“Ritorno a Brideshead”, di Evelin Waught

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Ci eravamo interessati a questo Evelin Waught grazie ad un articolo a firma Maurizio Porro apparso mesi fa sul CorSera, contemporaneo all’uscita del film (“Lui ama lui, passione impossibile”). Chiediamo fin d’ora perdono agli amici lettori e soprattutto all’autore dell’articolo, perché, nella nostra furia maniacale da collezionisti autodidatti, abbiamo scandalosamente dimenticato di appuntarci data e pagina da cui abbiamo estrapolato la nostra nota. Si dà il benvenuto a chi voglia darci una mano nel recupero di dati certi.
Il film, noi, non lo abbiamo visto e quindi non possiamo esprimere giudizio. Da quanto però ci era parso di aver capito (anche qui, i lettori ci confutino se occorre, saremo ben lieti di rettificare la nostra visione parziale) la pellicola in questione offriva una visuale incentrata più sul rapporto ipotetical-omossesuale tra i due giovani ragazzi protagonisti della prima parte del libro, Charles e Sebastian, e sulla relazione amorosa intessuta successivamente (terza parte) tra Charles e Julia, sorella di Sebastan, piuttosto che interessarsi allo spaccato sociale dell’epoca e alle vicissitudini dei comprimari.
Effettivamente però, la parte che a noi ha interessato particolarmente sono stati proprio gli interni giorno, ovverosia tutto quel mondo d’Oltremanica descritto dall’autore in maniera così puntuale, attenta, verosimile. Ed emozionante.
Abbiamo trovato la tematica omosessuale della prima parte del volume sinceramente soltanto accennata. Charles è semplicemente un ragazzo, giovanissimo (19 anni), che appartiene alla sua epoca: estrazione borghese e cultura elevata, un’identità personale e un futuro ancora da scoprire; pochi rapporti con la famiglia, filtrati, come da consuetudine, dalla pesante coltre dei formalismi, delle regole sociali e da quelle educative proprie del periodo storico.
Sebastian, altrettanto giovane, è invece un adolescente inquieto e tormentato: di estrazione più elevata rispetto a Charles, è vittima di una situazione familiare che noi oggi, malgrado i cambiamenti sociali intervenuti nel corso di quasi un secolo, non esiteremmo a definire “problematica”.
Per inciso, è anche (FORSE) omosessuale.
Il cocktail, che poi si rivela essere la tematica di più rilevante importanza sottesa al romanzo, tra pulsioni giovanili (anche omosessuali, ma non solo, si veda la passione tra Charles e Julia), regole sociali e soprattutto religione cattolica, sarà fatale per l’esito del romanzo.
Ora, a livello di stile, c’è da inchinarsi di fronte al dono di Waught, quello della prolissità (!) della descrizione. L’incredibile esercizio di stile, la fatica dell’aggettivazione puntuale, la cura per la descrizione non soltanto dei personaggi, ma anche del paesaggio e dell’architettura fanno del romanzo uno spaccato veramente esaustivo dell’epoca.
Oltre che, per altro, evidenziare, con il gusto tipicamente anglosassone per la citazione e il confronto letterario, la nostra poca dimestichezza di “lettori medi” con la letteratura, il cinema e il teatro dell’epoca, che varrebbe la pena approfondire (si raccomanda l’utilizzo massiccio di Wikipedia durante la lettura per verificare accenni letterari, autori, opere letterarie).
Niente potrebbe scostarsi maggiormente dalla sintesi (lessicale e contenutistica) a dir poco compulsiva dell’Irene Nemirowskj. Quel che stupisce è la destinazione ultima (l’identificazione e la descrizione di una ben specifica realtà sociale – per altro in declino), pari e raggiunta con successo da entrambi gli autori seppur seguendo vie completamente diverse.
In alcuni punti, soprattutto per quanto riguarda la seconda parte, ci è parso di ritornar con la memoria a “The sheltering sky” (“Il tè nel deserto”, di Paul Bowles, Feltrinelli, 2006), che sinceramente abbiamo sempre ritenuto una delle opere di fantasia più emozionanti e intense relative ai “Grand Tour” del Maghreb.

"Il condominio", di J. G. Ballard

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Approccio scientifico per questo Ballard d’annata (classe 1975) che, nonostante l’età, presenta sempre (più) consistenti e attualissimi spunti di riflessione.

I) Componente sociogeografica (psicogeografia, ne avevamo già parlato per “Disturbo della quiete pubblica” – “Super Cannes”)
II) Malattia mentale come strumento eletto e ultimo per la comprensione della realtà mutata.
III) Possibilità di evitare la limitazione di propri istinti antisociali attraverso una struttura (Eden Olympia / il condominio) che garantisce la quotidianità e la preserva
IV) Ambiente esterno – prime opere, Universo – ambiente interno (realtà modificata in un ambiente non fantascientifico, opere della “maturità”)
V) Violenza con connotazione non individuale ma sociale
VI) Il mondo nuovo che tende al caos – o meglio, alla costituzione di un nuovo ordine sociale attraverso la re-interpretazione del presente
VII) La ricontestualizzazione del brutto, del banale, del fuori moda, a confronto con lo stile, la pulizia delle linee (degli oggetti e… delle persone), il design, la consapevolezza della cultura e della conoscenza verso il dilagare degli aspetti primitivi dell’esistenza (quasi agognati).

NB. Avevamo già incontrato questo aspetto, quello della ricontestualizzazione, in un contesto completamente differente – ma forse non troppo, a ripensarci: torniamo di nuovo alla nostra ultima Oates, in “Sorella, mio unico amore”
Sono stati molto utili, durante la lettura, i vari interventi di uno tra i più eminenti studiosi di Ballard, Antonio Caronia. Vi invitiamo a consultare sul web la sua ampia bibliografia sull’argomento. 

"Il castello dei Pirenei", di Jostein Gaarder

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Abbiamo preferito procrastinare di qualche giorno l’analisi critica di quest’ultimo J Gaarder, poiché, indubbiamente, è libro per cui di necessità dovrebbe ritenersi fondamentale una riflessione attenta, puntuale e anche, diremmo, quasi “cross-funzionale”, oltre che lievemente strutturata.

Cominciamo prima di tutto col definire il genere letterario a cui appartiene, o meglio, a cui vogliamo far appartenere quest’ultima fatica dello scrittore-professore Gaarder. E’ romanzo, opera di fantasia e immaginazione; ma è anche trattato, opera di divulgazione, saggio interdisciplinare, così come gran parte dei suoi scritti.

Si è detto molto, nelle rassegne stampa e sul web. Romanzo lento e dal sapore posticcio, stile piatto e di empatia quasi nulla, personaggi inverosimili e costruiti a tavolino. Trattato dal sapore eccessivamente divulgativo per alcuni; per altri, al contrario, pagine ridondanti di dissertazioni filosofico-scientifiche di difficile comprensione / fruizione per i lettori (la maggior parte) non avvezzi alla materia.

Affrontiamo prima di tutto la questione genere letterario, dalla quale siamo partiti. Affrontare questo tipo di analisi relativamente a quest’opera significa abbandonare in parte i preconcetti, tipici del genere “romanzo”, a cui per certi versi ci hanno abituato le ultime letture della medesima tipologia. Non ci troviamo di fronte ad una sceneggiatura da film e di ciò occorre, come dire, farsene una ragione. Questi personaggi riflettono molto e agiscono poco, anzi per nulla. Il romanzo non è racconto di avventura, azione, sentimento, passione alla stregua di best sellers internazionali – o di una loro trasposizione cinematografica da colossal Holliwoodiano. Anzi, probabilmente ci troviamo di fronte ad uno dei libri meno cinematografici degli ultimi anni.
Ecco il perché, in parte, di una delle maggiori critiche portate al volume. Il lettore medio ha per certi versi perduto quella capacità di fruire di un romanzo da lettura lenta e ponderata, all’interno del quale sia preponderante l’utilizzo del pensiero e dell’immaginazione piuttosto che quello dell’azione e della descrizione dettagliata (fisica soprattutto, e poi emozionale), di personaggi e atmosfere. 
Abbiamo bisogno, a tutt’oggi, di avere ben in evidenza le fattezze di un personaggio, per innamorarcene o per disprezzarlo. Ci occorre avere un’idea che risulti quanto meno vaga possibile del suo corpo, dei suoi capelli, del suo sguardo, di ciò che vive, e dove; di ciò che sente, e come. La nostra capacità immaginifica è, per certi versi, andata perduta.
Eppure, di esperimenti di questo tipo ne è piena la letteratura. Basti pensare ai Dolori del giovane Werther, oppure alla “copia italiana” opera di U. Foscolo (le ultime lettere di Jacopo Ortis). La tradizione dei romanzi epistolari è lunga e attraversa ogni cultura e ogni epoca. 
Forse qualcosa è andato perduto, e occorrerebbe recuperare qualche antica tradizione letteraria che potrebbe offrire, ancora, diversi e notevoli spunti di riflessione.

Abbandoniamo per un momento la questione genere e personaggi per passare ad una breve analisi sulla parte più specificatamente didattica. Quel che ci preme qui sottolineare non è tanto la validità o meno delle tematiche espresse, su cui ci permettiamo di sospendere il giudizio, quanto la tecnica espositiva, che rivela, tendenzialmente, un approccio perfettamente scientifico votato ad una completa “analisi e accettazione del dubbio”.
Le dissertazioni filosofiche di Steinn non hanno alcuna pretesa di verità insindacabile o di inequivocabile giudizio morale. Semplicemente, Steinn esprime con valida e congruente arte dialettica ciò di cui ha fatto tesoro ed esperienza nel corso di decenni di vita: studi, esperienze, affetti, delusioni.

Prova evidente di questa posizione di estremo dubbio e totale apertura allo scibile, non soltanto la sua riflessione in quanto tale (il sogno della navicella spaziale, per esempio) ma anche l’agitazione, la riflessione continua, l’irrequietezza con cui Steinn, a mano a mano, affronta la corrispondenza con la (ex)amata Solrun.

Se dovessimo consigliare una tematica di base, sottesa, o meglio una chiave di lettura attraverso la quale affrontare questo volume, consiglieremmo una riflessione attenta sulla “liberazione dal pregiudizio”.

Prima di tutto con valenza endogena: entrambi i personaggi, dopo un percorso di crescita e maturazione, che Gaarder non manca di esporre con coscienziosità di giudizio, si liberano (in parte) da tutte quelle sovrastrutture intime, mentali e fisiche che avevano così caratterizzato (e condannato) la loro giovinezza.
Gaarder ammette, candidamente verrebbe da sostenere, se non fosse che le ammissioni sono da ricercare tra i meandri della scrittura e della “cultura giovanile” che lo scrittore dipinge in maniera sottile e si direbbe quasi incurante – dicevamo Gaarder ammette l’immaturità di certe tesi e di certi atteggiamenti tipici, se vogliamo, di una certa età anagrafica ma anche di certi ambienti e di talune epoche storiche.

La chiusura mentale del giovane Steinn, che per un gioco di specchi, irritante e menzognero, si ritrova da una parte ad assaporare la libertà fisica, mentale, di giudizio e di azione (tipica spavalderia di giovane uomo agli albori dell’esistenza) e dall’altra a rifiutare categoricamente non soltanto una via alternativa, ma addirittura, gli individui che di questa via alternativa si fanno profeti.
In questo senso, non ha miglior fortuna Solrun, che, dopo un’esperienza sensoriale certamente di dubbia origine, converge ogni sua energia nella ricerca di una realtà immateriale intrisa sì di religione, ma anche di mistica ed esperienze parapsicologiche.

La difficoltà di approccio per noi sussiste invero anche a causa della nostra “visione esterna della problematica” (un tantino pregiudiziale, vien da dire).
Indubbiamente la cultura nordica, per certi versi molto simile a quella anglosassone, si distacca in parte dalla nostra per quanto riguarda vari aspetti tra cui, per esempio, la concezione della famiglia, della religione, della società, il rapporto con la natura e/o l’ambiente che ci circonda.
Fatichiamo a comprendere questi due personaggi che ai nostri occhi potrebbero rischiare di apparire solamente quali sciocchi post-adolescenti girovaghi e irresponsabili, alla ricerca di emozioni adrenaliniche estreme per sfuggire alla noia dell’esistenza (e alle responsabilità che derivano da una vita adulta: scuola, lavoro, famiglia): la vita in una caverna ad imitazione degli uomini primitivi, le fughe in lande desolate, organizzate all’ultimo minuto, prive di qualsivoglia meta e omogeneità strutturale, i “colpi di testa”, le distrazioni (fatali, verrebbe da dire).

Il rapporto intenso, quasi viscerale, con la natura, l’acqua, la terra, il cielo, i fenomeni atmosferici; relazione unica con la natura e l’ambiente tipica di popolazioni che da millenni debbono fare i conti, al nostro contrario, con una natura selvaggia e indomita; una relazione di assoluta reverenza che porta ad una compenetrazione profonda, di completo rispetto e venerazione, per l’universo circonda l’Uomo le lo compenetra.
Potemmo pensare che il libro di Gaarder sia poco riuscito proprio per questa sua mancanza di adattabilità al contesto globale. Indubbiamente è un libro di nicchia, di certo non corrispondente ai canoni estetici più in voga. Anche qui, credo che la tematica dello “scampato pregiudizio” sia l’unico mezzo per riappropriarsi di una propria identità, unica e inalienabile, di lettore consapevole.

Per quanto riguarda il capitolo finale (da molti indicato come posticcio e inconcludente):
vorremmo lasciare libera interpretazione, con un solo, marginale spunto di discussione. In tutta la vicenda, il marito di Solrund rappresenta in un certo senso l’uomo di mezzo. Colui che, avulso da un contesto prettamente accademico, di conoscenza approfondita di tematiche e materie, si accosta al mondo con l’innocenza tipica dell’Uomo e la sua ingenuità.

"Un bel giorno per rimanere sola", di Nanae Aoyama

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Facile, facilissimo, sarebbe gestircela con un banale Yoshimoto vs. Aoyama. Tecnicamente possibile, contenutisticamente fuorviante. del perché, ora ne parliamo.

Inutile divagare sullo stile della Yoshimoto. E’ d’uopo soltanto accennare alla limpidezza dell’esecuzione e alla tecnica meditativa, tutta orientale, del togliere piuttosto che del mettere – e dell’arte poetica in senso lato.

Con N Aoyama ci troviamo ad affrontare un contesto stilistico totalmente differente – creato, supponiamo, in maniera (in parte) consapevole. Il confronto sarebbe oltre che inutile probabilmente anche dannoso perché offrirebbe un’accezione di base negativa per l’interpretazione dell’opera analizzata.

Questione contenuti. Parliamo di precise identità sociali: ragazzi giovani, giovanissimi, alle prese con il lavoro, la precarietà dell’esistenza, l’identità personale da ricercare e conquistare a fatica.

Un conto tuttavia è sistemare la questione con una Banana Yoshimoto classe 1960 (anno più, anno meno). Un altro è analizzare la problematica utilizzando come point of reference l’anno 1983.

Se proprio vogliamo tentare un raffronto, per quanto limitato, potremmo riflettere sul ruolo della realtà percepita.

Chizu è una ragazza che percepisce l’esistenza della vita quotidiana attraverso – o meglio, soprattutto attraverso – le crepe della sofferenza interiore, dell’inadeguatezza (studio e lavoro, istruzione e capacità intellettive), del confronto (impari) con la società (il presente e il futuro), con i genitori e con gli anziani, che rappresentano il presente e il passato. Ciò si esprime anche nella percezione che Chizu ha del mondo esterno: folla impersonale sui treni affollati, quartieri di periferia, fatiscenti e poco puliti, vecchie abitazioni tradizionali, squallide e cadenti, persone anziane che suscitano sentimenti di sarcasmo, pena, commiserazione, fastidio sia mentale (ragionamenti a prima vista sterili, difficoltà di comprensione del presente) sia fisico (indumenti smessi, abitazioni vecchie, poca pulizia).

Chizu (e forse l’autrice stessa) percepisce il peso del proprio passato, frutto di una così grande e millenaria tradizione culturale; e tuttavia non è più in grado di identificarsi in esso e di contestualizzarlo, eventualmente reinterpretandolo alla luce dei tempi moderni. Tutto ciò, a causa dell’educazione ricevuta – scolastica e familiare, che vede familiari e maestri relegati a un ruolo sempre più marginale – e dell’interesse quasi ossessivo – tipico di una certa fascia giovanile nipponica, gli under 30 fortemente urbanizzati – per il denaro, la realizzazione personale e l’occidentalizzazione.

Ecco spiegato l’astio irrazionale e immaturo (oltre che una mal celata invidia soprattutto nei riguardi della vita sentimentale) verso l’anziana donna con cui si ritrova, in qualità di ospite, a condividere l’appartamento.

Difficile che Chinzu si interessi a ciò che la circonda: visite a località storiche di interesse, attenzione al dettaglio architettonico o naturale, meditazione di fronte allo spettacolo della natura, sia esso un fiore di ciliegio in boccio, la neve in giardino, il mare in tempesta.

La visione della Yoshimoto, che talvolta, è bene ricordalo, soprattutto negli ultimi lavori tende lieve ad un velato manierismo, ha tuttavia il merito di un sostanziale ottimismo di fondo: il distacco dell’osservazione e del sentimento, tipico di entrambe le autrici, per la Yoshimoto è frutto di una meditazione personale che comprende un’analisi profonda del contesto sociale e personale alla luce di una spiritualità di profonda radice culturale che, malgrado le difficoltà, tende a mantenere valida nel tempo la propria forza espressiva; per la Aoyama, questo distacco è invece indice di un profondo disagio giovanile tipico, al momento, di un’identità culturale in equilibrio instabile tra rifiuto della tradizione e futura creazione di un nuovo equilibrio interiore. O così almeno si spera.

"Easter Parade", di Richard Yates

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Prova evidente di come si possa (se si vuole) andare molto più in là di ciò che ci viene proposto dalla letteratura di genere e da Hollywood, questo diabolico Yates fa saltar via in un colpo solo, con un tocco secco di scalpellino ben azzeccato, tutto quello che di pre-costruito ci circonda. Letteratura di cui, francamente, oramai da anni ne avevamo un po’ piene le tasche.




L’esaltazione del successo a tutti i costi, la celebrazione del “self-made man“, la glorificazione di una cultura di massa in cui anche l’essere anticonformisti diviene quasi uno studio di maniera che si riduce, puntualmente, in una mera e pedissequa imitazione di qualcosa già inventato da qualcun altro.

Ci sono tutti gli ingredienti giusti.
Le due sorelle della classe media (quella famosa dei Wheeler, quella “in ascesa”, quella delle grandi aspettative made in USA): due vite diverse eppure così simili nella loro crudezza e inconcludenza, come a dire che nessuno si salva, né la bella casalinga di provincia con il grembiulino inamidato, la cirrosi epatica da alcool e la faccia gonfia delle sberle prese dal marito, né la brava giovane emancipata sia nel lavoro che nel sesso, che paga con il deserto dei sentimenti e della solitudine una vita sempre alla ricerca inquieta (e vana) di un non ben dichiarato obiettivo di redenzione personale e di emancipazione familiare.

La società che cambia, il mondo frenetico della città (quasi un Sex & the City ante litteram per la “piccola” Emily, ci verrebbe da dire, se non avessimo paura di mostrarci irriverenti nei confronti di questo Yates in forma così – si fa per dire – smagliante).
Gli uomini, capitolo a parte. Che uomini. Qualcuno si salva? Parrebbe di no. Se non si salva Yates, non si salva nessun altro. Tralasciamo le avventure più o meno occasionali; figure di necessità soltanto abbozzate e citate appena, e anche qui davvero grande l’abilità di Yates che attraverso una curiosa operazione di meta-testo ci rende partecipi della dimenticanza: la difficoltà di Emily nel ricordare nomi, visi e situazioni rende questi figure di burattino, ai nostri occhi, ancora più marionette di come potrebbero essere realmente.

Troviamo questo Easter Parade (1976) veramente più maturo del più giovane Revolutionary Road (1961), e molto più interessante. I parallelismi tra le due sorelle, l’analisi della famiglia, sempre assente, sempre irrimediabilmente poco coinvolta nella vita dei congiunti (la Pookie del libro non è altro che la Dookie madre dell’autore, in un ritratto assolutamente identico e sovrapponibile). L’analisi della società, che dovrebbe essere stimolo e riflessione, e che invece diviene soltanto solitudine, incongruenza, falsità, inutilità.

Se in RR i giovani nutrivano in sé i germogli per una nuova rinascita, in EP anche la generazione successiva si trova a dover fare i conti con la precedente, in una sorta di nemesi storica senza scampo e senza fine: come le sorelle a confronto con la madre, così i figli / nipoti a confronto con il vecchio padre / padrone in un certo senso ne assolvono le responsabilità: anche quelle più drammatiche (e l’animo resta quieto e in pace, anestetizzato: emblematica la chiosa di Emily, nel garage del nipote, sull’andare in bicicletta).

Ci vorrebbero pagine e pagine per affrontare ogni singolo aspetto della scrittura di Jates. Basti qui annotare la descrizione dell’ineffabile, che attraverso l’analisi di particolari insignificanti rimanda sempre ad altro (la polvere sulla scatola delle lettere riposte nello sgabuzzino, l’intimo della vecchia madre visibile da sotto la vestaglia, le cravatte appese nell’armadio), e anche attraverso tutte quelle meravigliose espressioni di cordialità forzata, di compassione e di circostanza, ancora in fase di abbozzo in RR ma così vive qui in EP.

Ultime riflessioni: personalmente non concordiamo con le ipotesi di “cinismo” piuttosto in voga al momento. Non si tratta di cinismo verso una realtà di base valida seppure complessa e di difficile interpretazione. Si tratta di rivelare, senza troppi orpelli, la vacuità di qualsiasi struttura sovrasensoriale atta a modificare, reinventandola, una realtà tipicamente “made in USA” che di adorabile, magnifico, meraviglioso ha ben poco. Non a caso, tematica riscoperta oggi, durante i tempi bui di quella che noi Europei chiamiamo, a ragione, recessione.

"Revolutionary Road", di Richard Yates

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Potremmo occuparcene per giornate intere. Da approfondire, preferibilmente in original language. Nella prefazione di Ford utili rimandi a tanti autori che varrebbe la pena analizzare. Minimum Fax da vedere a catalogo. 
Giubilo totale per un buon libro, solido, valido nella struttura, coerente nella trama, un prodotto letterario fine e ben costruito soprattutto nei dettagli e nella caratterizzazione dei personaggi.
Scetticismo sottile e controllato per personaggi al limite della caricatura, esasperati e distorti, quasi come spiati attraverso il fondo di uno spesso bicchiere da cocktail; descrizione di paesaggi al limite dello stereotipo e travalicanti anche la più classica delle puntate di Happydays. 

Per rifletterci, ci servono paragoni e confronti.

Interessante il concetto citato qui e là, secondo cui, alla fine, la ricerca dell’elitario e della preziosità intellettuale porta alla rivalutazione e alla ricontestualizzazione del brutto, del banale, del popolare, del vecchio (vedi l’episodio della “Capannina da Vito”, oppure la “moda” nascente della ristrutturazione di vecchi edifici contadini). 
D’altra parte non abbiamo fatto molta strada in più, se pensiamo alle ricontestualizzazioni architettoniche attuali di aree ex industriali quali le acciaierie Falk, nelle zone ormai urbanizzate della Milano Nord, o in quelle della Bovisa; per non parlare dell’improvviso revival delle vecchie osterie sui navigli, di cui conserviamo arcana memoria attraverso le fotografie unte e scolorite di bisnonni e vecchi zii, ritratti in posa cameratesca, in piedi davanti alla vetrina o seduti al tavolino con un fiasco di vino e un bel bicchiere pieno in primo piano.

Vedi anche il personaggio di Shep, che in nome di altri, nuovi e fecondi ideali (e il gregge qui, attenzione ai fantastici “nomi parlanti”, la fà da padrone), abbandona la strada veramente d’elite indicatagli dall’educazione impartita dalla famiglia d’origine per rifugiarsi in un qualcosa che di elitario, ormai, ha ben poco, anzi non ha mai avuto nulla.

Da analizzarsi anche dal pdv dei rapporti familiari, non crediamo siano da tralasciare anche se sono, in parte, di marginale importanza. 

Il rapporto o meglio il NON-rapporto con le famiglie di origine e la costruzione di mono-nuclei familiari sradicati dal contesto economico, culturale e sociale di provenienza. La liberalizzazione della donna che tuttavia, nella sua strada verso l’emancipazione, può contare solo su se stessa e non su quella rete di sicurezza emotiva composta da madri, sorelle, zie, nonne, su cui si è sempre fondato il nucleo familiare occidentale.

Da notare, curioso che non si parli mai di religione. Come ultimi, credo spicchino su tutte, il ritratto del “matto che parla” e quelli, sfocati, di tutti i non ben specificati “bambini” che gravitano intorno alle vite dei grandi senza veramente farne parte, figure di piccoli cuccioli indifesi, che forse conservano in sé il germe per una società nuova, sempre se riusciranno a sopravvivere ai cataclismi familiari e alla nuova, spumeggiante, eclettica “era del calcolatore elettronico”. Che premonizione. 

Lasciamo ad altri la validazione della trasposizione cinematografica, a noi basta questo.