Cos’è, vi sto raccontando, in grande sintesi, la trama di “Jane Eyre”? No, stiamo parlando proprio di “Coral Glynn”. Bene, allora ci riproviamo con un po’ di tracking changes, aggiungendo qualche particolare in più e giusto un paio di ingredienti segreti targati David Cameron: ironia, humor, senso del grottesco e un pizzico (lieve) di cinismo.
Inghilterra, Leichestershire, primavera 1950. L’infermiera Coral Glynn, una donna comune, non bella, di scarse possibilità economiche ma di ampia capacità professionale, ancora giovane eppure già provata dalle avversità della vita (genitori deceduti da tempo, amato fratello caduto nella battaglia di El-Alamein), si ritrova a dover prestare servizio in una grande casa di campagna, umida, fredda, buia, malcurata. Deve assistere l’anziana e moribonda Mrs Hart, malata terminale. Il di lei figlio unico, il Maggiore Clement, padrone di questo maniero perennemente avvolto da umidità e pioggia, è un esponente della upper class, un reduce di guerra tormentato da un passato oscuro e da un presente ancora più inquietante. Coral, malvoluta dalla servitù della casa ed estranea alla comunità del paese vicino – emarginata a causa della misera posizione sociale e del carattere schivo – deve destreggiarsi tra vicende che suo malgrado si fanno sempre più intricate fra drammatici avvenimenti pubblici e intimi segreti inconfessabili, triangolo quartetto amoroso compreso, composto dal Maggiore Clement, dall’amico di lunga data Robin, che nutre nei confronti del Maggiore un amore forte e dichiarato, dalla di lui moglie, l’energica Dolly, rassegnata ma non troppo ad un matrimonio di mera facciata; e naturalmente Coral stessa.
Insomma, “Coral Glynn” possiede – non per niente l’autore dichiara di aver impiegato ben 5 anni a concludere l’opera – la tensione della gothic novel di puro, classico, stampo anglosassone e la grazia del romanzo di introspezione, per non parlare delle suggestioni provenienti dalla più tipica “comedy of manners”, sempre anglosassone, il tutto rivisto e reinterpretato da un autore di origine e cultura made in USA (ricordiamolo perché visto l’imprinting dell’opera, assolutamente British, questo “piccolo” particolare potrebbe sfuggirci). Insomma, di materiale su cui riflettere ce n’è eccome.
Sarebbe tuttavia un peccato rivelarvi di più sulla trama, lineare e quasi scarna per altro – doveroso sottolinearlo nei confronti di chi si aspettasse grande azione e fuochi d’artificio (attenzione a non rimanerne delusi!). Quindi vorremmo soltanto porre l’accento su alcuni temi utili, a parer nostro, alla comprensione del testo.
- Prima di tutto, il malinteso. Quel (poco) che accade, almeno nella prima parte di questo racconto lungo, per ammissione stessa di Coral è tutto frutto di un “gran pasticcio”. I protagonisti non si comprendono tra loro, né quando parlano, né quando stanno zitti (vedi Clement e sua madre, oppure nel rapporto con l’amico Robin). Per altro non comprendono neanche se stessi – vittime come sono di equilibri interiori ricchi, complessi e dunque difficili da gestire, tra desideri frustrati di azione e redenzione e conseguente tendenza, delle volte, alla passività aggressiva. Nulla di patologico, comunque: solo la “versione Peter Cameron” della vita quotidiana (*).
- La questione interessante è che la mancanza di introspezione psicologica dei personaggi, specie nella prima metà del racconto (forse la più riuscita), declassa il lettore a semplice spettatore, al pari dei protagonisti dell’opera: spettatore passivo e succube delle vicende che “accadono” senza che sia possibile, almeno per il momento, ritrovarne il senso. Pur tuttavia, è sapiente il gioco di Cameron che utilizza questo stratagemma letterario al fine di ottenere il totale e incondizionato coinvolgimento da parte del lettore stesso (perché attenzione, “Coral Glynn” crea assuefazione: inutile resistere, continuerete a leggere una pagina via l’altra “per vedere cosa succede dopo”), effetto brillantemente ottenuto soprattutto grazie al punto di vista interno multiplo, per definizione parziale e tendenzioso.
- Da qui viene di pensare alla ricorrenza di trama e personaggi, che in questo caso ben si accomunano ad un’altra opera dell’autore “The city of your final destination” (“Quella sera dorata” -> qui) che già nel 2002 riproponeva all’incirca i medesimi spunti di riflessione – villa decadente e triangolo amoroso compreso, sullo sfondo di una grande tragedia pubblica e privata.
- Le rivelazioni, gli aiku di tre righe, le parti descrittive viste sempre con l’occhio del protagonista del momento. Ve ne lasciamo alcune:
“Voglio soltanto non inacidirmi e non morire dentro come mia madre, e se vivo qui da solo so che succederà. Sento già un qualcosa in me, un qualcuno che va di stanza in stanza a chiudere tutte le porte, a sprangare le finestre” [Clement, p48]
“(…) sulla parete accanto al letto, c’era il quadro di un bulldog col fez che guardava un rospo con il pince-nez e il tocco accademico; il cane aveva la testa inclinata di lato, il rospo la lingua tutta fuori. Sotto c’era il titolo: Amici per la pelle” [Coral, p58]
“Forse è meglio perdere del tutto una cosa che stare aggrappati ai pezzi che ci sono concessi” [Dolly, p170]
(*) Chi è Coral Glynn, ovvero la signorina Nessuno, o La Qualunque. Potrebbe essere una ragazza affascinante se solo non vestisse in maniera così sciatta (il vil denaro non c’entra, è proprio lo stile, quello di cui è carente); non è particolarmente brillante e, diciamocelo, certe sue uscite proprio non sembrano il massimo del raziocinio. Non ha particolari interessi e nemmeno intende coltivarli (che so, per avanzare socialmente) e per altro non è neppure una così coraggiosa eroina. Passione e fuoco ardente, poi, non sono attributi a mezzo dei quali potremmo definire il personaggio. Coral è il neutro su cui i colori spiccano, scuri o chiari che siano. E’ il personaggio zero, quello che non esiste di per sé ma rende reali tutti gli altri, in maniera detonante. E’ la miccia che fa saltare la dinamite che da anni riposa quieta tra Clement e Robin, e tra Robin e Dolly. E’ l’espressione (passiva) della società postbellica dell’epoca, tra modernità e tradizione secolare, parità dei sessi, misoginia e classismo (la donna single, indipendente, sessualmente libera, che senza dimora fissa si sposta di città in città per lavorare; l’upper class ancora legata, a doppio filo, alle rendite del latifondo; il maschio che sistematicamente abusa della femmina; una moglie childfree che con serenità chiede il divorzio).
Il merito di Cameron sta, ancora una volta, nell’essere riuscito a inscenare un “dramma della normalità” assolutamente credibile e ben congeniato dall’inizio alla fine, offrendo al lettore una “suspense del nulla” che lo trascina inevitabilmente, spettatore passivo di una commedia teatrale, fino all’epilogo, per altro inconsueto, spiazzante e rivelatore: come nella vita quotidiana, così in Coral Glynn tutto si risolve, nel bene e nel male. E spesso ciò avviene né grazie a – né per colpa di – qualcuno. Più che le scelte consapevoli, personali, motivate, a far la differenza sono gli eventi minimi, accidentali, fortuiti, gli scarti del tempo e dello spazio; come a dire… “Un giorno questo dolore ti sarà utile”.
Buona lettura 🙂