"Wool", di Hugh Howey

Più riguardo a Wool Il guilty pleasure della fiction distopica rapisce sempre, non ci sono scuse. 
Poi, che questo particolare tipo di science-fiction abbia a sua disposizione oggigiorno un ventaglio di possibilità narrative praticamente infinito e multiforme per quantità e qualità – virando verso il mondo letterario sottile e stratificato dello steampunk o declinandosi, come in questo caso, attraverso la più classica spettacolarizzazione dell’inquadratura cinematografica di matrice post-apocalittica, questo è altro discorso.

“Wool” è interessante per almeno due motivi: l’ambientazione fortemente claustrofobica e il tema ecologico ad essa sotteso.
A seguito di una catastrofe di dimensioni planetarie naturalmente (ancora) non ben identificata – alcuni indizi rivelano comunque una responsabilità quasi certamente umana – e a causa dell’inabitabilità del suolo terrestre corroso da terribili sostanze tossiche rilasciate nell’aria, da centinaia di anni i sopravvissuti sono costretti a vivere prigionieri di immense città sotterranee contenute in giganteschi silo. Il senso di pesante e continua claustrofobia – che deriva  da un world-building francamente ben congegnato – non è così scontato e offre un’alternativa interessante alle consuete (e forse ormai un po’ abusate) ambientazioni della distopia classica, tra scenari cittadini di grattacieli diroccati e lande deserte spazzate dai venti tossici dell’inverno nucleare. 
L’autore dipinge così un’enclave sufficiente a se stessa, per il cui sostentamento è necessaria la costante attenzione, da parte di tutta la comunità stessa, nessun escluso, all’utilizzo consapevole delle risorse energetiche a disposizione: acqua, combustibili, cibo, energia elettrica. Un mondo in cui il concetto di “nuovo”, quasi inesistente, è soppiantato da quello di “riciclo” e sopratutto di “riparazione” (questione, questa del riparare, tanto cara ai nostri nonni… un po’ meno  a noi). Un mondo in cui ogni individuo è responsabile – più o meno attivamente a seconda delle singole capacità tecniche – del benessere della comunità: dal bambino piccolo a cui si insegna a riutilizzare, in un continuo sforzo di re-invenzione, tutti gli oggetti del quotidiano al meccanico esperto in grado di servirsi di ogni materiale e attrezzo disponibile – e di ogni conoscenza acquisita con gli anni – per costruire macchinari utili al sostentamento e riparare quelli già esistenti, ideati e assemblati da altri venuti prima di lui.

“Wool” vince col passaparola del self-publishing di Amazon: l’autore, autopubblicatosi direttamente sul sito nel 2011 con una narrazione breve e unica, ben presto acquista popolarità e viene esortato dal pubblico ad ampliare il plot, fino ad arrivare a concepire una serie composta da ben nove uscite, in cui non mancano neppure gli spin-off. L’opera è aiutata da una trama varia e ben organizzata e da un ritmo narrativo, come già detto, fortemente cinematografico (non a caso i diritti sono stati acquisiti da una major americana): se piace il genere, l’unica perplessità sta forse proprio nella serialità, che pare ormai d’obbligo in questi casi. Sono previste infatti altre due uscite (“Shift” e “Dust”) e il dubbio è che si incorra ancora una volta nelle difficoltà più classiche proposte da trilogie simili: varietà eccessiva di personaggi e  di situazioni difficoltose da seguire anche a causa dei fisiologici tempi di attesa tra un volume e l’altro, per non parlare dei naturali “cali” di stile. Forse “Wool”, trasformandosi da stand-alone short story a “Silo trilogy” ha perso l’occasione di distinguersi nel mare magno delle narrazioni del suo genere da cui, con un colpo di reni ben assestato, era riuscita ad emergere – e con salto doppio, contando anche gli esordi in autopubblicazione. 

Buona lettura 🙂

"La morte delle api", di Lisa O’Donnell

Più riguardo a La morte delle api Ci aveva pensato anche JKRowling, in questi ultimi anni, a entrar nei panni di una moderna Cassandra mai creduta ma noi, belli caldini nel nostro bozzolo di densa nebbia Harrypotteriana, così magica e naive, non ci avevamo fatto troppo caso: Dolores Umbridge e la villetta suburbana dei coniugi Dursley erano così lontane. Poi, ovviamente non sazia anzi spinta da sacro furore e puntiglio, per tentare di aprirci gli occhi rincarò la dose parlandoci della lieta e ridente cittadina di Pagford. E finalmente anche il suo message in a bottle arrivò a destinazione.
 
Con “La morte delle api” Lisa O’Donnel, un’altra scrittrice UK (almeno di origine – scozzese: ora vive a LA) si imbarca nella difficile avventura del raccontare il Grande Impero alle giovani generazioni. Non di come lo si vorrebbe che fosse (ancora), o di come lo si immagina che sia (ancora), ma di come in effetti è. Sono molti i tratti che accomunano i lavori degli scrittori che si cimentano in una simile impresa (da Zadie Smith a Nick Hornby) e su questi tanti uno spicca in particolare, ben presente anche nell’opera della O’Donnell: l’assoluta lucidità di giudizio, che grazie al fatto di essere sostenuta da una profonda cultura letteraria, storica e antropologica, non scade mai né nel romance sentimentale né, al contrario, in un didascalico e asettico naturalismo. 
 
Una storia a tre voci, narrata in prima persona pezzo per pezzo (come la camminata del gambero, due passi avanti e uno indietro) da tre punti di vista diversi e complementari: quello delle sorelle Marnie e Nelly Doyle – rispettivamente di quindici e dodici anni – e dell’anziano vicino di casa Lennie.
 
“Oggi è la vigilia di Natale. – ci illumina Marnie nell’incipit, con quel misto di rudezza e spavalderia a cui presto ci abitueremo – Oggi è il mio compleanno. Oggi compio quindici anni. Oggi ho seppellito i miei genitori in giardino. Non mancheranno a nessuno”. (p9)
 
Si perché la provincia suburbana in cui Lisa O’Donnell ci proietta tutto d’un colpo non è quella pittoresca dei cottage ottocenteschi, degli inner-pub cari ai turisti di tutto il mondo, dei golosi cupcakes burrosi e della Royal Family in abiti confetto. E’ il regno di Mark, Spud, Sick Boy, Tommy e Francis: un mondo lontano, fatto di villette fatiscenti circondate da giardini-discarica dentro le quali adulti quarantenni, disoccupati, perennemente ubriachi e strafatti giocano a fare i genitori occupandosi alla bell’e meglio di figli appena preadolescenti e già corrotti dalla delinquenza, dall’alcool e dalle pasticche, nella più assoluta indifferenza generale che regna sovrana all’interno di questi quartieri-dormitorio.
“Adesso ci sono immigrati con lauree che si prostituiscono, vendono droga e fanno tutto quello che devono per sopravvivere all’inferno che chiamiamo asilo politico. Immagino che i veri eroi siano quelli che vengono qui e sopportano i buoni alimentari, gli abusi della gente, i vestiti di seconda mano e le case diroccate, per non parlare delle montagne di scartoffie necessarie per farsi accettare in un Paese che non conosce neppure la tua lingua” (p18-19)
 
“Insegnano persino il gaelico, anche se non capisco a che diamine serva. (…) Dovrebbero insegnare lo spagnolo e il francese, e anche il tedesco, le lingue del mondo (…) e invece devi pensare alla Scozia (…) sempre a rimestare nel passato, con un Parlamento che dà la priorità alla lingua parlata in posti senza nessuna opportunità lavorativa, piccole isole dove allevano mucche e si sposano tra parenti” (p52)
 
Un girone infernale di una banlieue multietnica all’interno della quale Marnie non si dimostra eccezione: a quindici anni fa sesso non protetto con chi le capita a tiro – e con chi la costringe a farlo – e si è già sottoposta ad un aborto; beve, prende pasticche (quando capita le smercia anche), è sboccata e fa di tutto per non piacere a nessuno – e per la verità all’inizio non piace neppure al lettore. E’ irritante e sgradevole, questa ragazza-bambina che avrebbe tutte le carte in regola per emergere (una su tutte, la passione per lo studio e per la scuola che la porta ad ottenere sempre i voti migliori della classe) e che invece fa di tutto per perdersi, vittima di una disperazione profonda e inenarrabile:
 
“Noi siamo qualcosa che le era accaduto e anche se ci teneva le mani e ci baciava la fronte e qualche volta ci rimboccava le coperte, noi suoi occhi c’era sempre un battito, come se pensasse *Che ci faccio qui*” (p56-57)
 
“L’intelligenza dovrebbe essere la ricompensa per le vergini non fumatrici di questo mondo, non per un’adolescente moralmente corrotta con due tossici sepolti nel giardino di casa” (p33)
 
La trama è tutta qui, poche parole messe in fila da Marnie, un pugno di briciole che una ragazza interrotta ci lancia sotto al tavolo, come dar degli avanzi a un cane di casa un po’ disprezzato. Eugene e Isabell sono morti – in che modo lo sapremo poi – e le due ragazze ne hanno seppellito i corpi in giardino, terrorizzate all’idea dell’arrivo dei servizi sociali. Sì, perché tempo un anno e Marnie avrà sedici anni e diventando maggiorenne potrà occuparsi per legge di se stessa e della sorella Helen – detta Nelly. Ragazza bellissima, dal talento musicale perfetto, e affetta da una grave forma di autismo. E’ una corsa contro il tempo quella di Marnie e Nelly, che si impegnano con tutte le loro forze per nascondere la verità dei due corpi distesi sotto pochi centimetri di terra dura e incolta, in un crescendo di bugie e inganni costruiti ad arte per celare l’orrore scavato nel giardino e nell’anima.
 
Siccome però il diavolo, come si dice, fa le pentole ma non i coperchi, ecco lo zampino dell’imprevisto che fa cu-cu dalla porta sul retro, impersonato da tutta una congrega di comprimari che regalano alla trama la varietà di cui necessita per sostenersi fino all’epilogo della vicenda.
Abbiamo Lennie, il vicino di casa, ora vecchio e malato, che si prende l’onere di accudire le due ragazze fintanto che i genitori non torneranno (partiti, a quanto dice Nelly, per un lungo viaggio in Turchia) nel tentativo di salvare se stesso purgandosi del male commesso in passato. Mick, il proprietario del carretto dei gelati, alias lo spacciatore a cui Eugene deve una cospicua somma, più che mai deciso a recuperare il bottino visto che Vlado, il pusher della zona, un quarantenne di origini russe che di segreti ne nasconde più d’uno, lo stringe d’assedio e lo minaccia di morte nel caso in cui non riesca a consegnare la cifra dovuta. E poi ancora, come se non ne avessimo già a sufficienza, il nonno MacDonald, ubriacone di vecchia data, che riemerge dal nulla dopo decenni di latitanza illuminato – pare – dalla luce divina della conversione religiosa e convinto più che mai a riallacciare i rapporti con la figlia Isabell; le amiche di Marnie, Kimberly “Kimbo” e Susie; e infine il giovane Kirkland, di buona famiglia, innamorato di Marnie o forse soltanto delle pastiglie che lei ogni tanto gli vende.
 
Se Marnie è il buio che inghiotte, Nelly è la purezza del sentimento e dell’innocenza che rimane tale anche nell’orrore, ma non per consapevole sforzo e presa di posizione quanto per un puro atto di inconscia follia. Ti stringe il cuore questa bambina spaurita ignara delle brutture del mondo eppure così presente a se stessa, pronta a tutto pur di difendere le persone amate – Marnie su tutti.
 
“La morte delle api” è una fiaba horror da leggere tutti insieme, nonni e nipoti, papà e figli, nella notte di Halloween; ma è anche, e soprattutto, un dipinto crudo e veritiero del mondo che ci circonda. L’abilità dell’autrice, che non per nulla con questa opera ha vinto il Commonwealth Prize 2013, è la grande sensibilità mostrata nell’affrontare temi difficili attraverso una narrazione sempre lieve e delicata eppure scevra da qualsiasi emendamento di carattere censorio. Una scrittura precisa che senza tanti giri di parole ma mai in maniera cruenta e gratuita racconta alle giovani generazioni quel qualcosa di “meno buono” che esiste in quella parte di mondo allo specchio in cui le api muoiono.
 
Buona lettura 🙂

ps. Domande, domande, domande. La trama non vi è nuova? Perché qui noi si parlava di “grado zero”? CVD.

"Atti mancati", di Matteo Marchesini

Il viaggio raccontato in “Atti mancati” è una cruda e lineare presa di coscienza: uno strumento di analisi personale, e professionale, che rispecchia al meglio i tempi in cui ci tocca vivere.

Si parte dalla vicenda di Marco Molinari – alter ego dell’autore, Matteo Marchesini (classe 1979, firma delle pagine bolognesi di CorSera, Foglio e Sole24 e uno dei più brillanti critici letterari della sua generazione): stessa età dello scrittore, Molinari, bolognese, è come lui giornalista freelance e si guadagna da vivere nuotando nel grande mare del precariato delle lettere, tra articoli su commissione, traduzioni, piccoli volumi di composizioni e saggi – e un romanzo monco e abbozzato chiuso nel cassetto del comodino. Tutto comincia quando a Molinari viene commissionato un pezzo sul “Bolognino d’oro”, onorificenza letteraria assegnata per l’occasione al letterato, saggista e scrittore Bernando Pagi, che in passato è stato il grande mentore del protagonista (da poco più di cinque vive ritirato in campagna, abbandonati studi e vita pubblica). Alla premiazione Marco inaspettatamente incontra anche Lucia, la sua fidanzata dell’epoca, scappata misteriosamente giusto cinque anni prima senza una spiegazione plausibile, e riapparsa – pare – proprio in occasione di questa cerimonia.

Se l’illustre studioso (figura che senza tanto mistero è modellata su quella, quasi identica, del famoso critico Alfonso Berardinelli) ha deliberatamente abbandonato il mondo universitario – che talvolta, specie quando si tratta di narrativa ed editoria in genere, si risolve in un panorama infecondo di giovanissimi questuanti e stucchevoli professoroni, su cui si posa l’occhio del critico, ora più che mai ironico e distaccato [“Bernardo è già seduto dietro la cattedra, tra assessori e membri del senato accademico, tutti intabarrati e sonnolenti” (p17). “Non è riuscito a disfarsi del capannello di professori e funzionari che gli s’è appiccicato addosso appena terminata la cerimonia, e dovrà andare a pranzo con loro” (p21)] – anche in Lucia – osserva Marco – qualcosa è cambiato: ha lo sguardo velato e il suo fisico rivela una magrezza estrema, improvvisa; nei suoi occhi Marco scorge l’urgenza di un riavvicinamento, urgenza a cui, vuoi per ignavia, vuoi per una certa viva curiosità che nonostante tutto riesce a far capolino, non è in grado di opporsi nei giorni successivi all’incontro. 
Difatti Lucia, portando a pretesto la sua lunga assenza dalle terre di casa, costringe Marco ad una serie di pellegrinaggi apparentemente senza senso nei luoghi della loro memoria condivisa, tutti caratterizzati da una specie di pena a contrappasso, come in una sorta di commedia dantesca: se le gite fuori porta che tanto avevano caratterizzato i primi mesi dell’amore erano liete, spensierate ricche di cibi, vini e soprattutto parole [“Una pura voglia fisiologica di chiacchiere”(p69)] ora la guida si fa a strappi, rigida; il clima non è affatto clemente [“Procediamo a braccetto, intontiti da un sole che acceca senza scaldare e si nasconde in una luce lattiginosa” (p87)], la conversazione è tesa, aguzza, centellinata e guardinga. E nella maggior parte dei casi, è Lucia a troncare di netto l’escursione, vittima di un malessere che inquieta e imbarazza.
Una provincia, quella Bolognese, la cui dettagliatissima descrizione anziché mortificare il racconto (in nome di una globalizzazione e conseguente spersonalizzazione del contesto ambientale che tanta parte ha ultimamente nella creazione del prodotto-romanzo) lo trasforma, lo completa e lo caratterizza, creando sfumature ineguagliabili di suono, parola e immagine, dandogli corpo e spessore, vivido e poetico. Piazze e monumenti, strade strette poco battute, vicoli e portici, bar di quartiere e osterie di periferia – tutti i luoghi dell’amore di Marco e Lucia, teatro della loro giovinezza – si trasformano in fondali di teatro slightly out of focus, necessari e mai invadenti, su cui si stagliano le due figure protagoniste, illuminate dalla luce cruda del presente e dell’esperienza, fino alla destinazione finale: una casa di cura per malati mentali presso cui risiede Davide, il fratello di Ernesto; Ernesto, l’amico di sempre dei due fidanzati e vittima, giusto cinque anni prima, di un terribile incidente stradale avvenuto proprio in prossimità della clinica e di cui non è stata mai chiarita la dinamica.

Qual è la linea sottile che separa la colpa dall’irresponsabilità, si domandano il protagonista e, assieme a lui, l’autore. Qual è la differenza tra una piccola bugia e un’omissione colpevole.

Lucia, attraverso questi pellegrinaggi distillati di cui si farà regista indiscussa e nei tempi e nei modi, costringerà Marco a rianalizzare le proprie, personali esperienze di vita squarciando il velo che nasconde il passato e riempie il presente di dubbi e domande per le quali Molinari non sa, e non vuole, trovare risposta, preferendo rinchiudersi in un mondo quasi virtuale, asettico e di esperienze e di rapporti umani. Una non-vita insomma, come candidamente ci illustra il protagonista – una voce quasi fuori campo al principio della lettura, mentre la cinepresa dall’alto dell’incipit scende verso il dettaglio della narrazione:

“A un certo punto, senza accorgertene, hai trentatré anni. E non puoi neanche dire di non aver raggiunto, almeno in parte, ciò che volevi. Fai un lavoro che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano. Non ricordi nemmeno più quando ha preso piede in te questa necessità di limare, escludere, cancellare tutto: rapporti, viaggi, imprevisti quotidiani. Sai solo che ora che hai quasi raggiunto l’obiettivo, lisciato ogni contorno, pareggiato ogni asperità, non ricordi più perché l’hai fatto. Ti chiedi per quanto tempo sarà possibile barare scrivendo il tuo articolo giornaliero senza lasciar capire che dietro è stato tolto l’audio dell’esperienza” (p10)

Che cosa (o chi) si nasconde dietro la morte di Ernesto?
Perché Molinari non riesce a terminare la stesura di quel romanzo, iniziato giusto cinque anni prima, che giace ancora in bozza nel cassetto più inaccessibile della sua scrivania?
Cosa ha a che fare l’improvvisa scomparsa di Lucia con questo suo altrettanto improvviso e inspiegabile ritorno?
Qual è il senso dell’interesse quasi morboso di Lucia nei confronti dell’opera di Ernesto, pagine in forma narrativa, vivide e brucianti, stese poco prima della morte improvvisa?

Si parte dalla vicenda personale, dicevamo, per approdare a qualcosa di diverso che travalica il senso intimo del viaggio di formazione. O, per meglio dire, forse lo caratterizza.
Alfonso Berardinelli (Roma, 1943) raffinato critico letterario specializzatosi in “critica della cultura nel 2011 dà alle stampe il discusso saggio “Non incoraggiate il romanzo” (Marsilio).
Ecco un estratto dalla quarta di copertina:
“Che il romanzo è un genere di consumo e di intrattenimento “per tutti”, lo si è sempre saputo. Ma il consumo è diventato più veloce, più distratto e l’intrattenimento lo si trova in abbondanza altrove. Quanto a qualità artistica, valore conoscitivo e documentario, la maggior parte dei romanzi che si pubblicano sono poco convincenti e non dimostrano nessuna memoria letteraria. Anche quando funzionano come trappole acchiappa-lettori, non provocano riflessioni e interpretazioni critiche impegnate, “non fanno storia”. L’attuale sovrapproduzione di narrativa dà perciò l’impressione di essere più un segno di patologia che di salute”.

Analisi non c’è dubbio sconfortante, che il nostro Molinari fa propria in maniera metaletteraria, e nelle lunghe digressioni letterarie al principio dell’opera, e successivamente, nei momenti più intimi del racconto:

“I pezzi rifiniti, quelli che coincidono esattamente col progetto che avevo in mente, sono anche i più chiusi, i più ingessati, i più sterili. Viceversa, i fuor d’opera sono brillanti, elettrici: ma non riesco a infilarli in una trama che vorrei somigliasse a una tagliola – un meccanismo secco, perfetto, scarno, che però non coincide con le mie esigenze espressive, e a cui pure non so rinunciare. È come se dovessi dimostrare a qualcuno di saper creare una storia tenuta in piedi da un’economia implacabile – come se dovessi provare oltre ogni ragionevole dubbio che i miei dubbi sulla forma-romanzo non dipendono da un qualche volgare ressentiment” (p28).

Eccolo qui, il dramma dell’individuo moderno: l’atto mancato della non-azione che si mangia l’iniziativa e del silenzio che ingoia, a buco nero, la capacità espressiva:
“Non abbiamo parole condivise per affrontare il dolore” (P84) dice Molinari. E’ un atto di accusa verso se stessi, più che verso la società, a quel sé intimo e nostro assuefatto a un certo lieve tepore confortevole e auto-referenziante che ci viene offerto da una vita sempre più facile e senza scosse.

La soluzione dell’empasse viene recuperata prima di tutto attraverso il valore salvifico delle lettere: il romanzo che Molinari finalmente riesce a concludere affonda nelle radici della realtà e nel dolore dell’esperienza, che attraverso un meccanismo catartico dischiude il velo dello scibile. Chissà che il processo (psicanalitico – a cui rimanda anche il titolo dell’opera) non valga anche per la risoluzione della coscienza personale.

Per ora al protagonista è concessa un’altra opportunità: suo compito sarà farla fruttare nel migliore dei modi:
“Scendo le scale in fretta, quasi correndo, e giù in strada mi ritrovo in mezzo alla folla carica di pacchi pasquali. M’infilo a occhi chiusi tra due comitive, e mi lascio trascinare da quel fiume lento e ronzante verso le luci della Porta” (p112)

Buona lettura 🙂

"I Dodici", di Justin Cronin

Più riguardo a I dodici Io ve lo consiglio, il sequel di “The Passage”, semplicemente perché Cronin riesce nell’impresa e sarebbe un peccato perdersela, l’opera di questo dotato discepolo di Stephen King.
Il testo affascina: per impianto narrativo, trama, linguaggio.
Cronin ama immergere il lettore in una orchestrata trama di piani temporali sovrapposti che intreccia e organizza con abilità, guidandolo sapientemente tra rimandi di luoghi, tempi e protagonisti le cui correlazioni tra loro sono o rese subito evidenti o – molto spesso – lasciate in sospeso, affidate all’abilità del fruitore del testo che Cronin rende quindi parte attiva all’interno del processo narrativo.
La tecnica del flashback (e del flashforward) offre la possibilità, sia all’autore, sia al lettore, di gestire lo sviluppo dei personaggi e i conseguenti collegamenti, mentre l’espediente narrativo della narrazione esterna, utilizzata a tratti, attraverso l’inserimento di stralci di finta documentazione ufficiale risalente ad un periodo successivo a quello in cui si sviluppa la narrazione e di piccoli spoiler relativi ai personaggi principali, aiuta il lettore nella gestione della trama distopica creando coinvolgente aspettativa e suspance.
La narrazione trova un suo valido equilibro tra scene di azione ben congegnate e parti descrittive. Queste ultime dimostrano l’inconsueta abilità di uno scrittore evidentemente a proprio agio all’interno di quella sub-parte della narrativa fantascientifica più specificamente apocalittico-distopica che necessita, per mantenere credibilità e struttura, di una parte narrativa forte e particolareggiata, ma equilibrata e strategicamente ben sviluppata: in questo, Cronin ha imparato la lezione, studiando non solo Matheson e McCarthy ma anche il più datato Ballard, creando un mondo distopico dalle caratteristiche concrete e reali, mai eccessive, ridondanti o inutili per l’economia della trama, e per questo coinvolgenti e appaganti per il lettore che non se ne sente infastidito.
I personaggi sono tutti, protagonisti e comprimari, ben delineati e traspare evidente l’attenzione, per non dire il fascino, dell’autore nei confronti della parte negativa rappresentata dai dodici individui, le creature frutto dell’esperimento militare drammaticamente fallito le cui conseguenze devastanti Cronin ha immaginato, e raccontato, nel primo volume. Fascino che non si limita ad un superficiale apprezzamento “cinematografico” ma lo travalica nel nome di un’intima com-passione verso il genere umano e le sue debolezze.
Nota di merito alla traduzione di GL Staffilano: si apprezza perché, mai anonima, rende appieno la dinamicità della narrazione senza perdere in compostezza e varietà, in un crescendo di aggettivazione sempre attenta e puntuale, e fluidità nell’organizzazione e nel mantenimento della struttura sintattica originale.
Nota a margine: il perché dell’etichetta #booksformums, nonostante la mole: perché in #ereader funziona. La lettura scivolerà e grazie alle numerose suddivisioni tra capitoli e paragrafi si adatterà agilmente a tempi ristretti. Provare per credere.

Buona lettura 🙂

"La nemica", di Irène Némirovsky

Più riguardo a La nemica Luglio 1928. Tra una pagina e l’altra di David Golder, Irène Némirovsky scrive e fa pubblicare sotto lo pseudonimo di Pierre Nerey il racconto lungo “L’Ennemie”.
D’obbligo, per non rimanerne delusi, avvicinarsi a questo testo, inedito in Italia e ora proposto (Febbraio 2013) da Elliot, più con intento squisitamente letterario che con pretesa di immedesimazione, impregnato com’è di elementi autobiografici e ingredienti evidentemente melodrammatici, data l’epoca e il contesto storico-sociale nel quale risulta inserito.
Il rapporto violento e distruttivo di una figlia con la propria madre è al centro della trama e rispecchia pienamente la relazione travagliata di Irène con Fanny: “Raffinata e autoritaria: così doveva restare Fanny nella memoria familiare, e così l’ha dipinta la figlia nel romanzo della propria infanzia amara [Le Vin de solitude, I 7]: Alta, ben fatta, con un portamento regale. In realtà era piccola, un metro e sessanta al massimo. Sempre incipriata anche in tarda età, sempre timorosa che i baci della figlia potessero rovinarle il trucco e sempre allegra, perché la tristezza invecchia e sciupa il viso (…) Ma Anna Margulis era una donna, oltre che lasciva e bugiarda, anche venale” (OPhilipponat / PLienhardt, La vita di Iréne Némirovsky, Adelphi 2009 p34)
Il titolo dell’opera, che è tratto da un sonetto di Baudelaire: “Fu la mia giovinezza un uragano cupo: | improvviso splendeva di tanto in tanto un raggio. | Fulmini e pioggia han fatto un tale scempio | che solo nel giardino qualche frutto rosseggia” (Op. Cit. p149) si riferisce chiaramente all’“innocenza devastata da Fanny, più rivale che madre” (ibid.). 
Effettivamente, molti gli episodi raccontati che paiono autentici, per i particolari vividi e la crudezza della descrizione accurata: la scena in cui la figlia sorprende la madre in compagnia dell’amante, oppure ancora: “Nei loro primi soggiorni parigini, i Némirovsky non potevano ancora permettersi alberghi di lusso. (…) Irocka e la governante vennero alloggiate altrove, quasi sempre in albergo di seconda categoria. La romanziera avrà così tutto il tempo di costruirsi in uno dei suoi primi romanzi, l’Ennemie, un’infanzia bohemienne. “Sapeva che non sempre era opportuno andarsi a ficcare tra le gonne di mammina quando costei passeggiava lentamente sotto gli alberi con un signore sconosciuto” (L’Ennemie I 1). La sua fu peraltro un’esistenza quasi da orfana” (Op. Cit. p31-31).
Ancora, la scena del suicidio della protagonista Gabri: “E’ quasi certo che all’età di vent’anni sia stata sfiorata dalla medesima tentazione” (Op. Cit. p125) o quella della violenza carnale, che rispecchia – secondo quanto raccontato da Irène stessa in una lettera all’amica Madeleine – un episodio della vita stessa della scrittrice, fortunatamente uscita illesa dall’esperienza grazie all’intervento di alcuni amici (Op. Cit. p123-124). Oppure la descrizione di Biarriz (“Una novella Sodoma” – Op. Cit. p138) e dell’Hotel du Palais, frequentato con regolarità dalla famiglia Némirovsky:
http://it.wikipedia.org/wiki/Biarritz
e anche – da qui il nome “Génia” (l’amante violento di Gabri) – la maledizione dell’ereditarietàdel sangue (Irène non fa mistero delle sue avventure di gioventù, specie durante gli anni della Sorbona passati tra amicizie, divertimenti, balli e notti insonni).
Eppure a Iréne questa vendetta truce e sadica non porta alcun benessere: nel racconto, il complesso rapporto tra la figlia e la madre viene ridotto ad una semplice rivalità amorosa e ciò che rimane più impresso è il sentimento negativodell’odio e dell’autodistruzione (che più che distinguere le due donne, le avvicina e le pone allo stesso livello) piuttosto che l’orgoglio della superiorità morale. Questione spinosa che verrà risolta tra le pagine di Le Bal, uscito nel febbraio del 1929 sempre a firma Nerey: “In esso IN abbandona il tono a volte patetico dell’Ennemie per soffocare i suoi singhiozzi in una feroce risata. Quei sarcasmi, quell’arte di scrivere dialoghi grossolani ma senza compiacimento, (…) la base morale di quella violenta satira sociale saranno l’impronta del suo stile fino alla metà degli anni Trenta” (Op. Cit. p154).
Ma le due opere, pur così differenti l’una dall’altra, continueranno ad in intrecciarsi tra loro in una fitta rete di echi e rimandi, non solo sulla carta, ma anche nella trasposizione cinematografica: “Nel film (Le Bal) Rosine Kampf si fa chiamare Jeanne, uno dei tanti nomi dietro cui ama camuffarsi Anna Némirovsky. E come nell’Ennemie, è l’irruzione di un amante a provocare la vendetta di Antoniette. E’ la prima volta che Irène osa sfidare così apertamente la madre, e sul grande schermo” (Op. Cit. p206).
http://www.voirunfilm.com/fiche-film/Le+bal-61305.html
Buona lettura 🙂

"I doni della vita" – "I falò dell’autunno", di Irene Némirovsky

Più riguardo a I falò dell'autunno Più riguardo a I doni della vita   Per far fronte alle spese sempre ingenti, tra la prima e la seconda metà del 1941 Irene Némirovsky si rivolge nuovamente a Horace de Carbuccia, Chief Executive della rivista “Gringoire” (“Una banderuola dal punto di vista ideologico ma un genio della carta stampata” – OPhilipponat / PLienhardt “La vita di Irène Nemirovsky”, Adelphi 2010 p340), proponendogli alcuni racconti inediti, tra i quali spicca “Les Biens de ce Monde”. Racconto che Carbuccia, naso fino, occhio lungo e affetto profondo per la scrittrice, si impegna a pubblicare, a puntate, sulla sua rivista: “un romanzo inedito scritto da una giovane donna” (di cui viene naturalmente mantenuto l’anonimato) recita la presentazione del feuilleton
Risultato: le vicende di Pierre Hardelot, giovane erede designato delle omonime cartiere, tengono in scacco centinaia di lettori per ben 30 capitoli, dal 10 Aprile al 20 Giugno. 
La famiglia Hardelot incarna perfettamente l’iconografia classica della media borghesia francese tipica della Belle Epoque: la saga familiare, incentrata su Paul e sua moglie Agnes, sposata per altro contro la volontà dei parenti poiché appartenente al ceto medio, prende il via negli anni appena precedenti il primo conflitto mondiale, termina con l’occupazione della Francia ad opera dei Tedeschi e si snoda epica, sciorinando una serie infinita di protagonisti e comprimari, attraversando trent’anni della storia francese tra nascite, matrimoni, funerali, guerre, sorti avverse ma anche favorevoli. “Les Biens de ce Monde è il grande classico di Irene Némirovsky, nel quale l’autrice svela quale sia il segreto della Francia: la solidità a prova di bomba della borghesia provinciale, che non si lascia mai abbattere e affronta con coraggio la sorte” (op cit p358)
L’opera non sottende né lo spessore né l’impegno politico / sociale di altri racconti ma funziona perché, nella sua mole dettata in primis, per altro, dalle mere questioni economiche che tanto assillavano l’autrice, risulta un’epopea estremamente accattivante per il pubblico specie per le decine di personaggi presenti e ben contestualizzati nella realtà contemporanea, tecnica che permette un meccanismo di immedesimazione quasi perfetto. 
Incoraggiata quindi dal buon esito del romanzo, INémirovsky affronta subito una nuova saga familiare, che andrà a coprire il periodo delle due guerre fino al 1941: “Les Feux de l’automne”. 
Non si tratta, tuttavia, di opere gemelle e neppure di un tentativo meramente commerciale volto a “cavalcare l’onda”. Anzi. 
Nel 1914 il giovane e promettente Bernard Jacquelin, appartenente ad una famiglia parigina della piccola borghesia, spinto dal fervore patriottico si arruola nell’esercito e parte per la guerra. Quattro anni di trincea, tuttavia, lo trasformeranno in uno sciacallo cinico ed arrivista al soldo di un vecchio amico di famiglia, Raymond Détang, ora divenuto potente imprenditore, abile finanziere e influente politico senza scrupoli. Se in “Les Biens de ce Monde” INémirovsky celebrava la forza di una certa classe sociale che aveva avuto (e avrebbe dovuto avere, agli occhi della scrittrice) il merito e il dovere di fungere da “collante” per la società, al contrario nell’ “Les Feux de l’automne” la scrittrice non fa mistero delle sue disillusioni: la Belle Epoque si è definitivamente conclusa (nel peggiore dei modi) e la guerra, (con il suo “culto ipocrita del sacrificio predicato dal pulpito” – op cit p379) non ha fatto altro che creare una nuova razza di giovani disillusi, attratti solamente (dopo anni passati in trincea a offrire la propria vita ad una Patria che mal li ha ricompensati) dal denaro facile e dal mondo corrotto dei piaceri, terra di avidi politici, faccendieri meschini e amori prezzolati. 
Eppure, all’Irene e al suo inguaribile ottimismo dovremmo essere ormai abituati. “Les Feux de l’automne” non è certo “un romanzo della rassegnazione” (op cit p384). La vecchia nonna, la signora Pain, la notte prima di morire sogna se stessa; cammina in mezzo ad un campo, tenendo per mano la nipote: “Vedi – le diceva – sono i fuochi dell’autunno che purificano la terra e la preparano per nuove sementi” (II, 9). 
Insomma, Irene Némirovsky ancora una volta ci stupisce per la sua profonda umanità, tanto più apprezzabile quanto più difficile da sostenere: “Accettò con falsa umiltà il bicchiere di acqua di Vichy che le offriva Thérèse e, non appena questa le voltò le spalle, scese dal letto, aprì la finestra e gettò il contenuto giù in cortile” (II, 9) 
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Irene Némirovsky non ebbe mai la soddisfazione di vedere pubblicati questi due romanzi: “Les Biens de ce Monde” uscirà in edizione integrale nel 1947.  Dieci anni di attesa in più toccheranno a “Les Feux de l’automne” (prima ed. 1957).
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Nota a margine: si è scelto di identificare le due opere oltre che con le consuete etichette anche con la tag #booksformums sia per via dei contenuti sia per la forma. La sensibilità di Irene Némirovsky nei confronti dei temi legati alla maternità è evidente, manifesta e soprattutto reca con sé elementi di profonda attualità. Per quanto riguarda la forma, il carattere intrinseco del feuilleton favorisce una lettura agile, di largo respiro, che non viene penalizzata ma semmai esaltata da una cadenza temporale lunga e inframmezzata dalle pause tipiche che il genere letterario porta inevitabilmente con sè. 
Buona lettura 🙂

"L’ultimo uomo nella torre", di Aravind Adiga

More about L'ultimo uomo nella torre Meh sì, lo sappiamo: tra voi ci sono molti nasi fini di ballardiana memoria. Déjà-vu, quindi, a leggere “L’ultimo uomo nella torre”? Abbastanza, giacché di queste dinamiche “sociogeografiche” (o meglio: psicogeografiche) ne aveva discusso abbondantemente il nostro di cui sopra, giusto qualche anno in anticipo rispetto ad Aravind Adiga. Nelle opere della maturità, l’occhio acuto di Ballard era passato dall’analisi fantascientifica di un ambiente esterno (ie “Il mondo sommerso” – 1961) a quella, meno fiabesca e più consapevole, relativa all’ambiente interno, di cui “Il condominio” (aha!) datato 1975 e “Super-Cannes” (2002) sono testi paradigmatici. 
Sempre medesimi i temi su cui lo scrittore all’avanguardia della narrativa inglese – nato nel 1930 a Shangai, internato in un campo di prigionia a seguito dell’attacco a Pearl Harbour e tornato in patria solo nel 1946 – si interrogò spesso nelle sue opere: 
  • la violenza con connotazione non individuale ma sociale, specie se espressa in un contesto fortemente strutturato (il campo di prigionia, il condominio, il residence di lusso) che al contrario dovrebbe limitare i propri istinti antisociali garantendo e preservando la quotidianità 
  • la ricontestualizzazione del brutto e del fuori moda rispetto allo stile, alla pulizia delle linee (degli oggetti e… delle persone), e al design, quasi che il dilagare degli aspetti primitivi dell’esistenza fosse, piuttosto che da rifuggire, quasi da desiderare 
  • il mondo nuovo tendente al caos, attraverso la costituzione di un nuovo ordine sociale frutto di una re-interpretazione del presente 
  • la malattia mentale come strumento d’eccellenza per la comprensione della realtà mutata di cui al punto 3 
E quindi? Quindi prendiamo a prestito qualche nota qua e là, pescando nell’infinito mare dell’avventura di Yogesh A. Murthy detto Masterji, professore in pensione, vedovo da poco più di un anno, una figlia morta bambina a causa di un incidente ferroviario e un figlio sposato ad una moglie acida che limita al minimo i contatti tra padre e figlio e tra nonno e nipote. Avventura che inizia nel momento in cui lo scaltro costruttore edile (il “palazzinaro”) Dharmen Shah offre ai condomini dello stabile A della Vishram Society due volte e mezzo il valore dei loro appartamenti; stabile che Shah desidera abbattere per poi costruire al suo posto un super complesso residenziale in stile “gotico” con tanto di tocchi indu e Art Deco. Quel che accade è noto, se ci riferiamo sempre al nostro Ballard d’annata (1975 & 2002): 
Le differenze di ricchezza fra i condomini non passavano inosservate – l’estate prima Mr (…) aveva portato la famiglia nel (…), e l’agente immobiliare Mr (..) aveva una Toyota Qualis – ma si trattava di semplici alti e bassi nell’uniformante squallore (…). La vera distinzione consisteva nell’andarsene dallo stabile” (pag 31) 
Qual è la definizione di una città morente (…)? Glielo dirò, visto che lei non lo sa: una città che smette di sorprendere” (pag 47) 
Nei vecchi condomini la verità è una cosa comunitaria, un consenso d’opinione (…) a prezzo di una certa quantità di rabbia accantonata, di una certa quantità di orgoglio ingoiato, sarebbe stato riammesso nella vita comunitaria dello stabile” (pag 203 e 206) 
Strattonò il cavo del telefono per staccarlo dal muro” (pag 220) 
Bloccò la porta con il tavolino di tek (…). ‘Dunque sono rimasto l’ultimo uomo del condominio’, pensò” (pag 242) 
Ora (…) usciva solo due volte al giorno (…). Prese a concedersi un sonnellino pomeridiamo” (pag 253) 
Non lo consideravano più un essere umano… uno che ha bisogno di acqua e di luce” (pag256) 
Sta trasformando delle brave persone in cattive persone. Sta cambiando la nostra natura. Perché vuole che siamo noi a farlo (…). Quello che gli altri costruttori fanno a quelli come lui in situazioni come questa” (pag 297) 
(…) spinse il divano contro la porta, per barricarsi in vista di un secondo attacco. (…) Riempì una pentola d’acqua, accese un fornello e mise l’acqua a bollire. Gliel’avrebbe versata in testa quando fossero tornati. In ginocchio, esaminò la bombola del gas. Magari poteva fargliela esplodere in faccia?” (pag 318) 
La polizia non è venuta. Perché non l’ha chiamata?” (pag 324) 
Ma (…) si rischia di finire in prigione! (…) E vivere in questo edificio per il resto della vita sarebbe meglio che finire in prigione?” (pag 336) 
Il merito di Adiga è indubbiamente quello della contestualizzazione. Ex corrispondente del “Times” direttamente da Mumbai, dove risiede, e vincitore del prestigioso Man Booker Prize nel 2008 con “La tigre bianca” (Einaudi), Adiga possiede la capacità di scrutare con occhio clinico e imparziale una città in costante e continuo mutamento, rendendone esplicite tutte le intrinseche contraddizioni. La Mumbai del cemento e dei fantasmagorici centri residenziali in divenire, progettati dai più valenti ingengneri nazionali e internazionali ma costruiti, mattone dopo mattone, da innumerevoli (e sacrificabili) schiere di immigrati senza fissa dimora che in cambio di una paga irrisoria si intossicano i polmoni con le fibre di amianto. La Mumbai degli slum cresciuti catapecchia dopo catapecchia ai margini dell’aeroporto intenazionale, tra gli scarichi dei 747, le cloache a cielo aperto e le mille antenne paraboliche montate sui tetti di lamiera. La Mumbai del sistema delle caste, oramai in declino, il cui “ordine” viene ora sostituito dall’anarchica corruzione dei pubblici uffici e dalla burocrazia anglo-indiana, infinita e inestricabile. 
Che poi, la questione delicatamente inquietante è pure un’altra; che in certi casi si potrebbe avere il sentore sì di un déjà-vu, ma non ballardiano, stavolta: 
Guarda i treni di questa città. Guarda le strade. I tribunali. Niente che funziona, niente che si muove; ci vogliono dieci anni per costruire un ponte” (pag 61) 
(…) sedurli con sorrisi e strette di mano, arruffianarsi i bambini piccoli come fanno i politici” (pag 86) 
Odiava quelle assemblee condominiali: ogni volta che tenevano la riunione annuale della cooperativa, lui si sentiva in imbarazzo per i battibecchi fra vicini, le accuse meschine (…). Come donne al mercato del pesce” (pag 103) 
(…) era iniziata una stagione di forza di volontà: l’alleanza di corruzione, filantropia e inerzia che li aveva protetti così a lungo si stava disintegrando” (pag 136) 
L’area (…) come avrebbe retto a tutte quelle nuove abitazioni… e cosa ne sarebbe stato della viabilità?” (pag 155) 
(…) questi vecchi dissidi, queste vecchie mechinità… devono finire. E’ questo il motivo per cui nel nostro paese non concludiamo mai niente” (pag 170) 
(…) Tutti lo sanno, ma nessuno vuole prendersi la responsabilità di dire: ‘Rallentiamo. Fermiamoci. Pensiamo a quel che sta succedendo” (pag 213) 
Siamo un popolo cavilloso (…) un popolo melodrammatico (…) vediamo troppi film” (pag 244) 
Buona lettura 🙂

"Tony & Susan", di Austin Wright

More about Tony & Susan Austin Wright, distinto signore deceduto nel 2003 all’età di 81 anni, narratore, critico letterario ed English Professor presso l’università di Cincinnati, lascia un corpus di opere composto di svariate antologie di saggi, sette romanzi e un prestigioso Whithing Writer’s Awa (1985). “Tony & Susan” uscì negli Stati Uniti nel 1993 e in Italia l’anno successivo, per Rizzoli; nonostante il titolo accattivante e l’intervento di Saul Bellow (mai tenero d’animo nei confronti dei colleghi writers) – che definì l’opera “un capolavoro” e l’autore “meraviglioso narratore e romanziere” – il testo non riscosse favore e venne annoverato dai critici nella folta schiera dei “negligible”. Così però scriveva nel 2010 W. Skidelsky, corrispondente al The Observer: 
“(…) the decision by Atlantic Books to republish Tony & Susan is odd: why resuscitate a novel written not that long ago and which wasn’t a big success in its day? The reason, says Atlantic, is that Tony & Susan’s neglect deserves to be rectified, since it is “the most astounding lost masterpiece of American fiction since ^Revolutionary Road^”. 
Data per scontata l’iperbolica “ansia da fascetta” che richiede sempre il suo obolo, senza dubbio l’opera contiene alcuni spunti interessanti che la rendono affascinante, attuale e consigliata quale… reading natalizio
Immaginate. Esterno, pomeriggio d’inverno che scivola nella notte fredda. Una serata a caso tra le cinque che separano Natale e Capodanno. Sobborghi residenziali dei ricchi States, una bella casa in stile “Mamma ho perso l’aereo”. Zoom veloce al bowindow del soggiorno che inquadra una scena familiare di archetipica patinatura: il disordine controllato delle feste, addobbi e luci sull’abete natalizio, carta da regalo sparsa sui tappeti, tre ragazzi di varie età che si intrattengono con alcuni giochi da tavolo. Adagiata sul divano – il gatto accoccolato accanto – c’è Susan Morrow: elegante signora quasi-50 enne, moglie in seconde nozze di Arthur, cardiochirurgo di successo al momento travelling on business purposes, è madre di tre figli, casalinga a tempo pieno e insegnante di inglese part time presso una scuola locale. 
Susan è intenta a scartare un manoscritto che le è appena giunto per posta, con preghiera di valutazione sincera, da parte di Edward, il suo primo marito. La separazione, piuttosto turbolenta, risale a 20 anni prima e gli sporadici contatti successivi si limitano a una laconica cartolina per le feste firmata da Edward stesso e dalla di lui seconda moglie. L’ambizione di Edward di diventare scrittore è stato il primo dei motivi a causa della rottura: da una parte Susan, scettica sul talento dell’uomo, dall’altra Edward stesso, affetto da una giovanile e inconcludente febbre da artista che lo lascia privo di un lavoro stabile e vittima di una grave depressione a cui Susan, nella sua praticità “coi margini su tutti i lati”, non sa far fronte se non con la fuga. 
Il titolo dell’opera che con curiosità e un pizzico di inquietudine Susan si appresta a sondare è “Animali notturni” e ha per protagonista Tony Hasting, uno stimato professore universitario, coetaneo di Susan. 
Wait a minute. Ritorniamo un momento al titolo dell’opera di Wright, che a questo punto acquista un significato tutto particolare perché mette in comunicazione non solo due individui ma anche e soprattutto due mondi: quello della “realtà” e quello della “finzione”. Ormai è fatta: siamo stati catapultati nel bel mezzo di una novel-within-a-novel nostro malgrado, giacché spesso questo espediente letterario rivela dubbio gusto, grossi limiti dell’autore, incapace di governare con professionalità un asse narrativo coerente e protratto nel tempo, e profonde lacune stilistiche (cfr PGiordano CorSera 06/10/2011 | recensione all’opera | Adelphi: “Quando in una storia vedo comparire un protagonista-lettore, ho sempre il sospetto che sia stato messo lì allo scopo di adularmi, di rassicurare, mentre io pretendo tutto il contrario dal libro che sto leggendo”). Epperò la questione destabilizzante è che “Animali Notturni” regge. Pure da solo. E di certo non “rassicura”. 
Con un senso di crescente disagio se ne accorge pure Susan, via via che procede con la lettura che diventa sempre più intrigante. Il mite e inconcludente Edward, che aveva ripiegato su un lavoro impiegatizio presso una ditta di assicurazioni, pare avercela fatta: è diventato scrittore. Di un thriller mozzafiato! Di quelli hard-boiled, pesanti, truci. 
Tony Hastings è un tranquillo professore universitario, “coi margini su tutti i lati”, in viaggio con moglie e figlia adolescente alla volta del Maine: trascorreranno le vacanze estive presso la casa di famiglia. Su insistenza della figlia Tony abbandona il progetto di pernottare in un motel e si accinge a proseguire il viaggio in un on the road notturno. Purtroppo, però, quando il buio è profondo, due auto misteriose ingaggiano una pericolosa gara di velocità con Tony, lo affiancano e lo speronano. L’inadeguatezza di Tony, che non trova modo di reagire ai tre balordi scesi dalle vetture, fa si che l’auto di famiglia (moglie e figlia comprese) sia requisita da due di essi: le donne sono quindi rapite e portate chissà dove mentre a Tony ne capitano di tutti i colori in un crescendo di suspance e angoscia. E’ abbandonato dall’altro conducente in mezzo ad un bosco, tra le colline buie e disabitate che circondano la statale. A piedi tenta di ritrovare la statale, si ferisce, cade in un torrente, scampa all’agguato del conducente stesso, tornato indietro per ammazzarlo (?), sempre domandandosi con cupa preoccupazione, amplificata dalla notte e dal paesaggio inquietante e alieno, che fine abbiano fatto moglie e figlia, figurandosi quel che gli pare oramai inevitabile: violenza, stupro, omicidio. 
Chi sono, questi Animali Notturni? I tre balordi che sequestrano le due donne, nel buio minaccioso di una statale semideserta? Sicuramente. O forse animale notturno è anche Tony, mite professore incapace di qualsiasi violenza, anche solo come autodifesa, che rimane muto e immobile di fronte alle preghiere terrorizzate della moglie e alle grida isteriche della figlia per poi scoprirsi pronto a trasformarsi, assieme al poliziotto incaricato del caso, in un carnefice e aguzzino più spietato degli assalitori medesimi? Chi lo sa, si domanda Susan. La questione è che di domande ne affiorano anche altre, nella mente della donna, giacché si dà il caso che Tony le somigli molto, per età, professione, “margini su tutti i lati”. Susan, così adeguata al ruolo che negli anni si è auto-imposta: moglie devota, madre presente e affettuosa, regina della casa. Così civilizzata. Tanto da essere divenuta insensibile e cieca nei riguardi di quella sottile paura che spesso la attanaglia, e che sempre – per “quieto vivere” – rigetta all’interno di sé, in quell’angolo di buio notturno nel quale è meglio esimersi dal rovistare. Così, mentre i ragazzi giocano tranquilli e fuori la neve cade in fiocchi allegri, Susan si trova costretta a riflettere. 
Perché Arthur insiste nel voler accettare l’offerta di quella clinica di Washington? Non pensa alle esigenze della moglie e dei figli, tutti e quattro costretti a un cambio radicale di lavoro, scuola, amici, abitudini? A Washington, Susan ne è al corrente, Marylin Linwood possiede un pied-à-terre. Marylin, la bella segretaria con cui Arthur, famoso chirurgo, marito e padre devoto, ha intessuto una relazione sessuale durata diversi anni e ora – stando alle teatrali dichiarazioni dell’uomo – definitivamente conclusa. 
Perché Susan non è riuscita a imporsi nell’ambito professionale, né con Edward né poi con Arthur? Intelligente, laureata, ottime speranze, si ritrova dopo più di vent’anni a insegnare ancora in scuole di provincia, part time, quasi per hobby. 
Perché non può smettere di pensare che il manoscritto sia in realtà una cruda e particolare forma di vendetta nei suoi confronti? Chi è – o chi è diventato – Edward, il marito (conosciuto in gioventù, il bravo ragazzo benvoluto dalla famiglia di Susan), tradito dalla moglie e poi abbandonato al proprio destino in un momento di fragilità mentale? (Eh sì, perché Susan, ha conosciuto Arthur prima di lasciare Edward, non dopo) Curioso, che all’unica donna presente in “Animali Notturni”, una sciacquetta tardo-adolescente di ingegno non brillante e stivali in lattex, Edward abbia affibbiato proprio il nome della prima moglie… 
Non è che l’uomo medio (o la donna media), quello civilizzato, contrario alla pena di morte, devoto alla famiglia tanto da sacrificare se stesso e le proprie ambizioni al bene comune, sia – di fatto – un perdente? Perché Tony non ha reagito di fronte alle provocazioni dei tre delinquentelli, che per la cronaca non hanno estratto neppure un coltellino da frutta, al momento dell’“aggressione”? Per viltà ma soprattutto per intima convinzione, per coerenza nei riguardi di una particolare visione della società che – di fatto – Tony si è autoimposto; allo stesso modo in cui Susan aveva scelto di lasciare Edward perché non corrispondente ai canoni di “marito ideale” che si era lei stessa autoimposta, preferendogli un Arthur tutto d’un pezzo: lavoro sicuro, carriera gratificante, preciso percorso davanti a sé. Abbracciare la propria umanità significa quindi seguire la legge e il senso di giustizia, oppure far valere le proprie ragioni, fino alla vendetta e alla legge del contrappasso? 
Il gioco a matrioska rapisce: il lettore legge di Susan, che di rimando si trova catapultata nel mondo di Edward, che però a sua volta parla del “personaggio” Tony, che a sua volta torna, con raffinata introspezione, a Susan stessa. Lo stile è solido, si modifica in base ai livelli di lettura affrontati: fluido, pacato nella linea di analisi dedicata a Susan; secco, paratattico, fedele al topos del thriller nelle parti riservate a Tony. 
E su tutto regna incontrastato Austin Wright, a farsi beffa, anche da trapassato, del proprio lettore.
Buona lettura (natalizia) 🙂

"Coral Glynn", di Peter Cameron

More about Coral Glynn Inghilterra. Una donna comune, non bella, di scarse possibilità economiche ma di ampia capacità professionale, ancora giovane eppure già provata dalle avversità della vita, si ritrova a dover prestare servizio in una grande casa di campagna, umida, fredda, buia, malcurata. Il padrone di questo maniero perennemente avvolto da umidità e pioggia è un esponente della upper class tormentato da un passato oscuro e da un presente ancora più inquietante. La donna, malvoluta dalla servitù della casa ed estranea alla comunità del paese vicino – emarginata a causa della misera posizione sociale e del carattere schivo – deve destreggiarsi tra vicende che suo malgrado si fanno sempre più intricate fra drammatici avvenimenti pubblici e intimi segreti inconfessabili, triangolo amoroso compreso. 

Cos’è, vi sto raccontando, in grande sintesi, la trama di “Jane Eyre”? No, stiamo parlando proprio di “Coral Glynn”. Bene, allora ci riproviamo con un po’ di tracking changes, aggiungendo qualche particolare in più e giusto un paio di ingredienti segreti targati David Cameron: ironia, humor, senso del grottesco e un pizzico (lieve) di cinismo. 

Inghilterra, Leichestershire, primavera 1950. L’infermiera Coral Glynn, una donna comune, non bella, di scarse possibilità economiche ma di ampia capacità professionale, ancora giovane eppure già provata dalle avversità della vita (genitori deceduti da tempo, amato fratello caduto nella battaglia di El-Alamein), si ritrova a dover prestare servizio in una grande casa di campagna, umida, fredda, buia, malcurata. Deve assistere l’anziana e moribonda Mrs Hart, malata terminale. Il di lei figlio unico, il Maggiore Clement, padrone di questo maniero perennemente avvolto da umidità e pioggia, è un esponente della upper class, un reduce di guerra tormentato da un passato oscuro e da un presente ancora più inquietante. Coral, malvoluta dalla servitù della casa ed estranea alla comunità del paese vicino – emarginata a causa della misera posizione sociale e del carattere schivo – deve destreggiarsi tra vicende che suo malgrado si fanno sempre più intricate fra drammatici avvenimenti pubblici e intimi segreti inconfessabili, triangolo quartetto amoroso compreso, composto dal Maggiore Clement, dall’amico di lunga data Robin, che nutre nei confronti del Maggiore un amore forte e dichiarato, dalla di lui moglie, l’energica Dolly, rassegnata ma non troppo ad un matrimonio di mera facciata; e naturalmente Coral stessa. 

Insomma, “Coral Glynn” possiede – non per niente l’autore dichiara di aver impiegato ben 5 anni a concludere l’opera – la tensione della gothic novel di puro, classico, stampo anglosassone e la grazia del romanzo di introspezione, per non parlare delle suggestioni provenienti dalla più tipica “comedy of manners”, sempre anglosassone, il tutto rivisto e reinterpretato da un autore di origine e cultura made in USA (ricordiamolo perché visto l’imprinting dell’opera, assolutamente British, questo “piccolo” particolare potrebbe sfuggirci). Insomma, di materiale su cui riflettere ce n’è eccome. 

Sarebbe tuttavia un peccato rivelarvi di più sulla trama, lineare e quasi scarna per altro – doveroso sottolinearlo nei confronti di chi si aspettasse grande azione e fuochi d’artificio (attenzione a non rimanerne delusi!). Quindi vorremmo soltanto porre l’accento su alcuni temi utili, a parer nostro, alla comprensione del testo. 
  • Prima di tutto, il malinteso. Quel (poco) che accade, almeno nella prima parte di questo racconto lungo, per ammissione stessa di Coral è tutto frutto di un “gran pasticcio”. I protagonisti non si comprendono tra loro, né quando parlano, né quando stanno zitti (vedi Clement e sua madre, oppure nel rapporto con l’amico Robin). Per altro non comprendono neanche se stessi – vittime come sono di equilibri interiori ricchi, complessi e dunque difficili da gestire, tra desideri frustrati di azione e redenzione e conseguente tendenza, delle volte, alla passività aggressiva. Nulla di patologico, comunque: solo la “versione Peter Cameron” della vita quotidiana (*). 
  • La questione interessante è che la mancanza di introspezione psicologica dei personaggi, specie nella prima metà del racconto (forse la più riuscita), declassa il lettore a semplice spettatore, al pari dei protagonisti dell’opera: spettatore passivo e succube delle vicende che “accadono” senza che sia possibile, almeno per il momento, ritrovarne il senso. Pur tuttavia, è sapiente il gioco di Cameron che utilizza questo stratagemma letterario al fine di ottenere il totale e incondizionato coinvolgimento da parte del lettore stesso (perché attenzione, “Coral Glynn” crea assuefazione: inutile resistere, continuerete a leggere una pagina via l’altra “per vedere cosa succede dopo”), effetto brillantemente ottenuto soprattutto grazie al punto di vista interno multiplo, per definizione parziale e tendenzioso.
  • Da qui viene di pensare alla ricorrenza di trama e personaggi, che in questo caso ben si accomunano ad un’altra opera dell’autore “The city of your final destination” (“Quella sera dorata” -> qui) che già nel 2002 riproponeva all’incirca i medesimi spunti di riflessione – villa decadente e triangolo amoroso compreso, sullo sfondo di una grande tragedia pubblica e privata. 
  • Le rivelazioni, gli aiku di tre righe, le parti descrittive viste sempre con l’occhio del protagonista del momento. Ve ne lasciamo alcune:

Voglio soltanto non inacidirmi e non morire dentro come mia madre, e se vivo qui da solo so che succederà. Sento già un qualcosa in me, un qualcuno che va di stanza in stanza a chiudere tutte le porte, a sprangare le finestre” [Clement, p48]


“(…) sulla parete accanto al letto, c’era il quadro di un bulldog col fez che guardava un rospo con il pince-nez e il tocco accademico; il cane aveva la testa inclinata di lato, il rospo la lingua tutta fuori. Sotto c’era il titolo: Amici per la pelle” [Coral, p58]

Forse è meglio perdere del tutto una cosa che stare aggrappati ai pezzi che ci sono concessi” [Dolly, p170]

(*) Chi è Coral Glynn, ovvero la signorina Nessuno, o La Qualunque. Potrebbe essere una ragazza affascinante se solo non vestisse in maniera così sciatta (il vil denaro non c’entra, è proprio lo stile, quello di cui è carente); non è particolarmente brillante e, diciamocelo, certe sue uscite proprio non sembrano il massimo del raziocinio. Non ha particolari interessi e nemmeno intende coltivarli (che so, per avanzare socialmente) e per altro non è neppure una così coraggiosa eroina. Passione e fuoco ardente, poi, non sono attributi a mezzo dei quali potremmo definire il personaggio. Coral è il neutro su cui i colori spiccano, scuri o chiari che siano. E’ il personaggio zero, quello che non esiste di per sé ma rende reali tutti gli altri, in maniera detonante. E’ la miccia che fa saltare la dinamite che da anni riposa quieta tra Clement e Robin, e tra Robin e Dolly. E’ l’espressione (passiva) della società postbellica dell’epoca, tra modernità e tradizione secolare, parità dei sessi, misoginia e classismo (la donna single, indipendente, sessualmente libera, che senza dimora fissa si sposta di città in città per lavorare; l’upper class ancora legata, a doppio filo, alle rendite del latifondo; il maschio che sistematicamente abusa della femmina; una moglie childfree che con serenità chiede il divorzio). 

Il merito di Cameron sta, ancora una volta, nell’essere riuscito a inscenare un “dramma della normalità” assolutamente credibile e ben congeniato dall’inizio alla fine, offrendo al lettore una “suspense del nulla” che lo trascina inevitabilmente, spettatore passivo di una commedia teatrale, fino all’epilogo, per altro inconsueto, spiazzante e rivelatore: come nella vita quotidiana, così in Coral Glynn tutto si risolve, nel bene e nel male. E spesso ciò avviene né grazie a – né per colpa di – qualcuno. Più che le scelte consapevoli, personali, motivate, a far la differenza sono gli eventi minimi, accidentali, fortuiti, gli scarti del tempo e dello spazio; come a dire… “Un giorno questo dolore ti sarà utile”.

Buona lettura 🙂

"Nel Giappone delle donne", di Antonietta Pastore – "Il coperchio del mare", di Banana Yoshimoto

More about Nel Giappone delle donne More about Il coperchio del mare Antonietta Pastore, studi in pedagogia e docente universitaria, attraverso la sua personale esperienza di expatried, durata quasi 20 anni, con delicatezza ed estrema competenza ci racconta in punta di piedi l’universo femminile giapponese: dall’adolescenza al matrimonio, dall’educazione dei figli alla vecchiaia, passando per lavoro, tradizione e femminismo. 
Scopriremo cos’è un omiai e perché non sia soltanto visto di buon occhio dalle famiglie ma addirittura richiesto dalle giovani giapponesi (50%) che dopo una certa età (ndr 26.7 anni, di media) corrono verso il matrimonio, d’amore o di convenienza che sia, semplicemente perché terrorizzate dall’idea di entrare a far parte della ormai folta schiera delle parasaito shinguru (ove shinguro sta per “zitella” e parasaito… beh, per “parassita”), perché l’obiettivo perseguito “non è il lieto fine ma l’interesse del gruppo” (p28). 
Attraverso la testimonianza di giovani spose e mature madri di famiglia scandaglieremo il misterioso, conflittuale rapporto tra la nuora e la spesso tirannica suocera a cui la giovane sposa deve obbedienza cieca e assoluta e che di frequente, se il figlio sposato è il primogenito, viene accolta in casa quando anziana e non più autosufficiente, nell’ottica di una relazione coniugale definita all’insegna dei più rigidi canoni tradizionali: l’uomo guadagna per la famiglia, la donna bada ai figli e alla casa. 
“Fin da bambina alla donna giapponese viene inculcato che la pazienza e il sacrificio di sé sono, più che un dovere della donna, l’essenza stessa della femminilità” (p38). Remissività, abitudine a servire il marito, che le mogli non chiamano per nome ma con un anonimo anata (tipo il vous francese) stesso pronome che viene utilizzato per interloquire con un collega sul lavoro; marito da cui sono apostrofate con un banale kimi (“tu”) o peggio ancora con un bell’ohi! “che non ha bisogno di traduzioni” (p38). 
E non potremo non stupirci, di fronte al potere autoritario della donna, in special modo quello che deriva dalla capacità di negoziazione interna ed esterna alla famiglia, tipico e specifico della donna giapponese. Donne che scattano in piedi se il marito ordina una birra ma che amministrano in completa autonomia tutte le finanze di casa, poche o molte che siano: dall’acquisto dei mutandoni di lana per tutti i membri maschi della famiglia, alla gestione di un esercizio commerciale, alla pianificazione delle spese. Direttamente responsabili del vitto quotidiano, finanche all’acquisto di beni mobili e immobili, non esitano a redarguire aspramente il consorte nel momento in cui osi accendersi una sigaretta in casa o uscire senza il cappotto, per poi riferirsi a lui, in presenza di terze parti, con il termine shujin (“il mio padrone”), malgrado la lingua abbia a disposizione anche otto, medesimo significato privato però dell’idea della sottomissione. Regine dell’economia domestica e target goloso del marketing più sfrenato, sono sempre impegnate nell’attività principe della donna nipponica: quella del maru maru, “del tondo tondo” (p49), ossia “mantenere la pace e l’armonia”; quando non accettino per sé addirittura il ruolo di kyoiku mama, ossia una madre che fa dell’educazione e della riuscita scolastica dei figli l’unico scopo della sua vita. 
Parleremo dei movimenti femministi, che pure ci sono stati e ci sono tuttora, frutto dell’occidentalizzazione di massa, ma che tuttavia hanno modificato solamente gli aspetti esteriori della società giapponese, grazie anche a innegabili vantaggi pratici (elettrodomestici, abiti comodi, tecnologia – pena la perdita di tradizioni raffinate e millenarie) ma non certo quelli più profondi, in un’orgia di risultati di dubbio gusto e scarsa utilità sul lungo periodo. 
Dall’analisi delle complesse tematiche familiari viene di conseguenza quella sulla vita della donna fuori casa: giovane o anziana che sia, non può esimersi dalla cura della casa e della prole (l’utilizzo di una otetsudai-san, la domestica, è socialmente concesso e accettato solo nel caso di famiglie molto facoltose) e quindi, ove scelga di portare avanti un’attività lavorativa, si tratta per forza di scelte professionali dalle caratteristiche ben specifiche. Ci inoltreremo quindi nel sottobosco multistratificato delle occupazioni professionali dedicate tipicamente al mondo femminile. Faremo la conoscenza delle tipiche Office Ladies, l’esercito delle segretarie che affollano qualsiasi multinazionale nipponica; ragazze spensierate, buona famiglia, buona istruzione, buono stipendio che viene per la maggior parte speso in accessori alla moda o viaggi all’estero. Comprenderemo un po’ meglio i delicati meccanismi di selezione e di accesso al mondo professionale (che spesso prendono il via dalla scuola elementare): divisi in due categorie, quelli con possibilità di carriera e quelli senza, ambiscono sulla carta alle agognate pari opportunità ma poi, nella pratica, non fanno altro che accelerare l’ascesa del lavoratore maschio a scapito della donna che normalmente, dato il suo impegno in famiglia, una volta sposata non potrà consacrare tutta se stessa alla ditta e al lavoro. E infine scenderemo nel mondo sommerso dei mizu shobai, i negozi “dell’acqua”, tra mama-san, hostess, entraineuses, pink parlour, fino ai famigerati toruko (“bagni turchi”, poi per ovvie ragioni ribattezzati col più politically correct soapland) passando addirittura dai no-pants kissa. Con buona pace della geisha che per secoli ha incantato oriente e occidente con la sua cultura, la sua grazia e il suo mistero. 
Ad integrazione di questo competente e appassionante saggio vorremmo consigliarvi una delle numerose opere di Banana Yoshimoto, di cui vi lasciamo qualche stralcio. Racconto lungo per altro adatto all’occasione, giacché nell’opera si parla, tra l’altro, di quella dolcezza un po’ malinconica che precede l’arrivo dell’autunno nelle cittadine turistiche di una costa nipponica che potrebbe ben assomigliare ad una qualunque delle nostre spiagge tirreniche. La trama è scarna, semplice: Mari, appena laureata, torna nel suo paese di origine decisa ad aprire una piccola attività commerciale, un chiosco di granite. Assieme a lei arriva inaspettata un’amica di famiglia, Hajime, provata da da un grave lutto: la perdita dell’amata nonna che viveva in famiglia. Le due coetanee trascorreranno insieme l’estate, per poi separarsi al principio dell’autunno. 
(…) ero felice all’idea che non dovevo fare niente di strepitoso. L’unica cosa che mi era concessa era prendermi cura, riempiendolo di fiori, del piccolo vaso che portavo dentro di me. Di certo non potevo credere di cambiare il mondo con le mie idee. Dovevo solo essere me stessa, una persona in grado di godersi la vita. (…) L’unica cosa che dovevo fare era arrivare alla morte dopo aver trascorso una vita a contemplare le cose belle del creato, tenendomi alla larga da ciò che mi avrebbe costretta a distogliere lo sguardo. (p. 63) 
(…) per la verità mi chiedo perché gli uomini vadano continuamente alla ricerca di cose sempre più complicate, sempre più oscure” (…). Gli uomini si spingono sempre più lontano, in posti estremamente tristi, oscuri e remoti. E lo fanno di loro libera iniziativa. Forse sentono la necessità di vedere le cose più in profondità, oppure è la razza umana che è fatta così. (p.70) 
Io a volte penso che non sia colpa loro, che sono fatti così. Mentre gli uomini si addentrano nei loro mondi bui e tristi, noi donne cerchiamo sempre di accendere una piccola luce nella vita di tutti i giorni. Le ruote della vita cominciano a girare solo se succedono entrambe le cose (…). Suppongo ci siano anche donne capaci di lavorare fino al tracollo, stacanoviste che vanno in profondità nelle cose esaurendo tutta l’energia fisica che hanno a disposizione, di solito, però, c’è qualcosa che ci ferma prima, no? A noi piacciono le zone d’ombra, preferiamo mangiare qualcosa di buono e farci una bella dormita, consapevoli che subito arriva un nuovo giorno. Sono davvero convinta che, fondamentalmente, ci siano delle piccole differenze nei ruoli dell’uomo e della donna. Il fatto che i nostri corpi siano diversi significa che anche i nostri ruoli sono in qualche modo diversi. Di sicuro gli uomini riescono a fare anche cose estreme, perché hanno un posto dove tornare. Che sia dalla moglie o dalla madre, non importa. Possono continuare a esplorare i loro mondi, possono anche andare nello spazio, solo perché sono legati a questa corda di salvataggio (…). Noi siamo fatte in modo che ci bastano i piccoli piaceri della vita quotidiana per andare avanti. (p. 70-72) 
Le cose avvengono proprio nel momento in cui stai per convincerti che non ci sia più niente da fare. Se, invece, aguzzi l’ingegno senza darti per vinto, la soluzione arriva all’improvviso, da un luogo del tutto inaspettato, sotto una forma quasi ridicola. (p. 77-78) 
C’era una cosa che mia mamma mi diceva spesso: “Le persone non vogliono soffrire né tantomeno vivere nel terrore, desiderano soltanto essere felici. Siamo tutti fatti così, per cui se ti rendi conto che un tuo comportamento potrebbe ferire qualcuno, devi modificarlo”. (p.58) 
Come a dire, la teoria e la pratica delle cose. 
Buone letture 🙂