
Dunque se da una parte non si può far dire ai libri quel che non hanno in progetto di dire, dall’altra è indubbio che i libri ci parlano. A loro modo, s’intende, coi loro linguaggi, mescolati a quello di chi quei libri li scrive, al momento in cui li si legge, a quello che il lettore ha in testa. Sicché, raccogliere le idee in questo momento su un libro che per titolo fa “Risorgere” e che si occupa della Cina post Tienanmen potrebbe sembrare da parte mia un eccesso di sarcasmo mal riuscito – ma che dire, ho i miei motivi, speriamo siano buoni.
“Risorgere” è molte cose, e l’ansia di cui parlavo (sul Twitter) con Paolo Pecere viene da qui, dalla convinzione che le mie parole non saranno in grado di contenerlo tutto. Tant’è, eppure mi occorre provarci per cercare di mettere un punto, a questo libro che continua a corrermi in testa.
Per dirla in breve c’è Marco, antropologo scapestrato, berlinese d’adozione (“Disadattarsi, quando tutto è compromesso, è il male minore” pag24), innamorato di Gloria – violoncellista italotedesca di padre cinese – che un po’ per amore un po’ per disperazione finisce ad accompagnarla in Cina alla ricerca del padre Cheng, ricchissimo imprenditore che la ragazza non vede da tempo e che pare svanito nel nulla – forse s’è rifugiato in Tibet, racconta qualcuno, per cercare il Buddha. Poi c’è Liang, vecchio amico e amante di Cheng: lo cerca pure lui, febbrilmente, braccato com’è da Gloria e dai fantasmi del passato (mica troppo fantasmi per altro, dato che è il Partito a dargli la caccia visti suoi trascorsi non proprio fedelissimi). E ci sono anche la cugina di Cheng, un po’ innamorata pure lei (ma non è nemmeno questo, il punto – semmai, la politica), che a dirla facile vuol mettere i bastoni tra le ruote un po’ a tutti gli altri; e Raffaella, la madre di Gloria – colei che subì il gran rifiuto, l’abbandonata e tradita, cantante lirica caduta in disgrazia che tra i fumi dell’alcool e una demenza incipiente vuol solo confondere nel silenzio dell’oblio i ricordi dolorosi.
Ma c’è anche il fantasma di una donna misteriosa, troppo presto perduta; c’è la giovinezza sulle barricate, culminata nella rivolta di piazza Tienanmen e ci sono anche i mostri di un’infanzia di regime che scappano fuori da sotto il letto non appena si cerca, invano, di abbassare le palpebre.
“Risorgere” è un libro complicato e leggendolo mi sono chiesta spesso quanto noi si sia pronti ad affrontarlo. Non per niente è stato proposto per lo Strega (ndr: da Fulvio Abbate): perché complessità e molteplicità di chiavi di lettura regnano sovrane in questo testo che di temi e luoghi ne affronta parecchi, attraverso una struttura a flashback che occorre impegnarsi a seguire, badando bene a non perdere il ritmo. Le storie di Marco-e-Gloria e di Liang procedono su binari paralleli, ciascuna col proprio carico di ricordi e ritorni al presente. Da una Berlino priva di passionalità, fredda nel suo accogliere studenti ormai svogliati e privi di qualsiasi spirito d’iniziativa, a Roma capitale, bruciata nel sole di un agosto torrido che ne esalta la decadenza e il marciume, Marco e Gloria, abbandonato ormai qualsiasi progetto lavorativo che non sia precario e dequalificante, partono per l’Asia. Anche Liang parte dai propri luoghi – con Shangri-La nel mezzo (ah, il demone celeste dei libri), il che non è un caso ovviamente – spinto dall’urgenza di recuperare non solo l’uomo a cui per anni si è sentito legato ma anche la propria storia personale.
E tutto diventa un viaggio che ha del ballardiano, un cuore di tenebra contemporaneo in cui l’allontanarsi da casa – qualsiasi estensione questa parola voglia e possa prendere – viene a significare un distacco: dal sé di prima, dal mondo dell’infanzia, da un passato ingombrante e da un futuro che sembra già eletto verso un luogo in cui “la morte delle certezze è condizione di una rinascita”, mi scriveva Paolo Pecere.
“Il mese scorso mi ha portato a visitare la frontiera con il Laos. Se qui in Yunnan il caldo è sempre più pesante, là è letale. L’umidità ti pesa addosso come un mantello di foglie bagnate. Ragionare è arduo, parlare è impossibile. Fermentano frangipani, ibischi, zenzeri rossi. Sui rami pendono frutti gonfi, festoni d’infiorescenze, pistilli dai colori pesanti. Mi hai portato in tanti santuari, tutti uguali e strapieni di costruzioni di dubbio gusto: girotondi di statue d’animali, draghi domati a grandezza naturale, coni bianchi di pagode, simboli del loto che cancella dolore e bruttezza” (pag32)
Paolo Pecere mi raccontava che modello per Chang è stato in un primo tempo il caro, vecchio Kurtz con cui condivide ovviamente il tema della fuga e del rigetto della predestinazione. Chang però va oltre, “come la Cina”, mi scriveva P. Pecere. Ho riflettuto tanto su questo punto e penso di aver capito che se da una parte il fine ultimo di Kurtz è la ricerca di un sistema all’interno del quale essere di nuovo protagonista – attraverso mezzi e linguaggi propri, soverchianti il resto – dall’altra al contrario Chen sparisce nel non detto, nel non testimoniabile: se teniamo per vero che Chen sia andato alla ricerca di quel che si racconta, sarà di fatto impossibile trovarlo dato che, com’è noto, attraverso il Dahmmapada s’arriva solo fino a un certo punto. La sparizione è coerente e Kurtz resta indietro, così come resta indietro la nostra comprensione del sistema-Cina. Questione non meno importante questa, esemplificata dall’impegno continuo che l’autore ripone nell’evitare l’occidentalizzazione del pensiero filosofico e iconografico, in specie con riguardo al Buddha. Dell’occidentalizzazione del Buddha ne avevamo già parlato, per Hervé Clerc; per “Risorgere” si tratta, nello specifico, dell’impegno a mantenere l’impatto emotivo di certe scene e di certi luoghi che nella trasposizione all’occidentale sono privati della loro intrinseca ferocia, spesso confusa con la violenza, in nome di una ricontestualizzazione nell’*armonia* occidentale.
Vorrei parlare di tantissimi altri temi. Per esempio dell’importanza del punto di vista, che è sia nodo interno a ciascun personaggio sia come dire esterno, tra il lettore e la materia di cui è fatto il testo. Oppure del viaggio e dell’identità. C’è anche la questione di quando il linguaggio porta con sé la propria dissoluzione, l’impraticabilità di certi codici e la necessità di ricorrere a strumenti alternativi. Si potrebbe parlare dell’importanza della musica e di Mahler, oppure degli echi che arrivano da Dürrenmatt o ancora del modo in cui fare antropofiction, o dello stile che si fa in certi punti flusso di coscienza e verso poetico, o di quella particolare sensibilità che spinge a considerare il paesaggio naturale, in specie quello montuoso, alla stregua di un organismo vivente di fronte al quale l’essere umano impallidisce.
Io non posso fare altro che ringraziare Paolo Pecere per la pazienza con cui mi ha accompagnata nella lettura: le sue osservazioni accorte – il modo in cui mi ha spinta a “lasciar parlare” il libro – sono state per me un regalo preziosissimo.
“Negli ultimi tempi fantasticava scenari di sventura: solo uno schianto del sistema economico ci avrebbe svegliato, prima che il pianeta annullasse l’esperimento umano. Immagino i vostri amplessi come quelli di due dei della morte tibetani. Tu attorcigliata con le cosce sui suoi fianchi. Il suo bel corpo è una masse deforme di carne blu, i tuo denti perfetti sono luride zanne. Gl’inoculi idee in corpo come un virus. Trent’anni di incubazione, in cui tutto sembrava andare per il meglio, poi hai cominciato a impadronirti di lui” (pag258)
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