Deborah Levy, nata in Sud Africa nel 1959, è scrittrice, drammaturga e poetessa inglese. Insignita di numerosi premi e menzioni, per anni ha lavorato per il teatro sia come scrittrice di arte drammatica sia come Company Director. La short story “Swimming home”, sua recentissima fatica intrapresa per altro a più di 10 anni di distanza dall’ultimo lavoro in prosa(“Pillow Talk In Europe And Other Places”, Dalkey Archive Press, 2004), è stata finalista per il Man Booker Prize 2012 e per il Jewish Quarterly-Wingate Prize 2013.
L’architettura del racconto deve molto all’arte della pièce teatrale: è infatti costituita da una narrazione di sette capitoli, a cui fa seguito un breve epilogo finale, tanti quanti i giorni della settimana – da un sabato all’altro – durante i quali è ambientata l’opera. Capitoli suddivisi a loro volta in sezioni (dai titoli enigmatici, fortemente allusivi), organizzate con il sistema della narrazione multipla. Il racconto non procede infatti soltanto attraverso un susseguirsi di eventi lineari ma anche mediante l’entrata in scena dei personaggi che interpretano, secondo una visione personale e soggettiva, la realtà circostante e alcuni piccoli episodi all’apparenza banali, ma significativi, che la compongono.
Costa Azzurra, luglio 1994. Due famiglie dell’upper class inglese trascorrono l’estate in un complesso residenziale per turisti. Joe Jacobs, poeta di fama internazionale (all’anagrafe Jozef Nowogrodzki, di nascita polacca, alle spalle un passato di emigrazione e povertà) cerca di ritrovare le energie tra un tour promozionale e l’altro. Con lui ci sono la moglie Isabel, celebre anchorwoman e corrispondente di guerra per la televisione, e la figlia adolescente Nina, una bella ragazza più matura di quel che potrebbe suggerire la sua età. E poi gli amici di famiglia, i coniugi antiquari Mitchell e Laura. Sarà un evento imprevisto, l’arrivo di una ragazza dai capelli rossi, capitata alla villa forse per caso (o forse no), a far deflagrare le tensioni, certamente già presenti, tra i membri del gruppo e all’interno dei due singoli nuclei familiari. Un equilibrio instabile, un castello di carte che la presenza invadente di Kitty Finch avrà l’unico scopo di far crollare, con una serie delicatissima di buffetti ben assestati.

Sono evidenti le influenze cinematografiche (in primis “Io ballo da sola”), così come quelle letterarie (per esempio il racconto da cui la Levy ha tratto ispirazione, come dichiarato in numerose interviste: “The swimmer” di John Cheever), da cui tuttavia l’autrice subito si discosta, dopo averne seguito per un momento le tracce, per modellare la narrazione su nuove e personali riflessioni. Tanto da essere in grado di definirle, alla fine, più tributi che veri e propri spunti narrativi.
Le ventenne Kitty Finch ha come unica ambizione l’applicazione dell’arte socratica della maieutica. Una ragazza “spostata”, senza che per altro questa sua fragilità mentale divenga il tema fondamentale dell’opera, anzi. Kitty Finch, eterea com’è, potrebbe benissimo essere quasi soltanto il parto di una allucinazione di gruppo, all’interno della quale ogni membro del clan posiziona il sé, riflesso dallo specchio deformante di questa figura femminile che, guarda caso, è spesso rappresentata nuda, una carne certamente al di là della volgarità ma così lirica nell’espressione dell’erotismo e della passione amorosa che determina e definisce ogni essere umano.
Così come l’ostetrica porta alla luce il bambino, Kitty Finch mostra, attraverso la confutazione di qualsiasi altra ipotesi non coerente, l’infondatezza delle convenzioni sociali, la falsità di certi atteggiamenti o di certe opinioni e la fragilità intrinseca dell’essere umano che ama nascondersi nel consueto e nel confortante per evitare lo sconvolgimento interiore.
“La conoscenza non le avrebbe necessariamente rese felici. Anzi, c’era una possibilità concreta che gettasse piena luce su visioni di cui era meglio restare all’oscuro” (kindle, pos.1175)
Per Joe è il confronto con la famiglia, con la moglie ormai estranea e con il passato di migrante.
“Joe Jacobs sapeva che avrebbe dovuto farle altre domande. (…) I perché i come i quando i chi e tutte le altre parole che avrebbe dovuto pronunciare per dare coerenza alla vita” (307)
“Perfino tu devi essere stato bambino, una volta. Perfino tu devi aver pensato che ci fossero dei mostri acquattati sotto il letto. Mentre ora che sei diventato un adulto così impeccabilmente normale ti limiti a dare un’occhiatina discreta pensando: be’, magari è un mostro invisibile!” (519)
“Suo padre e sua madre andavano a trovarlo di notte, non di pomeriggio. Gli apparivano in sogni che dimenticava all’istante (…). A preoccuparlo era soprattutto l’idea che, tra i due, potessero non conoscere abbastanza parole inglesi per fari capire. E’ qui Jozef, mio figlio? L’abbiamo cercato per tutto il mondo” (792)
Per Nina è l’adolescenza e il rapporto con i genitori.
“Hai mai lavato un pavimento, Nina? Sei mai stata carponi con uno straccio in mano mentre tua madre ti grida di pulire bene negli angoli? Hai mai passato l’aspirapolvere sulle scale e portato fuori i sacchi dell’immondizia? (…) Hai bisogno di qualche problema serio da riportare con te nella tua sontuosa dimora londinese” (849)
“Da piccola lei giocava sempre a un gioco morboso nel quale si sfidava a scegliere quale dei suoi genitori avrebbe preferito che morisse” (1821)
Per Isabel, il ruolo di moglie e madre.
“Nella sua casa londinese si sentiva un fantasma. Quando tornava dai vari teatri di guerra e scopriva che in sua assenza il lucido da scarpe o le lampadine di scorta avevano cambiato posto, erano cioè in un posto simile ma non proprio in quello in cui stavano prima, si rendeva conto che anche lei aveva un posto effimero nella casa di famiglia. (…) Aveva rischiato di perdere il suo posto di moglie e di madre, un posto inquietante, infestato da tutto ciò che era stato immaginato per lei se avesse scelto di occuparlo” (416-418)
Anche la bella copertina della versione italiana (in traduzione di Stefania Cherchi) pone naturalmente l’accento su uno degli elementi principi della narrazione che tuttavia, nonostante la presenza incombente di basso continuo, non smette mai di ricoprire una funzione quasi accessoria:
“La piscina nel giardino della villa per turisti somigliava più a uno stagno che alla languida vasca azzurra dei pieghevoli pubblicitari” (54)
“La piscina rettangolare scavata nella pietra in giardino lo faceva pensare a una bra. Una bara aperta e fluttuante, illuminata dalle luci subacquee (…). Una piscina era solo una buca nel terreno. Una fossa piena d’acqua” (1048)
La critica, che ha accolto questo racconto lungo con toni entusiasti, ha accostato lo stile evanescente e rarefatto dell’opera – ma intenso e in alcuni punti folgorante – addirittura ad alcuni lavori di Virginia Woolf, per la capacità di analisi introspettiva, l’abilità di sintesi stilistica e la varietà dei temi oggetto dell’osservazione.
Buona lettura 🙂
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