Si parte dalla vicenda di Marco Molinari – alter ego dell’autore, Matteo Marchesini (classe 1979, firma delle pagine bolognesi di CorSera, Foglio e Sole24 e uno dei più brillanti critici letterari della sua generazione): stessa età dello scrittore, Molinari, bolognese, è come lui giornalista freelance e si guadagna da vivere nuotando nel grande mare del precariato delle lettere, tra articoli su commissione, traduzioni, piccoli volumi di composizioni e saggi – e un romanzo monco e abbozzato chiuso nel cassetto del comodino. Tutto comincia quando a Molinari viene commissionato un pezzo sul “Bolognino d’oro”, onorificenza letteraria assegnata per l’occasione al letterato, saggista e scrittore Bernando Pagi, che in passato è stato il grande mentore del protagonista (da poco più di cinque vive ritirato in campagna, abbandonati studi e vita pubblica). Alla premiazione Marco inaspettatamente incontra anche Lucia, la sua fidanzata dell’epoca, scappata misteriosamente giusto cinque anni prima senza una spiegazione plausibile, e riapparsa – pare – proprio in occasione di questa cerimonia.
Se l’illustre studioso (figura che senza tanto mistero è modellata su quella, quasi identica, del famoso critico Alfonso Berardinelli) ha deliberatamente abbandonato il mondo universitario – che talvolta, specie quando si tratta di narrativa ed editoria in genere, si risolve in un panorama infecondo di giovanissimi questuanti e stucchevoli professoroni, su cui si posa l’occhio del critico, ora più che mai ironico e distaccato [“Bernardo è già seduto dietro la cattedra, tra assessori e membri del senato accademico, tutti intabarrati e sonnolenti” (p17). “Non è riuscito a disfarsi del capannello di professori e funzionari che gli s’è appiccicato addosso appena terminata la cerimonia, e dovrà andare a pranzo con loro” (p21)] – anche in Lucia – osserva Marco – qualcosa è cambiato: ha lo sguardo velato e il suo fisico rivela una magrezza estrema, improvvisa; nei suoi occhi Marco scorge l’urgenza di un riavvicinamento, urgenza a cui, vuoi per ignavia, vuoi per una certa viva curiosità che nonostante tutto riesce a far capolino, non è in grado di opporsi nei giorni successivi all’incontro.
Difatti Lucia, portando a pretesto la sua lunga assenza dalle terre di casa, costringe Marco ad una serie di pellegrinaggi apparentemente senza senso nei luoghi della loro memoria condivisa, tutti caratterizzati da una specie di pena a contrappasso, come in una sorta di commedia dantesca: se le gite fuori porta che tanto avevano caratterizzato i primi mesi dell’amore erano liete, spensierate ricche di cibi, vini e soprattutto parole [“Una pura voglia fisiologica di chiacchiere”(p69)] ora la guida si fa a strappi, rigida; il clima non è affatto clemente [“Procediamo a braccetto, intontiti da un sole che acceca senza scaldare e si nasconde in una luce lattiginosa” (p87)], la conversazione è tesa, aguzza, centellinata e guardinga. E nella maggior parte dei casi, è Lucia a troncare di netto l’escursione, vittima di un malessere che inquieta e imbarazza.
Una provincia, quella Bolognese, la cui dettagliatissima descrizione anziché mortificare il racconto (in nome di una globalizzazione e conseguente spersonalizzazione del contesto ambientale che tanta parte ha ultimamente nella creazione del prodotto-romanzo) lo trasforma, lo completa e lo caratterizza, creando sfumature ineguagliabili di suono, parola e immagine, dandogli corpo e spessore, vivido e poetico. Piazze e monumenti, strade strette poco battute, vicoli e portici, bar di quartiere e osterie di periferia – tutti i luoghi dell’amore di Marco e Lucia, teatro della loro giovinezza – si trasformano in fondali di teatro slightly out of focus, necessari e mai invadenti, su cui si stagliano le due figure protagoniste, illuminate dalla luce cruda del presente e dell’esperienza, fino alla destinazione finale: una casa di cura per malati mentali presso cui risiede Davide, il fratello di Ernesto; Ernesto, l’amico di sempre dei due fidanzati e vittima, giusto cinque anni prima, di un terribile incidente stradale avvenuto proprio in prossimità della clinica e di cui non è stata mai chiarita la dinamica.
Qual è la linea sottile che separa la colpa dall’irresponsabilità, si domandano il protagonista e, assieme a lui, l’autore. Qual è la differenza tra una piccola bugia e un’omissione colpevole.
Lucia, attraverso questi pellegrinaggi distillati di cui si farà regista indiscussa e nei tempi e nei modi, costringerà Marco a rianalizzare le proprie, personali esperienze di vita squarciando il velo che nasconde il passato e riempie il presente di dubbi e domande per le quali Molinari non sa, e non vuole, trovare risposta, preferendo rinchiudersi in un mondo quasi virtuale, asettico e di esperienze e di rapporti umani. Una non-vita insomma, come candidamente ci illustra il protagonista – una voce quasi fuori campo al principio della lettura, mentre la cinepresa dall’alto dell’incipit scende verso il dettaglio della narrazione:
“A un certo punto, senza accorgertene, hai trentatré anni. E non puoi neanche dire di non aver raggiunto, almeno in parte, ciò che volevi. Fai un lavoro che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano. Non ricordi nemmeno più quando ha preso piede in te questa necessità di limare, escludere, cancellare tutto: rapporti, viaggi, imprevisti quotidiani. Sai solo che ora che hai quasi raggiunto l’obiettivo, lisciato ogni contorno, pareggiato ogni asperità, non ricordi più perché l’hai fatto. Ti chiedi per quanto tempo sarà possibile barare scrivendo il tuo articolo giornaliero senza lasciar capire che dietro è stato tolto l’audio dell’esperienza” (p10)
Che cosa (o chi) si nasconde dietro la morte di Ernesto?
Perché Molinari non riesce a terminare la stesura di quel romanzo, iniziato giusto cinque anni prima, che giace ancora in bozza nel cassetto più inaccessibile della sua scrivania?
Cosa ha a che fare l’improvvisa scomparsa di Lucia con questo suo altrettanto improvviso e inspiegabile ritorno?
Qual è il senso dell’interesse quasi morboso di Lucia nei confronti dell’opera di Ernesto, pagine in forma narrativa, vivide e brucianti, stese poco prima della morte improvvisa?
Si parte dalla vicenda personale, dicevamo, per approdare a qualcosa di diverso che travalica il senso intimo del viaggio di formazione. O, per meglio dire, forse lo caratterizza.
Alfonso Berardinelli (Roma, 1943) raffinato critico letterario specializzatosi in “critica della cultura nel 2011 dà alle stampe il discusso saggio “Non incoraggiate il romanzo” (Marsilio).
Ecco un estratto dalla quarta di copertina:
“Che il romanzo è un genere di consumo e di intrattenimento “per tutti”, lo si è sempre saputo. Ma il consumo è diventato più veloce, più distratto e l’intrattenimento lo si trova in abbondanza altrove. Quanto a qualità artistica, valore conoscitivo e documentario, la maggior parte dei romanzi che si pubblicano sono poco convincenti e non dimostrano nessuna memoria letteraria. Anche quando funzionano come trappole acchiappa-lettori, non provocano riflessioni e interpretazioni critiche impegnate, “non fanno storia”. L’attuale sovrapproduzione di narrativa dà perciò l’impressione di essere più un segno di patologia che di salute”.
Analisi non c’è dubbio sconfortante, che il nostro Molinari fa propria in maniera metaletteraria, e nelle lunghe digressioni letterarie al principio dell’opera, e successivamente, nei momenti più intimi del racconto:
“I pezzi rifiniti, quelli che coincidono esattamente col progetto che avevo in mente, sono anche i più chiusi, i più ingessati, i più sterili. Viceversa, i fuor d’opera sono brillanti, elettrici: ma non riesco a infilarli in una trama che vorrei somigliasse a una tagliola – un meccanismo secco, perfetto, scarno, che però non coincide con le mie esigenze espressive, e a cui pure non so rinunciare. È come se dovessi dimostrare a qualcuno di saper creare una storia tenuta in piedi da un’economia implacabile – come se dovessi provare oltre ogni ragionevole dubbio che i miei dubbi sulla forma-romanzo non dipendono da un qualche volgare ressentiment” (p28).
Eccolo qui, il dramma dell’individuo moderno: l’atto mancato della non-azione che si mangia l’iniziativa e del silenzio che ingoia, a buco nero, la capacità espressiva:
“Non abbiamo parole condivise per affrontare il dolore” (P84) dice Molinari. E’ un atto di accusa verso se stessi, più che verso la società, a quel sé intimo e nostro assuefatto a un certo lieve tepore confortevole e auto-referenziante che ci viene offerto da una vita sempre più facile e senza scosse.
La soluzione dell’empasse viene recuperata prima di tutto attraverso il valore salvifico delle lettere: il romanzo che Molinari finalmente riesce a concludere affonda nelle radici della realtà e nel dolore dell’esperienza, che attraverso un meccanismo catartico dischiude il velo dello scibile. Chissà che il processo (psicanalitico – a cui rimanda anche il titolo dell’opera) non valga anche per la risoluzione della coscienza personale.
Per ora al protagonista è concessa un’altra opportunità: suo compito sarà farla fruttare nel migliore dei modi:
“Scendo le scale in fretta, quasi correndo, e giù in strada mi ritrovo in mezzo alla folla carica di pacchi pasquali. M’infilo a occhi chiusi tra due comitive, e mi lascio trascinare da quel fiume lento e ronzante verso le luci della Porta” (p112)
Buona lettura 🙂