopro di avere tentato di andare a ritroso, di aver provato a ricostruire un corpo unico dagli elementi che lo scoppio aveva disperso a caso” (Richard Groskoph, “Gli artificieri”, pag.31 – in “Città in Fiamme”)
“Città in Fiamme” – Il nuovo GRA
L’interesse statunitense per l’esordio di Hallberg è presto spiegato se si considera l’affanno con cui la critica a stelle e strisce è da tempo alla ricerca del nuovo GRA, il Grande Romanzo Americano. Giusto un anno fa, in occasione dell’uscita di “Purity” di cui venne proposta un’anteprima in traduzione italiana, IL pubblicò un interessante reportage in proposito (ospitando diversi interventi tra cui quelli di Christian Rocca e Marco Rossari), a uso e consumo del pubblico italiano. Philip Roth, Don De Lillo, Cormac McCarthy, John Updike e Toni Morrison – e poi, David Foster Wallace, Jonathan Franzen, Zadie Smith, Nathan Englander e Jeffrey Eugenides sono soltanto alcuni degli autori citati.
Non sorprende quindi l’ansia sempre crescente dell’audience americana, in attesa di quella nuova leva di scrittori casalinghi in grado di dare testimonianza dei mutamenti più recenti occorsi al mondo oltreoceano.
Hallberg in questo senso stupisce per furbizia, va notato. Con una captatio benevolentiae intelligente e sottile, che percorre tutto il testo, non si espone mai direttamente ma si schermisce e affida le sue (pur numerose) riflessioni a riguardo a due personaggi si potrebbe dire minori – e per altro destinati a fortune incerte: il primo è Mercer Goodman, il fidanzato di colore di William Hamilton-Sweeney, giunto a New York per “la divorante ambizione di scrivere il Grande Romanzo Americano” (pag.5-6) ma poi costretto a un impegno frustrante e a tempo pieno, quello dell’insegnante in una scuola privata d’elite (episodi di razzismo e omofobia compresi), e vittima di una relazione sentimentale complicata e di certo non alla pari, neppure dal punto di vista economico; il secondo è il giornalista sbandato Groskoph che, caduto in disgrazia dopo un esordio promettente, cerca con fatica di risalire la china – e si tace dell’esito.
 
Più di una volta Hallberg stempera le buone idee di cui è innegabilmente disseminato “City on Fire” attraverso l‘autoironia e l’impegno nel ridimensionare il ruolo dello scrittore, che se da una parte quasi mai risulta all’altezza alle aspettative a causa di limiti intrinseci (“Non illuderti di trovare qualcosa sotto la superficie” – pag.80), dall’altra è dichiarato vittima di un sistema che considera l’arte della narrazione soltanto come un mezzo attraverso cui autoincensarsi (“Non c’era niente che NY amasse leggere di più che di se stessa” – pag.194).
D’altro canto Hallberg non fa mistero della propria affezione (“…un tradizionalista” – pag.376) per un certo tipo di narrativa (“…la vecchia idea che il romanzo possa insegnare qualcosa” – pag.377) e del proprio debito nei confronti di tanti predecessori (“Truman [Capote] aveva i suoi demoni – chiunque avesse scolato un bicchiere insieme a lui lo sapeva- ma nessuno avrebbe potuto negargli quello di cui stavolta era stato capace: scomparire del tutto nelle vite degli altri” – pag.195) e raramente cede all’autocompiacimento (“…un giovane poeta [Balzac] arriva dalla provincia a Parigi per far fortuna, e alla fine scopre di essersi sbagliato su tutto. Tutti quelli che credeva dei geni sono degli idioti e viceversa” – pag.260). 
Non manca comunque una discreta dose di positive thinking – non averla sarebbe stato del tutto contrario ai principi del GRA – sia per quanto riguarda il Romanzo in sé (“…era ancora convinto che l’arte americana dovesse essere Grande” – pag.597) sia per quello che concerne l’istruzione pubblica statunitense – ricca com’è l’opera di riflessioni riguardo la necessità di mantenere alto il livello dell’offerta culturale del Paese, tanto quanto quello delle istituzioni scolastiche e degli spazi d’arte e cultura come musei e biblioteche, veri e propri luoghi di sviluppo della società civile.
 
***
“…c’erano ballerini impegnati in una danza al rallentatore sotto gli alberi rivitalizzati. Famigliole sedute in ordine sui teli, in una luce vinosa. Continuo a vedere scene simili dappertutto, arte pubblica difficile da distinguere dalla vita pubblica. (…) Quasi che i sogni potessero essere piatti alternativi nel menu delle esperienze possibili (…) [la] razionalizzazione di ogni ultimo desiderio” (prologo)
“Città in Fiamme” – il mondo artefatto
 
Early Spring Afternoon in Central Park
Willard Metcalf 1911 Credits @MichikoKakutani
E’ chiaro come il fil rouge di tutta l’opera di Hallberg sia la riflessione sull’essere e sul divenire, e la responsabilità individuale che questa trasformazione da <> a <> porta con sé. E’ un tema tipico della letteratura US – imprescindibile dal sistema-GRA – che viene direttamente dall’epica del selfmade-man – artefice del proprio destino e della propria fortuna, maglio se conquistata con fatica e sofferenza – così cara all’immaginario americano. Naturalmente a ciò fanno seguito l’altrettanto tipica ossessione per il raggiungimento del successo sia personale sia professionale, il problema connesso alla gestione del senso di colpa in caso di fallimento e il senso di profonda ingiustizia percepita nel momento in cui, pur avendo fatto tutto il possibile, ciò per cui ci si è spesi non accade, o non si ottiene:

“…l’esistenza di una causa logica significa che le cose non sono così incontrollabili. Ma per sua esperienza, a cercarne una con troppo accanimento si rischiava di sentirsi colpevoli, di rendere se stessi la causa quando invece si era ben lontani dall’esserlo” (pag.348)

Nonché l’idea dell’esperienza di vita unica e perfetta, irripetibile (“Il momento clou della giornata” – pag. ), che deve essere cercata e goduta a tutti i costi che tuttavia come conseguenza porta con sé l’idiosincrasia nei riguardi del momento della scelta. Una continua serie di bivi che, come ovvio, escludono a priori altre strade che non potranno più essere battute:

“…sembrava che oggi ogni americano avesse il suo gemello oscuro, la possibilità di una vita vissuta in un modo diverso, a fissarlo dalle vetrine e dallo specchio del bagno” (pag.290)

Tant’è che la passione tutta newyorkese per il racconto delle nevrosi – vere o posticce che siano, irrompe sin da pagina 45 e investe un po’ tutti i protagonisti specie quelli dell’alta società: manie di controllo, disturbi ossessivi, ipocondria, disordini alimentari, nient’altro se non i sintomi di un disagio profondo che rivela la tensione sempre crescente tra il desiderio di un cambiamento e il terrore del giro di boa all’uscita dalla propria zona di comfort. La situazione della classe operaia è da trattare a parte, densa com’è di fenomeni sociali al limite tra cui abbandono scolastico, bullismo, dipendenza dall’alcool, utilizzo di stupefacenti (e a far da collante tra operai e upper-class, l’eroina).
Edward Hopper credits @HopperAtoZ
La rappresentazione visiva di questo struggimento è, e sempre sarà, la metropoli newyorkese, che nell’immaginario di ogni statunitense è il “luogo in cui si concentra il cambiamento” (pag.320) per antonomasia tanto che, in un continuo disallineamento di aspettative, essa diviene l’unica entità in grado di insegnare ad ognuno “non quello che ti occorreva per vivere, ma prima ancora, quello per cui valeva la pena vivere” (pag.231). Una final destination che tuttavia, lungi dall’essere vissuta con rispetto e senso del dovere, è spesso depauperata e bistrattata in maniera parassitaria, per poi finire abbandonata nel momento in cui si ritiene abbia offerto tutto quello che era nelle sue possibilità offrire (o in assenza di un feedback giudicato adeguato):

“(…) gli americani non amano molto questa città, non la ammirano, non la stimano, non credono in lei e non ne hanno molta fiducia” (pag.161)

“(…) suo fratello William a diciassette anni era separato dal mondo che lo conteneva solo da una membrana sottilissima. In altre parole, era un ragazzo di città fatto e finito” (pag.172)

“(…)perfino i bambini, dietro il riflesso della strada che fluttuava nel vetro, avevano imparato l’arte di fingere di non vedere” (pag.671)

Il problema dell’aderenza a un canone è un altro tema tipico del romanzo di Hallberg e in generale della letteratura US, e nasce dalla necessità di inserirsi in un gruppo sociale coeso, definito da determinati parametri all’interno dei quali occorre rientrare. Chiaramente, non essendo tutto assoggettabile al raziocinio, la ricerca di un’identità propria diviene spesso una corsa al raggiungimento di una perfezione assolutamente astratta che nel migliore dei casi porta a una pantomima di inganno e finzione in cui sogni e desideri si mescolano a dar vita a una storia ideale, che non è reale, (una delle parole chiave che forse si potrebbero usare per capire qualcosa di più su “Città in Fiamme” è “coreografia” [pag.90]) e nel peggiore a un immobilismo decisionale se possibile ancora più pericoloso:

“(…) aveva preso tutte le carenze del suo matrimonio e della sua vita e le aveva suste per dare forma a una fantasia” (pag.360)

Da qui, l’impossibilità di sostenere una felicità qualunque (specie l’altrui: “la vicinanza al fascino del successo” pag.232) e la spinta a crogiolarsi nel decadente collettivo, nel momento della presa di coscienza: quell’attimo in cui si comprende la banalità della propria esistenza. Il sogno americano si spezza, i figli scappati di casa tornano dai genitori (nota a margine: il tema del ritorno in famiglia è molto forte in questo ultimo periodo, complice anche la crisi economica che mina l’indipendenza dei giovani e il drastico calo di stima nei confronti dei celeberrimi campus universitari che a parte qualche rara eccezione da IVY League si sono dimostrati, negli anni, centri di aggregazione di scarsa qualità e poco utili allo sviluppo personale e professionale dei teenagers), ogni scelta personale è foriera di gravi conseguenze, a volte drammatiche. La verità è una sola e Hallberg non fa mistero della sua tesi: nella città in cui tutti corrono per farcela, qualcuno ci riesce ma qualche altro, inevitabilmente, no.
Conclusioni: 1- mi è sembrato di vedere un gatto (cit.)
Se vi assale improvvisamente una certa sensazione di dejavu non preoccupatevi, siete in buona compagnia – ossia quella di tutte le persone che hanno pensato a Donna Tartt dopo aver letto le prime dieci pagine di Hallberg.
In verità c’è solo da rassegnarsi, perché è squisitamente inutile sforzarsi di combattere le assonanze che per tutta la lettura di “Città in Fiamme” il vostro cervello continuerà a produrre con “Il Cardellino”.
C’è da dire che i temi in comune sono davvero tanti, dalla location, naturalmente, all’intersecarsi di molteplici vicende su più piani temporali sfalsati, alla questione della Grande Disgrazia: dall’adolescente Charlie – adottato, asmatico, sfigato – a Samantha Cicciaro – abbandonata dalla madre e cresciuta da un padre assente, fino ai fratelli William e Regan (per la serie: anche i ricchi piangono) – insomma tutti i personaggi della saga non fanno altro che porre l’accento su un tema che alla Tartt è sempre stato a cuore, quello della genitorialità disfunzionale. Sia “City on Fire” sia “The Goldfinch” sono prima di tutto storie di padri e di madri anormali, e poi storie di figli che con fatica e dolore cercano in qualche modo di rimettersi in piedi, pur portando sul proprio corpo le cicatrici di anni di indifferenza e abbandono. Ambito riguardo al quale la letteratura d’oltreoceano s’interroga ormai da tempo.
Ma se Donna Tartt con “Il Cardellino” riesce nell’impresa di creare e mantenere viva una pluralità di voci e d’esperienze, focalizzando l’attenzione specie sull’infanzia abusata (le pagine sulla permanenza californiana del giovane Theo Decker sono tra le più belle della letteratura contemporanea, per intensità del lirismo e veridicità dell’introspezione), non si può dire lo stesso di Hallberg, che nonostante un’analisi complessivamente buona del mondo infantile molto probabilmente ne esce penalizzato dalla propria età anagrafica, riuscendo a perforare il muro del cliché letterario soltanto a tratti e restituendoci una serie di personaggi da questo punto di vista scarsamente caratterizzati.
 
Conclusioni: 2- guardo da qui o guardo da là?
Difatti è stato evidenziato da più parti come il punto debole di “Città in Fiamme” stia proprio nella pluralità di situazioni e personaggi che Hallberg, al pari della Tartt, decide di presentare.
In primis c’è la questione del punto di vista, che tecnicamente si avvicina più a un interno multiplo ma che poi in certi casi scivola verso un esterno quasi onnisciente, creando qualche strappo nel continuum della lettura. Pongono anche qualche difficoltà anche le connessioni tra i personaggi che non sono sempre intuitive e necessitano di una lettura attenta e soprattutto continua – il che non è semplice, data la mole dell’opera. Ciò che tuttavia ha impegnato di più (ad esempio su Minima&Moralia, per quanto riguarda la critica italiana) è stata l’analisi dello stile: sono proprio le sue peculiarità – forbito, sia per sintassi sia per lessico, erudito – moltissimi riferimenti letterari espliciti e impliciti – e complesso, a crearne il limite, quello dell’uniformità e del livellamento, fino al paradosso di avere personaggi completamente antitetici (Reagan Hamilton-Sweeney e Samantha Cicciaro, ad esempio, o il reporter Groskoph a confronto con Mercer Goodman) che pensano, riflettono, agiscono e si esprimono secondo modalità molto simili. Un risultato che in alcuni punti risulta poco credibile.
Un’altra critica mossa all’opera è la sensazione di collage che si respira leggendo alcuni capitoli che, è evidente, sono stati composti in tempi diversi (Hallberg ha impiegato quasi 10 anni per concludere la stesura). Alcune parti risultano convincenti e ispirate, altre invece funzionano meno perché ridondanti e poco coese, altre ancora convincono poco a livello di intreccio che per certi avvenimenti risulta un po’ semplificato e poco verosimile. Questo in verità è un difetto anche del Cardellino la cui autrice però, forte dell’esperienza e di una trama più accattivante, riesce ad attenuare con risultati migliori rispetto a quelli di Hallberg.
Conclusioni: 3- #punkeverywhere

“Il punk era un dio geloso che non tollerava l’esistenza di altra musica al di fuori di lui” (pag.250)

“(…) il paese è sfinito, le multinazionali controllano le nostre menti, i politici sono dei criminali. Potrei citarti capitoli e versetti, ma per quello ci sono i libri e, comunque, tu sai che è così se no non saresti davvero un punk” (pag.352)

Anche qui si potrebbe discutere per ore riguardo all’idea di Hallberg in merito, che se da un lato fa indiscutibilmente del suo meglio per inscenare un movimento punk credibile e aderente all’originale, dall’altro non fa mistero della coolness che deriva da una contestualizzazione di questo genere:

“Ultimamente tutto quello che era anni Ottanta, tutto quello che veniva da downtown, aveva acquisito lo status di icona del millennio” (pag.954)

Il risultato di tutto ciò è un’inevitabile sospensione del giudizio. Tecnicamente è impossibile mettere in atto un qualsiasi meccanismo di immedesimazione riguardo alcuno dei protagonisti della saga: i leader della vicenda sono da un lato imprenditori facoltosi, ricchissimi e cattivissimi e i loro discendenti dei casi umani debosciati e lagnosi che trovano conforto o nella droga o nel sesso promiscuo o nelle nevrosi alla Woody Allen. Dal punto di vista della classe operaia i personaggi potrebbero far pensare a una morale Dickesiana ma risultano troppo stereotipati per essere credibili: dal reporter alcolizzato al detective sottostimato e poliomielitico, dall’operaio italiano immigrato, tutto birra e televisione, al professore afroamericano, colto e gay, vittima di apartheid e omofobia. Anche volendo lasciar da parte la questione dell’immedesimazione, ci si chiede dove stia quell’idea dell'”insegnare qualcosa” attraverso la letteratura di cui Hallberg si fa ambasciatore: perché si rimane un po’ con la sensazione che sia stato tutto un gioco: giocare al giornalista, al detective, al tossico punk, all’adolescente disadattato, alla MILF vittima di disturbi alimentari. Ma un bel gioco, si sa, è bello fino a che dura poco e fino a che si è in grado di smettere.
Buona lettura (perché, comunque, è da leggere).

NB: Doverosa lode merita la traduzione di Massimo Bocchiola: musicale, dinamica, sciolta e croccante.

cityCredits @NYCDailyPics

Nota: il tweet di cui sopra #punkeverywhere fa riferimento alla mostra fotografica “Punk in Britain” che potete visitare ancora per una settimana alla Galleria Sozzani . Un buon modo per approfondire la questione, con i dovuti accorgimenti perché si fa riferimento appunto al movimento inglese e non a quello del cugino americano.

"Il Ciclope", di Paolo Rumiz

“A chi, come me, è nato in Adriatico, non la darete a intendere che i fari più belli d’Europa stanno in Bretagna o Cornovaglia. Sappiatelo, voi che amate il mare e vi fate infinocchiare dalle foto che glorificano torri oceaniche assediate dai marosi. Il Mediterraneo non è da meno” (pag.87)

Da diversi anni il giornalista triestino Paolo Rumiz – che, lo ricordiamo, da inviato speciale ha testimoniato attraverso i suoi scritti i momenti più salienti delle vicende mediterranee, dai conflitti balcanici agli eventi dell’Afghanistan – ogni estate intraprende un viaggio che poi riporta sulle pagine di Repubblica in forma di reportage a puntate.
Accompagnato da amici, poeti, registi, attori, scrittori e utilizzando i mezzi di trasporto più diversi (dalla bicicletta a una Topolino del ’53, dalla barca all’autostop) in più di dieci anni ha percorso migliaia di chilometri tra l’Italia e i Balcani, dall’Europa all’Artico, fino a Gerusalemme e Istanbul, con gli intenti più disparati: seguire le Alpi in tutta la loro estensione, raggiungere il sepolcro di Cristo, percorrere il lungo tragitto della Via Appia, visitare insediamenti industriali e civili in rovina. Da molti di questi itinerari sono stati tratti non solo delle inchieste giornalistiche ma anche dei docu-films alcuni dei quali presentati con successo di pubblico e critica.
Gita al faro
Nell’estate del 2014 Rumiz per la prima volta parte da solo, per trascorrere tre settimane su uno sperduto e deserto isolotto nel mezzo del Mediterraneo, all’interno di un impianto di segnalazione luminosa ancora attivo e comandato manualmente da un manipolo di guardiani in turnazione continua.

“Ora dovrei dirvi dove sono. Per esempio, che questa è un’isola lontana da tutto eppure al centro di tutto. Uno scoglio che, nonostante la distanza, è impossibile mancare. Dirvi che è microscopia, ma sulle mappe nessuno la dimentica, perché è un punto nave fondamentale. (…) Dovrei darvi le coordinate, latitudine e longitudine. Ma non lo farò. Non vi dirò nemmeno la nazione cui appartiene. (…). Non chiedetemi altro. Troppo facile, con i motori di ricerca. Bastano due-tre nomi e anche un bambino distratto ci arriva. Voglio che fatichiate a trovarla, che la navigazione si ardua, che vi perdiate nei libri prima che negli arcipelaghi. (…) Vi prego dunque, nel caso la trovaste, se siete affezionati alla mia scrittura e non volete che un luogo benedetto si invaso dall’orda degli infedeli, non ditelo a nessuno” (pag.17)

Nel volume “Il Ciclope”, edito da Feltrinelli come la maggior parte dei testi di Rumiz, il giornalista raccoglie in corpus le note di questo “viaggio immobile”, già pubblicate su Repubblica in precedenza.
L. Feininger

 

In realtà questo testo mi ha interessato non tanto per l’argomento in sé quanto perché esempio di un certo tipo di approccio al tema del viaggio, quello psicogeografico (che include anche, in questo caso, la prospettiva del turismo eco-compatibile), e inoltre per l’attraente assonanza tra le osservazioni di Rumiz e le caratteristiche che, almeno nelle opere di base anglofona, definiscono l’appartenenza al genere letterario definito del New Nature Writing.
Pronti, partenza, via
In completa antitesi con la formula contemporanea del mordi e fuggi all-inclusive, magari coadiuvata da qualche bel buono sconto per esperienze one-shot dichiarate imperdibili e relative foto sui Social, Rumiz celebra un turismo diverso, fatto prima di tutto di una progettualità che affonda le sue radici nel desiderio di trascorrere un tempo libero qualitativamente valido. Questo momento altro, che è segnato dalla consapevolezza per lo spazio e il tempo che ci si trova a occupare e che mira a evitare la trappola dello sfruttamento consumistico del territorio, è oltremodo speciale nel caso di Rumiz, il cui interesse si concentra soprattutto nei riguardi dell’interazione tra le vicende umane e lo spazio terrestre all’interno del quale si sono svolte, con particolare attenzione verso la Storia, antica e moderna.

 

 

Fa il resto l’approccio giornalistico del professionista che è caratterizzato da un impegno costante per la ricerca, la scoperta, la documentazione e la condivisione del sapere.
In questo caso tuttavia Rumiz va ancora oltre, scegliendo deliberatamente un luogo di reclusione assoluta all’interno del quale l’esperienza del viaggio – che occorre porti con sé non tanto avventure da spartire sul momento quanto conoscenze da condividere in seguito, una volta elaborate – diviene di necessità un percorso intimo all’interno di se stessi.
La reclusione è anche l’occasione per riflettere su analoghe esperienze passate ed è su questi racconti, trasfigurati nel più puro stile marinaresco, che si concentra tanta parte del reportage di Rumiz. Ecco allora la mente si affolla di ricordi: vecchi lupi di mare che in osterie fatiscenti, davanti a un buon bicchiere di vino, raccontano di naufragi e bastimenti fantasma affondati al largo di coste perigliose; luoghi remoti visitati da solo o grazie al talento dei compagni d’avventura (qualcuno dei quali anche in grado di recitare l’Odissea a memoria): le coste e i faraglioni del Pembrokeshire, nel Sudovest dell’Inghilterra, le acque attorno a Itaca fino a Corinto, Mikonos e le Cicladi, la visita alle rovine del carcere dell’Asinara; una gita a Capo Colonna, sulle orme di Annibale; quella al faro disabitato di Capo Trionto, a nord di Crotone; la spedizione a Point Hope, nell’estremo nord dell’Alaska.
E’ la perizia di skipper consumati, di maestri di vela, di anziani capitani in pensione che attraverso l’arte del racconto e del passaparola tessono una rete fittissima di notizie, rimandi, suggestioni che a poco a poco, con la lentezza vecchia di anni tipica del racconto orale di matrice ellenica, avvicinano Rumiz alla meta desiderata che si fa via via più vicina in un continuo “approccio pelagico” lontano anni luce dall’insipida rapidità del click al computer.

“La scelta di venire in questa Isola misteriosa la devo anche a un grande narratore di mare, Antonio Mallardi da Bari. Difficilmente conoscerò un’anima più omerica della sua. Pescatore, contadino, violoncellista, maestro d’ascia e consulente editoriale, ha inseguito dentici e murene dalle Tremiti alle Jonie e oltre ancora, fino al mare infuocato di Haifa. Con Fosco Maraini ha circumnavigato Itaca sott’acqua, una settimana a caccia di pesce di scoglio, con una barca d’appoggio. (…) Anche lui, cinquant’anni prima, aveva sognato di fare il guardiano di un faro. Gli mancava solo quello, nella sua vita inquieta. Il ministero della Marina lo aveva chiamato a sostenere gli esami e lui l’aveva detto a Mara, sua moglie. “O me, o il faro”, era stata la risposta. E così il desiderio inappagato è rimasto a covare in lui nelle notti di vento” (pag.22)

 

E. Hopper (@HopperAtoZ)
A ciascuno il suo (di New Nature Writing)
Su Medium, a proposito di tutt’altra narrazione – (fiction vs. non-fiction, e anche qui sta anche un po’ il succo – si rifletteva sulla declinazione nostrana del tema del New Nature Writing. Se per gli scrittori d’oltreoceano il NNW si definisce nel rapporto tra una natura aliena e insondabile e un’Umanità sempre meno propensa (e sempre più incapace) a comprenderla, probabilmente per noi il canone si svilupperà – parlo al futuro perché nessuno ha ancora provato a stilare un elenco – tenendo conto del ruolo che l’uomo ha, o ha avuto, sul nostro territorio, specie per quanto riguarda il rapporto con il Mediterraneo: e i reportage psicogeografici ne sono (forse) un esempio. E’ comunque stupefacente osservare come certe suggestioni travalichino geografia e generi letterari, ad esempio accomunando la scrittura del californiano Jeff Vandermeer, visionario, prolifico e apprezzatissimo sci-fi writer, con l’esperienza del più anziano Rumiz, appartenente a tutt’altra scuola:
  • l’idea di una natura che cerca in ogni modo di riprendersi i propri spazi difendendo se stessa dall’invasione dell’uomo (“Il mare si svuota: e a ripulirlo non è la pesca dei miei due simpatici bucanieri, ma quella industriale e sistematica. I tre-quattromila gabbiani sulle praterie e gli strapiombi non hanno quasi più niente da mangiare in acqua e cercano cibo in terraferma. Qualsiasi cibo. Sono diventati feroci. Da allora molto è cambiato per me. La natura, cui all’inizio avevo guardato con l’imbecillità contemplativa dell’uomo urbanizzato, si è svelata tutt’altro che pacifica. (…) Il loro urlo senza voce dice che in trent’anni il Mediterraneo si è svuotato del settanta per cento della sua ricchezza ittica. Me l’aveva svelato Tamara Vucetic, biologa marina croata, durante un viaggio in Dalmazia” [pag.65-66] “Siamo pieni di paure, certo, ma paure di cose senza significato, e le paure a vuoto si chiamano paranoie. Ci manca il timore vero, quello supremo. L’orrore di noi stessi, incapaci di sentire il grido della natura che boccheggia (…). [pag.69])
  • un viaggio che è esplorazione e racconto, pieno di note e diari (“Rileggo il diario di quel primo giorno. Frasi brevi, quasi degli haiku” [pag.13]); una meta che si distingue più per quello che non è, un non-luogo denso di storia che crea nel visitatore uno sdoppiamento dell’individualità (“Troppo improvviso il passaggio dal pieno al vuoto di questo luogo. Forse è il corpo che tenta di resistere al risucchio del nulla. Perché davvero, qui, se sei solo, rischi di diventare matto. Parli con te stesso, ti viene naturale, e non ti accorgi di farlo per il semplice motivo che hai il tuo Doppio accanto” [pag.15]) ; l’archetipo dell’Isola, quasi una creatura senziente gettata di traverso a intersecare coordinate universali altrimenti imperscrutabili (“Per leggere ora devo accendere la lampadina frontale. Sento che l’Isola è un sensore nell’universo che la circonda. Un’antenna parabolica di pensieri vaganti” [pag.92] “La torre solitaria in cima alla montagna è un ripetitore di suoni ultraterreni, un’antenna sintonizzata su frequenze non udibili ai vivi” [pag.114])
  • il misticismo religioso, l’esigenza di contatto con il divino e la ricerca di un significato superiore (“Qui sei un miserabile nulla davanti all’immensità della natura. (…) Quanto ci farebbe bene, penso, un po’ di sano, superstizioso timore dell’ira d’Iddio – o degli dei – per guarire da questa oscena sicumera che nasce dal sentirci garantiti e sazi in un mondo pieno di strepito e incoscienza” [pag-15]); il faro come luogo di culto, legato non solo al divino tradizionale (sia esso Cristiano, Musulmano o pagano) ma anche a una dimensione ultraterrena che affonda le sue origini nel mistero (“Non so perché ci ho messo tanto a guadare dentro i cristalli concentrici dell’apparato ottico. (…) Quel capolavoro millimetrico ti costringeva quasi a prostrarti, come davanti a una divinità, un enigma. O la pupilla di una sfinge” [pag.53-54])
  • l’inesprimibilità dei concetti, la meditazione sul linguaggio e in generale sulla lingua (“A ripensarci, mi rendo conto di non aver scritto io questa storia. Sono stati il vento e la marea. Io non ho fatto che registrarne la voce amplificata dal ventre cavo della torre” [pag.14] Ho anche la sensazione che il mare aperto lentamente disidrati i pensieri, renda superflua la sintassi, le spiegazioni, come se fosse vano comunicare l’incommensurabile. (…) Scrivo per disciplina, per mestiere o per autosuggestione. Scrivo perché lascio che sia il mare a dettare la storia. Ma sento che, se davvero non opponessi resistenza, quello stesso mare mi porterebbe pian piano al silenzio” [pag.93])
Una nota a parte merita la riflessione, sempre presente ma mai né ridondante né stucchevole, sulla storia e le civiltà del Mediterraneo che da sempre, e per millenni, ha ricoperto l’importantissima funzione di crocevia e luogo di scambio di lingue, culture, mestieri e materie. E’ un tema chiaramente difficile da affrontare, specie di questi tempi; Rumiz lo gestisce con sapienza e serietà, senza mai abbandonare una certa leggerezza di approccio (cfr. il capitolo “Ego Adriaticus Sum”), che doveva necessariamente caratterizzare questo reportage.
 
L’unico appunto al testo potrebbe derivare da una fruizione che evidentemente non è per tutti, in special modo per coloro che non provengono dall’area delle lettere classiche. Non solo perché il testo è denso di rimandi espliciti ma anche impliciti alla grecità antica in tutte le sue forme – storia, arte e letteratura – ma anche perché la lettura di alcuni punti necessita, per essere apprezzata appieno dal punto di vista stilistico, di una parziale sospensione del giudizio. Mi riferisco in special modo alle parti relative ai racconti in stile marinaresco e alla poetica che ruota intorno al cibo e al nutrimento: due temi per i quali Rumiz utilizza un linguaggio ricercato, costruito e arcaicizzante che mira alla creazione di particolari corrispondenze mentali. Tali assonanze tuttavia risultano evidenti soltanto a chi è pratico di certi studi mentre c’è rischio che vengano fraintese e interpretate solo come uno stucchevole gioco letterario da parte di orecchie meno allenate. 
 
Buona lettura

“The Southern Reach Trilogy”, di Jeff Vandermeer

Avvertenza: data la lunghezza (lettura stimata 13 minuti) il post è stato originariamente pubblicato su @MediumItaliano: ho scelto poi di copiarlo su ADC per facilitare l’utilizzo di Google Translator così come mi hanno richiesto alcuni followers anglofoni. Cliccare qui per essere reindirizzati alla pagina originale – e ai commenti.
In cui si cerca di riflettere, tra le altre cose, su: l’evoluzione del sistema New Weird e la nuova frontiera dell’eco sci-fi — o climate fiction che dir si voglia; cosa sia il *new #NatureWriting*, per quale motivo se ne parli così tanto all’estero e così poco qui da noi, e del perché lo si ponga in correlazione con la SRT; le belle amicizie che si fanno su Twitter, specie durante le ferie estive. Non ultimo, su “Accettazione”, il terzo e ultimo volume della trilogia di cui al titolo.

 

1. Il New Weird. Corrispondenze, interferenze

 

“Kerans si disse che aveva fatto bene a restare all’interno dell’albergo: le tempeste scoppiavano con frequenza sempre maggiore via via che la temperatura andava aumentando. Ma Kerans sapeva benissimo che il reale motivo della sua decisione era l’accettazione ormai passiva del fatto che gli restasse ben poco da fare. Le rilevazioni biologiche erano diventate un gioco senza senso e privo di alcuna utilità, dato che la nuova flora seguiva pedissequamente le tendenze anticipate dagli scienziati vent’anni prima, ed era sicuro che nessuno a Camp Byrd, nella Groenlandia settentrionale, si preoccupava di archiviare i suoi rapporti, figuriamoci poi di leggerli” . (JG Ballard, “Il mondo sommerso”, Feltrinelli 2005, trad. Stefano Massaron, pag.5)

“Il microscopio era abbandonato da tempo in un angolo, coperto di muffa, semisepolto dal passare degli anni . Non avevo la forza di prelevare un campione, di scoprire quello che già sapevo. In fondo, un microscopio non poteva dirmi niente di quel gufo che già non sapessi. Niente che non avessi capito in anni e anni di stretta interazione e osservazione”. (Jeff Vandermeer, “Accettazione”, Einaudi 2005 pag. 148)

 

Edward Hopper. Credits @HopperAtoZ

 

E’ sufficiente questa simmetria tra il biologo Kerans e la biologa senza nome protagonista della SRT a rendere evidente il debito di Jeff Vandermeer nei confronti di James Graham Ballard, debito a cui segue di necessità un tributo che percorre tutta la “Southern Reach Trilogy”. In verità però ho scelto questo paragrafo, uno tra i tanti recuperati dal mio Feltrinelli sgualcito, anche perché credo che confrontato con quello di Vandermeer, citato appena sotto, riesca a identificare meglio di molti altri (forse più evocativi ma meno efficaci) le motivazioni che hanno determinato la scissione di cui Jeff Vandermeer è stato artefice: quella tra la fantascienza propriamente detta e il movimento New Weird.

Del fenomeno New Weird avevamo già avuto modo di parlare in occasione dell’uscita di “Annientamento” e ancor più con la pubblicazione di “Autorità”, SRT parte seconda, che aveva innegabilmente risvegliato le attenzioni della critica nostrana fino ad allora sicuramente entusiasta dell’opera ma poco avvezza a trattare certi argomenti più consoni, per tradizione, alla narrativa d’oltreoceano.

[Ricordiamolo cos’è, questo New Weird, utilizzando proprio la definizione data dallo stesso Vandermeer nel lontano 2008: “A type of urban, secondary-world fiction that subvert the romanticized ideas about place found in traditional fantasy, largerly by choosing realistic, complex real-world models as the jumping off point for creation of settings that may be combine elements of both science fiction and fantasy”]
Il columnist Joshua Rothman, l’Archive Editor del The New Yorker, con l’articolo “The weird Thoreau” (01/2015) dimostra inequivocabilmente come in realtà la critica anglofona, guardando ancora più avanti, non solo abbia affrontato il fenomeno NW con dovizia di interventi ma si sia ritrovata ad accostarlo, e non senza ragione, a uno dei temi che da un paio d’anni tengono banco sulle maggiori riviste culturali UK/US: la rinascita del Nature Writing.
 
2. Il “New Nature-Writing”. Parte prima: dalla nostalgie della boue all’Antropocene

“Try sci-fi and sci-fi film (…). “It opens up worlds of imagination. (…) “Some of the most exciting thinking about identity and landscape seems to me to be happening in science fiction and speculative fiction, which I teach in these terms: the extraterrestrial pastoral as a means of radically rethinking notions of belonging and place”.

Tra i tanti espedienti attraverso cui cominciare a parlare di #NatureWriting ho scelto deliberatamente questo, ossia riferirmi a un passo dell’articolo “Toward a Wider View of “Nature Writing” a firma della giornalista e scrittrice Catherine Buni, pubblicato sul Los Angeles Review of Books il gennaio scorso. In verità qui la Buni sta citando altre due fonti (Nikky Finney e Robert Macfarlane) e la questione centrale dell’articolo si basa non tanto sul NNW quanto su una sua particolare interpretazione (lo studio delle relazioni che legano “culture, place, *race* and identity”) — ma questo al momento ci interessa relativamente.
Cito questo passo non perché sia il primo sull’argomento, o il più interessante; la realtà è che mi ci sono affezionata perché leggendolo sono riuscita per la prima volta a fissare nei miei appunti un concetto fondamentale: il New Nature Writing ha ormai travalicato il genere letterario da cui è nato; il che, a mio parere, non è poco. Poi vedremo perché.
Ma facciamo un passo indietro. Ai primi di marzo appare su Rivista Studio un intervento di Francesco Guglieri dal titolo “Dire attraverso la natura”. FGuglieri (per primo) ad uso e consumo di noi residenti nelle province dell’impero si propone di fare il punto sulla questione dello “scrivere secondo natura” differenziando la tradizione tutta britannica dello scrivere sulla natura dall’approccio moderno al tema dell’ambientazione rurale, che diviene, piuttosto, un dire qualcosa utilizzando la natura. [Qui su ADC potete trovare un po’ di bibliografia sull’argomento, nel post dedicato all’ultimo romanzo della scrittrice canadese Frances Greenslade pubblicato in Italia da Keller Editore]. Guglieri è seguito più o meno a stretto giro da Fabio Deotto che dalle pagine della Lettura (2/08/2016) addirittura si spinge fino ad annoverare la SRT tra gli esempi più felici e recenti della climate-fiction.
Ricominciamo. Nel suo saggio Guglieri citava tra gli altri l’articolo — divenuto ormai un must-read sull’argomento — del giornalista Steven PooleIs our love of nature writing bourgeois escapism?” (The Guardian, 6/07/2013). Poole, pur tecnicamente abbastanza scettico (“L’aumento del moderno appetito dei lettori metropolitani nei riguardi di opere che parlano di passeggiate e della scoperta di se stessi nella natura è l’equivalente letterario dei mercatini a chilometro zero che vediamo nascere e crescere nel nord di Londra” — e citando questo passo ho detto tutto) pone l’accento su una questione specifica, quella del rewilding:

“On one hand, nature is considered as something we should not attempt to manage — what is wild is just what is not cultured. Rewilding, Monbiot promises, “is about resisting the urge to control nature and allowing it to find its own way”. There is a certain smug hands-off paternalism to this image, as though the rewilder is watching from a safe distance while nature, like an adorable little child, wanders off haltingly on its own path

che se ne porta dietro inevitabilmente un’altra:

Nature writers do tend to whitewash the non-human world as a place of eternal sun-dappled peace and harmony, only ever the innocent victim of human depredation (Leach even says nature is like a “hostage” and we her “captors”) — always somehow forgetting that nature has exterminated countless members of her own realm through volcanic eruption, tsunami, or natural climate variation, not to mention the hideously gruesome day-in, day-out business of parts of nature killing and eating other parts. (…) If you go back far enough, human beings aren’t native to any part of the world except Africa. So we must be among the most invasive species of all. We’re eternal immigrants to a nature where we don’t belong. This assumption, too, is common in modern nature writing. We are interlopers, intruders. Nature is no longer our home”.

Va bene, questa cosa dell’Antropocene l’abbiamo già sentita. Dove? Ma certo, vi ricordate l’hashtag dell’agosto scorso, #TheSixthExtinction? Si tratta del titolo di quel documented book che zitto zitto ha scalato le classifiche US e alla fine s’è vinto pure il Pulitzer 2015 per la non-fiction e che, in sostanza, raccoglie gli ultimi reportage riveduti e corretti della giornalista statunitense Elizabeth Colbert, specializzata in temi ambientali. In Italia è stato pubblicato da Neri Pozza e io ne avevo parlato qui, ammorbando i miei followers con decine di twitts sull’argomento.
Ma parlando di Antropocene, a darci il colpo di grazia in tutta questa storia, ingarbugliata di suo fin dalla nascita, come si vede, è stato infine il bravo Gianluca Didino che con l’articolo “Alle radici del nature writing contemporaneo: da Ballard a Sebald, la scrittura della natura al tempo dell’Antropocene racconta molto più di quanto si possa pensare” ci è venuto in soccorso poche settimane fa associando il NNW al superamento del genere letterario di origine.
D’altra parte, già nel 2013 così si esprimeva lo scrittore Tim Dee nell’articolo “Supernatural: the rise of the new nature writing”:

“Until relatively recently, things were clearer; the British branch of nature writing was mostly about the countryside, its landscape and creatures; it was non-fiction, non-scientific prose characterised by close attention to living things that were known and often loved by its writers. It almost always felt as if it had come from the pre- or barely industrial past and, with rare exceptions, nature writing was nice writing and it walked — stout shoes and knapsack — a thin green lane between hedges of science on one side and a wild wood of poetry on the other. It was different from either, though fed by both, and it bled palely back into each. It developed through letters (for example, Gilbert White),diaries (Francis Kilvert), essays (Edward Thomas) and journalism (WH Hudson). (…) In this crisis of the end of nature, poetry, polemic and scientific prose have vastly lengthened the nature-writing booklist. Meanwhile old taxonomies, hierarchies and clarities have disappeared”.

The High Shore, (1923) Lyonel Feininger. Credits TBC
3. Il “New Nature-Writing”. Parte seconda: “a religious experience”

“Books on nature and landscape follow fashion, just like everything else. At present, the dominant mode is the transcendental: muddy-booted birdwatchers are out, and high-minded Emersonians are in. Arguments from authority — the lab smarts of the ecologist or zoologist, the field knowhow of the naturalist — have lost their clout. The writer Melissa Harrison has made the case that “some experts forget that fostering a love of nature doesn’t start with facts and statistics, but stories and experience: things that engage our hearts and bodies as well as our minds.” Facts are less interesting than personal experience. But this is not any old personal experience. It is, to all intents and purposes, religious experience”.

Lascio da parte la questione dell’Antropocene per soffermarmi su un altro aspetto del NNW che mi sta particolarmente a cuore. A scrivere quanto sopra è il giornalista Richard Smyth, che nell’aprile scorso pubblica sulla rivista New Humanist un saggio dal titolo inequivocabile: “The cult of nature writing. A resurgence in nature writing offers secular transcendence. But are we being led up the garden path?”. [O.T. : “Authority”: ora, non so voi, ma io a volte ho, onestamente, l’impressione che Jeff Vandermeer mi stia prendendo in giro, seminando sassolini qui e là che poi mi tocca raccogliere e conservare. Comunque, andiamo avanti]. Smyth si occupa di un aspetto a suo dire fondamentale del New Nature Writing, ossia l’esperienza religiosa, spesso a un passo dal misticismo, che il NNW o per lo meno quello di ultimissima generazione porta con sé.
“Ora che la maggior parte degli scrittori ha escluso la divinità dai propri progetti, siamo rimasti o di essa sguarniti, oppure, viceversa, ci troviamo nella condizione di dover cercare qualche altro punto di riferimento”: cosi Smyth cita David George Haskell, autore di The Forest Unseen. E continua:

“The many stories of the universe from which we sprang provide one such center: transcendent power, inscrutable complexity, and humbling vastness. When we get a taste of these we’re inclined to preach the revelation to others. I see this move as directly parallel to the impulses underlying mystical religious writings. This parallelism results in not a convergence of language, but language flowing from the same source. (…) Haskell is a writer who can combine a kind of transcendentalism with a clear, human prose style. He also has a Cornell PhD in Ecology and Evolutionary Biology. Others of those who come down to us from the mountain bearing strange writings might not have PhDs or years of hands-on experience, but that’s precisely the point — they don’t need those things, because they have something better. They speak with the voices of prophets”.

[Nota a margine: per complicare ulteriormente le cose, accenno soltanto al fatto che Smyth citi tra le altre sue fonti anche Philip Hoare, che scrisse l’introduzione a “Leviathan” di Samuel Johnson (2008), opera poi pubblicata in Italia da Einaudi e recentemente suggerita su Twitter dallo stesso Guglieri quale esempio di testo NNW].
Smyth affronta la questione anche dal punto di vista stilistico quindi, evidenziando come all’aumentare della dimensione trascendentale vada in crescendo anche una certa, tipica “prosa da pulpito” che “duplica l’oscurità e crea qualcosa che può essere potente ed evocativo — e che può, forse, essere poeticità – ma che non è realmente interessato a spiegare alcunché” . Né più né meno di quel che accade nella SRT (“Leaning towards obscurity may be an honest reflection of the writer’s priorities — after all, putting the personal ahead of the general is what novelists and poets do all the time” chiosa bonariamente Smyth):

“It’s interesting to note, by the way, that while the Victorian heyday of popular nature writing was dominated by Anglican clergymen exploring the science of their subject, the big players in today’s scene are writers of a humanist bent pushing a transcendentalist angle”.

Non è possibile fare altro se non concludere così questo terzo punto:

“La mano del peccatore esulterà, perché non c’è peccato nell’ombra o nella luce che i semi dei morti non possano perdonare” (Jeff Vandermeer, “Accettazione”, Einaudi 2005 pag. 259). Detto e fatto.

French Coast, (1892) Van Rysselberghe. Credits @MichikoKakutani
4. Appunti in breve: “Accettazione”, di Jeff Vandermeer
Con “Accettazione” si conclude infine la Trilogia dell’Area X: tra continui flashback e ritorni al presente torniamo a seguire le vicende della biologa (o meglio, del suo doppio, l’Uccello Fantasma) e di John Rodriguez (“Controllo”), del guardiano del faro Saul Evans, di Cinthya, la direttrice, e della sua vice, Grace Stevenson, fino alla conclusione (o presunta tale?) che non disattende di certo le premesse e il piano dell’opera.
Non ci si aspetti neppure in questo volume — che va assolutamente letto di seguito ai precedenti pena la perdita di una consequenzialità tematica e stilistica difficile da recuperare a distanza, ecco il perché della pubblicazione a date ravvicinate — una lettura facile, svelta e di chiara interpretazione.
La struttura di questa terza parte è già di per sé complessa, definita com’è dai continui salti temporali a cui il lettore è costretto: il presente — la fuga della biologa e di John Rodriguez all’interno dell’Area X e, in parallelo, quella della vicedirettrice Grace; un passato recente — la spedizione misteriosa e non autorizzata della direttrice e del suo vice Whitby; un passato invece più remoto — quello del guardiano del faro, Saul Evans; il racconto della biologa, anch’esso ormai trascorso, che narra in prima persona i momenti passati all’interno dell’arcipelago e del faro sull’isola contaminata.
La lettura è complicata anche da un progetto stilistico che raggiunge una forte ed evidente complessità sintattica e lessicale (ben resa anche in traduzione) mai fine a se stessa ma vòlta a dimostrare l’inutilità della più alta espressione umana nel momento in cui sia necessario descrivere un reale altro e completamente estraneo.
Vandermeer è preparato in materia e sono evidenti la consapevolezza riguardo il genere letterario affrontato e la conoscenza dell’opera dei predecessori. Specie la stampa estera si è domandata, all’uscita di “Acceptance”, se la “Southern Reach Trilogy” sia da considerarsi oltre che un manifesto programmatico del fenomeno New Weird un esempio di quel complesso sistema “New Nature Writing” che sta facendo tanto parlare di sé. Gli elementi come si diceva ci sono tutti: dalla riflessione, se vogliamo più banale e intuitiva, sul ruolo del genere umano all’interno della biosfera fino alla suggestione del rewilding (i conigli di “Authority”, ve li ricordate?), per non parlare dei temi legati all’utilizzo del linguaggio, ai sistemi di comunicazione, alla loro interpretazione e al misticismo religioso. Parallelismi che sembrano non lasciare dubbi sulle origini dell’opera ma anche sull’intenzione dell’autore di travalicare anche questo sottogenere letterario con un lavoro che, come abbiamo visto, raccoglie in sé le tendenze più innovative della letteratura contemporanea.
5. Il “New Nature Writing” autoctono: sogno o realtà? & Thanks to…

“Era quella che si dice una giornataccia. Salivo per il sentiero a picco sul mare lottando con le raffiche, e nel buio dovevo badare a dove mettere i piedi. Da ovest arrivava il temporale, la folgore mitragliava un promontorio lontano simile a una testuggine. Ero sbarcato appena in tempo: con quel mare in tempesta non sarebbe arrivato più nessuno per chissà quanti giorni. Ero solo, non conoscevo la strada del faro e l’Isola era deserta. Miglia e miglia lontano, il resto dell’arcipelago era inghiottito dal buio e dalla spruzzaglia. Non una luce, niente”.

“Rileggo il diario di quel primo giorno. Frasi brevi, quasi degli haiku. ‘Ore tre. Impossibile riprender sonno. Aprile, notti fredde’”.

Scale a chiocciola, una porta bianca, una scala di ferro, una seconda scala. Oltre non vado. Ho paura che l’occhio di Polifemo si possa guardarlo solo nel riflesso dei vetri esterni, e da un angolo più basso. Oltre, temo che la luce sia intollerabile. (…) A ripensarci, mi rendo conto di non aver scritto io questa storia. Sono stati il vento e la marea. Io non ho fatto che registrarne la voce amplificata dal ventre cavo della torre”.

“E’ la notte della Risurrezione, ma sembra quella del Golgota: chissà se il Nazareno ha già spostato la pietra del Sepolcro. (…) Quanto ci farebbe bene, penso, un po’ di sano, superstizioso timore dell’ira d’Iddio — o degli dèi — per guarire da questa oscena sicumera che nasce dal sentirci garantiti e sazi in un mondo pieno di strepito e incoscienza”.

“Forse è il corpo che tenta di resistere al risucchio del nulla. Perché davvero qui sei solo, rischi di diventare matto. Parli con te stesso, ti viene naturale, e non ti accorgi di farlo per il semplice motivo che hai il tuo Doppio accanto (…). Lo sento anche ora: se aprissi gli occhi lo vedrei seduto al capezzale. Ieri per due volte volte, esplorando l’Isola prima della pioggia, mi sono voltato per capire di chi erano i passi dietro di me, ma non c’era nessuno”.

Edward Hopper. Credits @HopperAtoZ

Questi brani non sono tratti dalla SRT bensì da “Il Ciclope”, l’ultimo lavoro di Paolo Rumiz uscito a novembre 2015 per Feltrinelli e credo parlino da soli, senza bisogno di commento. Mi piacerebbe avere il tempo e le risorse (nonché il talento! — piccolo particolare) per raccogliere la sfida lanciata da Luca Albani via Twitter: cominciare a definire un corpus di testi su cui poter poi innestare una riflessione critica riguardo la potenziale esistenza di un New Nature Writing tutto italiano: a quanto pare, il materiale non mancherebbe.

Per il momento però non posso fare altro che ringraziare non solo Luca Albani ma anche Francesco Guglieri che con pazienza e passione, tra un twitt e l’altro, mi hanno accompagnato in questa mia avventura da autodidatta alla scoperta del New Nature Writing. Spero di aver ricambiato con queste note, almeno in parte, la loro infinita cortesia.

Buona lettura

 

"Il nostro riparo", di Frances Greenslade

I tend to work with emotionally repressed personalities. I find their lack of communication fascinating.
But repressed emotion needs its outlet, and so my landscapes not only mirror my character’s psyches but bear the displaced weight of the emotion itself”
Così la scrittrice statunitense Michelle Hoover, chiamata a una riflessione di recommended reading sulle pagine del magazine culturale Electric Literature, commenta una delle peculiarità attribuite da alcuni critici alla sua ultima opera “Bottomland”.

Contestualizzazione e Landscape
L’autrice fa riferimento al momento in cui, nella narrazione, la ricostruzione ambientale cessa di ricoprire una mera funzione contestualizzante e viene ad assumere all’interno dell’opera le caratteristiche di co-protagonista, vòlta a creare un rapporto di comunanza o addirittura di simbiosi con gli altri personaggi della vicenda, rispecchiandone le caratteristiche quale testimone inconfutabile – o viceversa rendendo evidenti quelle nascoste.
Una relazione profonda, insomma, tra personaggio e landscape, in particolar modo quando il contesto dell’opera necessita di un’ambientazione rurale, tanto forte e complessa da diventare paradigmatica e addirittura strumento per l’identificazione di una nuova tipologia letteraria, come si vede dai “10 Great Novels of the Rural” di cui l’autrice consiglia la lettura.
Il “Nature Writing”
Stiamo parlando di una particolare declinazione di quel processo del “dire attraverso la natura” già da un po’ oggetto di accurata indagine da parte degli addetti ai lavori – prima esteri e poi, da qualche tempo, anche locali. L’editoriale di Francesco Guglieri, apparso sulla rivista Studio dello scorso 9 marzo, offre una sintesi precisa e circostanziata del fenomeno del nature writing,che si differenzia dalla scrittura naturalistica tradizionale perché – proprio come sostiene la Hoover – benché “la natura rest[i] un’alterità che non si può riportare senza tradirla (…) posso in qualche modo per articolare un problema, per imporre una forma all’informe” (F. Guglieri, op. cit.)

A sostegno di questa tesi Guglieri porta l’Einaudi “Io e Mabel” e “L’arte di collezionare mosche”, uno degli ultimi bestsellers di Iperborea. Insomma uno strumento quanto mai utile per la narrativa… a patto di evitare la trappola dell’idealizzazione.
Guglieri cita in proposito il bel saggio di Steven Poole, columnist britannico specializzato in studi sul linguaggio e di critica culturale, che già nel 2013 metteva in guardia i lettori verso quel certo “modern appetite of metropolitan readers for books about walking around and discovering [theirselves] in nature”.
Gli scrittori che si occupano di nature writingdice Poole – tendono a dipingere il mondo non-umano come un luogo di eterna, soleggiata pace e armonia, (e la natura) quale unica vittima innocente della devastazione a opera dell’uomo – sempre dimenticandosi, in un modo o nell’altro, di come essa sia artefice dello sterminio di un numero illimitato di sudditi del proprio regno attraverso eruzioni vulcaniche, tzunami e variazioni climatiche, per non parlare di tutte quelle orribili e cruente attività quotidiane nelle quali i suoi membri, tra uccidersi e mangiarsi a vicenda, sono impegnati”.
Essendo ormai assodato che il nostro “back-to-nature revival” altro non è se non “la risposta alle SpA e alla crisi finanziaria”, occorre quindi guardare all’argomento con saggezza evitando facili strumentalizzazioni e continuando a rivolgerci alla natura con il rispetto che essa si merita.
Frances Greenslade, “Shelter”
Tutto questo per dire che fra gli esempi di una certa tipologia riuscita di nature writingio inserirei pure il romanzo della scrittrice canadese Frances Greenslade, “Shelter”, pubblicato in Italia da Keller Editore che ne mantiene in parte il titolo anche in traduzione (“Il nostro riparo”).
Si tratta della storia di due sorelle, Maggie e Jenny, che crescono nella British Columbia rurale dei primi anni settanta del novecento.
Il punto di vista è quello di Maggie, la più piccola, che attraverso uno sguardo limpido e appassionato offre al lettore uno spaccato oltremodo verosimile della quotidianità di un piccolo paese della più occidentale provincia canadese: vita all’aria aperta, natura incontaminata, corse in bicicletta, avventure per i boschi, un rapporto con i genitori fatto di complicità e affetto – in special modo quello per suo papà, un boscaiolo di origini irlandesi che, di giorno in giorno, le insegna l’arte del vivere nella natura; dal riconoscere le impronte degli animali sulla neve al costruire una capanna di fortuna in caso di emergenza (a questo fa appunto riferimento il titolo), fino a come sopravvivere in attesa dei soccorsi in caso ci si perda e si venga sorpresi dal buio freddo della sera – coprendosi bene, tenendosi asciutti e idratati, evitando ruscelli scoscesi, animali selvaggi, erbe velenose.

A fine estate e in autunno papà mi portava nei boschi quasi tutti i fine settimana. (…) Io e papà non ci allontanavamo molto, al massimo a un’ora da casa o poco più. A volte andavamo a pescare in uno dei laghetti della zona. Se trovavamo una canoa abbandonata o una barca a remi sulla riva, e le trovavamo spesso, ce ne impossessavamo e ci immergevamo nella quiete verde del primo mattino, la nebbia che si sollevava, il tonfo di un pesce che avventava su una mosca. Una volta costruimmo una zattera, impiegammo quasi tutto il giorno a tagliare pali e fissarli ai due tronchi galleggianti. Poi attraversammo il lago a colpi di pagaia fino a un isolotto, e lì accendemmo un fuoco e restammo finché non spuntò la luna. Certe volte andavamo a cercare funghi o frutti di bosco e ce ne tornavamo a casa con un bel bottino per la mamma e Jenny. Ma la cosa che mi piaceva di più in assoluto era quando papà mi mostrava realmente come si costruiva un rifugio. Sapeva fare rifugi a tettoia, rifugi stile tepee e rifugi naturali che già di per sé permettevano di ripararsi dalle intemperie, come una sporgenza di roccia che formava una caverna e bastava infilarci dentro qualche foglia isolante per ottenere un po’ di calore in più.” (pag.34)

Lo sguardo di Maggie così come è limpido nel giudizio del mondo naturale che va rispettato e temuto, e che spesso è foriero di eventi drammatici e pericolosi, è altrettanto acuto per quello che concerne la vita dentro casa. Se il papà è di umore spesso volubile e va trattato con attenzione (“Ti devi accostare a lui come a un uccellino ferito, con cautela. Troppe attenzioni e sarebbe volato via” – p17) così la mamma, seppur “costante delle nostre vite, certezza e conforto” (ibid.) a volte appare distante e pensierosa.

Mi sentivo fortunata ad avere una mamma che ci portava in campeggio, che non aveva paura degli orsi, che amava guidare lungo le strade del legname e quelle che lei chiamava le , che dalla Statale 20 si inoltravano nella foresta. Trovavamo laghi, capanne di tronchi in rovina e piccole valli segrete; sembrava che fossimo noi le prime a scovare quei luoghi. Quanto più lontano eravamo dagli altri esseri umani tanto più buono giudicavamo un posto dove accamparci” (ibid.)

Naturalmente non tutto è come sembra, e Maggie ne è in qualche modo consapevole; siccome la realtà del quotidiano non è certo idilliaca in un paese di campagna nel quale a stento arriva anche l’elettricità e le disgrazie – di salute e sul lavoro – non mancano mai, la bambina impiega anche poco a rendersi conto del fatto che, lo si voglia o meno, qualcosa potrebbe anche capitare:

La gente non fa che cercare segnali, così può dire , come se noi lo fossimo, come se noi avessimo dovuto prevederlo. Ma segnali non ce n’erano stati” (pp.13-14)
Poco dopo il suo decimo compleanno, infatti, il papà perde la vita in un incidente sul lavoro come ne capitano di continuo, e la mamma, con l’inizio dell’estate, lascia le due bambine a balia da una conoscente, dopo aver accettato un lavoro per la stagione e promettendo di recuperarle appena possibile. Cosa che, chiaramente, non avverrà.

“(…) ho iniziato a scrivere anche per lei, per mamma. O Irene, come la chiamavano gli altri, visto che tanto tempo fa si è disfatta di qualunque significato avesse avuto per lei. (…) non l’abbiamo cercata. Se ne è andata, come un gatto che una notte sguscia fuori dalla porta sul retro e non ritorna più e tu non sai se è finito nelle grinfie di un coyote o di un falco o se si è fatto male da qualche parte e non è riuscito a tornare indietro” (pag.13)

Con un linguaggio fresco e agile, che rimane vivo e brillante nella traduzione di Elvira Grassi, Frances Greenslade ci racconta la difficile presa di coscienza delle due sorelle e il passaggio, prima lento e graduale, poi rapido e violento, dalla vita dell’infanzia a quella adulta.

//platform.twitter.com/widgets.jsIn un continuo gioco di specchi tra realtà e allegoria, di volta in volta le due sorelle, Maggie in modo speciale, sono chiamate a costruirsi il proprio, esclusivo e personale riparo confidando nelle risorse disponibili, utilizzandole al meglio: il conforto di una passeggiata tra i boschi, l’aiuto di un amico fidato, l’affetto fraterno, il senso di appartenenza alla comunità e l’aiuto che può venire, improvviso e inaspettato, dal dispiegarsi della verità. 


Buona lettura

Post Scriptum
(un po’ irriverente – chiediamo perdono a Keller, ma è per capire quanto e come il tema del “nature writing” stia effettivamente prendendo piede anche qui da noi)

“Il buio, in campagna, è come il ragazzo della ONG che raccoglie le firme per strada: se restate calmi e proseguite decisi nel vostro percorso, lui s’intimorisce e non vi disturba, ma se gli fate sentire l’odore del panico è finita”
(“Fottuta campagna”, di Arianna Porcelli Safonov, 2016 Fazi Editore)

"Open", di Andre Agassi e JR Moehringer (trad.Giuliana Lupi)

A distanza di quattro anni dall’uscita italiana, “Open” sta ancora lì, sugli scaffali delle nostre librerie. 

Einaudi parla di un totale di 15.000 copie vendute nel il primo anno di pubblicazione, risultato più che soddisfacente per una biografia sportiva; totale che però poi schizza a quota 110.000 nel 2012*. A oggi, l’autobiografia di Andrè Agassi di copie ne ha vendute, sul mercato italiano, circa 700.000**.
Il perché di tale successo è ormai noto: ferma restando l’indiscussa validità del testo, che senza temere l’iperbole occorre definire rivoluzionario per il genere a cui appartiene – poi ne parleremo – tanto hanno fatto il passaparola tra i lettori e soprattutto le recensioni giunte da ogni dove: da Baricco, che aprì proprio con “Open” la rubrica Una certa idea di mondo su Repubblica, fino a Valentino Rossi passando per Pipernoche ne citò addirittura un passo nel suo “”Inseparabili” con cui poi vinse lo Strega. 

Andre Agassi ospite di Fabio Fazio, novembre 2013. Qui il video dell’intervista

Per cercare di sbrogliare la matassa si potrebbe cominciare col dire che “Open”, di Andre Agassi, non l’ha scritto Andre Agassi.

Sì, dunque.
Succede che durante gli Open (ecco, appunto) del 2006, a un passo dal ritiro ufficiale, il pluripremiato tennista di cui sopra trascorre il poco tempo libero disponibile leggendo “The Tender Bar”, di JR Moehringer”.

Columnistper il LA Times e scrittore di successo, JR Moehringer (NewYork 1964) nel 2000 vince il Premio Pulitzer per meriti giornalistici e nel 2005 pubblica “Il bar delle grandi speranze”,opera autobiografica nella quale il giornalista racconta la sua difficile infanzia all’interno di una famiglia disfunzionale: “The Tender Bar” viene nominato “miglior libro dell’anno” da New York Times, Esquire, Los Angeles Times Book Review, Entertainment Weekly, USA Todaye New York Magazine.

Agassi rimane affascinato dalla storia di questo ragazzino abbandonato dal padre e cresciuto dalla madre single nel microcosmo di un quartiere di Dickensiana memoria (specie appunto, quello di un bar che JR comincia a frequentare dall’età di otto anni) ricco della più varia umanità. 
Quindi conclude libro, torneo e carriera agonistica, si mette in contatto con l’autore e senza mezzi termini gli propone una collaborazione per la stesura della propria biografia. Perché anche la storia di Andre Agassi è nota, ma soltanto a pochi, e il tennista ha deciso: è giunto il momento di raccontarla al mondo intero.
Vincitore di sessanta titoli ATP e di otto Slam; uno degli unici sette giocatori al mondo ad aver conseguito tutti e quattro i titoli dello Slam più altre vittorie da record tra cui medaglia d’oro al singolare olimpico, torneo ATP World Championship e Coppa Davis; “il salvatore del tennis americano”, come avevano gusto di chiamarlo i cronisti dell’epoca; uno dei primi tennisti ad abbandonare il classico serve & volley preferendo alla presenza a rete l’attacco dal fondo e la tecnica della risposta d’anticipo. Nonché fidanzato e poi consorte della tennista più premiata di tutti i tempi, Steffi Graf, e fondatore della AgassiPrep, una delle migliori “free public charter school” nella storia dell’educazione pre-universitaria americana.
Questo è Andre Agassi.
Ma anche un personaggio bizzarro(a partire dall’acconciatura sfoderata nei primi anni di carriera; un toupet! come rivelerà proprio nell’autobiografia), turbolento, attaccabrighe, vittima di clamorose e inspiegabili defaillance sul campo e altrettante nella vita privata, dal primo fallimentare matrimonio con l’attrice Brooke Shields alle scorribande alcoliche con abuso di sostanze psicotrope, fino alla decisiva affermazione professionale e alla redenzione personale.

Credits: NYtimes.com

Agassi ha intùito e vede lontano affidando le sue memorie a Moehringer che – da bravo e talentuoso giornalista qual è – non si fa scrupolo e crea un’opera che sa di capolavoro letterario. Una (auto)biografia che strizza l’occhio al GRA, per com’è messa, e che Moehringer riesce a interpretare al meglio grazie alle indiscutibili analogie che permeano entrambi i vissuti, quello del protagonista e quello del ghostwriter.

Ne viene fuori un turn-pages mozzafiato a metà strada tra il romanzo di suspance, la cronaca sportiva e la più stretta tradizione del romanzo di formazione americano.
Un’opera che pur liberandosi – date le sue caratteristiche prettamente narrative – dai cliché tipici del genere, quali la scrittura stereotipata e la dipendenza terminologica dall’attività sportiva cui si riferisce, non offende i lettori competenti, che trovano nella narrazione in prima persona – ad opera dello stesso Agassi – la preziosità del commento tecnico del vero insider (gustosissime digressioni sui compagni di sventura, da Connors a Courier passando per Becker e Sampras, sono incluse). 
Un’opera che sebbene focalizzata di necessità sulla carriera professionale del tennista non allontana il pubblico generalista, grazie all’universalità dei temi trattati, all’estrema sincerità con cui Agassi si racconta a Moehringer e all’empatia che il campione finisce per suscitare nei lettori, quelli americani in primis, affezionati alle specificità tipiche del romanzo di formazione tra cui il tema cardine della caduta e del ritorno a un successo maturo e consapevole.
Verrebbe insomma da catalogarlo male, lo sforzo Agassi-Moehringer; liquidarlo come l’ennesimo tentativo di autocelebrazione di quell’istinto tutto americano del selfmade-man che affronta sventure di ogni tipo e poi si rialza, drammaticamente ricoperto di ferite ma pronto come non mai al rushfinale. Non fosse che è tutto vero.
A partire dal rapporto conflittuale di Andre Agassi col padre, un ex pugile armeno nato in Iran, appassionato di tennis, uomo violento e autoritario che obbliga Andre e i suoi fratelli a estenuanti allenamenti convinto che almeno uno dei suoi figli diventerà il numero uno al mondo.

Papà dice che se colpisco 2500 palle al giorno, ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Crede nella matematica. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile” (pag.37)

Andre – indubbiamente dotato di doti tecniche fuori dal comune – cresce privato dell’infanzia e del diritto allo studio, attività che il padre considera d’intralcio alla carriera sportiva, ed è costretto a passare ogni momento libero nel cortile dietro casa, vittima del “drago”: una macchina lanciapalle che il padre stesso ha modificato per valorizzarne potenza e aggressività. Uno scenario apocalittico, degno dei può visionari maestri della letteratura americana:

“La nostra casa è una bicocca troppo cresciuta costruita negli anni Settanta, stuccata di bianco con bordi scuri intorno agli spigoli screpolati. Ci sono sbarre alle finestre. Il tetto, sotto ai falchi morti, è rivestito di assicelle di legno, molte delle quali allentate o mancanti. (…). La casa è circondata da ogni lato dal deserto, che per me è sinonimo di morte. Punteggiato di arbusti spinosi, rotoli d’erba trasportati dal vento e serpenti a sonagli raggomitolati, il deserto intorno alla nostra casa non sembra avere altra ragione di esistere che quella di offrire alla gente un posto dove scaricare la roba che non gli serve più. Las Vegas – con la sua Strip, i casinò, gli hotel – si staglia in lontananza come un luccicante miraggio. Mio padre va e viene ogni giorno da quel miraggio – è direttore di sala di uno dei casinò – ma rifiuta di trasferirsi più vicino. Siamo venuti qui, in mezzo al nulla, in questa desolazione, perché soltanto qui poteva permettersi una casa con un cortile abbastanza grande per il suo campo da tennis ideale” (pagg. 40-41)(***)

“Nessuno mi ha mai domandato se volessi giocare a tennis e men che mai cosa farne della mia vita. Mia madre (…) dice che papà aveva già deciso molto prima che nascessi che sarei stato un tennista di professione” (pag.41). “Non so quali avrebbero potuto essere le alternative, ma il punto è proprio questo – non lo saprò mai” (pag.129)

Non meravigliatevi quindi, dice Agassi, del fatto che questo enfant prodige sia in realtà un ragazzetto insicuro, poco istruito, turbolento e fuori dagli schemi:

“Dicono che mi voglio distinguere. In realtà – come col taglio da moicano – sto cercando di nascondermi. Dicono che cerco di cambiare il tennis. In realtà sto cercando di evitare che il tennis cambi me. Mi definiscono un ribelle, ma non ci tengo a essere un ribelle” (pag.149)

Studi interrotti a metà delle superiori, problemi di autostima, discontinuità nelle prestazioni, incapacità di concentrazione, disordini alimentari, manie ossessive, amicizie sbagliate completano il quadro d’insieme, sconosciuto ai più, fino alla caduta agli inferi del 1997, a 27 anni – quella sì ben nota a tutti, perché culminata nella retrocessione in classifica (Agassi scende addirittura dal primo al 141esimo posto ed è costretto a ricominciare dai tornei Challenger, riservati ai tennisti meno qualificati), nell’ammonizione per utilizzo di stupefacenti, nel divorzio da Brooke Shields, sposata due anni prima.

Agassi non tace nulla, nell’intento – riuscito, grazie alla mediazione di Moehringer – non tanto di cucirsi addosso una figura bohémien di artista maledetto quanto di togliersi per sempre il peso della menzogna dalla coscienza, rivelando al mondo i retroscena di un personaggio-Agassi i cui atteggiamenti venivano dai più – sostenitori e detrattori – di volta in volta mal interpretati, mistificati, oppure duramente criticati; mettendo per iscritto, finalmente, le gioie e i dolori di un cammino personale, e solo poi professionale, affrontato con fatica e indiscutibile impegno.

Che dire, Un po’ ci affascina, questa cosa dell’essere svogliati di fronte a un nostro (presunto) talento che poi, non si sa come, riesce a venir fuori lo stesso a dispetto di ogni nostro sforzo per sopprimerlo. Vorremmo esserne capaci anche noi. Vorremmo pure noi esser così bravi in qualcosa, per natura; così bravi da steccare una palla apposta, a sette anni, per il solo piacere di far torto a chi scommette su di noi; così bravi da vincere un torneo juniores travolgendo futuri numeri uno del tennis mondiale senza quasi rendercene conto, così bravi ad attirarci le simpatie di un pubblico sconfinato. Così bravi a ricoprire il ruolo del bambino prodigio, così bravi da poterci permettere il lusso della trasgressione e della maleducazione, tanto nessuno può fare a meno di noi.

Naturalmente questa è la parte della storia che massaggia il nostro ego e ci stimola a quel guilty pleasure, come si dice, che viene dallo sbirciare le vite degli altri, quelli famosi, sperando sotto sotto che un po’ di quella lucetta un giorno brilli anche per noi. La questione che c’è anche dell’altro, quella viene dopo. Ed è una parte fondamentale – e non scontata – del lavoro costruito, mattone dopo mattone, dal doppio Agassi-Moehringer. 
Lo scrittore, col pregio di essere riuscito a trasformare in parola scritta tutte le suggestioni ricevute dall’altro, ossia l’atleta che forse più di ogni suo contemporaneo ha meritato, per virtù e carattere, il posto d’onore nella Hall of Fame. Suggestioni senza le quali, malgrado le indiscusse capacità dell’autore, la stesura di “Open” non sarebbe stata possibile. 

“Odio il tennis più che mai – ma odio ancora di più me stesso. Mi dico: e allora, a chi importa se odi il tennis? Tutta quella gente là fuori, tutti i milioni di persone che odiano ciò che fanno per vivere, lo fanno comunque. Forse il punto è proprio fare ciò che odi, farlo bene e con allegria. Odi il tennis, quindi. Odialo quanto ti pare, ma devi pur sempre rispettarlo – e rispettare te stesso” (pag.325)

La rivoluzione di “Open” e la sua differenza con quanto pubblicato prima e quanto sarà pubblicato poi, visto che con “Open” d’ora innanzi tutte le autobiografie sportive dovranno misurarsi, sta tutta qui.

Buona lettura

_________________
*fonte: il Post Libri 
**fonte: l’Editore
*** In proposito, nella sconfinata bibliografia su “Open” che ormai si può trovare quasi tutta on line, il saggio di Francesco Longo merita una menzione particolare. Lo trovate su Minima&Moralia  

"La Duchessa", di Caroline Blackwood

L’impegno di Codice Edizioni nel recuperare le opere di Caroline Blackwood si apre con la pubblicazione del suo reportage più celebre: un prezioso documento di giornalismo investigativo che, avvincente come una spy story ma purtroppo frutto di una vicenda realmente accaduta, tenta di svelare l’ultimo e più incomprensibile mistero della strabiliante vita di Wallis Simpson.

Lucian Freud, “Girl in Bed”, 1952
[Credits: Wikipedia]

Tutto ha origine dall’articolo sulla Duchessa di Windsor che il Sunday Times commissionò alla Blackwood nel 1980. Assegnazione non casuale visto che questa dinamica, preparatissima e prolifica scrittrice – una delle firme di punta del ST – altra non era se non, all’anagrafe – Lady Caroline Maureen Hamilton-Temple-Blackwood (Londra 1931, NewYork 1996). Di famiglia anglo-irlandese, la primogenita del Marchese di Duffen & Ava e della di lui consorte Maureen Guiness (sì, proprio i magnati della brewery) dopo il debutto in società e il trasferimento a New York si dedica con passione a talento all’attività giornalistica, divenendo in pochi anni abile columnist e, in aggiunta, chiacchierata socialitè. Una vita tumultuosa, quella della Blackwood, tra frequentazioni di alta aristocrazia, eccessi e turbolente avventure sentimentali culminate in tre matrimoni dall’esito infausto; esperienze che per altro hanno fatto da sfondo a una serie di opere narrativo-autobiografiche tra cui “Mrs. Webster” e “The Stepdaughter”, caratterizzate da un’ironia pungente attraverso cui l’autrice denuncia e demolisce le realtà più drammatiche da lei sperimentate – a cominciare dal mondo ipocrita e corrotto della nobiltà britannica.


La foto, scattata nel 1949, ritrae Lady Caroline in compagnia del primo marito, il pittore Lucian Freud, durante la luna di miele. Il pittore immortalò il fascino e la bellezza di Caroline in numerose tele e dopo il divorzio tentò il suicidio.
In seconde nozze Blackwood sposò il pianista Israel Citkowitz, molto più anziano di lei, da cui ebbe due figlie, e poi una terza che lui crebbe come sua ma che in realtà era frutto di una relazione extraconiugale della moglie. Infine Lady Caroline si sposò con il poeta Robert Lowell, che nel 1977 morì di infarto per le strade di New York, chiuso in un tassì mentre tornava dalla prima moglie, abbracciando il ritratto di Freud “Girl in Bed”.
[Credits: The Telegraph]

L’articolo su Wallis Simpson avrebbe dovuto comprendere oltre all’intervista esclusiva alla Duchessa anche un servizio fotografico a firma Lord Snowdon, ex marito della Principessa Magareth, ma né l’intervista né il servizio fotografico furono mai realizzati per il semplice fatto che né Caroline né Snowdon – malgrado l’abilità professionale e le conoscenze personali – riuscirono ad avvicinarsi all’ormai anziana e malata Wallis, segregata a Parigi, nella sua casa-museo sul Bois de Boulogne e tenuta in ostaggio dal terribile avvocato di famiglia, “Maitre” Suzanne Blum, che alla morte del principe Edoardo aveva ottenuto la tutela legale della Duchessa e del suo patrimonio.

Lady Caroline, ritratto.
Photo by Walker Evans
(St.Louis 1903, New Haven 1975)
[Credits: Codice Edizioni]

Ciò che venne dato alle stampe invece – e si dovette attendere, per timore di azioni legali, non tanto la morte di Wallis (1986) ma soprattutto il decesso della stessa Blum (nel 1994, all’età di 95 anni) – fu il reportage intero che comprende l’imponente attività di ricerca della Blackwood, fra raccolta di documentazione e interviste sul campo; materiale che testimonia l’impegno profuso dalla giornalista nel tentativo di avvicinarsi a una Duchessa di Windsor ormai in punto di morte, sottoposta a cure mediche prossime all’accanimento terapeutico, allontanata a forza dalle poche amicizie rimaste e pericolosamente vicina alla bancarotta.


Figlia di un Alsaziano fuggito in Francia per evitare la cittadinanza tedesca, un ebreo “de bonne famille” (come lo descrive Blum) costretto poi a occuparsi di commercio per sopravvivere, “Maitre” fu educata in maniera tradizionale ma ben presto si ribellò alla famiglia e continuò gli studi fino alla laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Poitiers nel 1921
Il terribile avvocato Suzanne Blum
[Credits: DailyMail]

Ne seguì una brillante carriera internazionale costellata d numerosi successi professionali (tra i sui clienti: major cinematografiche e attori di fama hollywoodiana, da Chaplin a Rita Hayworth) e infine l’incontro con la famiglia reale britannica, di cui da sempre subiva il fascino. Ottimo avvocato, spietata con avversari e colleghi, irascibile e collerica, ossessionata dal potere, dal denaro e dalla chirurgia estetica, la Blum divenne dopo la morte di Edoardo l’unico procuratore legale della famiglia reale e dal quel momento cominciò il suo costante e sistematico impegno di appropriarsi, in maniera sempre più maniacale e ossessiva, della vita di Wallis Simpson – o meglio di quello che ne rimaneva (“Last of the Duchess”, appunto, recita il titolo originale del reportage).

“Era, quello di Suzanne Blum, un morboso e insieme straziante fenomeno d transfert possessivo, la divinizzazione di un’icona più che la descrizione reale di una persona, e insieme la sua idealizzazione nel nome di un puritanismo con cui l’avvocato investiva la sua assistita: <>. Come osserverà la Blackwood, bastava osservare le foto mentre barcollavano da un night club all’altro: Parigi, Palm Beach, New York”
Stenio Solinas per “Il Giornale”
 (28 agosto 2015)

[Credits: NYPost]

Perché si sa, la modesta Bessie Wallis Warfield (maritata Simpson in seconde nozze: “l’orribile divorziata americana”, come era comunemente definita all’epoca dello scandalo), orfana di padre, vissuta grazie all’elemosina dei parenti e spinta dalla madre a frequentare le migliori scuole nella speranza di un matrimonio di comodo, resta sempre e comunque una delle donne più controverse del novecento inglese. 
Un carattere forgiato dagli anni duri dell’infanzia e della giovinezza, l’esperienza dei viaggi in terre esotiche – da cui riportò anche, come si vociferava, le nozioni di arte amatoria attraverso cui irretì il Sovrano – il gusto di circondarsi di lusso e piacevolezze fino all’eccesso (resta famoso l’acquisto di più di cinquanta paia di scarpe tutte insieme, ma questo episodio non è che un aneddoto tra i tanti che si potrebbero raccontare); e poi ancora, la venerazione di Edoardo nei suoi confronti e i misteri che circondano la sua vita a partire dai celebri gioielli appartenuti alla Regina Alessandra, che si dicevano ormai in suo possesso e poi incomprensibilmente svaniti nel nulla, fino ai suoi rapporti con le frange filo-naziste della più estrema destra britannica.

[Credits: NYPost]

E poco importa se con il passare degli anni anche l’opinione pubblica più intransigente si sia ritrovata a considerare l’entrata in scena di Wallis di certo non benefica ma perlomeno utile, specie per quanto riguarda le conseguenze politiche che vennero dall’abdicazione: su tutte, il pericolo scampato di un’alleanza con il Terzo Reich di cui, ormai è assodato, la coppia Windsor era simpatizzante – e non si esclude che la ferma opposizione al matrimonio messa in atto dalla famiglia reale e dai politici a essa più vicini non derivasse da questo timore; per non parlare dell’ascesa al trono dell’amata Elisabetta II, chiaramente frutto dell’incoronazione di Giorgio VI.

“La Duchessa” non interessa soltanto perché documenta una vicenda poco nota e dall’esito tragico, ma anche e soprattutto perché è una questione di donne, e tra donne. Tre personalità fortissime ed enigmatiche che pur partendo dalle medesime condizioni socio-economiche si sono trovate a vivere, ognuna a suo modo, il medesimo periodo storico; è la particolare declinazione che ciascuna di esse ha dato alla propria esistenza a restituirci un quadro d’insieme che va molto oltre le singole vicende personali e che aiuta a far luce su un momento della storia europea ancora lontano dall’essere definitivamente chiarito.

Buona lettura

"Panorama", di Tommaso Pincio

Leggere “Panorama” è prima di tutto una gratificazione sensoriale per tatto e vista. Il volume è un susseguirsi di piacevoli sorprese, a partire dalle dimensioni (un bel 12×19, compatto e maneggevole, ricercato), passando per la cover – opera dell’autore – per arrivare all’insieme del progetto grafico in tutte le parti che lo compongono.

Le pubblicazioni di NNEditore, neonata casa editrice milanese frutto (e si vede) dell’esperienza di due veterani del mestiere, non si articolano per collane ma per serie, ossia attraverso percorsi tematici in questo caso vòlti all’analisi del moderno. La serie ViceVersa, di cui fa parte “Panorama”, si pone come obiettivo l’indagine sui vizi contemporanei, che non possono più essere indagati in maniera dicotomica attraverso il paragone con le relative virtù ma devono di necessità essere osservati nella loro complessità liquida e mutevole. 

Pincio si mette all’opera e costruisce, seguendo lo stile che gli è congeniale, un testo composito in cui si intersecano vari livelli di lettura e analisi della contemporaneità, dall’esperienza individuale fino all’osservazione del vivere sociale. Sempre in costante equilibrio tra un’ironia sofisticata e un disincanto che ha il sapore della rassegnazione nostalgica verso un passato ormai perduto.

A far da canovaccio, la liaison del protagonista, Ottavio Tondi, con la più giovane Ligeia Tissot. Una storia d’amore lunga quattro anni, che porta più sfinimenti che gioie anche perché i due, veniamo a scoprire, non si sono mai incontrati di persona ma solo attraverso lo schermo del computer e una webcam, strumento imprescindibile se ci si vuole iscrivere al network Panorama: una sorta di moderno Panopticon all’interno del quale ognuno può curiosare nella vita dell’altro a patto di offrire naturalmente anche un pezzo della propria, attraverso appunto una telecamera che deve rimanere sempre accesa. Non solo un innamoramento quindi, ma la sua versione più moderna e social che scivola alla deriva fino a sfiorare, suo malgrado, la torbidezza di un sentimento nutrito dalla terra grassa delle curiosità morbose e dei voyeyrismi pruriginosi:

“Fu una corrispondenza a tal punto intensa e ricca di reciproche rivelazioni che l’aggettivo *intimo* riferito al loro rapporto non suona fuori luogo, malgrado nei tuoni che entrambi usavano non si scorgano mai, se non per brevi periodi e in maniera comunque ambigua, gli accenti di una vera intimità. (…) Tondi riteneva di conoscere quella ragazza meglio di chiunque altro o comunque abbastanza da indurlo a dare per verosimile questa sua fantasia: che sarebbe bastato un nonnulla, un incontro o poco più, perché il loro rapporto virtuale sfociasse in ciò che biblicamente si intende con intimità. Tondi resto a lungo persuaso che questo nonnulla fosse una possibilità nell’ordine delle cose, uno sviluppo pressoché inevitabile della loro corrispondenza, una logica conclusione che solo il caso, anzi no, lui stesso aveva impedito” (pagg.13-14)

Non è però così semplice la questione. Sì perché Ottavio Tondi è introverso, asociale, a tratti accidioso, ipercritico. Uno spirito antico, sempre un po’ fuori posto. Di mestiere fa il lettore per una grossa casa editrice, e questo gli basta e gli avanza. 

“(…) quel bar era uno dei pochi locali del centro che avesse ancora la dignità che un tempo avevano i bar e questo malgrado fosse costantemente invaso da avventori di ogni tipo. Per il resto la città si era ormai arresa ai nuovi flagelli. Ovunque soltanto locali per i più giovani, quelli che lui chiamava *nuovi stronzi*, bar che non erano più bar per via di una modernità pretenziosa e oscena, patetica imitazione di locali stranieri, di vere capitali; oppure si davano posti dall’identità indefinita, pensati per turisti che ormai giungevano soltanto in massa (…)” (pagg.93-94)

“Gli piaceva molto questa parola, utilitaria. Gli ricordava tempi che non c’erano più. Anche allora si era sentito ai margini, ma non fuori posto come adesso” (pag.118)

“Si sentiva a suo agio guidando tra architetture come il Palazzo della Civiltà, il Colosseo quadrato, il Fungo (…). Era come addentrarsi in un futuro consegnato alla nostalgia, un avvenire che sapeva di vecchi romanzi di fantascienza e copertine di Urania. Certo, vi si respirava anche la malinconia opprimente di circhi e luna park, ma non era possibile avere tutto. Qualcosa bisognava pur concedere, un poco di tristezza per un ignoto addomesticato era un prezzo ragionevole” (pag.128) 

Sennonché a causa di una rocambolesca serie di eventi viene coinvolto – lui che ai margini della società delle lettere voleva rimanere – nella promozione di un romanzo scritto sotto pseudonimo da un autore sconosciuto, e diventa famoso scopritore di talenti. Però il peggio del peggio deve ancora venire perché il successo, si sa, come viene poi se ne va e il narratore onnisciente che ci racconta delle vicende – ormai passate – di Tondi altro non è se non il presunto autore del romanzo di successo di cui sopra e che, attraverso uno stratagemma non proprio ortodosso, si appropria della dimensione virtuale del malcapitato Ottavio. 

Inquieta, la versione che Pincio offre del mondo editoriale nostrano, fatto di rivalità e piccole meschinerie tra addetti ai lavori, in un continuo gioco di potere e autoreferenzialità, che però Pincio si diverte a descrivere con disincantata ironia, stemperando una questione che del tragico ne ha le fattezze (mai così attuali, per altro):

“Tra gli uffici stampa delle case editrici e le redazioni delle pagine culturali era in corso una partita di scacchi infinita. I primi tentavano costantemente di manipolare i secondi nella convinzione che questi fossero in sostanza degli incompetenti ai quali era possibile vender per buona ogni fandonia. I secondi, fors’anche incompetenti ma per nulla sprovveduti, erano del tutto consapevoli con quale spirito venivano contattati dai primi, e tuttavia fingevano di cascarci, perché pure loro avevano una convinzione, vale a dire che, in quella partita, il vero manipolatore fosse proprio il manipolato” (pag.49-50)

“Non era morta la letteratura, erano morti loro, i letterati. La letteratura esisteva ancora, ma in una forma nuova, non più cartacea, non più scritta per essere letta” (pag.153) 

Le suggestioni sparse nel testo sono moltissime. Dall’intervista che Tondi rilascia a un quotidiano nazionale, che non contiene alcuna affermazione personale ma è costituita soltanto da citazioni letterarie – a voi scoprire autori e titoli – fino ai cammei di autori realmente esistenti, amici e colleghi di Pincio, che hanno prestato la propria immagine e la propria voce per la costruzione di questo divertissement particolarmente riuscito, passando per le decine di opere citate nel corso della narrazione. 
Ritornando al tema della fruizione multisensoriale, vi invito ad approfondire il songbook che accompagna il testo in accordo con l’impostazione della casa editrice, che ha tra i suoi obiettivi quello di promuovere la relazione tra diversi mezzi espressivi. 
Al link di cui sopra potete trovare anche la rassegna stampa, tra cui ad esempio l’approfondimento di Carlo Mazza Galanti per Prismo.

Buona lettura 

"L’uccello dipinto", di Jerzy Kosinski

“Vado a dormire un po’ più a lungo del solito. Chiamatela pure Eternità”

Così lascia scritto su un biglietto Jerzy Kosinski – all’anagrafe Josef Lewinkopf, nato a Lodz (Polonia) il 14 giugno 1933 – prima di suicidarsi nel suo appartamento di Manhattan, all’età di 58 anni. 

Emigrato negli States da più di un trentennio, ricercato professore universitario (dottorato alla Columbia, cattedra di lingua e letteratura americana a Yale, Princetown, Davenport e Wesleyan), Kosinski era apprezzato autore di saggi e di varie pubblicazioni – nonché marito di una ricchissima vedova facente parte dell’upperclass industriale pre e postbellica e poi, in seconde nozze, di Katherina “Kiki” von Fraunhofer, erede dell’omonima aristocratica famiglia bavarese, con la quale trascorse vent’anni di vita mondana e spregiudicata tra amicizie altolocate, show televisivi e riconoscimenti pubblici.

Eppure, nonostante la celebrità e i luccichii, tante sono le ombre nella vita di Kosinski. Ha disturbi ossessivi, soffre di disagi psichici; su di lui girano parecchie voci (c’è chi lo vuole addirittura implicato con la CIA) e nel 1982 viene messa in dubbio, dalle pagine di una rivista, l’autenticità di alcuni suoi scritti compreso quella de “L’uccello dipinto”, la sua opera più famosa, data alle stampe nel 1965. Questa vicenda lo segnerà per sempre e sarà alla base della depressione che lo condurrà al suicidio. 
Resta fitta di nodi irrisolti, infatti, anche la sua biografia. A parte il rocambolesco arrivo negli Stati Uniti, organizzato attraverso la falsificazione sistematica di documenti e lettere di raccomandazione a firma di professori universitari inesistenti che Kosinski per anni presentò al Partito, per convincerlo della bontà delle intenzioni e della fedeltà al regime, ciò che ha sempre sollevato questioni è il suo trascorso di infanzia e prima adolescenza. 
La famiglia ebrea Lewinkopf, benestante e istruita, alla vigilia dell’occupazione nazista si trasferisce lontano dalla città e cambia cognome. A Josef viene fornito un nuovo certificato di battesimo, ma poi tutto si confonde. Come l’autore più volte ha sostenuto, ma anche smentito, parrebbe che i genitori ad un certo punto, temendo i campi di sterminio, lo avessero affidato a dei contadini.

“Steps” (“Passi”), pubblicato da @ElliotEdizioni nella collana Raggi (Settembre 2013),
in traduzione di Vincenzo Mantovani – che cura anche “The Painted Bird” nell’ed. qui proposta.
*
L’opera, accolta freddamente dalla critica soprattutto a causa 
della spietatezza e dell’estremo erotismo contenuto in alcuni passi, esce nel 1968 e vince il National Book Award
divenendo presto un classico della letteratura contemporanea USA

Il problema è che di tutto questo Kosinski scrive ne “L’uccello dipinto”, raccontando appunto le vicende di un ragazzino poco più che seienne costretto dalle circostanze a vagabondare, solo e sperduto, nelle più profonde campagne rurali della Polonia invasa dai nazisti, messa a ferro e fuoco dai partigiani e infine conquistata dall’esercito sovietico.
Senza nome, il bambino viene indicato soltanto come “The Gipsy”, lo zingaro, o “il nero” – a far riferimento i capelli scuri e l’incarnato che ne tradiscono la provenienza etnica rispetto al biondo teutonico e che ne certificano lo status di paria e ricercato, nonché portatore di sventure e malattie nell’immaginario superstizioso e arcaico dei poverissimi villaggi contadini che si trova ad attraversare.
Esposto a qualsiasi forma di brutalità, il bambino della storia è oggetto di pestaggi e privazioni, sottomesso alla fame, al freddo, ai malanni e al lavoro dei campi; è testimone di stupri e violenze e proprio a causa di tutti questi traumi a un certo punto perde anche l’uso della parola. Recuperato a fine conflitto da un contingente dell’armata rossa, viene mandato in un orfanotrofio attraverso cui poi riesce a ricongiungersi ai genitori, in maniera completamente fortuita. Un ricongiungimento che tuttavia riesce tardivo e per certi versi ormai inutile, sicuramente non risolutivo.

Naturalmente l’opera ha un ritorno deflagrante. In patria il volume viene proibito (fino al 1984) e tacciato di antinazionalismo a causa dei toni utilizzati nel descrivere le condizioni della Polonia rurale: effettivamente Kosinski non si avvale di tinte neutre per dipingere una dimensione sociale le cui più evidenti caratteristiche sono, agli occhi dell’autore, la violenza che permea ogni aspetto della vita familiare e sociale, la mentalità primitiva e superstiziosa ai limiti della paranoia (fino ad arrivare perfino all’omicidio rituale), la povertà estrema, l’assenza di qualsiasi organismo statale o religioso a far da collante sociale, la sistematica risoluzione dei conflitti attraverso la sottomissione dei più deboli. In patria i sostenitori di Kosinski – colpevole due volte, perché scrivendo in inglese rinnega sia nazione sia lingua madre – vengono minacciati e costretti a sottoscrivere pubbliche dichiarazioni di condanna nei confronti dell’autore mentre i pochi che riescono a recuperare qualche copia clandestina non esitano a evidenziare il carattere edulcorato del testo, le esperienze raccontate all’interno del quale non sarebbero talvolta neppure minimamente paragonabili al reale inferno degli anni ’42-45.

Vien fuori però che “L’uccello dipinto” non se la passa bene neanche negli States. Il testo scandalizza per la sua crudezza, giudicata eccessiva e a tratti voyeuristica. La brutalità di certe scene destabilizza un pubblico che, se pure ormai abbastanza disincantato, non è ancora pronto per opere di questo tenore.
Per altro gli americani, così ligi alle classificazioni, faticano a inquadrare l’opera che per stessa ammissione dello scrittore non è soltanto una narrazione autobiografica (mai Kosinski ha ceduto ai giornalisti che gli domandavano quanto di personale ci fosse nelle vicende del piccolo orfano), ma non è neppure un romanzo, avvicinandosi più a un documentario non-fiction dato il carattere indiscutibilmente oggettivo di alcune fonti utilizzate. Proprio in questa criticità affonda ancora gli artigli la rivista Village Voice quando ben 17 anni più tardi accusa Kosinski di aver spacciato per realmente accaduti i fatti narrati ne “L’uccello dipinto” quando invece doveva apparire ben chiaro (in accordo con la propaganda polacca, e fu proprio questo punto a distruggere Kosinski) che non fossero altro se non il frutto dell’immaginazione dell’autore.

Presenza comprovata o meno di un certo realismo magico, quel che stupisce è la freschezza dello sguardo, un osservare di bambino che, come tutti gli sguardi infantili, è sempre ricco di meraviglia qualsiasi siano le circostanze; una curiosità immediata e atemporale, fissa nell’immediato presente, del tutto priva di retropensiero sul prima e sul poi. A far da contrappunto alla crudezza degli episodi, la voce poetica dell’innocenza e dello stupore, specie per quanto riguarda l’osservazione della natura e delle stagioni:

“D’inverno, quando infuriava la tormenta e il villaggio giaceva nel forte abbraccio di nevi insormontabili, stavamo insieme nella capanna riscaldata e Olga mi parlava di tutti i figli di Dio e di tutti gli spiriti di Satana” (pp65-66)

“Nello scricchiolio dei fitti rami di faggio,nel fruscio dei salici che tuffavano le foglie nell’acqua, sentivo le parole delle mitiche creature di cui Olga mi aveva parlato” (p80) 

“La sinfonia della foresta era interrotta solo dallo sbuffare di una locomotiva, dallo strepito dei vagoni, dallo stridore dei freni. La gente s’immobilizzava, guardando verso i binari. Gli uccelli tacevano, la civetta si ritirava nel suo buco avvolgendosi dignitosamente nel suo mantello grigio. La lepre si alzava sulle zampe posteriori, drizzando le lunghe orecchie, e poi, rassicurata, riprendeva i suoi balzi” (p162) 

quasi che l’interpretazione magica della natura e del creato possa in qualche modo esorcizzare il dramma di un presente insostenibile, il cui orrore si rivela a tratti:

“Mi sembrava di cadere in un pozzo profondo dalle pareti umide e lisce coperte di muschio spugnoso. In fondo al pozzo, invece dell’acqua, c’era il mio letto caldo e sicuro dove potevo dormire tranquillamente e dimenticare ogni cosa” (p142)

Una magia che presto ha fine, un momento, nel racconto, in cui il protagonista, di quel bambino che era stato, perde le fattezze; la fiamma della speranza, la luce dei ricordi passati, va a spegnersi, paragrafo per paragrafo, allo stesso modo della voce.

“Fu allora che compresi quanto fosse misericordiosa la volpe quando uccideva le oche spezzandogli il collo con un morso” (p183)

“Dio non aveva motivo d’infliggermi un così terribile castigo. Probabilmente ero incorso nell’ira di qualche altra forza, che stendeva i suoi tentacoli sopra coloro che Dio aveva abbandonato per una ragione o per l’altra” (p212)

“(…) l’ordine del mondo non aveva nulla a che fare con Dio, e Dio non aveva nulla a che fare col mondo. La ragione era semplicissima. Dio non esisteva” (p267) 

“Cercai di immaginare cos’aveva pensato prima di morire. Quando era stato buttato giù dal treno, i genitori o gli amici gli avevano indubbiamente assicurato che avrebbe trovato persone disposte ad aiutarlo, persone che lo avrebbero salvato da un’orribile morte in un grande forno. Forse si era sentito ingannato, tradito. Avrebbe preferito restare aggrappato ai corpi caldi del padre e della madre nel vagone affollato, sentire la pressione e gli odori aspri e roventi, la presenza di altra gente, sapere che non era solo, sentirsi dire da tutti che il viaggio era soltanto un malinteso” (p161)

“Disteso sulla schiena, guardavo le nuvole. Mi galleggiavano sopra la testa in un modo che anche a me sembrava di galleggiare. Se era vero che madri e figli potevano diventare proprietà di tutti, allora ogni figlio avrebbe avuto molti padri e molte madri, e innumerevoli fratelli e sorelle. Mi pareva troppo bello per poterlo sperare” (p250) 

Buona lettura.