"Viaggio a Itaca", di Anita Desai – parte seconda

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Per la prima parte si veda qui


Seconda parte: India.

Una pomeriggio di primavera, a un pranzo di famiglia Matteo incontra Sophie, figlia unica di una facoltosa famiglia di banchieri d’oltralpe; i due ragazzi si innamorano a prima vista, e poco dopo, più per compiacere i genitori che per intima scelta, ufficializzano la loro relazione con il matrimonio.

I due ragazzi, come tutti i giovani dell’epoca, si considerano più viaggiatori che turisti: abbandonano il viaggio “all’occidentale” e si addentrano sempre più nel sub-continente, rinunciando a ogni rapporto con l’Europa e i suoi lussi.
Matteo, spinto da un sincero bisogno di ascetismo e di preghiera, e attirato dalle filosofie mistiche e dai guru (veri o presunti tali) che popolano l’India multicolore, ben presto trascina Sophie in un viaggio che ha sempre meno i contorni della scoperta geografica e culturale ma che acquista i connotati di una ricerca spasmodica dell’illuminazione spirituale.
Sophie, dapprima entusiasta del viaggio e desiderosa quanto il marito di evadere (ma solo per un poco, ecco la differenza tra lei e Matteo) dalla realtà asfissiante della famiglia di origine, diviene a mano a mano sempre più scettica sulle scelte intraprese dal coniuge. Ragazza di mentalità pratica e schietta, per lei l’essenza del vivere deve essere cercata nel reale e nel mondo che ci circonda, non in mistiche favoleggianti e desideri irrealizzabili di perfezione interiore. E’ lei che ci descrive, critica e disincantata, (e attraverso di lei vediamo l’autrice, ironica e pungente) la miriade di giovani di buona famiglia arrivati in India: spinti da un bisogno più o meno vago di mistico e di esotico, guidati da un desiderio di ribellione spesso stereotipato, questi ragazzi il più delle volte pongono fine al loro viaggio pochi mesi più tardi, le tasche vuote, i risparmi sperperati nelle droghe più varie, costretti ad elemosinare un biglietto aereo proprio alla famiglia da cui, tempo prima, erano scappati a gambe levate.

Sophie è tanto più scettica quanto più il marito, sempre più distante e perso nella sua ricerca, la costringe a seguire improbabili santoni e loro adepti in ashram di volta in volta sempre più fatiscenti e ai limiti della civiltà. La situazione si complica poi ulteriormente: la prima gravidanza la coglie impreparata e debole, proprio nel momento in cui Matteo incontra “La Madre”.

Personaggio enigmatico e per stessa ammissione dell’autrice ispirato alla figura storica di Mirra Alfassa, la donna, che ci viene presentata ormai anziana, è fondatrice, insieme al maestro Sri Aurobindo, deceduto da anni, di un ashram che conta diverse decine di adepti. Matteo viene accolto con entusiasmo, e le giornate sono scandite dal lavoro nei campi, dall’attività nella stamperia, ove vengono pubblicati i testi divulgativi del pensiero della Madre, e la meditazione serale. La donna inizia a occupare ben presto una parte consistente nella vita di Matteo – che viene addirittura nominato suo assistente personale e allontanato piano piano, con una tecnica subdola e inquietante, dalla moglie e dalla bambina appena nata.
La vita con Sophie – tornata dopo una lunga degenza in ospedale – e la bambina è ormai persa. Dopo la nascita del secondo figlio, concepito in uno dei pochissimi attimi di tenerezza, Sophie, che non ha mai condiviso la vita della comunità, con grande pena e dispiacere decide di tornare in patria, per assicurare ai bambini un futuro concreto.

Le riflessioni su questa seconda parte sono molteplici: una su tutte, il contrasto tra la comunità scelta da Matteo come sua nuova famiglia e il nucleo familiare di appartenenza.
Il bisogno di ricerca e di introspezione di Matteo è indubbiamente reale e genuino – forse molto più autentico di quello della moglie, che vede questo viaggio in India solo come un periodo sabbatico pianificato, terminato il quale potrà tranquillamente riprendere a vivere nel mondo da cui proviene.
Sono i presupposti ad essere sbagliati. Matteo legge Hesse, ha notizie vaghe, si tuffa a capofitto in un’esperienza che non può fare sua, tanto da essere aspramente rimproverato da un medico dal quale era stato visitato per una delle numerose infezioni contratte (l’India non si impara sui libri).
Indubbiamente la famiglia di Matteo ha delle lacune. La mancanza di naturalezza a cui Matteo fa riferimento non è altro che la patina di formalismi e convenzioni che la madre e il padre sono stati abituati a seguire. Ci si domanda quanto la scelta di Matteo, sia il frutto di una decisione consapevole, o piuttosto, un’avventatezza, segnata da uno stato di disagio generale che il giovane forse avrebbe fatto meglio a risolvere a casa (evitando pesanti conseguenze a se stesso e alle persone intorno a lui, in primo luogo Sophie)? Anita Desai ci lascia con questa domanda.
Sophie torna a casa, e con pena e angoscia cerca di ricostruire il suo mondo e quello dei bambini, seppure con scarso successo. L’esperienza indiana l’ha cambiata radicalmente: soffocata dai familiari e dalla vita di Francoforte, si trasferisce con i figli dalla nonna paterna: i bambini sembrano trovare pace, Sophie trascorre mesi inquieti, in preda all’inquietudine e alla violenta nostalgia per Matteo.
Dopo qualche tempo, riceve un telegramma da alcuni adepti dell’ashram: La Madre è morta, i giorni dell’ashram sono ormai un ricordo e Matteo è gravemente malato. Decisa a riportarlo a casa e a dimostrargli di come tutta questa ricerca sia stata vana e inconcludente, la donna si rimette in viaggio.
Paziente e attenta, ricostruisce attraverso diari e testimonianze la vita della Madre, Laila, visitando i luoghi da lei toccati nel corso delle sue peregrinazioni: l’Egitto della fanciullezza, l’Europa e l’America attraversate con una famosa compagnia di ballo indù alla quale si era unita, scappando da casa; l’arrivo in India. 

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