Secondo, perché prima di decidere, in via definitiva, se ti è piaciuta o no, vorresti parlarci, con la Silvia, e domandarle un po’ di questioni che, altrimenti, rimarrebbero (e dunque rimarranno) insolute.
Sul Frecciarossa Milano-Torino, in occasione del Salone del Libro 2010, ci eravamo imbattuti, come già raccontato a proposito di “Durante”, in un paio di insiders; imbattuti è parola grossa, visto che praticamente tutta la carrozza era popolata da bibliofili di ogni genere e grado – avrebbe fatto scalpore se avessimo accennato all’incontro con qualche normal people – ma tant’è.
Comunque, mentre si discuteva del più e del meno, eccolalà, a venir fuori proprio la Silvia Avallone del Premio Strega. Anche qui, adagi contrastanti, tra i convinti sostenitori della delazione a tutti i costi (letteratura “moderna” alla Moccia, prodotto commerciale, egemonia del marketing) e quelli che invece ma no c’è del buono.
Un’ora e venti di viaggio e risultato pari a zero, un sonda e risonda sintassi e significati calibrando gli interventi, citando De Carlo et alii come si affrontasse una conferenza con tanto di powerpoint; roba che siamo arrivati a Torino Porta Nuova con un mal di testa che neanche l’ibuprofene.
Questo per sottolineare di come sia operazione praticamente impossibile, per alcuni testi, arrivare ad un punto di accordo; querelle deleteria, per altro, in alcuni casi – ché se si affronta la questione sul serio magari a una conclusione si arriva pure, rischiando però di perdere per strada il senso intrinseco, “particolare”, del testo.
Quindi, ci riappropriamo del “CONCEPT” del nostro website (come direbbe il padrù del pub qui sotto la redazione – ché se non c’è “concépp” [sì, con l’accento sulla “e”] le tue foto non te le mette in esposizione, puoi piangere e strapparti i capelli, a nulla vale), che ci rende così orgogliosi della nostra armata Brancaleone, e vi parliamo non di come dovreste porvi, nei confronti del libro, o di come ci siamo posti noi, ma di COME dovreste leggerlo, per trarne il meglio. Poi, a ognuno le proprie riflessioni, che, se volete, potremo condividere.
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First of all, la lettura; hai voglia a dire che è un libro facile “che si inizia e finisce in treno”; anche sì, è vero, ma è perché non potresti fare altrimenti.
Spieghiamo. Lettura continua e veloce, perché altrimenti ci perdi il senso, dato dalla velocità dell’azione che è concentrata in pochi giorni, pochi momenti, pochi luoghi.
La questione teorica della “facilità di lettura” va contestualizzata prima di essere giudicata. Ci sono letture veloci determinate dallo stile, altre determinate dalla trama.
Qui siamo al punto B: se aspetti troppo a sapere cosa succede ad Anna&France, tempo due giorni e non ti ci raccapezzi più, come se entrassi al cinema a spettacolo già iniziato e poi uscissi dalla sala ogni tre per due perché ti squilla il cellulare.
Tant’è che in questo caso lo stile denso fa da contrappeso. Lettura veloce sì, ma accurata – e come sappiamo la lettura veloce e attenta è una bestiolina da trattar coi guanti di velluto – ché sennò ci perdi il prossimo bullet point.
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Lo stile. E qui ci siamo, a questa sintassi complessa, scivolosa, da leggi e rileggi. Tutta colpa sua, se vogliamo andar veloci e non ci riusciamo. Perché l’aggettivazione onnipresente (e per altro – ci mancasse ancora qualcosa per rendere il tutto più complicato – ossimorica, a chiasmo, per non parlar di sinestesie), fa da freno all’azione e ci costringe a tornare indietro a ripescar immagini e suoni; i numerosi paragrafi descrittivi, poi, ci impongono ritmo del pensiero e fotografie accurate che occorre imprimersi bene nella memoria, se si vuole andare avanti con continuità.
Parliamo di punto di vista interno multiplo, che, pur rischiando di livellare le questioni di personalità, ha il merito di donare una certa varietà di pensiero e interpretazione.
Questi due punti, approccio sintattico e stilistico e adozione del punto di vista, lavorano in sincronia e offrono al lettore un testo svincolato da immagini stereotipate da riduzione cinematografica e dai più tipici romanzi YAs in cui prevale la struttura a dialogo che molto ha a cui spartire con la sceneggiatura.
Detto questo, tutto ci può stare.
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Piombino che non è Piombino, che è invenzione ma anche la parte per il tutto, sineddoche di concetto tra il luogo particolare, di fantasia, e la più vera provincia industriale italiana – prima domanda per l’autrice;
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L’italiano medio dell’uso assurto a lingua del dialogo e del quotidiano; un qualcosa di tradotto, verrebbe da dire, “purificato” dall’italiano dialettale – attenzione – stiamo parlando non di dialetto puro, ma di italiano dialettale, ovverosia di varianza regionale (pare uguale e non lo è) – seconda domanda;
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La realtà dell’esperienza giovanile, che sembra tanto paradossale e stereotipata da sembrar quasi inventata (indifferenza verso la politica e la società; la droga, il lavoro infame, la serata in discoteca tra sballo e sesso facile; gravidanze a 18 anni, padri che malmenano le figlie, il ruolo della donna) – terza domanda.
Noi ci focalizziamo su Anna&France, queste due creature limpide e preziose, gambe lunghe e ginocchia aguzze; finalmente due anime come tante, pescate a caso in quel mare nostrum popolato da tante giovani adolescenti che, per chissà quali meriti, spesso non propri, si trovano a vivere vite da sogno, esperienze sovrannaturali tra magia, licantropi, vampiri e fenomeni post-mortem, di dubbia origine e qualità. Anna&France non sono nessuno – e non si aspettano niente da nessuno. Nulla le salverà, né il vampiro buono, né un angelo arrivato dal cielo. Alessio, il fratello di Anna, non tornerà dalla morte. E neppure tornerà dal mondo di silenzio e buio la mamma di France, alienata dagli psicofarmaci. Anna&France, la loro vita, dovranno viversela tutta di colpo, da sole, per strada, senza il facile escamotage della vita ultraterrena o del “deux ex machina” del fenomeno paranormale. Chapeau, ci vien da commentare.