"Lolita", di Vladimir Nabokov

More about Lolita Di Dolly devi leggerne in un solo boccone – a disposizione, un lungo week end d’estate, una sdraio a bordo piscina (specchio di acqua azzurra alla maniera ballardiana), noia e afa in pari grado.
Quindi, concludendo (siamo già alle conclusioni?), noi che “Lolita” ce lo stiamo snocciolando – udite udite – da ben un mese, inchiodati alla fermata del tram (massima 0, minima -3), diciamo che l’incompiutezza della lettura sbagliata ce la siamo proprio servita su un piatto d’argento.
La questione è anche l’ermeticità del testo che di certo non favorisce l’arbitraria vivisezione dei paragrafi, a meno di non volersi trovare invischiati in questioni pregnanti di così denso significato del tipo “ma cosa sto leggendo”.
Detto questo, poco altro da aggiungere, ché l’audience si divide in due:
  1. chi ci prova e poi abbandona, perso tra i rimandi letterari pantagruelici di un autore prolifico e dottissimo, e lievemente (lievemente?) irritato dalla figura Humbertesca del vecchioporco (si può dire, vecchioporco? Ma sì, e pure un po’ depravato, a ben guardare) maschilista, egocentrico e (ovviamente) psicopatico;
  2. e chi invece ci si mette per puntiglio, e con sforzo mnemonico notevole e impegno di notti insonni affronta un qualcosa che, Humbert a parte (ma si può, diciamo, mettere Humbert a parte?) sa di thriller Simenoniano – per la serie, sta’ certo, amico, ti porto alla fine del libro, ti dò la mia parola: vedrai la luce in fondo al tunnel; MA, solo quando lo dirò io. Ovvero, lentezza esasperante in caligine di capoversi inutili, meravigliosi, densi di lettere e di romanzo Europeo, inframmezzati da brevi episodi veloci e sporadici di importanza fondamentale per lo sviluppo della trama); e riesce a districarsi, fachiro dilettante su letto di chiodi roventi, liberandosi da una trama quasi scontata alla ricerca di un significato di metatesto nascosto tra le righe fitte di una scrittura che affrontarla con leggerezza sarebbe peccato da pagare alla maniera dantesca, per contrappasso.
Ora, non so se l’avete capito dalle parentesi, ma pare che questa Dolly, più che offrirci risposte, ci ponga di fronte a quesiti che di facile soluzione hanno soltanto la parvenza:
  • metodologia & analisi del testo: inutile approcciare l’opera via lettura veloce, ti perdi metà delle dotterie Nabokoviane e non ci capisci gran che. La lettura lenta è tuttavia rischiosa, foriera di risultati dubbi (vedi sopra, memoria labile e difficoltà con rimandi e parallelismi), ma ha a suo vantaggio la conservazione del ritmo narrativo (suddivisione tra prima e seconda parte, e soprattutto questione paragrafi)
  • tematiche: ondeggiamo come giovani adolescenti (!) in altalena, gambe al vento riso facile e dubbi amletici, tra il testo così com’è scritto – malata ossessione di un uomo maturo per minorenni vergini (vergini?) e implumi – e le sottotematiche che un po’ ci sono, ma forse anche un po’ no (che dire, vogliamo trovare una giustificazione, per questo Humbert? Ma si, parliamo di percorsi di lettura, parliamo di erudizione, parliamo di tematiche, parliamo di società, parliamo di Anni Cinquanta), che forse sono evidenti, ovvio, ma anche solo immaginate da un lettore avido di significati.
Insomma, se ancora non lo si è capito, il consiglio è: prendetela come viene. (Concordiamo con voi: questo post su “Lolita” è utilissimo). Fruizione libera del testo. Trattatelo come un’isola del tesoro, spalancando gli occhi dalla sorpresa e dall’ammirazione di fronte ad un’aggettivazione superba e inusuale, alla citazione erudita, alla tradizione del romanzo europeo in tutta la sua sfolgorante ricercatezza di dialoghi, rimandi, accenni, digressioni, paesaggi, descrizioni, personaggi, caratterizzazioni.
In redazione ne stavamo parlando, di questa trama ballerina di significati (pseudo)nascosti. Cosa dire, occorre forse contestualizzare la questione. Nabokov e la sua “alterità”, il suo essere poeta in esilio. La questione degli autori che “non stanno bene da nessuna parte”, vedi l’Irene, sempre straniera pure a casa sua. La questione del viaggio.

Il suo appartenere, suo malgrado, al boom americano degli Anni 50, con i suoi colori pastello, i frigoriferi cromati, le auto d’epoca, i gelati al gusto di sciroppo chimico, le Università prestigiose e i giovani in pullover e libri stretti al petto e code di cavallo ben legate sopra la nuca, le sigarette, l’alcool, le nuove professioni della pubblicità e delle arti creative. 
Oh, come ci fanno pensare, tutti questi piccoli, innocui luccichii. A cosa? A Yates, senza dubbio, uno specchio magico di un Harry Potter ante litteram, polla scura e insondabile di controfavole a bella posta dimenticate: l’alcool e le sigarette dei Wheelers o la psichiatria spiccia di “Disturbo della quiete pubblica”, per dirne solo alcuni. Carver e i suoi corti fulminanti.
Tra un caffè e l’altro è venuta fuori pure “Olive Kitteridge” (Elisabeth Strout, Fazi 2009). Per la serie, ecco da dove veniva, leggendola, quel nostro déjàvu di cose già sentite e già viste.

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