"Lasciami entrare", di John Ajvide Lindqvist

La questione non era tanto leggere qualcosa di inatteso. Era verificare le potenzialità di un anti – Twilight interessante ed emotivamente coinvolgente, delirio erotico a parte.

Se di Twilight, più che la trama in se’ e lo sviluppo dei personaggi, interessava la love story e la presenza scenica del bel vampiro Edward, qui siamo al lato opposto della questione. 

Andiamo per appunti sparsi, segnati a margine, a matita.

Thriller di atmosfera e sensazione, dalla contestualizzazione forte e priva di qualsiasi, ipotetico, fraintendimento. Avevamo già parlato in più di un’occasione della problematica “contestualizzazione” (vi rimandiamo, una per tutte, all’Irene di “Due”). Qui, inutile pensare a una Forks che potrebbe essere benissimo Forks ma anche altro da sè – perché tanto la storia, in piedi, ci starebbe lo stesso. Qui se non pensi al freddo, alla neve, all’autunno che cede il passo all’inverno del nord, al ghiaccio e alla neve, troppo avanti non vai.

E troppo avanti non ci vai neppure se non pensi alla gente del nord, al modo di concepirne l’esistenza, tra una natura selvatica con cui dover, di necessità, fare i conti, che rende selvatici e istintivi anche nell’animo e nell’azione. E ne avevamo parlato, anche di questo, qui (Jostein Gardeer), proprio a definire la questione del romanzo di “nicchia” (doverose le virgolette visto il successo di pubblico).

Personaggi. L’arte del comprimario va studiata a tavolino. Non si lavora su una troppo semplice dicotomia Edward-Bella / Oskar-Eli, ma su una struttura corale che passa fluida tra situazioni e personaggi, a dipingere così un quadro minuzioso e specifico di una realtà che, ancora una volta, non può essere sostituita da altro. Pensiamo alle “amiche” di Bella, che a mano a mano spariscono nel filone del “non convincente”. Pensiamo alla famiglia Cullen, rispolverata solo e soltanto al bisogno. L’Irene, nella sua biografia, ci parla dell’importanza del (twitterando), background; ovverosia, trattare il personaggio secondo una sua propria autonomia individuale ed inserirlo all’interno del romanzo soltanto in seguito: solo creandone PRIMA la storia e la biografia, e utilizzandone, DOPO, gli stralci necessari. La tecnica rende il personaggio consistente e sfaccettato, e permette di lasciare in ombra – o di rivelare alla luce del sole- quegli aspetti utili allo svolgimento della trama evitando che la figura risulti creata secondo artificio. La madre di Oskar, il padre, Tommy, il gruppo dei bulletti del quartiere; gli amici del ristorante cinese del venerdì sera. Virginia. Il maestro di ginnastica, il poliziotto “buono” (che apre e chiude la narrazione).

E’ un po’ una questione di prospettive, un rimettere a fuoco la situazione: fare il vampiro non è glamour. Non indossi vestiti firmati, non guidi macchine sportive, se ti mostri alla luce del giorno vai arrosto, al sangue umano non c’è alternativa (altro che cacciagione e vegDiet). Hai artigli e ali e denti aguzzi che ti spuntano dappertutto, dolorosamente, anche quando meno te lo aspetti. Puoi anche possedere denaro e beni voluttuari, ma non sai che fartene. Oggetti misteriosi dal sapore antico persi in scatoloni di cartone ammuffito. Banconote arrotolate alla bell’e meglio, nascoste sotto materassi sdruciti e giacigli di fortuna in appartamenti sporchi e deserti che mai ti apparterranno davvero. E’ la solitudine straniante dell’essere umano che non è più tale, perché sradicato dalla comunità, dagli affetti e dal PROPRIO tempo all’interno del mondo. E’ l’idea dell’assassinio e della violenza insita nella creatura mostruosa, un che di terrifico e bestiale che non può essere né mitigato, né taciuto, né controllato con la sola forza del raziocinio. Nessuno è fatto per essere vampiro (a differenza di quanto pensa Bella, secondo cui la vita vampiresca potrebbe essere molto meglio della sua, sfigatissima, vicenda umana), perché il vampiro è un abominio del pensiero, del corpo e dell’azione (si vedano le pagine relative all’ “iniziazione” di Eli): è un bambino castrato nel corpo e nell’animo, violentato e seviziato.
Il messaggio che Eli e Bella ci offrono, diametralmente opposto, vale una riflessione. Quella sulla condizione umana, che per quanto misera possa sembrare – o essere – val sempre la pena di vivere in tutta la sua essenza.

Buona lettura 🙂

"L’ultima estate in città", di Gianfranco Calligarich

More about L'ultima estate in città Combatti. Combatti strenuamente. Contro i cataloghi on line. Contro le librerie che se non è il thrillerone svedese ti guardano male. Contro i non disponibile sparati dai videoterminali.
È una lotta senza quartiere, uno scontro tra titani, altro che Hollywood.
Ma quando ce la fai, e te ne esci con questa cosa in mano, e data la copertina rigida fai pure fatica soltanto a toccarla, per paura che si sgualcisca – che soddisfazione.

Sei preso via in un turbine di parole, di inchiostro, di memoria storica e letteraria che ti riporta indietro, a quando muovevi i primi passi, incerti, pescando a caso dalla libreria di papà, la domenica pomeriggio. E i libri erano sgualciti e sapevano di carta acida e gialla.
E di alcuni ti innamoravi, di altri dopo sei pagine non sapevi che fartene; altri ancora, vuoi per l’età, vuoi per il testo, non ti si schiudevano agli occhi, e te ne rimanevi lì, amareggiata, a chieder consiglio telefonico alla zia, sorella di mamma, che per tutta risposta ti diceva che ogni libro ha un suo momento e che il momento di quel libro lì, per te, non era ancora arrivato.
Avevano titoli curiosi: La Storia, Lessico Famigliare, L’Ombra delle colline, e gli autori di cognome facevano Sgorlon, Sciascia, Calvino, Gadda, Anna Maria Ortese, Parise.
E il divano del soggiorno, di velluto peloso, marrone, così duro che dopo 10 minuti avevi già il sedere piallato a tavoletta.

Tutto questo inutile preambolo per farvi capire che di Calligarich non parleremo. Basta e avanza la rassegna stampa che potete trovare sul web, direttamente sul sito dell’autore.

Le pagine notevoli sono molte e tutte degne di citazione.
La giornata alla Rai per esempio, tra raccomandazioni, stanze chiuse, personale dalle mansioni non ben identificate, spettacolo, veline e letterine. Oggi come allora.
O il cameo su Milano in dicembre, che se a Milano ci vivi, non puoi non sentire una stretta al cuore, di fronte a quella mezza pagina e ai tuoi ricordi di bambina.

Oppure ancora, l’episodio quasi conclusivo, in villa, con il pittore e la sua congrega di adepti. Religioni posticce da guru di periferia, buone per artisti squattrinati, modelle anoressiche, scrittori in attesa di successo (e di raccomandazione). La terra d’Italia negli anni ’70.

Arianna è come tante, femme fatale, psiche fragile e troppi soldi da portarsi in giro. Ma ha a suo merito un certo qual coraggio, un’identità di fondo mai negata (si veda la questione mi ami / non ti amo, che pare puerile, ma alla fine tanto puerile non è) e anzi quasi ostentata, fino alla soluzione finale di annichilimento che non è altro se non uno sfolgorante, ultimo e disperato tentativo di auto-affermazione.

"I parassiti", di Daphne Du Maurier

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Ti punta un non so che di fastidioso, questa lettura. Qualcosa di acuto, irritante. Fin dalle prime pagine. Ti senti a disagio sulla sedia, ci rifletti ma non riesci ad arrivare al perché della questione, pare sempre che qualcosa sfugga via, giusto un attimo prima di essere catturata.
Eppure, vai avanti, pagina dopo pagina perché non ne puoi fare a meno. E la cosa ti snerva parecchio (irritazione parte prima: la fruizione della lettura), perché, per un libro così (cosa vuoi che sia, romanzo di atmosfera, crisi familiare, upper class), vorresti essere tu, quello che governa la situazione. Ti senti anche un po’ spostato, in balia di una narrazione che per le prime 20 pagine almeno non sembra condurre da nessuna parte.
A un certo punto, intorno a pagina 15, vorresti anche un po’ mollarla lì la cosa, ma poi, improvviso, arriva “tutto il resto” e non è che ci puoi fare molto.
“Tutto il resto” è il passato, che riaffiora a getti discontinui, ma sempre più forti e potenti (come l’acqua del mare che sale su della sentina, vien da dire…).
Ricordi che ti ottenebrano la mente, persi tra i flashback di un passato lontano, privato di qualsiasi coordinata di tempo e di spazio – teatri, hotel, appartamenti, città, lingue diverse – “Stagioni” senza né tempo né luogo, commedie, impresari, orchestre, matinée, musica, balli e feste notturne. Un mondo privato, personale, intimo, scardinato da qualsiasi logica e pretesa di normalità.
Il caos regna sovrano (irritazione parte seconda, il contesto), tra orari mai rispettati, bambini selvaggi, domestici con veci di genitori, capricci di artisti e presunti tali, turbinanti mondi di spettacoli che sono piece teatrali sia sul palcoscenico, sia fuori.
Non che l’autrice – o meglio, la voce corale a cui si affida, per lo meno all’inizio del romanzo – dia un’interpretazione univoca, alla qual cosa (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra). E ti urta davvero, l’idea, perché è sempre irritante quando qualcuno si prende la briga di farti osservare le tue, personali, mancanze.
La fascinazione per il mondo dello spettacolo, per questa famiglia di artisti, per le vite vissute, per quelle rappresentate, per quelle soltanto immaginate, è in te così potente da non permetterti, per ora, la minima possibilità di uno scarto verso il negativo – malgrado il desiderio intimo.
Perché “Tutto il resto” non solo è “Mamma e Papà”, ma è anche Maria, la primadonna, l’attrice bellissima, la donna dalla pelle di porcellana e lo sguardo sognante, adagiata sul divano nel salotto di una casa di campagna, in una fredda e cupa domenica di inverno, un braccio sospeso, l’altro reclinato sul volto. E’ lei, nella sua parte da diva del palcoscenico, attraverso falsità e maschere, a dettare legge. Non solo sui suoi familiari e sul mondo che la circonda (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra), ma anche, disgraziatamente, sul lettore (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra).
E’ Niall, spirito inconcludente, in balia degli eventi, delle donne e del suo estro di compositore di jngle buoni per casalinghe, soldati, barbieri e lustrascarpe. Ragazzino viziato e mai cresciuto del tutto, deresponsabilizzato, irritante nel suo disprezzo egocentrico per il mondo scintillante del successo – che tuttavia, malgrado i propositi, mai abbandona – e le fatiche degli uomini (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra).
E’ Celia, vittima inerme prima dei genitori e poi dei fratelli (che poi, per la cronaca, hanno sangue in comune con lei ma non tra loro). Curioso: sarà proprio Celia, unica progenie per così dire legittima del clan Delaney, a rinunciare al talento, alle ambizioni, alla fama e alla celebrità, che forse sarebbero potute arrivare attraverso il disegno e la scrittura. Scialba, grassoccia, timida, introversa, passerà la vita al capezzale di chi ne avrà bisogno, cercando di compensare così la tenerezza, l’affetto e il sentimento di cui mai era stata oggetto da bambina, ma con l’incapacità totale di un recupero – e rinnovamento – di se stessa e del mondo che la circonda (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra).
Nessuno si salva: né Mamma, morta per un incidente all’apice della carriera, né Papà, spento in vecchiaia, minato nel fisico e nella mente, umiliato da una leggera demenza aggravata dal consumo eccessivo di bevande alcoliche, che lo rende ridicolo agli occhi della famiglia, della servitù, degli estimatori di un tempo.

Solo al termine della lettura il giudizio sospeso rientra nei canoni, e rende nuovamente visibile quello stridore – quella vocina interiore – insomma quel sibilo all’orecchio che ci angustiava tanto (toh, c’è ancora, ma da che parte arriva?).
In un modo o nell’altro, siamo arrivati ad essere, soltanto e ancora una volta, meri spettatori di fronte al palcoscenico. Come sia potuto succedere, non riusciamo a capacitarci.
I Delaney stessi l’avevano predetto: “La gente parlava male di noi già quando eravamo bambini. Ovunque andassimo, riuscivamo a suscitare una strana ostilità” – pag. 18. “Quando si gioca a (…) nessuno sceglie mai “I Delaney”. Non ci scelgono neanche uno per uno come singoli individui. Ci siamo guadagnati, e non sempre giustamente a nostro avviso, la reputazione di ospiti difficili” – pag. 205.
Di fronte a simili affermazioni, abbiamo corrugato la fronte, perché non ne capivamo il senso, così, a metà lettura. Facendo spallucce le avevamo archiviate, ma il sibilo all’orecchio era sempre lì, non se ne andava.
Il merito della Du Maurier sta proprio nell’averci portato, con subdole armi letterarie (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra) e un felice intreccio che mescola il prima e il poi, a ricoprire lo stesso ruolo dei muti spettatori che non hanno fatto altro se non osservare, distrattamente, le vicende della famiglia Delaney, nel trascorrere dell’esistenza: il fascino per questa famiglia sconclusionata, vittima di se stessa e degli eventi, si trasforma ben presto in fastidio e irritazione, sentimenti che non sono mitigati neppure dalla conclusione del romanzo, che anzi, risveglia nel lettore un’inquietudine sottile da senso di colpa mal celato.
La chiusa, di notevole impatto, è composta da sei capitoli conclusivi, uno per ogni fratello, concatenati, ritmici nel loro insieme di struttura a chiasmo: a Farthings, nell’ordine, pre-cena con Niall in camera, Maria nella vasca da bagno, Celia, che erra vagabonda da una stanza all’altra.
Successivamente, dal capitolo 23, Celia, Maria (significativa l’ultima immagine che abbiamo di lei, attraverso lo specchio della toilette, mentre la guardarobiera termina la vestizione, ennesima mascherata senza logo né tempo) e infine, a conclusione del tutto, passato, presente e futuro, Niall e l’acqua di un ritorno. Acqua di mare, come quella che inghiottì sua madre e che, guarda caso, non riporta altro che la nostalgia per un passato perduto di figlio amato, unica parvenza di una vita di equilibrio e stabilità di affetti e luoghi che soltanto la vecchia nutrice era stata in grado di procurare.
Note a margine:
  • Degno di interesse uno dei capitoli centrali del libro, quello sulla “maternità” di Maria, e sul suo rapporto con la primogenita appena nata. Una lezione di puro babyblues: onesta, lampante, precisa, scabrosa, che pochi, oggi, hanno il coraggio di celebrare (mi viene in mente la Cristina Comencini di “Quando la notte”). Come anche la parte conclusiva su Celia e l’amarezza dell’orologio biologico, tictac, tictac.
  • Immediato il raffronto con “Un passato imperfetto” di Julian Fellowes (Neri Pozza, 2009) e “Ritorno a Brideshead”, come dire, parafrasando Yates, che se non parli di famiglia, nei tuoi libri, non parli di nulla.

"Il Direttore Generale", di Bruno Agostini

More about Il direttore generale Ho atteso un po’, per parlarvi di questo. In primis, per rispetto verso l’autore. Glielo dovevo perché lui, con le parole, ci sa giocare alla grande. E poi ho dovuto rifletterci sopra, e pure attentamente. Perché ogni libro ha la sua storia, la sua magia, il suo Momento Giusto.
La storia di questo libro parte proprio da qui, dal Web. E lo ringrazio davvero, il Dottor Agostini, intendo, perché senza la sua segnalazione (come dire, un bel consiglio di lettura, un sasso lanciato nello stagno), mai e poi mai ci sarei arrivata, all’Iliade Napoletana. Questo per dire di quanto io sia ancora indietro, sulle “Minori”.
L’ho lasciato lì, il libricino, in formato url, segnato a copia incolla sul blocnotes giallo del mac. A decantare, qualche settimana, solitario. Del perché.
“Ah, Agostini?” Mi chiede la signora allo stand della Robini, a Torino – gentilissima. “Posso domandarle come ha conosciuto l’opera?” 
L’avevo tra le mani, un pocket size liscio liscio, con una bella copertina di quelle goduriose, morbide al tatto e al naso. Tanti libricini hanno forma e fogli simili, una morbidezza di pagine di misura inusuale. E lo so, come si comportano, lo si capisce a priori. A mano a mano che la lettura procede, pagina dopo pagina si piegano, da destra verso sinistra. Paiono sfaldarsi, ma non è così. Rimangono uniti e compatti, sciupati dalla loro essenza di libri letti, pasticciati, rovinati dal tram, dalla sabbia del mare, dal vento che soffia sul terrazzo in una sera di temporale.
Cerco di spiegarle – alla signora, dico – la metafisica di Anobii. I messaggi in bottiglia, i contatti con gli Autori. Mi trovo a balbettare qualcosa di poco consistente, a cui lei risponde con un sorriso che non è di circostanza (forse forse, vedi che ne sa più di me, a proposito del Grande Demone Celeste dei libri capitati in mano per caso. Ma non glielo chiedo, per pudore).
Cerco di spiegarle la famosa questione del cercare i libri sui banchi delle esposizioni. Del fatto che per acquistare il titolo di cui in oggetto, io abbia aspettato due mesi e mezzo e un viaggio a Torino.
I libri che profumano, a me piacciono. Intendo, quelli che profumano davvero, non quelli che ti piazzano lì due ricette da leccarsi le dita e poi ci girano intorno cercando di costruirci qualcosa sopra. Questo qui profuma di percoche macerate nel Greco di Tufo; di malvarose; di cotoletta con contorno di peperoni e patate in padella, da mandare giù un boccone per volta assaporando i due sapori senza mescolarli, assieme a un bicchiere di Pere e’ Palummo; di friarielli e babà. E’ inutile, da qualsiasi parte lo rigiri, ne senti l’odore.
Senti l’odore del mare, della città, mille storie di persone e luoghi e sapori.
Avevo parlato di Iliade a proposito di Educazione Siberiana:
Lungi dall’essere considerate vicende reali, Iliade e Odissea venivano ascoltate, in parte, per il puro piacere della narrazione (di una potenza enorme, ipnotica, grazie all’uso dell’esametro: una metrica dotata di una purezza stilistica estrema che dava alla narrazione quel ritmo lungo del respiro che ben si adattava alla recitazione, alla riflessione e alla meditazione, ma che, proprio per questa intima circolarità, offriva la possibilità di un distacco totale dall’analisi della forma a favore di una fruizione totale su contenuto), ma anche – si diceva – quale testo didattico e di riflessione morale.
Le divinità dei poemi omerici non sempre corrispondono alla nostra idea di Entità Soprannaturale: accanto a figure mitologiche di grande spessore morale, troviamo anche creature capricciose e vendicative, abituate ad ottenere tutto il richiesto senza porsi troppi problemi in fatto di etica e giustizia.
Allo stesso modo, non tutti i protagonisti (comprimari e non) dei poemi omerici sono cavalieri senza macchia e senza paura: ci si imbatte in animi malvagi, personaggi ambigui e bugiardi, assassini e mentitori di professione. E anche gli eroi veri e propri sono Uomini a tutto tondo, che sbagliano, soffrono, maturano e attraverso questo percorso di vita creano la propria strada e influenzano quella degli altri.

La vita di Elena, così lineare, pura, semplice, ordinata, viene scomposta dal sentimento allo stesso modo in cui il vento sfiora il vaso del geranio sul balcone. Napoli, con la sua  bellezza sanguigna, scompone e sconvolge la percezione che il Direttore Generale ha di se stesso e del mondo che lo circonda.

Qui, su ADC, siamo particolarmente affezionati a Elena e al suo mondo di quotidianità perduta. Forse ci accomuna a lei il senso forte per la terra, per la Casa e per l’amicizia. Aspettiamo di leggerne le sorti, di questa storia d’amore sottile e leggera, eppure così greve.

Credo che la permanenza all’estero abbia donato a B Agostini quella cura tutta particolare per la lingua italiana che abbiamo ritrovato anche – e forse soltanto – in altri italiani “espatriati”. Rigore stilistico, attenzione per la sintassi, un vocabolario particolarmente curato che in alcuni casi rievoca un’attenzione al dettaglio proprio di una letteratura di un tempo forse ormai passato, che ancora non risentiva di globalizzazione, tecnologia e prestiti linguistici.

In linguistica (Berruto, per la precisione, 1993a), il repertorio italo-romanzo si definisce come un bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale, e – per non farci mancar nulla – dilalico. Va bene, proviamo a chiarire il punto.  Bilinguismo endogeno perché l’italiano è una lingua che, come oramai poche altre, conserva ancora una dualità visibile e concreta (due sistemi linguistici), quella tra lingua  e dialetto (ovvero, a bassa distanza strutturale, più bassa di quella presente in sistemi bilingui classici) – lingua e dialetto che il 90% degli italiani utilizza in maniera compenetrata, ovvero con dilalìa.

Qui, la presenza del dialetto, di alcune forme meno nobili della lingua, di una sintassi che risente spesso, consapevolmente, di varietà regionali, sono indice di una pluralità e di un ricchezza di espressione che pochi sistemi linguistici oggi possono ancora vantare e di cui dobbiamo andare fieri.

Che dire, Dottor Agostini. La attendiamo con ansia. Vogliamo sapere tutto: cosa ne sarà del nostro Direttore Generale, di Elena e di tutti coloro che hanno partecipato al loro destino. Vogliamo leggere della sua Napoli, che tanto assomiglia alla Bari dell’Avvocato Guerrieri. Curioso, entrambe città del sud Italia, così belle, così forti e vive.

"Viaggio a Itaca", di Anita Desai – parte terza

More about Viaggio a Itaca

Per la prima parte si veda qui
Per la seconda parte si veda qui

Eccoci a voi con la terza parte del libro, che porterà Sophie e il lettore a riflettere sul senso della famiglia, delle convinzioni profonde e della fede radicata nell’animo di ciascuno.

La vita di Laila è un continuo viaggio. Nata ad Alessandria d’Egitto da padre egiziano e madre francese, comincia a manifestare i primi segni di inquietudine fin da bambina: rimane fuori fino a tardi girovagando per la città, rifiuta gli studi, ha una passione viscerale per la danza e il ballo.
Le similitudini con la vita di Matteo sono evidenti. Mandata a studiare in Francia da alcuni parenti della madre, la ragazza, anziché fare amicizia con le cugine (da notare i provocatori nomi delle due: Yvette e Claudette – del tutto simili, indaffarate a condividere oltre che la medesima stanza, anche le medesime aspirazioni di vita, i medesimi studi, i medesimi svaghi di ragazze facoltose e ben educate, tali e quali alla sorella maggiore di Matteo) utilizza il denaro inviatogli non per gli studi ma per frequentare una scuola di danza.
In uno dei suoi lunghi viaggi di esplorazione attraverso Parigi, scopre per caso un negozio di articoli indiani, e la compagnia di ballo del maestro Krishna. E’ un’illuminazione. Scappa di casa (i genitori e i parenti, a quanto sembra, non avranno più notizie di lei) e impara l’arte del ballo. Viaggerà fino in Italia, dove conoscerà le più influenti dame dell’alta società veneziana. Si spingerà addirittura fino a New York, per approdare alla fine a Bombay. Arrivata in India, lascia Krishna e la compagnia di danza, alla ricerca della vera illuminazione.

La strada percorsa da Laila è molto simile a quella di Matteo. La ragazza, di intelligenza acuta e inquieta, si lascia trasportare completamente dal viaggio, abbandonando il suo passato e il suo presente, incurante delle conseguenze. Alla fine, dopo molte peripezie, dopo aver incontrato saggi veri e fasulli, ecco la sua verità, l’incontro con il maestro maestro Sri Aurobindo.

A noi rimane l’arduo compito di stabilire se Laila e Matteo abbiano incontrato davvero l’illuminazione che cercavano, o se abbiano visto soltanto ciò che con la più drammatica intensità desideravano vedere.

Vorremmo soffermarci da ultimo sul ruolo di Giacomo e Isabel. Già dalle prime pagine capiamo come i due ragazzini siano minati nel profondo dalla vita peregrina a cui sono stati costretti, un continuo errare tra luoghi e affetti. I bambini non hanno punti di riferimento: il padre non è mai vissuto insieme a loro, la madre è in viaggio da tempo.
Isabel cerca di sembrare più grande della sua età, ma allo stesso tempo chiede l’affetto di chi le sta vicino, e si comporta con Giacomo in maniera ambivalente: da una parte, cerca di proteggerlo assumendo il ruolo della madre assente, dall’altra è dispettosa e a tratti crudele, come spesso lo sono i bambini più irrequieti. Isabel è Matteo, e la nonna ne è consapevole. Inquieta e curiosa, irriverente e passionale, non esita a gloriarsi della sua nascita e della sua educazione indiana.
Giacomo invece sembra più tranquillo, ma ribolle nel profondo. Anche se, come Isabel, soffre la vita a casa dei nonni e la loro presenza, è taciturno e sottomesso, introverso e sensibile. Lo troviamo, la prima volta in cui ci viene presentato, seduto in giardino, intento a ricamare un girasole di lana su un cartoncino.
Senza inoltrarsi nei particolari della raffinata analisi psicologica dei due bambini, è evidente come l’autrice si sforzi di indicarli al lettore come le uniche, vere e tangibili conseguenze delle scelte di Matteo e Sophie, che risultano così ancora più colpevoli.
Itaca è Ulisse che torna a casa, è la famiglia di Sophie e di Matteo, sono i loro due bambini. Ma né Matteo né Sophie saranno abbastanza saggi da capire ciò che Itaca vuole significare (pag. 1, la poesia di Constantinos Kavafis che dà il titolo al libro).

L’opera richiede una lettura lenta e accurata, per gustare appieno le dettagliate e complesse sfumature psicologiche sottese ai personaggi descritti. Malgrado le descrizioni particolareggiate che superano in numero i dialoghi, l’attenzione del lettore è sempre viva e il libro scorre fluido. Da leggere con calma e in maniera continuativa, per non rischiare di smarrirsi tra le vicende di Laila, Isabel e Giacomo, Matteo e Sophie, visti gli scarti temporali che le separano. 

"Viaggio a Itaca", di Anita Desai – parte seconda

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Per la prima parte si veda qui


Seconda parte: India.

Una pomeriggio di primavera, a un pranzo di famiglia Matteo incontra Sophie, figlia unica di una facoltosa famiglia di banchieri d’oltralpe; i due ragazzi si innamorano a prima vista, e poco dopo, più per compiacere i genitori che per intima scelta, ufficializzano la loro relazione con il matrimonio.

I due ragazzi, come tutti i giovani dell’epoca, si considerano più viaggiatori che turisti: abbandonano il viaggio “all’occidentale” e si addentrano sempre più nel sub-continente, rinunciando a ogni rapporto con l’Europa e i suoi lussi.
Matteo, spinto da un sincero bisogno di ascetismo e di preghiera, e attirato dalle filosofie mistiche e dai guru (veri o presunti tali) che popolano l’India multicolore, ben presto trascina Sophie in un viaggio che ha sempre meno i contorni della scoperta geografica e culturale ma che acquista i connotati di una ricerca spasmodica dell’illuminazione spirituale.
Sophie, dapprima entusiasta del viaggio e desiderosa quanto il marito di evadere (ma solo per un poco, ecco la differenza tra lei e Matteo) dalla realtà asfissiante della famiglia di origine, diviene a mano a mano sempre più scettica sulle scelte intraprese dal coniuge. Ragazza di mentalità pratica e schietta, per lei l’essenza del vivere deve essere cercata nel reale e nel mondo che ci circonda, non in mistiche favoleggianti e desideri irrealizzabili di perfezione interiore. E’ lei che ci descrive, critica e disincantata, (e attraverso di lei vediamo l’autrice, ironica e pungente) la miriade di giovani di buona famiglia arrivati in India: spinti da un bisogno più o meno vago di mistico e di esotico, guidati da un desiderio di ribellione spesso stereotipato, questi ragazzi il più delle volte pongono fine al loro viaggio pochi mesi più tardi, le tasche vuote, i risparmi sperperati nelle droghe più varie, costretti ad elemosinare un biglietto aereo proprio alla famiglia da cui, tempo prima, erano scappati a gambe levate.

Sophie è tanto più scettica quanto più il marito, sempre più distante e perso nella sua ricerca, la costringe a seguire improbabili santoni e loro adepti in ashram di volta in volta sempre più fatiscenti e ai limiti della civiltà. La situazione si complica poi ulteriormente: la prima gravidanza la coglie impreparata e debole, proprio nel momento in cui Matteo incontra “La Madre”.

Personaggio enigmatico e per stessa ammissione dell’autrice ispirato alla figura storica di Mirra Alfassa, la donna, che ci viene presentata ormai anziana, è fondatrice, insieme al maestro Sri Aurobindo, deceduto da anni, di un ashram che conta diverse decine di adepti. Matteo viene accolto con entusiasmo, e le giornate sono scandite dal lavoro nei campi, dall’attività nella stamperia, ove vengono pubblicati i testi divulgativi del pensiero della Madre, e la meditazione serale. La donna inizia a occupare ben presto una parte consistente nella vita di Matteo – che viene addirittura nominato suo assistente personale e allontanato piano piano, con una tecnica subdola e inquietante, dalla moglie e dalla bambina appena nata.
La vita con Sophie – tornata dopo una lunga degenza in ospedale – e la bambina è ormai persa. Dopo la nascita del secondo figlio, concepito in uno dei pochissimi attimi di tenerezza, Sophie, che non ha mai condiviso la vita della comunità, con grande pena e dispiacere decide di tornare in patria, per assicurare ai bambini un futuro concreto.

Le riflessioni su questa seconda parte sono molteplici: una su tutte, il contrasto tra la comunità scelta da Matteo come sua nuova famiglia e il nucleo familiare di appartenenza.
Il bisogno di ricerca e di introspezione di Matteo è indubbiamente reale e genuino – forse molto più autentico di quello della moglie, che vede questo viaggio in India solo come un periodo sabbatico pianificato, terminato il quale potrà tranquillamente riprendere a vivere nel mondo da cui proviene.
Sono i presupposti ad essere sbagliati. Matteo legge Hesse, ha notizie vaghe, si tuffa a capofitto in un’esperienza che non può fare sua, tanto da essere aspramente rimproverato da un medico dal quale era stato visitato per una delle numerose infezioni contratte (l’India non si impara sui libri).
Indubbiamente la famiglia di Matteo ha delle lacune. La mancanza di naturalezza a cui Matteo fa riferimento non è altro che la patina di formalismi e convenzioni che la madre e il padre sono stati abituati a seguire. Ci si domanda quanto la scelta di Matteo, sia il frutto di una decisione consapevole, o piuttosto, un’avventatezza, segnata da uno stato di disagio generale che il giovane forse avrebbe fatto meglio a risolvere a casa (evitando pesanti conseguenze a se stesso e alle persone intorno a lui, in primo luogo Sophie)? Anita Desai ci lascia con questa domanda.
Sophie torna a casa, e con pena e angoscia cerca di ricostruire il suo mondo e quello dei bambini, seppure con scarso successo. L’esperienza indiana l’ha cambiata radicalmente: soffocata dai familiari e dalla vita di Francoforte, si trasferisce con i figli dalla nonna paterna: i bambini sembrano trovare pace, Sophie trascorre mesi inquieti, in preda all’inquietudine e alla violenta nostalgia per Matteo.
Dopo qualche tempo, riceve un telegramma da alcuni adepti dell’ashram: La Madre è morta, i giorni dell’ashram sono ormai un ricordo e Matteo è gravemente malato. Decisa a riportarlo a casa e a dimostrargli di come tutta questa ricerca sia stata vana e inconcludente, la donna si rimette in viaggio.
Paziente e attenta, ricostruisce attraverso diari e testimonianze la vita della Madre, Laila, visitando i luoghi da lei toccati nel corso delle sue peregrinazioni: l’Egitto della fanciullezza, l’Europa e l’America attraversate con una famosa compagnia di ballo indù alla quale si era unita, scappando da casa; l’arrivo in India. 

"Viaggio a Itaca", di Anita Desai – parte prima

More about Viaggio a Itaca
Attenzione: l’analisi che segue non è propedeutica alla lettura. 
Tornate da noi dopo aver letto il libro.

Per la seconda parte si veda qui
Per la terza parte si veda qui




Occorre analizzare il libro unendo la sinossi all’analisi del testo, visto che l’apparato della trama risulta spesso inestricabile dall’analisi dei personaggi e delle ambientazioni.

Primi Anni Ottanta. Siamo con Isabel e Giacomo, due bambini irrequieti che vivono con i nonni paterni in una grande villa sul lago di Como, circondata da un meraviglioso giardino; veniamo a sapere che i genitori dei due piccoli, Matteo e Sophie, sono assenti da diverso tempo. Nel corso delle prime pagine, la vicenda esposta nel prologo si chiarisce: Sophie è tornata in India per convincere il marito a tornare a casa.
I due infatti, diversi anni prima, al termine degli studi e appena sposati, sull’onda degli incipienti anni ’70 avevano intrapreso un viaggio in India, luogo da cui Matteo non aveva più voluto far ritorno, dopo aver conosciuto la fondatrice di una comunità spirituale presso cui poi aveva deciso di stabilirsi. Matteo ha rinnegato il suo passato, la moglie, i figli e la sua famiglia. Ora però, giace, ammalato e prostrato, in un letto di un ospedale ai confini con la civiltà.

Il romanzo si compone di tre parti fondamentali.
Nella prima – una sorta di lunga introduzione – ci vengono presentati il giovane Matteo e la sua famiglia: i due coniugi, ricchi imprenditori, la figlia maggiore Carolina, perfettamente compresa nel ruolo di giovane ragazza di buona famiglia, e Matteo, di carattere ombroso e inquieto.

Alcuni appunti.
I due coniugi sembrano fisicamente incapaci di allevare bambini, che talvolta sembrano essere stati procreati soltanto per convenienza sociale. Il marito è impegnato con il lavoro e la carriera, Livia, la moglie, con il ruolo sociale che l’alta posizione le conferisce. Incapace di rapportarsi con una realtà totalmente diversa da quella precostituita che conosce, la donna, pur avendo provato a scalfire la dura corteccia che ricopre l’animo del bambino, si ritrova terrorizzata e inerme di fronte a un figlio che non riconosce e che non rispecchia i canoni attesi.
Il marito, uomo rude e silenzioso e unica figura maschile del romanzo oltre a Matteo, è costantemente impegnato nel suo lavoro e nelle sue attività.
I coniugi tuttavia sembrano due adulti imprigionati nel loro imbarazzo, più che persone di poca umanità. Questo figlio irrequieto e davvero irritante, che scardina tutte le loro sicurezze, chiede a gran voce che gli sia rivelata la verità dell’esistenza. Il ragazzo ha un comportamento che mal si concilia con lo status sociale della famiglia, perché rinnega tutte le convenzioni alle quali – secondo i due genitori – è necessario e naturale sottomettersi. E’ la vittoria dell’incapacità di esprimere se stessi (il marito, un buon uomo preda di un carattere introverso e timido che lo porta a evitare ogni contatto per paura di cadere nell’imbarazzo) e di comprendere gli altri (la moglie, dura donna del dopoguerra, rigida nelle sue convinzioni).

Bisognerebbe sforzarsi di abbandonare la strada tracciata, di seguire questo bambino ribelle nel suo profondo, abbandonando le modalità note e apprese attraverso un imprinting perverso. Ma non possiamo chiedere questo sforzo ai due genitori; per loro, ci sarà soltanto l’incapacità di scostare il velo dei formalismi che continueranno a filtrare i sentimenti e le sensazioni, nonostante gli sforzi.
Matteo passa da un collegio all’altro, fino ad approdare a un precettore privato che tuttavia viene licenziato dalla madre che non approva i metodi di insegnamento forse non convenzionali (e proprio per questo, forse, gli unici che riuscissero in qualche modo a far presa sul ragazzo) e l’insegnamento delle materie umanistiche, e poi ad un vecchio prete, che con pazienza e fatica riesce a colmare le lacune negli studi. Ma il rapporto con i genitori è oramai compromesso.

"La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo", di Audrey Niffenegger

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Con avventatezza lo inseriamo qui tra i “libri di viaggio”, perché in realtà il viaggio, benché questa volta si parli di viaggi nel tempo e non nello spazio, è il vero protagonista di questa morbida e raffinata storia d’amore che si dipana dagli anni 60 ai giorni nostri.

Curioso come l’attenzione del lettore sia focalizzata per una volta non tanto su chi viaggia ma su chi resta, spettatore del viaggio che altri intraprendono.

Clare, artista e scultrice di talento, è la moglie di Henry, il primo uomo affetto da “cronoalterazione”, una disfunzione genetica che costringe chi ne è affetto a svanire dal presente, nei momenti più impensati e in maniera del tutto imprevedibile, per catapultarsi nel passato o nel futuro e lì rimanere, per minuti, ore o giorni, confrontandosi con la propria vita futura e passata.
Nel corso dei suoi viaggi, Henry incontra una Clare ancora bambina, si misura con avvenimenti ancora in là da venire, con persone già viste e di cui vorrebbe poter modificare le sorti. Attraversa luoghi diversi, visita persone che dal suo presente sono ormai assenti e altre che dovranno ancora nascere.

Lasciamo da parte ogni analisi tecnica sui viaggi nel tempo – non pensiamo sia intento dell’autrice definire con precisione le problematiche sottese a questa tematica tanto cara alla fantascienza – per analizzare i veri protagonisti del romanzo: Clare, e il tempo che passa.

Il viaggio è in sé movimento, scoperta, invenzione, rivelazione, anche drammatica. Lo abbiamo visto nei due libri precedenti.
Per Clare, invece, il viaggio non è altro che stasi. E’ attesa, è analisi introspettiva, è ansia per un futuro che ha ancora da compiersi e che non sappiamo se si compirà mai. Un ritorno sempre atteso, ma mai annunciato, senza data e senza coscienza. La partenza è improvvisa, incontrollabile, e avviene anche nei momenti più importanti, quelli in cui non vorremmo mai essere lasciati soli.

Da qui, l’importanza dei gesti e delle piccole cose di tutti i giorni. Le piccole cose che aspettano il ritorno insieme a noi e alle quali ci si ancora per combattere la solitudine, l’abbandono, la nostalgia. Il tempo che non passa mai.

Il consiglio è quello di soffermarsi sulle descrizioni, soprattutto delle stagioni e del tempo che cambia, visti attraverso gli occhi di Clare.
L’inverno di Chicago, con la neve e il vento, fatto di divani caldi, tazze di cioccolata, tisane, coperte pesanti e pomeriggi della domenica passati a leggere davanti alla finestra. L’estate torrida della campagna, dei prati e degli insetti. L’autunno dei disegni dei bambini: il cielo dalle sfumature color arancione, gli uccelli migratori, il vento trasparente e freddo del pomeriggio inoltrato, le ombre scure della sera che annunciano il freddo in arrivo.

Tutti i particolari delle descrizioni più riuscite, puntuali ma mai ridondanti, hanno come oggetto ciò di cui si può godere nella propria intimità, in contrapposizione con un esterno “altro”: una bella lettura accompagnata da un disco di qualità, una cena con gli amici più cari, una stanza calda e accogliente a cui si può ritornare. Lo studio di Clare, disseminato di strumenti da disegno, pennelli e colori.
Tutto quello che a Henry è in un certo senso precluso, visto che in maniera del tutto casuale e non prevedibile viene trasportato, nudo e traumatizzato, nei luoghi più impensabili (un vicolo di periferia in una sera freddissima d’inverno, una cantina sotterranea senza uscite di sicurezza, un rifugio di vagabondi da cui Henry viene malmenato), senza la possibilità di portare con sé nulla che lo faccia sentire protetto e a casa – un vestito, gli occhiali, una foto. Neppure l’otturazione inserita in un dente, che sistematicamente viene perduta chissà dove.

Clare è la depositaria di questo segreto, il segreto di poter vivere queste piccole felicità senza interruzione, la capacità di trovare un riparo dall’esterno.

La storia d’amore di Clare e Henry è tutta qui, è la bellezza struggente di vivere le piccole cose di ogni giorno e il silenzio terribile che acquista anche la stanza più bella, dopo che la persona che amiamo l’ha lasciata.

Mai però che Clare si dia per vinta. E’ una donna forte che difende la vita, le sue bellezze e le sue scoperte. Henry è uomo ironico, pungente, a tratti esilarante. Le sue battute taglienti spezzano con cura i momenti di maggior lirismo, evitando che il libro si trasformi in una tragedia cruenta da trasposizione cinematografica.

Un ultima nota: vi invitiamo a seguire i consigli per la lettura (e per l’ascolto musicale) disseminati qua e là.
Libro da lettura medio-veloce, facilitata dall’inusuale sistema di scrittura, che si avvale di un costante punto di vista multiplo graficamente sottolineato nello scorrere dei brevi paragrafi.
Siccome si tratta di una narrazione sviluppata lungo il corso degli anni, l’attenzione è focalizzata sugli eventi (separati anche mesi o anni tra loro, come fotografie). Ogni evento è proposto dal punto di vista di Clare o di Henry (CLARE: o HENRY: a livello grafico) e non mancano i casi in cui sia visto da entrambi, separatamente.
E’ necessario inoltre prestare attenzione alle date: ogni sezione di capitolo, infatti, è evidenziata da una data – e dagli anni che Henry e Clare hanno al momento dell’episodio. Il sistema sembra a prima vista un po’ macchinoso e difficile da seguire, ma così non è. Ci si abitua subito e si rivelerà molto utile per capire le varie connessioni tra il presente, il passato e il futuro dei due protagonisti.

"Il Ballo" di Irène Némirovsky

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Prendiamo l’Irene a piccole dosi. Malgrado la sopraggiunta “popolarità” dell’autrice, che oramai non si legge più grazie soltanto ad un semplice passaparola, come era qualche tempo fa, ci andiamo cauti.
Cominciamo a sentirci costretti, su questo punto. SAPPIAMO quel che ci si aspetta da noi: dovremmo leggere Suite Francese. Dovremmo leggere (PRIMA) I doni della vita, e poi di seguito Suite Francese; sappiamo che dovremmo comperare la biografia edita da Einaudi. 
Ma non è ancora arrivato il momento, benché la pressione stia salendo in maniera inesorabile. 

Ma resistiamo. Resistiamo perché ci piace fare le cose a pezzettini minuscoli, e poi mettere insieme il tutto soltanto quando siamo estremamente pronti. Per il momento ci limitiamo a piccoli morsichini, anche perché, in questi nostri tempi frenetici, in redazione si sente la necessità di questa letteratura di passo lento, fatta apposta per ricordarCI che, una volta, le storie si leggevano così. Pubblicate a capitoli sulle riviste settimanali oppure negli inserti della domenica dei quotidiani. E occorreva aspettare, e godersele, quelle storie. Occorreva aspettare l’uscita della rivista, oppure toccava stare composti a tavola, buoni e zitti, gli occhi avidi sul giornale che papà non aveva ancora terminato di leggere.

Che cos’è, “Il ballo”.
Noi lo prenderemmo come un folgorante esempio di cattiveria umana – e letteraria. Così, semplicemente.
Prima di tutto letteraria, ché, una persona così, che al suo secondo lavoro riesce a condensare in meno di 100 pagine udito, olfatto, vista, gusto e tatto, se la provi a cercare non la trovi neanche tra mille. L’Irene è fatta per rammentarci quel piccolo grande segreto che molti pseudo-scrittori di oggi si dimenticano: che scrivere non è per tutti.

Ci piacciono le sue descrizioni piantate a mezz’aria, un particolare per l’intero, il tutto percepito attraverso il dettaglio: le braccia nude sul vestito di chiffon color pesca, l’aria fredda della sera, il personale incompetente e poco affezionato ai nuovi padroni, fotografato nell’atto volgare e esemplificativo di tracannarsi lo champagne, tra risa sguaiate, di nascosto in una stanza di servizio. La carne in gelatina esposta sul tavolo di portata, le luci scintillanti moltiplicate dal gioco degli specchi.

Specchi e stoviglie d’argento che riflettono il viso tirato, sconvolto, dai tratti quasi scimmieschi, della madre di Antoinette. Una donna gretta, presuntuosa e prepotente, arricchita grazie alle sostanze di un marito abile negli affari ma poco propenso all’analisi interiore, di sé e degli altri (e qui, non si nega all’Irene una certa qual supponenza di giudizio – davvero giovanile – che la spinge a pensare che forse le “pescivendole” di estrazione proletaria, anche se arricchite e “ripulite”, sempre pescivendole debbano rimanere. Ma forse c’è anche dell’altro).
Che poi, d’altra parte, il viso di Antoinette non è che si discosti molto da quello di sua madre. Il suo sorriso, alla fine, sa più di indulgenza e distacco, commiserazione e disprezzo, piuttosto che intimo compatimento.
Lo scherzo crudele e veramente cattivo di Antoinette svela molto altro, rispetto alla semplice bravata adolescenziale tra le quali lo si vorrebbe, per indulgenza, annoverare. Rivela mancanza di raziocinio, intelletto e maturità, egoismo, rabbia profonda e una buona dose di cinismo che davvero lascia stupefatti. E’ sempre impressionante vedere come una ragazza di buona famiglia come l’Irene, all’apparenza così integrata nel sistema e nella società, potesse covare dentro di sé simili sentimenti autodistruttivi.

Non riusciamo a condannare Antoinette, così vulnerabile, infelice, abbandonata e dimenticata in uno sgabuzzino per le scope, in compagnia di un’istitutrice che di didattico e di realmente morale le insegna ben poco, tranne che l’arte della Pomiciata-con-il-fidanzato, consumata dove capita, dopo aver scaricato la ragazzina dovunque e a chiunque, solo per liberarsene e non averla tra i piedi. Eppure la bambinaia è istruita, e parla inglese. E’ di moda, avere un’istitutrice avvezza alle lingue straniere.

Eppure, per la madre di Antoinette, ci troviamo a non poter spendere una che una parola di conforto. Si potrebbe pensare ad un’infanzia di povertà, alle difficoltà della gioventù, ai tentativi di affrancarsi da una realtà misera e negletta.

Gli specchi della sala da ballo, tuttavia, mostrano anche un’altra immagine, quella dell’adulta Antoinette, a sua volta ricca signora, e forse moglie, e madre. E’ una visione ancora imperfetta e sfocata, appannata dall’incertezza. Eppure c’è.
Quel sorriso creato ad arte, quelle frasi a metà (un flashforward ante litteram) sussurrate al fidanzato – vero o presunto: “quanto ero stupida, che cosa ridicola” fanno già intendere il fine verso il quale l’Irene ha puntato.

La nemesi storica, le colpe dei padri che ricadono sui figli, che vengono corrotti e sfregiati nell’animo, per sempre, da famiglie assenti e da madri “pescivendole” nell’animo.
Un decadimento spirituale che sa anche un po’ di denuncia morale
Madre, sono un mostro, così mi hai creato, come cera nelle tue mani. Da brivido.

"Quello che le mamme non dicono", di C. Cecilia Santamaria

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La “prima” sapeva di venerdì sera, di Milano d’estate, di sole al tramonto sulle guglie del Duomo e, naturalmente, di spritz – S/L
Perché consigliamo la Chiara, anzi (ci perdoni), la Wonder, ché chiamarla con il suo nome di battesimo oramai, dopo quasi due anni e una quantità inestimabile di post, ci risulta un tantino difficile. A dire la verità, il perché, ce l’ha spiegato con dovizia di particolari la nostra collaboratrice S/L – autrice della chiosa di cui sopra. Venerdì sera, al telefono, dopo la presentazione milanese del libro. 
Perché la Wonder, la realtà te la racconta così com’è. 
E questo vale per il contenuto ma anche per la forma. 
Uno stile fresco e schietto, un rimescolio frizzante, quella capacità tutta italiana di portarsi dietro (e dentro) la lingua dello studio e dell’apprendimento (l’italiano nazionale), insieme a quella, più radicata e antica, del dialetto, della terra, della famiglia, delle origini.
E’ grazie a questa freschezza di stile “alla romana” che le narrazioni di Wonder acquistano quel sapore di vita e realtà che le fanno così particolari.
Come se l’argomento non fosse sufficiente. “Quello che le mamme non dicono” è tutto ciò che ogni mamma nasconde di sera sotto al cuscino, come un fazzoletto ben ripiegato; tra le pareti domestiche, nell’intimo del cuore. Ombre profondissime nascoste nell’animo di ogni donna. Ombre a cui le mamme di oggi, forse, non sono più disposte ad accondiscendere in nome di un tabù sociale sempre vivo e presente.
Il successo del blog da cui è stato tratto il libro fa riflettere. Potremmo pensare ad una operazione di marketing ben riuscita e osservare il tutto con distaccata diffidenza, ma poi dovremmo fare i conti con una delle fondamentali leggi della pubblicità: il marketing c’è dove c’è pubblico, potenziale o acquisito. 
Ciò sta a significare che il mondo delle mamme-spritz forse è più vasto di quel che si pensa: è un luogo sotterraneo, ancora in sperimentazione, perché le mamme di oggi conoscono alla perfezione (e anche troppo) il luogo da cui partono ma non conoscono assolutamente nulla del punto di arrivo, che non è neppure, lontanamente, immaginabile. 
E’ una realtà parallela, di sprazzi di luce incantevole. Una femminilità intima e auspicata, un’identità da conservare e coltivare con costanza, fatica, impegno e, perché no, anche con la leggerezza di una sana risata.