“Membrana”, di Chi Ta-Wei (trad. Alessandra Pezza)

(progetto grafico NERO, illustrazione di copertina Lucrezia Viperina)

“Sciocchina, i trattamenti cutanei curano l’esterno, non l’interno.”

La fantascienza transumanista di Mary Shelley cresce tra le inesauribili declinazioni del cyberpunk da Gibson a Sterling, s’aggrappa al fertile terreno dei manga (Akira, Ghost in the shell, per dire), semina dubbi nel ventre dei supereroi a stelle e strisce toccando proprio il cuore della vigorosa supremazia occidua – come ci raccontano i Tre millimetri di Matheson, il Jedi rinnegato Darth Vader, l’affaire Wolverine. Il superamento del corpo, punto riguardo al quale gli esseri umani, va detto, stanno in fissa perpetua, nella speculative fiction viene raccontato principalmente attraverso il controverso rapporto carne-macchina, precisamente nel momento in cui la tecnologia assume la funzione di strumento di sorpasso. La varietà di soluzioni è infinita a livello pratico ma ben codificata nei sottesi principi generali, in quello che per certi versi può essere interpretato come un crescendo di soluzioni ad hoc, dipendenti non solo dal livello dello sviluppo tecnologico ma anche dal grado di agiatezza economica del singolo (individuo o gruppo sociale): si comincia con le protesi esterne per passare agli innesti – del tutto meccanici o ibridi uomo-macchina -, sino ad arrivare all’interfaccia neurale impiantabile (la pila corticale di Altered Carbon, che può essere prelevata da un corpo, non a caso definito custodia, e inserita in un altro, rendendo così di fatto possibile l’immortalità, certo a patto di avere mezzi sufficienti per comperarsi un nuovo …contenitore).

“(…) a quanto pareva non era così semplice rimuovere a piacimento le parti del corpo indesiderate… Non avevano più giocato a mangiarsi. Gli adulti però se ne erano già accorti. La dottoressa notò dal monitor che ad Andy mancava un dito. Domandò cosa fosse successo e, stranamente, anziché sgridare Momo la mise in guardia. «Divertitevi quanto volete. L’operazione si avvicina e allora rimpiangerete di non aver giocato abbastanza. Però non mangiatevi, altrimenti non sapremo come fare», spiegò, «Momo, sarai tu ad andarci di mezzo per aver mangiato il dito di Andy».

Città di T., anno 2100: l’umanità si è ritirata nelle profondità degli oceani per sfuggire ai cambiamenti climatici innescati dall’inquinamento. L’incredibile sviluppo tecnico ha permesso la sopravvivenza della nostra specie ma il mondo sommerso è governato dalle industrie ipertecnologiche che oltre a contendersi i fondali marini continuano a rivaleggiare anche sulla terraferma, ormai ridotta a un parco archeologico cotto dai raggi ultravioletti, tramite guerre per procura combattute da macchine e androidi. Nella città di T. – in cui dominano asettici colori pastello e giardinieri strapagati, metà umani e metà robot, curano la preziosissima vegetazione – vive Momo, famosa estetista della pelle. Momo è divenuta una celebrità nel ramo dei trattamenti cutanei, professione molto ambita poiché l’inquinamento sulla terraferma e le atmosfere modificate nei fondali sottopongono la pelle umana a stress e malattie. La trentenne però non approfitta della notorietà e anzi vive una sorta di eremitaggio autoimposto, con il computer a fare da unico strumento attraverso cui interagire con l’esterno – a parte le sedute con i clienti durante le quali, tuttavia, mantiene un riserbo divenuto ormai leggenda. In occasione del suo trentesimo compleanno, però, alla porta si presenta sua madre, da cui si è separata vent’anni prima. Questa improvvisa apparizione darà il via a una serie di riflessioni che culmineranno in un completo stravolgimento di punti di vista, legato al fatto più importante della vita di Momo: un’operazione salvavita, subìta quando aveva dieci anni (che aveva per altro compreso anche il cambio di sesso), rispetto alla quale la madre non ha mai voluto fornire dettagli.

“Nel discolibro, Amleto diceva: «Potrei vivere nel guscio di una noce e credermi re d’uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni».”

Per molto tempo ci siamo nutriti di fantascienza occidentale pensandola unica opzione possibile e focalizzandoci di conseguenza su un certo tipo di antagonismi e storytelling (dal quale però, va detto, alcuni autori e autrici avevano tentato di metterci in guardia); grazie però al lavoro di piattaforme di nicchia e al più recente investimento delle case editrici nella traduzione da lingue non anglofone s’è reso evidente quanto il futuro della fantascienza sia legato a esperienze diverse da quelle della scifi occidentale. L’opera divulgativa, sia dell’originale sia in traduzione dalla lingua madre non mediata dall’inglese, ha il merito di aprire al panorama non anglofono il pubblico mainstream e, allo stesso tempo, di facilitare il recupero dei testi da parte di chi s’interessa di scifi più nel dettaglio: afrofuturismo e fantascienza asiatica non sono esattamente fenomeni emergenti quanto un sistema di declinazione della materia presente da tempo e su cui qui da noi manca ancora, in tanti casi, lo sguardo d’insieme. Esempio lampante di tutto questo discorso è, appunto, “Membrana“, pubblicato a Taiwan nel 1995 e scritto dal prolifico Chi Ta-wei (scrittore, studioso di storia letteraria sinofona, esperto di temi LGBTQ, professore associato di letteratura taiwanese presso la National Chengchi University di Taipei), un romanzo breve che nella costruzione di uno scenario distopico si impegna ad affrontare temi di natura prettamente locale.

Lo scenario distopico scelto è quello della catastrofe post-apocalittica di matrice ecologica: in particolare, l’autore si riferisce all’assottigliamento dell’ozonosfera, uno dei primi veri segnali dell’inquinamento a opera umana, questione che tanto aveva colpito noi della X Gen. Tuttavia, l’indeterminatezza delle specifiche tecniche dimostra il sostanziale interesse dell’autore per lo sviluppo della parte speculativa più che per la creazione di una distopia mirata. Le considerazioni di Chi Ta-Wei difatti si inseriscono all’interno dell’analisi del sé e della critica sociale, con specifico riguardo alla realtà asiatica. Per esempio, uno dei punti cardine è l’integrazione di persone fuori canone nella rigida società ipernormativizzata orientale, il che non vuol dire solo temi LGBTQ ma anche la riflessione sulla realizzazione personale della donna quando non comprenda la tradizione del matrimonio e della maternità. Un altro argomento di forte interesse è l’analisi degli effetti dei vecchi e soprattutto nuovi colonialismi (di cui è metafora la battaglia per la conquista degli oceani) e la questione delle guerre per procura, nonché l’argomento dell’appartenenza sociale, culturale e politica alla sfera d’influenza cinese.

Membrana è tutto ciò che ci avvolge, in un continuo gioco di specchi e rimandi: è la pelle su cui scivolano gocce d’acqua e raggi di sole, baci di amanti e sbuffi di vento, ma è anche la delicata carta della stratosfera che riveste il nostro pianeta; è “il confine invalicabile tra il nostro corpo e le cose esterne”, è il luogo in cui risiede la “frattura visibile” provocata dai conflitti interpersonali, l’ “ironia bruciante” della cicatrice quando è frutto di una sottrazione. Da rifletterci.


In pianura .2: “Génie la matta”, di Inès Cagnati (trad. Ena Marchi)

“Se la gatta o la cagna aveva fatto i piccoli, le dicevano: «Génie la matta, intanto che fai una pausa, va’ ad ammazzare i gattini». O i cuccioli. Lei metteva i gattini o i cuccioli in un sacco con dei sassi e andava a gettarlo nel fiume. Io la inseguivo a distanza, perché ogni tanto si girava e diceva: «Vattene». In certe fattorie gattini e cuccioli li seppellivano vivi nel letamaio. Mi ricordo di cagne che cercavano i piccoli piangendo. Correvano da ogni parte, chiamavano, cercavano, puntando il naso, per ore intere. Alla fine si accucciavano in un angolo della casa e piangevano. Gli preparavano frittate con il prezzemolo per asciugare il latte e le cagne piangevano.”

Continuo a seguire la strada della pianura. Sono briciole di pagine che riesco a recuperare lentamente e però vado avanti perché più di tutto mi interessano le corrispondenze. Sul filo sottile che separa quel che la pagina dice da quel che vogliamo farle dire – è come camminare lungo la sponda buia e scivolosa di un fosso! – cerco impronte di piedi scalzi, orme di stivali e linee di sguardi, qualcosa che è passato da lì prima di me, a cui voglio andar dietro.

“Tornando da scuola, prendevo scorciatoie, correvo nel fango, negli artigli dei rovi, nel richiamo rosa dei meli cotogni. Sguazzavo nei pantani.”

C’è lo scrivere di Natura, quel modo laterale di vedere il non umano che ha la caratteristica di un riguardo poco meno che sacro, emendato da qualsiasi personale compiacimento – con l’uomo incastrato nel mezzo, nella consapevolezza di un significato inaccessibile. Questo cerco, un sistema di scrittura libero dallo sguardo consapevole e interpretato:

“Dopo il pasto di mezzogiorno, nelle fattorie, si faceva una pausa, in genere di un’ora, a volte di più, a volte di meno, a seconda della stagione o della fattoria. D’estate, durante la pausa le gente spariva nelle camere da letto, i cani nella paglia dei fienili o verso i ruscelli. D’inverno, le donne rimanevano accanto al fuoco senza far niente o a sferruzzare, gli uomini e i cani andavano nei fienili a fare non so che.”

E poi c’è il Male, la brutalità che a volte, se viene dalla pancia vuota, consuma l’animo. L’invidia corrode il pensiero, gelosia dei bisogni primari: l’acqua corrente, le conserve di frutta per l’inverno, i vestiti nuovi per scuola, un amore, dei figli, continuare a studiare, la compagnia di un animale domestico. È un veleno che scorre nelle vene di tutto il paese, un virus che le persone si passano l’una con l’altra, nel continuo specchiarsi di una reclusione di gruppo a cui non sembra possibile sottrarsi, pena il disconoscimento. Nei paesi della provincia accade spesso: la necessità del falò, il fantoccio bruciato che assume le sembianze della strega – donna bellissima e lasciva, di famiglia nobile e prestigiosa, che ammalia per sortilegio gli altrimenti probi e purissimi membri del concilio sociale. “Génie la matta” non fa eccezione e non perché ci si diverta a costruire nuove varianti di una medesima leggenda così, per penuria di idea ma perché, come racconta Cagnati in coda al libro, lo schema dell’investitura del matto si ripete sempre secondo una precisa convergenza, al di là del luogo e del tempo.

“Penso che il comportamento nei confronti del «matto» si possa spiegare così: da un lato il matto è l’indemoniato, posseduto dallo spirito del male, dal diavolo. È quindi colpevole di tutti i mali, dal momento che le terribili punizioni che il cielo infligge (pesti, carestie, epidemie varie) sono dirette contro i malvagi. Come le streghe, gli ebrei, gli eretici, gli stranieri, il matto è responsabile dei mali subiti da tutti e merita, perché i flagelli abbiano fine, persecuzione e morte. Il matto dà ragione dell’esistenza dei mali che conducono alla morte e, al tempo stesso, lascia sperare a coloro che si reputano virtuosi, rispettosi della religione o dell’ideologia dominante, di potervi sfuggire. Dall’altro lato il matto è colui che ci rassicura su noi stessi. Ogni essere diverso da noi è matto, perché se siamo quello che siamo c’è una ragione. L’altro è matto perché noi siamo normali, e affinché noi possiamo esserlo. Ne è il garante.”

Come è naturale il congegno secondo cui lo scemo del villaggio in “Pontescuro” si ritrova accusato dell’omicidio della bella Dafne, così Génie, che matta non è (ha solo scelto la via del silenzio, l’unica percorribile), viene riconosciuta adatta a far parte della comunità, sempre con le dovute cautele e limitazioni, si intende, sino a quando accetta di incarnare – ovviamente in maniera consapevole – il ruolo a cui è stata promossa.

“Raccontavo la storia delle belle principesse che salgono su torri merlate così alte da fermare le nuvole, torri dove le notti si addensano di grida, dove i giorni coprono di polvere le ombre dei sentieri, giorni di deserto in cui quelli che aspetti arrivano troppo tardi. Raccontavo soprattutto la storia di Penelope che si consuma gli occhi nelle cupe caverne, e quella di Lorelei che sale sulle rocce più alte e tende la braccia verso il tumulto delle acque del Reno, di Ofelia, innamorata delle ninfee, che fugge, distesa nell’acqua lattiginosa dei fiumi e dietro di lei resta solo la scia dei suoi capelli d’oro.”

Anche la fine della storia è nota, un’altra di quelle orme di gatto che vado a cercare, la terra smossa sempre nel medesimo punto in cui l’animale affonda le zampe, giro dopo giro: contrariamente a quanto il coro del popolo crede, cavarsi fuori dall’ingranaggio è difatti possibile ma, come ci insegna il fattore, tutto perirà nella violenza da cui è nato e nulla verrà elargito in dono.

“Erosione”, di Lorenza Pieri

“Qui tutto mi rassicurava, era sempre estate, era come se il buio non esistesse. Tutta la luce che mi circondava, gli alberi, le cicale, il vento, il ritmo ipnotico della risacca da cui provavo a farmi incantare nelle notti in cui non riuscivo a prendere sonno, facevano pensare che niente di brutto sarebbe mai potuto accadere finché ero lì.” (Scatola N°2. Geoff)

“Le dispiaceva per esempio non ricordare l’ultima volta che con i fratelli si erano abbracciati “a pinza di granchio”, agganciandosi tutti e tre per le braccia come facevano da piccoli” (Scatola N°1. Anna)

Sabato sera ci siamo ritirate presto, io e il gatto, e abbiamo finito “Erosione”. Che è un romanzo a tre voci – anzi a pensarci forse pure di più, ma partiamo dall’inizio. Tre fratelli ormai adulti, Anna, Geoff e Bruno, in una giornata di tempo brutto e freddo si ritrovano a Cape Charles, amena località turistica adagiata sulla Chesapeake Bay, in Virginia, per dare l’ultimo saluto alla villa di famiglia appena passata nelle mani di nuovi proprietari. Anna ha avuto l’idea di portare con sé anche la madre, Margaret, trascinando la carrozzina dalla casa di riposo sino al soggiorno della villa e sistemando l’anziana donna, ormai quasi del tutto incosciente a causa dell’Alzheimer di cui soffre da tempo, di fronte al panorama costiero.

[Un passo indietro.] Se ci si prende la briga di curiosare sui siti di promozione turistica della Chesapeake Bay si potranno ammirare decine di queste tipiche abitazioni a disposizione per l’affitto stagionale: grande folklore statunitense – tanto legno, veranda rialzata, colori brillanti alle persiane, tradizionale pianta quadrata, due piani, arredi d’epoca, in alcuni (ormai rari) casi accesso diretto alla spiaggia con pontile riservato – e una “storia da raccontare” che risale, di solito, ai primi del ‘900. “Per i turisti che intendono passare le vacanze a Cape Charles una casa in affitto è una popular choice“, recita la caption di un sito di intermediazione immobiliare (dove con “popular” si intende una cosa che sta a metà strada fra il “lo fanno tutti” e lo “stai sereno, è sofisticato”: potremmo tradurlo con di tendenza, forse). La scelta è vasta, costruita per assecondare le necessità di diverse tipologie di fruitori: si va dall’intimo e isolato cottage per coppie alla “massive beach mansion” che può accogliere agevolmente anche le famiglie più extended. L’importante è che si possa “apprezzare la storia senza rinunciare a tutte le comodità moderne”.

[Riprendiamo.] Non fa eccezione la casa di nonno Joe, arrivato a Baltimora da bambino insieme al padre e allo zio – muratori e titolari della “Amenta bros.“, impresa di costruzioni – e poi imprenditore di successo nel commercio delle automobili durante la ripresa economica dei Sixties. “Aveva fiuto per gli affari e una discreta prepotenza, ma più di tutto un’innata capacità di convincere gli altri.” (Scatola N°1. Anna)

“Il nonno andava pazzo per tutto quello che lo affrancava dal suo status di migrante italiano. Era orgoglioso delle sue radici ma si vergognava della povertà. Del resto era cresciuto tra gli americani, in un posto dove essere poveri veniva vissuto come una colpa.” (Scatola N°1. Anna)

Sicché, ecco la casa sulla punta del promontorio: completa di veranda, terrazzo, vasche per i fiori e pontile a cui erano attraccati il motoscafo Siracusa e il barchino in vetroresina Tender to Siracusa con cui i fratelli usavano spostarsi per raggiungere le ville degli amici. Ed ecco il rito del trasloco estivo, con la nuora – mamma Margaret, rimasta vedova in giovane età – che stipava in macchina i fiori nuovi da trapiantare in giardino e i figli, a cui consegnava ogni anno tre scatole di legno di cedro all’interno delle quali i fratelli dovevano infilare tutto quello che ognuno intendeva portarsi dietro per i due mesi al mare, “imparando l’arte della selezione e a provare la soddisfazione tutta cattolica della rinuncia.” (Scatola N°1. Anna)

[Un passo di lato.] Non so se avete mai sentito parlare del “blight”. Di solito si rende con morìa, o anche decomposizione, e indica, come spiega bene Cal Flyn in “Isole dell’abbandono”, quel particolare stato di degrado urbano progressivo tipico della città di Detroit in seguito al tracollo dell’industria automobilistica. Il termine in realtà viene dall’agricoltura ed era utilizzato nel XVI secolo per indicare la morte improvvisa e devastante di un raccolto. L’Oxford English Dictionary, racconta Flyn, traduce “blight” come influsso malevolo: “[è] un malessere socio-economico che aleggia per le strade come un miasma, insinuandosi attraverso le finestre o negli spazi sotto alle porte, dilaga nei quartieri come l’influenza, in certi posti, come la peste.” Ecco. Se nel deterioramento tipico di Detroit c’entra la (de)industrializzazione, nella casa di nonno Joe quel che ficca il naso tra le crepe è il lento e inesorabile dilavamento delle coste dovuto alla cementificazione dell’estuario del Susquehanna, ai cambiamenti delle correnti atlantiche e infine all’uragano Floyd – il primo di molti altri successivi – che si è portato via tutta la fetta di spiaggia accessibile, pontile compreso.

[Riprendiamo.] La questione, in sostanza, è che la casa di nonno Joe, nel frattempo mancato per infarto, non assomiglia più – come sta capitando anche tante altre, vittime del “blight” – né a quelle in foto sui siti di renting on line né all’immagine impressa nella memoria dei tre nipoti che, chi per una ragione chi per un’altra, da tempo hanno smesso di frequentarla e non possono o non vogliono più accollarsi le cifre astronomiche che occorrono per amministrarla, anche perché fra loro i rapporti non sono idilliaci e ciascuno ha della propria infanzia e degli eventi successivi un ricordo personale alquanto differente (“[…] la memoria degli altri è un mezzo di persuasione difficile” [Scatola N°1. Anna]). Dunque, il legno dell’impiantito è ora impregnato di umidità, la vernice degli infissi è scrostata, lenzuola e coperte odorano di muffa, il caminetto è ingolfato, l’approdo precluso da un terrazzamento d’emergenza, fatto costruire dall’azzeccagarbugli Bruno non tanto per limitare i danni delle maree quanto per ottenere una copertura assicurativa meno onerosa.

“(…) ormai. Un avverbio italiano che ci ha insegnato il nonno e di cui in inglese non esiste un corrispondente preciso. Significa che da questo punto non si può più tornare indietro. Dentro ormai c’è ora e al suo interno è entrato il mai. In genere quando nonno lo diceva voleva dire che per me era ormai troppo tardi per evitare una punizione.” (Scatola N°3. Bruno)

Bruno, il maggiore, Anna, la figlia di mezzo, e Geoff, il minore sembrerebbero a prima vista rappresentare, ciascuno per proprio conto, una delle forme tipicamente americane in cui può prendere sostanza l’adultitudine. Anna è la quarantenne fricchettona ecologista, fissata con la mistica, maestra di scuola e madre di una figlia melting-pot, concepita a quindici anni con un dipendente scapestrato – e nero – di suo nonno, in un momento di ribellione-illuminazione. Bruno è avvocato di successo, in banca un patrimonio folle derivato dal suo mestiere (vincere in maniera spregiudicata cause di divorzio miliardarie e particolarmente audaci) e dai beni della moglie, rampolla di una delle famiglie più in vista di Cape Charles, conosciuta sin dall’infanzia (“due ciliegie di plastica” che le fermano le treccine bionde – [ndr: ricordi anche tu quel suono? Quel cloc che facevano le due biglie rosse?]. E infine abbiamo Geoff, l’unico di nome americano a testimonianza dello sgretolamento che rovina anche l’eredità linguistica, il self made man che non ce l’ha fatta, nel più puro spirito a stelle e strisce che vuole l’incompetenza personale come unica causa dell’insuccesso: sfigato padre single di un novenne mezzo irlandese-mezzo italiano cresciuto senza madre, si arrabatta fra lavori precari e stagionali, giri di scommesse clandestine, debiti e richieste di asilo presso la madre.

Dico sembrerebbero perché in realtà nessuno dei tre fratelli obbedisce pedissequamente al proprio cliché, dal momento che l’acqua del Susquehanna si infila non solo fra le assi del pavimento in cucina ma anche nelle fessure della personalità di ognuno, rendendo evidente la vacuità dello stereotipo – procedimento manifesto nella struttura stessa del romanzo, organizzato su un arco temporale di un’ora, tre capitoli e altrettante …scatole. L’idea di Anna infatti è quella di radunare la famiglia consegnando a ognuno dei fratelli, lei compresa, la medesima scatola di legno di cedro utilizzata durante l’infanzia; il compito però sarà all’inverso: le scatole non verrano svuotate in casa, all’arrivo, ma riempite, prima della partenza definitiva, con gli oggetti che ciascuno riterrà più opportuni. È proprio qui, nell’elenco delle cose, nel modo in cui i tre fratelli, separatamente, vagano per le stanze che hanno segnato infanzia e giovinezza (Anna guidata da luminosi spiriti invisibili; Bruno con la fretta nei nervi e l’auricolare all’orecchio, al telefono con l’amante; Geoff strascicando i piedi, anima pesante di nostalgia) – recuperando coltellini a serramanico, scialli tarmati, fumetti scoloriti, ciondoli e tappetini scendiletto, una scatola di fiammiferi, delle tazze spaiate – che si evidenzia lo scarto tra personaggio e individuo, nel risaltare della discordanza tra apparire ed essere, fra atti decisionali e ragioni sottese.

Ecco perché per me “Erosione” non possiede solo tre voci ma decine: quelle degli oggetti – umidi, ammuffiti, scoloriti, polverosi, abbandonati, inutili che improvvisamente riprendono vita fra le mani dei fratelli e nei loro ricordi.

E Margaret? Che fine ha fatto la sua, di voce? Perché l’erosione non mangia solo la sabbia delle fondamenta e le stecche delle persiane ma anche la mente, trascinando via con sé le ricette di cucina, oralità di misure e gesti irrecuperabili, le citazioni dai Vangeli, la memoria della lingua e del padre. Eppure – La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei. I fiori.

[Nota – a proposito di voci. Giovedì sera, per una coincidenza fortunata tra amici, ho incontrato Lorenza Pieri; abbiamo parlato di tante cose (figli, traslochi, scuola, mal di testa ricorrenti, il freddo di Milano) e di una questione mi sono stupita, perché è preziosa e capita poche volte: dentro a “Erosione” c’è proprio anche la sua, di voce.]

In pianura .1: “Pontescuro”, di Luca Ragagnin

“Invece, quel buio, là fuori, adesso, gli pareva un’oscurità cattiva, la pelle stessa di un gigantesco essere multiforme che respirava rantolando, e allargava il torace inspirando le sostanze vitali, le poche rimaste, le superstiti, seppure lontane e indistinguibili: le stelle, le nuvole, gli esseri alati, e quelli della terra, del sottoterra, anzi, che continuavano laboriosamente a trafficare nei grumi, nell’umido, nei cunicoli, perché non si erano ancora accorte che il mondo era terminato.”

Torno al blog – che felicità, sono proprio contenta (una sospensione occorre, ogni tanto) – con un tema che mi è caro e che in queste settimane di pausa estiva ho avuto finalmente modo di approfondire, recuperando dalla biblioteca alcuni titoli che aspettavo da tempo. Uno di questi è “Pontescuro”, di Luca Ragagnin con illustrazioni di Enrico Remmert. Proposto allo Strega 2019 da Alessandro Barbero, questo romanzo breve racconta in maniera corale – voci umane e naturali – le vicende di un immaginario paesetto della bassa padana, Pontescuro appunto, alle prese con l’efferato omicidio della licenziosa Dafne, la giovane e spregiudicata ultimogenita del fattore locale. Siamo nel 1922, le famiglie si spaccano nel nome della marcia su Roma e delle rivolte contadine messe a tacere a suon di manganelli e i pochi tetti che compongono “questa terra con le sue case sopra, come denti isolati o accavallati o nascosti nella bocca della pianura” sono avvolti dalla nebbia e da una miseria profondissima, che svuota le pance e ottunde gli animi. Colpevole dell’efferato delitto – il corpo della ragazza abbandonato in campagna, un nastro rosso a legarle stretto il collo – può essere chiunque: l’invidioso uomo di fatica a cui Dafne ha negato le grazie, il ragazzotto geloso cui invece le ha donate per tante volte, l’acida perpetua alla quale non è stato concesso di amare chi desiderava, una moglie tradita a vendetta del torto subìto, il barbone cencioso che dorme in riva al fiume, il giovane prete reso pazzo dal desiderio, lo scemo del villaggio. Nessuno sa eppure tutti sanno, a partire dalla ghiandaia, dalla nebbia e dal fiume che come Cassandre mai tenute in conto non si fan scrupolo a raccontare – nel loro incomprensibile linguaggio – la verità di un luogo maledetto.

“La carne è una casa, o un attrezzo. / È un rastrello, un badile, la venatura di un legno. / È una cucina, un pollaio, un cassetto, un raggio chiaro che scalda una finestra, oppure povere e inchiostro sbavato, lettere nascoste e ragnatele, qualcosa che scricchiola e non si sa dove.”

Si dice che Luca Ragagnin, scrittore di grande esperienza, con queste pagine abbia fatto il miracolo di una narrazione dal bilanciamento perfetto: nello stile – che unisce la prosa, essenziale nel romanzo, di tradizione novecentesca ma libera da retorica o autocompiacimento, alla frammentazione poetica della riflessione individuale – e nel contenuto, ancorato stretto alla trama che però, nel suo girarsi tra gli attori protagonisti, non manca di toccare una ricostruzione storica di fatto necessaria ma mai invadente né stereotipata.

“Un consesso di malati con i demoni nascosti sottopelle, disposti in semcerchio per potersi guardare tutti negli occhi e legarsi con l’incrocio degli sguardi a una fitta rete di salvatggio, ecco a cosa assomigliavano ora. (…) Erano ombre malvestite, in via di disfacimento, e diventavano, con il sole ormai issato nel vuoto, impietoso nella messa a fuoco del turbamento, esseri capovolti: l’umanità avuta in dote si rovesciava nelle viscere e il demone personale si arrampicava fuori dal buio, distendendosi sui lineamenti.”

In “Pontescuro” ho trovato quello che cercavo. Lo scrivere dei nostri luoghi maledetti, quelli della provincia, con i suoi panorami come “un ventaglio aperto, ma le sensazioni opprimenti” che fanno parte della mia infanzia; quel Nature writing libero dall’idillio perché, come scrive Andrea Morstabilini in “Aldilà” (di cui spero di raccontarvi presto), nessun manufatto, in pianura, può esser raccontato sciolto dalla terra a cui appartiene. E, infine, il diavolo. Sì, proprio lui, di cui la pianura è regno incontrastato. La struttura di “Pontescuro” infila le radici nella terra grassa della tragedia greca, di porte che s’aprono sul proscenio, monologhi, il coro del popolo che di voci ne ha mille e una sola. Ciascuno racconta la propria verità, nel mistero di una terra dimenticata dal mondo, luogo infernale oltre il conosciuto, fuga dal quale significa morte certa. La pianura, così com’era il palcoscenico della tragedia, è liminare ed è il regno in cui l’uomo e il demoniaco s’incontrano: in pianura, come nulla può esser raccontato sciolto dalla terra così nulla può esistere senza far riferimento allo spirito del sacro – in “Aldilà” di antiche divinità pagane d’inferi e misteri che è d’uopo non andare a sfruculiare, in “Pontescuro” di diavoli imprigionati fra umide canoniche e patti scellerati tra uomini e demoni di fiume.

Sul Twitter mi chiedevo come farò, a venire a capo di queste pagine, piene di haiku e minuscole rivelazioni, e del mio viaggio nella pianura: non so ancora. Forse per adesso sarà sufficiente far fluire le parole di altri, continuare a cercare.

“Ma queste terre, lasciatelo raccontare a una che le ha sempre occupate dell’alto, sono come dei sogni mescolati, che quando apri gli occhi non sai più se sentirti impaurito e minacciato da forze invisibili oppure padrone incontrastato della tua vita e del tuo destino.”

“Il figlio delle sorelle”, di Leonardo G. Luccone

“Nella testa hai solo sbucciature. Nella testa hai solo trucidature. Nella testa hai solo mancature. Solo troncature. Smangiucchiature, tramature, stancature, sbavature, sporcature, strozzature, smerigliature, annaspature, sgommature, abbandonature. Abbandonature.”

“Il figlio delle sorelle” sfregia in faccia, amabilmente e si spera con cicatrice duratura, il modo falso onnisciente di svolgere il romanzo familiare. Se i ricordi sono per definizione lacunosi, imperfetti, modificati e modificabili e se altrettanto evidentemente il romanzo familiare racconta il ricordo, allora va da sé che l’unico modo per avvicinarsi alla materia della famiglia in maniera verosimile, onesta e coerente sia farla raccontare da un pazzo.

Il matto in questione è proprio il protagonista senza nome di questo romanzo breve a firma Leonardo G. Luccone (il secondo dopo “La casa mangia le parole“): un uomo comune, personaggio senza particolari pregi o difetti, che la moglie Rachele – con cui condivide una vita tranquilla e il mestiere nel negozio di proprietà – spinge a una paternità tardiva. Il figlio tuttavia non vuol palesarsi e la ricerca, dalle diete alle pratiche del santone, dal sesso calendarizzato fino alla procreazione assistita, è così tortuosa che l’arrivo di questo bambino (che poi è una bimba, Sabrina) destabilizza il protagonista sino a farlo ammalare. In realtà, come sappiamo e come sa bene anche Luccone, il disturbo psichiatrico, quello vero, qui raccontato finalmente libero cioè senza patetismi né tentativi di celebrazione dello straordinario, ha origine ben anteriore all’evento materiale che spesso lo scatena.

“Cammina gattoni sul prato sparito, sul verde striato di scie biasimate. Tu della coppia solitaria gattoni sul prato di lenzuola rimbalzato, sul prato rimboccato e candeggiato, il prato della coppia solitaria, il prato inanimato della coppia amidata, il prato soggiogato, il prato paralizzato per la coppia imbambolata, la coppia baciata dalla cicogna sparata, la coppia legata nel prato pregato per la coppia mutata, il prato scavato per la coppia strozzata, mutilata, rintanata, la coppia gattonata, sul prato spugnato la coppia mutilata rintanata gattona sul prato imbellettato.”

Tant’è che il tema della diagnosi nemmeno ci deve interessare: sappiamo solo che il protagonista senza nome sente voci ed è vittima di ossessioni e paranoie sempre più invalidanti. A un certo punto si ricovera addirittura in una clinica psichiatrica e di lui la piccola Sabrina perde le tracce, salvo poi ritrovarle molti anni più tardi, all’avvento della maggiore età e del tutto casualmente, per una serie di algoritmiche amicizie su Facebook che le fanno incontrare Carlotta, figlia della nuova compagna del padre. Di nascosto da Rachele, Sabrina si mette in contatto con il papà nella speranza di riannodare i fili, recuperare la storia della famiglia, ottenere risposte alle molte domande che la assillano da quando era bambina: perché mamma e sorella si fingevano gemelle? E perché questa cara zia, così presente nell’infanzia di Sabrina, a un certo punto viene allontanata dalla casa di famiglia? Perché Rachele ha sempre zittito con sdegno la figlia quando domandava dettagli sul suo concepimento e come mai dei nove mesi di gravidanza non esistono fotografie? Come si vede, di ombre sulla nascita di Sabrina ve ne sono effettivamente parecchie: ombre che il racconto del padre, con le sue ossessioni complottiste, non sarà d’aiuto a dissipare (saranno poi solo i vaneggiamenti di una persona instabile o c’è dell’altro, derubricato dall’inganno di una sorellanza disturbata?).

“Anch’io ho le mie colpe, perché pretendo di diluire il passato. Non lo faccio perché spero di migliorare il presente. Voglio sfumare qualche pezzo, voglio che gli altri mi dicano che l’hanno sempre vista dall’angolatura sbagliata.”

Il punto del romanzo di Luccone non è l’analisi della malattia mentale, che nella sua precisa e scientifica dimostrazione risulta in realtà il pretesto-contenitore per parlare ancora una volta (come era stato per “La casa mangia le parole” ma da un’ottica diversa) di famiglia tradizionale, del suo disfacimento e dei problemi legati alla figura genitoriale contemporanea. In specie paterna quando, per cause esterne e interne, essa dismette l’abito di pater familias senza aver ancora pienamente recuperato una bella cesta di vestiti nuovi e finisce per restare nuda (e figlia), come l’imperatore della favola. Non sfuggirà il dettaglio del protagonista quale unico maschio all’interno di un gineceo (Rachele, Sabrina, Silvia sorella di Rachele, la compagna Gilda, Carlotta, Rebecca sorella di Gilda, Corinna figlia di Silvia) che ribalta la prospettiva patriarcale mainstream consegnando al lettore un racconto familiare di sostanziale agentività femminile, all’interno del quale però ciascun membro conserva responsabilità individuali e proprie, coerenti ragioni. A dimostrazione di ciò, Luccone adotta tecniche di narrazione mista: il punto di vista si mescola in un continuo gioco di specchi, perché un medesimo episodio viene ricordato e raccontato da mani diverse ciascuna delle quali ritrova un dettaglio, una parte, un luccichio, un’ombra – nell’inevitabile impossibilità di poter recuperare un tutt’uno organico. D’altra parte, si diceva, raccontare di famiglia significa spolverare cimeli e spesso anche appropriarsi di impressioni: quasi mai un ricordo è frutto di un’operazione oggettiva e condivisa.

“«Perché non sei mai venuto a prendermi se lo sapevi?» «Così è difficile, Sabrina». «Oggi dobbiamo fare un bel passo in avanti, l’abbiamo detto». «Questa cosa possiamo riprenderla la prossima volta?» «Va bene». «…» «Che sei diventato papà, lo senti?» «…» «Che ci sono io, ora lo senti un po’ più di prima?» «Sì». «Però voglio sapere cosa sentivi prima». «Non lo so». «Come non lo sai, papà? Uno lo sa se è padre. Lo sa, no?» «…» «Lo sa?»”

Lo strumento scelto dall’autore per approfondire il dipanarsi di questo nuovo riconoscersi tra padre e figlia è il dialogo, messo in scena alla maniera teatrale: senza orpelli e abborracciato all’apparenza, è frutto degli incontri clandestini tra il protagonista e Sabrina che costruisce all’interno dell’abitacolo dell’automobile una sorta di stanza delle parole in cui il padre cercherà di rispondere alle tante domande che gli rivolgerà la figlia ritrovata: domande il cui scopo non sarà tanto quello di far luce sul passato familiare (bravo chi ce la fa – ma è questione che niente vien via semplice come vogliono farci credere i romanzoni, suvvia) quanto di mettere a fuoco, paradossalmente, l’inutilità del linguaggio in certi momenti di relazione.

Sono pagine sfidanti, perché se da una parte spingono alla sospensione dell’incredulità di fronte a una trama del tutto verosimile, dall’altra orientano il lettore verso il dubbio, perché è sempre rischioso dar credito al matto del paese. D’altro canto la tensione narrativa spinge a una risoluzione (ecco il danno del romanzo familiare tradizionale, sembra suggerire Luccone: vuole il chiarimento, la spiegazione, il consolatorio ricucirsi dei fatti) che non può prescindere dall’interlocuzione con i diretti interessati. La malattia mentale, questo è il fatto, è esemplare – non di un significato ma proprio della nostra impossibilità a recuperarlo, narratori o protagonisti poco importa. Non possiede afflato divino né capacità di comprensione privilegiata e per una volta è trattata per ciò che è: non una a-normalità un poco bizzarra ma tutto sommato interessante e romantica ma un demone che distrugge mondi, avvelena relazioni, sconcerta, indispone, allontana. Ciò non significa che il matto non sia capace di sentimento o di acuta osservazione: tuttavia, all’interno di una percezione distorta, e non saprà mai fino a che punto tale, in un non-luogo di spazi e tempi che non appartengono al ritmo comune, il matto risulterà sempre scarto, fastidio e irraggiungibile.

Questa decostruzione dei fatti a cui segue poi la loro re-interpretazione, d’altra parte, è anche una delle tracce fondative del mito, a cui l’autore per propria ammissione attinge sia nell’impianto narrativo sia nella struttura formale: la seconda parte del testo, “La discesa”, è interamente costruita sulla mitologia di Persefone dominatrice mentre i brani di delirio che racchiudono le voci, dalle quali il protagonista è ossessionato, per ritmo e virtuosismi linguistici ricordano l’entrata in scena del coro tragico – a cui, guarda il caso, almeno sino all’età della tragedia greca classica il tragediografo affidava le proprie riflessioni morali e finanche lo status di …personaggio.

“Dove si torna quando non c’è più né infanzia né casa, quando non ci sono più le persone? Abbiamo bisogno d un posto dove concentrare qualcosa. Per me il presente è solo il passato in prima approssimazione. Il tempo si ripiega dentro di me, mentre le onde della sofferenza i sparpagliano indisturbate, la memoria avvelenata agogna un passato di comodo.”

Nota: interessante il tema del Doppelgänger suggerito già dalla foto di copertina, scatto di Anka Zhuravleva.

“Le perfezioni”, di Vincenzo Latronico

“Tutti volevano una pagina, un logo, una veste grafica. Tutti volevano un po’ di bellezza, intesa come una posizione unica in un sistema di differenze.”

“Il gioco di prestigio della gentrificazione è proprio questo: il racconto globale, generico e scintillante, è reso possibile dall’occultamento di una storia locale specifica e priva di valore aggiunto. Una storia viene sostituita da una narrazione il cui contenuto informativo è nullo. Il sapere si perde, un sapere che di per sé è ovviamente inutile ma la cui testimonianza serve, se non altro, a mostrare la vacuità di ciò che l’ha rimpiazzato.”* (*V. Latronico, “La rivoluzione è in pausa”, – I Quanti Einaudi, serie Città, 2022)

Giorni nostri – anno più, anno meno. Anna e Tom, trentenni in coppia di vita intima e attività professionale (si definiscono “creativi“), sono riusciti a trasformare la loro passione per il codice in un mestiere ben retribuito – e decidono di trasferirsi a Berlino. Da diverso tempo, questo è un fatto, la capitale tedesca è frizzante espressione di comunità cosmopolite: incubatore di tendenze all’avanguardia che, come specifica la voce narrante, rappresentano la via di fuga da una “città grande ma periferica nel sud dell’Europa”, libere dal gusto “provinciale e stantio” che invece pervade la provincia dell’impero, scardinate dai legami di “conformismo” e “aspettative” tra “persone tutte identiche”.

Cosa mai potrà andare storto nella vita di Anna e Tom? In realtà nulla; come nulla, d’altra parte, finirà per andare proprio dritto.

“Si sentivano decadenti e invidiabili, vivi.”

“Le perfezioni”, romanzo breve che segna il ritorno di Vincenzo Latronico alla narrativa, è un carosello dell’Instagram: in palette di sfumature petrolio e miele fotografa quel modo di esserci, quello stare all’interno di un “movimento tendenziale” che – racconta l’autore – “assume[va] le fattezze antropomorfe di una mitologia”. La voce fuori campo recupera scintille di vita (Anna e Tom a un rave, Anna e Tom in un club per scambisti, Anna e Tom chiusi in casa per mesi, fra tisane al gelsomino equosolidale, caffè monorigine e plaid di lana pregiata, per terminare una commessa di rebranding) e appartiene a un narratore esterno privo di onniscienza che pare sovrapporsi al ritratto di un noi stessi fruitori del social quando, con una serie più o meno distratta di rapidi scroll, ci introduciamo nella vita di qualcun altro, nella realtà che qualcuno vuole mostrarci.

“La meticolosa composizione di quella mitologia aveva occupato Anna e Tom per tutto il loro primo anno a Berlino, perlomeno nel tempo in cui non stavano organizzando uno dei loro traslochi. Non era una mitologia personale; anzi il suo valore risiedeva precisamente nella sua universalità. Era condivisa da tutti gli spagnoli e francesi e italiani e americani che incontravano; era glossata in un’infinità di articoli di costume e documentari, e replicata nelle immagini che scorrevano sulle timeline di Facebook e sui feed di Instagram di una generazione intera. Era il sigillo del loro ingresso in una comunità cementata da una realtà condivisa, che è quasi come dire una realtà”.

Anna e Tom non sono due soggettività specifiche da romanzo di formazione, non sono una coppia sull’orlo della crisi di nervi di cui “Le perferzioni” si impegna a scandagliare il rapporto; pare buffo ma di Anna e Tom non conosciamo né l’età esatta, né la fisicità – e nemmeno le voci: Tom ha la barba, è secco o in sovrappeso? Anna ha i capelli lunghi? E come parla, Anna? È lieve, impacciata, timida, sbruffona, consapevole? Non lo sapremo mai. Di Anna e Tom nelle pagine di “Le perfezioni” non troveremo un dialogo, un be’, un respiro. Niente. D’altra parte, Instagram ci insegna quanto il linguaggio verbale sia sopravvalutato: la fotografia parla per sé, poi al limite ci sta una caption, ma breve e arguta. A pensarci però, se ci prendiamo la briga di allargare lo sguardo a tutto il feed partendo dai primi, goffi scatti di cui spesso ormai ci si vergogna (ma guai a cancellarli, guai ad alterare la griglia) ecco che la fotografia comincia a svelarsi: una piccola incrinatura della porcellana, il reticolo delle crepe nell’olio del dipinto. La voce narrante allora si fa occhio sottile, armato di pollice e indice aperti nello zoom a osservare le fessure minuscole: una timeline inalterata, vecchia di alcuni giorni, un’imprecisione nello scatto (fuoco al disimpegno della cucina: buste della spesa e fazzoletti di carta sparsi sul ripiano; un tramonto che si vorrebbe glorioso e invece – nemmeno il filtro è riuscito a smussarne i bordi – la vacanza traspira un impietoso grigio plumbeo di fine stagione; un viso smunto, le occhiaie), una disintossicazione da social al sapore di giornate indegne di memoria.

Perché questo atto, il punto di svolta in cui l’esistenza diventa esperienza e la realtà si sovrappone all’immagine – il momento nascosto tra l’adagiarsi su una seduta di design svedese e il cappuccino consumato proprio in quel bar – per Latronico possiede un titolo preciso: è il “sigillo” che definisce l’appartenenza a una “struttura di relazioni”. E questa impronta è uno dei tratti distintivi di quel “crimine di cui solo i colpevoli conoscono il nome“*: la gentrificazione.

“Le perfezioni” è questo: la declinazione poetica di una struttura teorica ben fondata, di cui Latronico si occupa da anni e che consiste nell’analisi dei fenomeni di gentrificazione ossia di quel processo di “riqualificazione e rinnovamento di zone o quartieri cittadini, con conseguente aumento del prezzo degli affitti e degli immobili e migrazione degli abitanti originari verso altre zone urbane”*. Così si esprime Treccani nel definirla (la si recupera da Latronico stesso, che cita Treccani nel saggio “La rivoluzione è in pausa” appena uscito per i Quanti di Einaudi) a cui tuttavia l’autore oppone un altro punto di vista: quello dell’attivista Camilla Pin che all’epoca della riqualificazione dell’Isola, storico quartiere operaio di Milano Nord, la definì come “il processo di investimento e acquisizione a scopo speculativo, da parte di soggetti pubblici e privati, di aree immediatamente circostanti a zone altamente redditizie, con lo scopo di smantellare l’esistente per ricostruire, seguendo standard edilizi che alterano inevitabilmente il contesto urbano.”*

La vita berlinese di Anna e Tom, difatti, è un racconto globale per il semplice fatto che qualsiasi loro esperienza, anche la più elitaria e rarefatta (e vale la pena ricordare la varietà del significato: esperienza è una nottata nel club per scambisti o un tour ai resti del muro ma è anche il possesso – un pezzo di arredamento recuperato dal rigattiere, le cuffie antirumore ultimo modello) risulta già replicata, da altri prima di Anna e Tom, da altri come Anna e Tom e – orrore – anche replicabile, in altra declinazione, da chi arriverà a prendere il loro posto. Che poi Anna e Tom di questo paradosso ne percepiscano l’esistenza è tutto da dimostrare, dato che una delle storture proprie della gentrificazione è appunto la consapevolezza del progetto, che è posseduta solo da chi produce gentrificazione e non da chi ne usufruisce – o almeno non fino in fondo.

“La gentrificazione di cui erano consapevoli era qualcosa che facevano gli altri”.

Ovviamente poi qualcosa accade, tra le pagine di “Le perfezioni”. Si tratta di scarti minimi, eventi che presi singolarmente vengono derubricati a piccoli fastidi, inciampi sgradevoli ma tutto sommato prevedibili: una coppia di amici torna in patria dopo la nascita del figlio – la gestione del quale in Germania è troppo onerosa e complicata per chi non è ben attrezzato con lingua e burocrazia (lingua e burocrazia con cui Anna, Tom e molti altri si erano imposti di non interagire, questione di gran vanto), un cliente disdice il contratto perché l’affitto dell’immobile ha sforato il limite di tollerabilità, la galleria d’arte autogestita nel centro commerciale diroccato è stata sgomberata per far spazio ad appartamenti di lusso; al posto di quella elegante e alternativa torrefazione artigianale (che sorgeva sulle rovine di un antico bar al confine tra l’Est e l’Ovest – ma chi lo sapeva? Non certo Anna e neppure Tom, che di quel che era nel prima non si è mai più di tanto occupato) ora c’è un negozio di articoli tecnici, che del bar ha maliziosamente conservato l’insegna. Di fronte a queste minuterie, però, il feed si incrina in un loop di già visti: le commesse calano, ad Anna e Tom vengono preferiti inglesi madrelingua o, più spesso, tedeschi iper-specializzati dal cachet stellare; la cerchia di conoscenze – tutte piuttosto superficiali, va detto – si restringe: c’è chi si sposta in provincia o parte per la Spagna o semplicemente sparisce dalla timeline; i costi dell’appartamento crescono mentre le occasioni sociali diminuiscono, perché le entrate mensili sono appena sufficienti per pagare le spese.

In realtà, alla definizione di Camilla Pin di cui sopra ho omesso un ultimo pezzo, che recupero qui ora: “[La gentrificazione è] la trasformazione di un quartiere non solo a livello sociale ma identitario e culturale.”* Ad Anna e Tom non sta succedendo nulla di diverso da ciò che era capitato agli abitanti della loro zona nel momento in cui cominciò quel processo di “omogeneizzazione” che, fa notare Latronico, è anche un “processo di ottimizzazione, cioè di appiattimento verso l’alto”. Se da una parte infatti la gentrificazione porta con sé un discorso complesso sull’abitabilità di quartieri all’interno dei quali i residenti storici, spesso di bassa estrazione, non possono più permettersi di vivere né riescono più a trovare ciò di cui hanno bisogno, dall’altra essa ha come risultato una “perdita dell’unicità” a favore di un “processo di disincanto”. E cosa accadrà ad Anna e Tom, quando si renderanno conto di non essere più così speciali? Ma poi, speciali, lo erano mai stati?

Il libro è scomodo, infastidisce, spinge allo sguardo interiore: perché sfruculiando le vite di Anna e Tom ci sentiamo irritati e invidiosi; siamo vecchi boomer di passaggio, siamo fratelli di poco maggiori, un tantino più saggi a brontolare quel “te lo avevo detto” che trasuda rammarico o acidume a seconda dei casi; siamo il cugino piccolo, gli occhi sgranati a dire “dai, racconta ancora quel che facevi là”. La parte finale è spiazzante perché coinvolge il deus ex machina più aborrito di tutti: la famiglia di origine. Conviene leggerlo, quindi.

“Nina sull’argine”, di Veronica Galletta

“O forse è se stessa che non tollera, il ruolo che adesso si ritrova a interpretare, che la tiene così lontana da tante cose in cui ha sempre creduto, che la costringe a osservare tutte le sfaccettature di una questione, alla ricerca di una impossibile sintesi, in cui tutti sono liberi, tranne lei.”

Caterina Formica è ingegnere, specializzata in idraulica fluviale e dipendente di un ente pubblico. Finalmente, dopo mesi di anticamera, attese e demansionamenti, ottiene il primo contratto importante: si occuperà della costruzione dell’argine di Spina, piccola frazione di Fulchré, nella pianura padana. Equità, merito e competenza tuttavia c’entrano poco: l’argine di Spina, banalmente, è parte di quel mazzo di commesse riassegnate d’ufficio ai pochi professionisti rimasti estranei al processo per tangenti che ha visto coinvolti diversi colleghi di Caterina, dirigente incluso.

Il mondo in cui Caterina si muove è quello dell’edilizia e dei cantieri: luoghi prettamente maschili, sovente assoggettati a meccanismi di tipo clientelare, all’interno dei quali le relazioni spesso obbediscono a rigidi criteri di norme non scritte e l’ingegnere, sulle carte progettuali responsabile del processo decisionale, si trova di fatto a scontrarsi e dipendere da impedimenti di ogni tipo. Dalla gestione della manodopera in subappalto irregolare alla resistenza passiva del comitato ambientalista, dalle maldicenze dei colleghi invidiosi alle lungaggini e omissioni, casuali o volute, di quel pachiderma iperparcellizzato che è la pubblica amministrazione, ecco che le giornate in cantiere, già complicate per via del carattere stesso del mestiere, diventano una serie infinita di ore alienate e alienanti – sotto il sole impietoso dell’agosto in pianura, nel tormento delle punture d’insetto, coi piedi gelati a mollo nella neve e il vento dicembrino che sferza le orecchie.

“Costruire un argine è una cosa complessa. Bisogna calibrare bene la quantità di terra fin dall’inizio, evitare le corde molli, prevenire i dilavamenti. Perché se si forma una breccia, puoi anche riparare, ma qualcosa rimane. Perché non basta ridipingere la casa e spostare tutti i mobili. Chiudere le fotografie di prima in un cassetto. Anche con la casa tinta e bianca come la sua vita adesso. Pulita, ordinata, lineare. Una traccia rimane. L’argine lo sa. La memoria rimane.”

“Nina sull’argine”, insomma, si inserisce perfettamente all’interno della tradizione italiana della narrativa industriale, della quale riprende in forma convenzionale ma anche nuova tutti gli argomenti. Ci si accomoda proprio, in quel solco che, segnato dai “Tre operai” di Bernari (1934) e passando da Ottieri, Bianciardi, Volponi ma anche Calvino o Sereni e infine Rea (che nel 2002 con “La dismissione” definisce il confine ultimo del genere), arriva fino a Pennacchi, Avallone, Prunetti, Raspi e tanti altri, e che per tutto il nostro Novecento e oltre ha reso testimonianza e trasfigurato in forma letteraria il mondo della fabbrica sia in chiave critica denunciando le contraddizioni, i limiti e la psicopatia del capitalismo industriale, sia interpretando l’officina industriale come uno strumento di autodeterminazione, emancipazione sociale e lotta di classe.

“È un uomo di mezz’età, una caratteristica comune per lo Stato, che fa un concorso ogni quindici anni, e che considera lei sempre giovane. Rappresenta quella parte della macchina che vive di vita propria, con un’inerzia tenace e proterva. Caterina vive sempre questo doppio sentimento. Da una parte la voglia di mettersi di traverso, in un mondo in cui non sa mai bene come collocarsi. Poco esperta, eccessivamente qualificata, ha studiato troppo, e le cose sbagliate. Dall’altra la voglia di ritirarsi, di nascondersi. Come se ci fossero sempre due Caterina. Una parla e l’altra la prega di stare zitta. Chiude gli occhi, li riapre. SI sente soffocare dentro i cattivi pensieri.”

Gli argomenti che Veronica Galletta affronta con “Nina sull’argine” si possono raccogliere in tre macro aree: il topos del cantiere, l’alienazione individuale e la denuncia sociale.

Nel primo gruppo rientrano le riflessioni sul tema della professionalità. La strenua e orgogliosa difesa del proprio saper fare un mestiere – non scevra comunque da un’autocritica invasiva, ma lo vedremo più avanti – passa in primis dall’uso di un linguaggio tecnico strettissimo (“casseforme, pile, casseri, compattare, piana, cordone morenico, rilevato in sponda sinistra, alveo, golena, linea di sponda…”) che se nelle prime pagine spinge il lettore a una certa, voluta irritazione, successivamente diviene limpido nello scopo che si prefigge, ossia la rivendicazione di un ruolo e di una autorevolezza che sgombra il campo dalla tuttologia e dalla discussione da social (ben rappresentata dal bar del paese, croce e delizia di Caterina tra Luisone di Benniana memoria, i “non sono architetto ma…” dei pensionati brontoloni e le più assurde fake news complottiste) per restituire a qualsiasi professione ben imparata e ben esercitata la qualifica di “fatto a regola d’arte“. Di contro, è anche rappresentato l’elemento della perdita di questo ben fare soppiantato da figure professionali inadeguate per causa di ritmi d’usurante precariato all’interno del quale, peraltro, il mancato scambio generazionale preclude la formazione sul campo. I sentimenti di malinconia e di rincrescimento (per l’Antonio, abile operaio anziano costretto al più umile dei demansionamenti per non aver tradito un collega, o per il Mario, il gruista svitato senza il quale il geometra Bertini no, le travi di acciaio appena arrivate col trasporto eccezionale non si sogna di farle posizionare) si fanno quindi anello di congiunzione tra primo e terzo gruppo di argomenti, il più ancorato al nucleo della narrativa industriale: quello della denuncia sociale. Critica che per Galletta si esplica prima di tutto – e sta qui il vero rinnovamento – nella racconto della condizione femminile all’interno del macrocosmo dell’edilizia, spazio chiuso e autoreferenziato in cui le professioniste vengono guardate con malcelato sospetto, sono vittime di battute più o meno volgari o sessiste, sistematicamente diffamate e lasciate in disparte tramite i giochetti più subdoli. Spezzano l’esperienza in cantiere i bei capitoli sulla vita in ufficio che danno spazio anche ad altre sfaccettature tematiche tra cui la stagnazione politica (quella sì, fatta a regola d’arte!), l’organizzazione interna che punta a una sostanziale microvivisezione delle competenze con il dichiarato scopo di rendere nullo qualsiasi processo di attribuzione delle responsabilità individuali, la necessità del compromesso nell’impossibilità di corrispondenza tra i propri ideali e la pratica del quotidiano. Non mancano, specie nei capitoli finali, le riflessioni sul welfare e sulla condizione dei lavoratori irregolari sottomessi alle dinamiche del caporalato.

Il punto che fa di “Nina sull’argine” un compiuto romanzo industriale è il terzo gruppo di argomenti, al quale afferisce la vita privata e interiore della protagonista. Caterina è siciliana, straniera in terra lombarda di paesotti e pettegolezzi che fatica a comprendere ma con cui deve per forza interagire. Sta con Pietro ma la lunga relazione è agli sgoccioli, i genitori sono lontani, di amiche c’è notizia vaga: è il cantiere – che brucia ore, giorni, mesi e anni, che mastica ogni minuto libero, che invade persino i sogni, che fa ammalare, e che sì, a volte uccide. La stanchezza di Caterina (le ore di solitudine in automobile, ferma all’autogrill per l’ennesimo caffè, il ritorno in un appartamento vuoto e freddo, la vita sociale limitata dagli orari durissimi e dalle distanze), l’ansia da prestazione, il timore di fare male – che non può essere condiviso – è di contrappunto a chi davvero in officina ci ha lasciato la vita, tanto che “il morto in cantiere” è proprio l’ombra ricorrente di Caterina (che quando squilla il telefono sempre teme la notifica una disgrazia), o a chi per colpa del cantiere s’è alienato a tal punto da cadere nelle dipendenze o a chi, per seguire il cantiere, ha trascurato la famiglia fino al divorzio.

“Nella polvere del pomeriggio Caterina si incammina verso il fiume per dare un’ultima occhiata alla protezione antierosione. Sono le cinque oramai, e il cado impastato di polvere rende l’aria incerta. Poco distante si intravede il luccichio del fiume che scorre verso valle.”

Eppure il cantiere rappresenta anche, nell’eredità di Calvino, il luogo della rinascita personale. Attraverso l’esperienza sul campo, l’interazione con colleghi e maestranze nella quotidianità di un lavoro di squadra che non ha nulla a che vedere con l’asettico team di un paradigma importato ma ha molto a che spartire con l’idea del conoscere e del condividere, attraverso l’autocritica personale e la capacità di stringere un rapporto intimo ma rispettoso con l’ambiente naturale [nota: che assume in certi punti il carattere di uno spiccato new nature writing che disgrega e poi ricostruisce il panorama della letteratura industriale classica in cui si alternavano impostazioni fortemente neorealistiche e posizioni dicotomiche fabbrica/natura], Caterina in qualche modo recupererà gli argini, non solo del fiume ma anche i propri, ri-definendosi e regalandosi spazi aperti ma anche confini. Perché

“I fiumi sono sempre liberi, pensa Caterina. Basta osservarne le sovrapposizioni del tracciato nei secoli, ed ecco che emergono le costrizioni, gli avanzamenti dell’uomo, le zone in cui il fiume si è allargato di nuovo a forza, piena dopo piena, in un mescolio di colori molto eloquente, per chi ha la pazienza di decifrarlo.”

“Nina sull’argine” è uno di quei libri che sarà bello rileggere, a distanza di tempo e a dispetto del tempo, perché invecchierà bene. Per recuperare i dettagli, cercarne di nuovi – quelle piccole dimenticanze figlie di una lettura vorace che non può abbandonare l’urgenza e la fretta di sapere – ritrovare le ombre.

“Non è facile accettare il cambiamento. Non è semplice accettare che il paesaggio intorno si trasformi (…). Più del cambiamento fa male l’annuncio del cambiamento, il suo diluirsi nel tempo, l’incertezza del procrastinare. Certi errori si fanno una volta, poi si impara.”

La lettura di “Nina sull’argine” è stato un caso fortuito e tale deve rimanere. Qui la storia di come sono arrivata in possesso di queste pagine e qui di come queste pagine, arrivate in sorte, per sorte continueranno a girare.

“La fiaba nucleare dell’uomo bambino”, di Hamid Ismailov (trad. Nadia Cicognini)

“Šaken discuteva spesso con nonno Daulet della Terza guerra mondiale, a cui si preparava con grande zelo nel suo posto di sorveglianza. Forse fu a causa di quell’ultima visione della città morta, che Eržan, da allora, cominciò a sognare la Terza guerra mondiale. Di solito il sogno cominciava da una cielo azzurro e sereno in cui si materializzavano all’improvviso dei piccoli aeroplani che attaccavano un cacciabombardiere americano, mentre le stelle si disperdevano rapidamente nel cielo notturno. Questi sogni si concludevano spesso con l’immagine di una cielo plumbeo, il boato di un’esplosione, seguito dai lamenti del bestiame che si levavano dal suolo, e un improvviso bagliore che si accendeva nell’aria mentre un gigantesco fungo velenoso si stagliava sopra la terra come un jinn.”

Il treno attraversa l’immensità della steppa kazaka. A ogni fermata, le carrozze vengono circondate dai venditori: di lana di cammello, bevande, pesce secco. Sono passati quattro giorni dalla partenza quando, appena lasciata l’ennesima, minuscola stazione, lo scompartimento viene invaso da una musica divina: un ragazzino poco più che dodicenne impugna il violino e con gran talento attacca non le solite melodie della tradizione locale ma le Danze ungheresi di Brahms. Rapiti sono i passeggeri, che aprono le porte delle cuccette e si riversano in corridoio, rapito è il narratore di questa storia, che si avvicina al ragazzino e lo incalza sull’origine di quella vocazione maestosa. Inizia così il racconto della storia di Eržan il Wunderkinder, “Вундеркинд Ержан” – il bambino delle meraviglie. Il bambino che non cresce. Sì perché Eržan, passaporto alla mano e aria da scugnizzo spazientito, fa ben notare che lui di anni ne ha ventisette, non dodici, malgrado le fattezze infantili.

Durante la Guerra Fredda l’Unione Sovietica prese a incrementare la costruzione degli ZATO, complessi abitativo-industriali chiusi, sovente nemmeno segnalati sulle mappe, che venivano utilizzati in specie per scopi militari. Si parla di una quarantina di località, per un totale di più di un milione di abitanti, di cui diverse ancora attive. Semipalatinks-21, nell’attuale Kazakistan, era uno di questi insediamenti; si trattava di un poligono di circa 20mila chilometri quadrati costruito dai prigionieri dei gulag, all’interno del quale dal 1949 al 1989 furono effettuati qualcosa come 459 test nucleari tramite esplosioni in atmosfera e al suolo. Benché la steppa circostante fosse territorio non urbanizzato, si stima che almeno duecentomila persone, per lo più gli ignari abitanti degli agglomerati rurali sparsi lungo le direttrici principali e la ferrovia, furono vittime del fallout nucleare. Il piccolo Eržan è parte di questa ruralità semicontadina: abita ai bordi della ferrovia, all’interno di un casello che conta due casupole: la sua – quella in cui vive col nonno Daulet, addetto al movimento degli scambi, la nonna Ulbarsyn, la mamma Kanysat e lo zio Kepek – e quella dell’anziana Šolpan con il figlio Šaken, impiegato presso il poligono e forte sostenitore del dovere categorico “di metter[si] al passo con gli americani, e perfino sorpassarli”, la nuora cittadina Bajčiček e la figlioletta Ajsulu, cui Eržan in tenera età ha mordicchiato un orecchio, decidendo così di farla sua sposa.

“La fiaba nucleare dell’uomo bambino” è il racconto dell’infanzia di Eržan, tra la nuova urbanizzazione stanziale e un nomadismo ancora radicato nelle abitudini familiari (quell’istinto al viaggio e alla scoperta che tanta parte avrà nelle vicende del ragazzo), tra le melodie della donga, suonata dal nonno nelle lunghe notti invernali, e lo swing dell’Elvis Rosso che esce dalla televisione portata a casa dall’indottrinato Šaken, tra la medicina moderna che Ajsulu vuole studiare da grande e le credenze sciamaniche della vecchia del villaggio, che scudiscia le gambe gonfie della nonna brandendo cosci di montone appena sgozzato. È Il racconto, privo di rimpianto, di un mondo rustico in cui la libertà degli spazi aperti si paga con povertà di risorse e malattie, con l’isolamento sociale e politico, con l’analfabetismo, le botte in famiglia, l’alcolismo, lo stupro. Ed è anche un romanzo di profonda rivoluzione strutturale.

“Nella sua storia non c’era spazio per l’amara nostalgia dei ricordi di cui solitamente si è preda sui vecchi treni, dove il fumo acre, che soffia dalla locomotiva, invade anche gli ultimi vagoni.”

Hamid Ismailov (1954), traduttore e mediatore culturale, è cresciuto in Uzbekistan, terra che appena adulto dovette abbandonare per via delle persecuzioni del regime. Giornalista alla BBC per più di vent’anni, è autore prolifico sia in russo sia in uzbeko; si occupa anche della traduzione in inglese dei testi della letteratura uzbeka e studia da anni il rapporto che intercorre tra musica e poesia popolare. Le sue opere sono bandite in patria.

“Tengri mandò sulla terra Gesar in regno della steppa senza alcun sovrano. (…) Per non correre il rischio di essere riconosciuto, Gesar giunse sulla terra sotto le sembianze di un orribile piccolo moccioso come te! (…). Solo Kara-Coton, che era suo zio, come Kepek lo è per te, aveva intuito che Gesar non era un bambino come tutti gli altri, che aveva un’origine divina, e allora cominciò a perseguitare il nipote con l’intenzione di ucciderlo prima che diventasse grande.”

Il verso formulare costituisce “la cellula elementare della dizione omerica”, scriveva Dario Del Corno. Già nel 1928 Milman Parry in una campagna di rilevamenti in Iugoslavia “accertò che i cantori popolari serbo-croati sono tuttora in grado di improvvisare canti eroici (…) ricorrendo a un patrimonio formulare tramandato mnemonicamente“. In sostanza l’aedo omerico, “attingendo a un materiale precostituito da una lunga tradizione, improvvisa la propria poesia nell’atto stesso in cui la recita” rendendo così di fatto indistinti i momenti rappresentati dall’atto della creazione, della trasmissione e dell’esecuzione, così come diviene irrilevante l’esistenza del “poeta sovrano”. “La fiaba nucleare dell’uomo bambino” (il cui titolo originale è proprio il Wunderkind Yerzhan a cui fanno riferimento le nonne) è strutturata proprio come un poema tradizionale, all’interno del quale l’aedo, rappresentato in questo caso dal viaggiatore anonimo, si fa narratore al ritmo non della bacchetta che il recitante professionista picchiava a terra per contare l’esametro ma delle ruote del treno sui binari. La storia di Eržan quindi si sovrappone all’epos e alle fiabe della tradizione popolare kazaka – di cui acquisisce anche la forma, che nella parte finale passa dalla prosa a un flusso di coscienza vicino alla dimensione poetica. Perfino la nascita del piccolo bambino prodigio – “buldur kimdir“, uno che la sa lunga – , rimane nell’ombra (la madre, chiusa da anni in un rigido mutismo selettivo, pare fosse stata violentata mentre giaceva inerme in un campo, traumatizzata dall’ennesima esplosione nucleare che aveva squassato la campagna), assumendo già dal principio i contorni di una leggenda che per importanza e gravità viene sovrapposta dalle anziane nonne a quella del favoloso regno di Ling, ancora oggi cantato dai bardi della “cintura di Gesar” in Cina (ndr: sì, parliamo proprio del nostro Caesar/Καῖσαρ, di origine turca); un corpus fittissimo di racconti epici a tradizione orale, vivi anche in forma di performance artistica dall’Asia centrale e meridionale sino al Tibet da dove pare derivi.

“La fiaba nucleare dell’uomo bambino” è il racconto di un’esistenza individuale che di fatto incarna quella di una tragedia collettiva, letta attraverso l’unico sguardo che Ismailov ritiene utile e necessario per raccontare simili avvenimenti: la narrazione epico/mitica, ossia quella che sin dalla notte dei tempi trasforma, tramite lo strumento dell’oralità e dell’occasione condivisa, le vicende umane da piccole e particolari a eventi universali. Come ogni epica che si rispetti, essa segue il medesimo percorso di iniziazione: la storia particolare viene disancorata e collocata in una dimensione a-temporale e per certi versi decontestualizzata; al protagonista, tramutato in eroe, è assegnata una missione (l’uccisione rituale dell’antagonista, che per Eržan è identificato con la Zona, la porzione di steppa altamente radioattiva al centro del quale, tra carcasse di automobili e acciaio fuso, ombre nere di alberi proiettati su muri scarniti e crateri profondi come quelli lunari, giace un occhio di blu purissimo, pesante, che conserva il segreto delle ossa irrigidite di Eržan), gli vengono forniti armi e attrezzi magici (un violino e un fucile) e gli viene promessa la sposa tanto desiderata.

“Mi sentivo anch’io smarrito come quella volpe nella steppa aperta, incapace di capire dove finisse la verità e dove cominciasse la finzione. Dov’era il confine tra il fluire ineludibile dell’esistenza e l’eternità indecifrabile?”

La narrazione mitica ed epica, di fatto, è il modo in cui l’essere umano usava spiegare a se stesso e ai propri figli gli eventi naturali e le tragedie causate da altri uomini, come le guerre. Che i narratori conoscessero o meno la realtà dei fatti, poco importa. Lo scarto del pensiero sta tutto qui. La storia di Eržan comincia su un treno, nel momento in cui un ragazzino in tutto e per tutto sano, reale, concreto mostra a uno scrittore un documento di identità – non sapremo mai se vero o falso. Non a caso la terza parte del racconto si intitola “Il sale del mito“: perché col passare del tempo l’acqua di quel blu straordinario – la storia vera – evapora e svanisce, facendone sedimentare le scorie – il sale – di una narrazione che diventa sempre meno aderente al vero (alla fine importa se le nonne di Eržan conoscessero o meno la causa dei loro malanni, delle improvvise tempeste, del latrato dei cani durante la notte?), per acquisire un significato universale. La storia di Eržan farà la fine di tutte le altre storie perse nel tempo, quei racconti che ognuno tira insieme un po’ come vuole, durante le notti d’inverno, e alla fine, dopo tanti anni, nessuno saprà più se siano vere o finte, sciocchezze raccontante dai vecchi o accadimenti reali e documentati. Chi ha dimestichezza col mito, però, è consapevole del fatto che nel cuore nero di ogni leggenda, specialmente in quelle più antiche, resiste sempre un nodo di verità profonda. La storia di Eržan non fa eccezione, fatto salvo un punto: che quel qualcosa di vero noi lo conosciamo bene.

“Nulla è più puro della luna, che nella notte alberga, ma il giorno dispare. / Nulla è più puro del sole, che nel giorno alberga, ma la notte dispare. / Il vero islam in nessuno dimora, solo sulla lingua vive, e non nei cuori. / Destino nomade e ricchezze solo ad alcuni sono concessi. / Invano ti affaticherai a cercarli. / E pochi sono i posti che vengono destinati. / (…) Quando il nemico insorge, / se pure di cingerai della sciabola e ti armerai di cinque fucili, / non diverrai un vero guerriero.”

“Fantasmi dello Tsunami”, di Richard L. Parry (trad. Pietro Del Vecchio)

“In giapponese, quando ci si allontana da casa si pronuncia una formula invariata. La persona che esce dice itte kimasu, che significa letteralmente ‘vado e torno’. Coloro che rimangono rispondono con itte rasshai, che significa ‘torna presto’. Sayonara, la parola che si insegna agli stranieri ed è il giapponese per ‘addio’, è un vocabolo troppo definitivo per la maggior parte delle occasioni, implicando una separazione prolungata o indefinita. Itte kimasu contiene una diversa carica emotiva: la promessa di un ritorno.” (pag32)

Ero molto indecisa nei confronti di questo testo. Indecisa sul leggerlo – e alla fine l’ho letto – indecisa sul proporlo qui – e alla fine qui lo propongo, con la cura del raccomandare attenzione perché non sono pagine facili né consolatorie.

“Fantasmi dello Tsunami” è l’edizione italiana di “Ghosts of the Tsunami”, il reportage che Richard Lloyd Parry, corrispondente a Tokyo per il “The Times”, ha realizzato nell’arco dei sei anni successivi al 2011 viaggiando per la regione del Tohoku, quella più colpita dalla catastrofe. Nello specifico, il reporter si concentra sulla disgrazia della scuola elementare di Okawa, in cui morirono ottantasette alunni. Su un totale di più di 18.500 vittime, l’evento di Okawa è stato l’unico ad aver coinvolto direttamente un edificio scolastico causando la morte di così tanti bambini tutti insieme. Si trattò in sostanza di una concatenazione di eventi per la maggior parte causati – ecco spiegata la reticenza dei media nipponici a riguardo – da un’errata valutazione del rischio idrogeologico (la presenza, a sei miglia dalla foce, di un’ansa nel fiume Kitakami, corso d’acqua di vasta portata che da secoli è la risorsa economica primaria per tutte le comunità rurali della zona). La sottostima del rischio portò alla stesura di un piano d’evacuazione anti-tsunami inadeguato, la cui attuazione di fatto spinse tutti i bambini, in fila indiana e divisi per classi, con il loro bell’elmetto bianco calcato in testa, in bocca all’onda di marea che montava dall’oceano e poi si ingolfava nel fiume.

Attraverso interviste agli adulti sopravvissuti, ai genitori dei bambini dispersi, tramite lo studio delle mappe, della geologia del luogo e sentito il parere di esperti, Parry racconta, con l’asciuttezza del cronista sul campo (distacco emotivo che l’autore giustamente rivendica sin dalle prime pagine), la realtà tremenda di un lutto senza fine ed evitabile – forse non del tutto ma sicuramente almeno in parte.

” ‘Personalmente, non credo nell’esistenza degli spiriti, ma non è questo il punto. Se la gente dice di vedere i fantasmi, allora va bene, basta la parola.’ “(pag280) – testimonianza dell’editore Masashi Mijikata, direttore di una piccola casa editrice specializzata in testi sul Tohoku.

La valutazione tecnica impropria, tuttavia, non fu l’unica causa del disastro, che si fonda anche su altri presupposti. Il titolo “Fantasmi dello Tsunami” fa riferimento ai racconti di possessione e ai fenomeni di “esorcismi” che crebbero in maniera esponenziale nei giorni e nelle settimane appena successive alla catastrofe. Donne che raccontavano la visita di bambini infreddoliti e bagnati, un tassista che una sera fece salire un anziano che chiedeva di essere accompagnato a casa – un’abitazione di un villaggio spazzato via dall’onda – salvo poi scoprire che nell’auto non c’era nessuno (ndr: il tassista arrivò comunque sino all’abitazione, aprì la portiera e fece scendere il passeggero). Parry si addentra, con tatto e interesse sincero, libero da qualsiasi pregiudizio, all’interno di tutte quelle credenze e leggende popolari antichissime ancora molto vive all’interno delle comunità rurali giapponesi, per tradizione e geografia sempre rimaste lontane dalla moderna vitalità metropolitana. In special modo Parry si riferisce al culto per gli antenati e al rapporto di grande familiarità nei riguardi dei defunti, un punto fondamentale nel dopo-Tsunami poiché tanti sopravvissuti non furono in grado di prendersi cura dei propri morti per via del fatto che i corpi non furono mai ritrovati o perché l’inondazione aveva portato via gli altari casalinghi – e anche perché con la morte dei propri figli, già adulti o ancora bambini, veniva meno quel patto di cura che è un tratto importantissimo della struttura familiare nipponica (sia in vita sia in morte). Si capisce quindi come mai la tragedia di Okawa sia diventata il simbolo dello sgretolarsi di una millenaria fiducia riposta non solo nell’autorità statale ma anche nei valori stessi del villaggio e della famiglia, incarnati dalle autorità anziane. L’evacuazione dei bambini, infatti, avvenne oltre che in maniera sbagliata anche in estremo ritardo, come appurato dalle testimonianze e dalle inchieste che seguirono, perché alcune autorità anziane e alcuni professori della scuola, forti della loro esperienza di vita (ndr: che non contemplava Tzunami di trentasei metri e mezzo successivi al quarto terremoto più potente nella storia della sismologia) e del loro prestigio sociale, non ritennero opportuno sveltire le procedure né dare credito ai vari allarmi diramati dalle autorità competenti.

Parry scoperchia in qualche modo anche il vaso di Pandora sui rapporti gerarchici e sulla questione femminile all’interno di una società ancora molto tradizionale e vorremmo dire “di paese”, nuclei familiari in cui la parola del suocero – spesso molto anziano e avulso dal contesto moderno – vale più di quella di una giovane madre attenta, informata e inserita nel flusso del presente quotidiano; e lo fa attraverso l’osservazione di una comunità sgretolata in cui accade che una madre appena privata dei figli – ancora dispersi – sia costretta per buona creanza e perseveranza (una delle traduzioni possibili per nintai o gaman, virtù tipicamente assegnata agli abitanti del Tohoku) a passare le giornate cucinando pasti di emergenza per tutta la comunità, pasti serviti da una madre che invece è riuscita a salvare i propri bambini perché, contro il parere dei genitori anziani, si era precipitata a scuola e li aveva ritirati appena in tempo, portandoli in salvo sulla collina a poca distanza.

A riguardo, sono molti i temi affrontati dal reporter: la tendenza al quietismo, per esempio, o l’inveterato vizio di non dar retta ai giovani (come quando due ragazzi più grandi avevano suggerito al maestro di salire sulla collina ma rimasero inascoltati), e ancora lo stigma sociale calato su quei genitori che decisero di intentare una causa e portare le autorità in tribunale, la difficoltà nell’esprimere la propria rabbia e il proprio dolore – atteggiamenti giudicati impropri e inadeguati anche da chi i figli li aveva persi a sua volta – l’incapacità di tornare alla vita di prima, in special modo per quanto riguarda i luoghi di lavoro e quelli di socialità comune all’interno dei quali le diverse parti non furono più in grado di interagire.

Se il racconto del disastro di Fukushima è più immediato da raccontare e in un certo senso più accettabile nella sua prevedibilità, meno lo è il dramma della scuola di Okawa – che tuttavia è in grado di mostrare meglio, ahimè, tutte le crepe che stanno minando dall’interno la struttura delle micro-comunità giapponesi: i modi di vivere, le relazioni interpersonali, il rapporto con la società e la vita pubblica. (Qui i twitt che ho scambiato con l’autore a proposito di questo tema).

Exorma porta in libreria un volume difficile, una sfida editoriale – e di lettura – che a mio parere vale la pena affrontare perché quelle di Parry sono pagine che liberano la mente dai vincoli dell’esotico, da quel kawaii illusorio che spesso occupa i pensieri di chi si rivolge al mondo nipponico.

“Non ci sono occhi né orecchi, naso, lingua / nessun corpo, nessuna mente; nessun colore, suono o profumo; / nessun gusto, nessun tatto, niente; né c’è un regno del vedere, o del pensiero; nessuna ignoranza, nessuna fine / dell’ignoranza; nessuna vecchiaia né morte; nessuna fine della vecchiaia e della morte; nessuna sofferenza, / nessuna causa della sofferenza, né alcuna fine / della sofferenza, nessuna via, nessuna saggezza / e nessun compimento.” (pag.126-127 – Sutra del cuore, traduzione dell’autore)

“Più idioti dei dinosauri”, di Daniele Scaglione

“Se qualcuno mi dice «Ehi, nel 2050 il mondo sarà di 2°C più caldo di adesso!», per educazione rispondo: «Oh, è terribile!». Ma intanto mi chiedo: «E dunque?». Se invece qualcuno mi dice: «Nel 2050 a Milano ci sarà il clima che c’è oggi a Dallas», capisco di cosa stiamo parlando e intuisco cosa significa affermare che c’è uno spostamento delle condizioni climatiche di un migliaio di chilometri a nord.” (pag55)

Alla narrative non fiction siamo ormai avvezzi. Si tratta di quel modo di scrivere saggistica che, prestando attenzione alle crescente necessità di un pubblico non competente ma interessato alla materia, coniuga la perizia – elemento imprescindibile nella stesura di un testo specialistico – a una fluidità d’esposizione esente da eccessivi tecnicismi di sapore accademico. Sistema di scrittura che nello stile e nella disposizione dell’argomento rende l’opera fruibile anche da parte di chi non dispone di competenze tali da poter affrontare in autonomia un testo specialistico di stampo tradizionale. Operazione non semplice, perché non è detto che chi ne sa molto di qualcosa possieda abilità divulgative tali da riuscire a traghettare il contenuto dei propri studi da quello a questo sistema. Non per nulla Amitav Ghosh, con il suo saggio “La grande cecità”, testo ormai di culto nella discussione sul climate change, ha sollevato – per primo – la questione dell’inadeguatezza della letteratura contemporanea nel raccontare, appunto, il cambiamento climatico. Il saggio di Ghosh è del 2016 e nel frattempo, per fortuna, ci siamo un poco attrezzati. Per “attrezzati” intendo l’esser riusciti da una parte a fare in modo che molti studiosi della materia si raccapezzassero tra procedimenti e tecniche di scrittura simili più alla fiction che alla pubblicazione universitaria, dall’altra a coltivare e spingere la discesa in campo di professionisti che, competenti in altri ambiti (quali per esempio la formazione o la comunicazione) ma utilizzando le proprie abilità, siano in grado non tanto di spiegare quanto di accompagnare se stessi – e il lettore – lungo un cammino di scoperta e apprendimento.

Questo è il caso di Daniele Scaglione – formatore e consulente aziendale, oltre che collaboratore di Rai Radio 3 nel programma Wikiradio (nonché presidente della sezione italiana di Amnesty International dal 1997 al 2001) – che con “Più idioti dei dinosauri” costruisce, a partire dalle domande che come padre si pone nei riguardi di quale sarà il futuro riservato al proprio figlio (ma anche dalle domande che i nostri stessi figli ci pongono quotidianamente), un saggio godibile, di tono leggero eppure mai banale né burlesco, che affronta per capitoli i temi cardine legati all’iperoggetto cambiamento climatico.

“Io, invece, mi sento un idiota. Così come intendevano gli antichi Greci, sia chiaro. Loro definivano l’uomo pubblico come una persona colta, esperta e competente e gli contrapponevano l’uomo privato, l’idiòtes, che se ne sta chiuso nel suo piccolo mondo e di conseguenza poco sa e meno capisce.” (pag33)

I nostri figli utilizzeranno ancora l’aeroplano, fra trent’anni? Papà, quando si rompe la nostra auto, ne comprerai una elettrica? Quando sarò vecchio la nostra città sarà così calda che non ci si potrà più abitare? Cosa mangeremo tra cinquant’anni? Dobbiamo diventare tutti vegani? Perché la pasta costa più di prima? Perché c’è il coronavirus? Siamo in troppi, sulla Terra? Moriremo tutti? Da adulto, mio figlio e i miei nipoti soffriranno la fame? Ciascuno dei tredici capitoli di “Più idioti dei dinosauri” come è evidente è dedicato a un singolo aspetto tra quelli più macroscopici che compongono il climate change affaire e che stiamo già vivendo, anche se talvolta fatichiamo ad accorgercene: riscaldamento globale, modifica delle abitudini nell’abitare e conseguenti crisi migratorie, greenwashing a opera delle grandi multinazionali, politiche economiche globali per il settore primario e secondario, la questione non da poco della giustizia ambientale, l’analisi della responsabilità individuale (a volte di fatto ininfluente se non interviene dall’alto chi davvero fa la differenza). Scaglione affronta questi temi col piglio del genitore alla disperata ricerca di informazioni – chè a ‘sti ragazzi bisogna pure contar su qualcosa di sensato o quanto meno provare a farlo – e lo fa interloquendo con chi, di ogni specifico tema, ne sa evidentemente più di lui. Il profilo dei tecnici, dei docenti, di donne e uomini di scienza interpellati da Scaglione è altissimo e si tratta per tanta parte di studiosi italiani: Daniele Pernigotti, Nicola Armaroli, Giulio Betti, Elena Granata, Marina Romanello… (arrivo solo a pag.73: considerate che “Più idioti dei dinosauri” di pagine ne conta 212).

L’autore, attraverso questo sistema domanda-risposta, si impegna proprio a raccontare storie, recuperando da questo strumento di conoscenza universale un’eredità formale fatta di limpidezza di struttura, onestà nelle fonti, accuratezza dei contenuti. E tutte le storie che l’autore ci racconta parlano del mondo – non per quello che è stato ma per quello che verrà. “Più idioti dei dinosauri” rappresenta insomma un modo singolare e nuovo di fare divulgazione scientifica, in cui l’autore smette i panni del docente che si pregia di spiegarci qualcosa e indossa quelli di facilitatore.

“Chi come me oggi ha più di cinquant’anni, alle giovani e ai giovani che denunciano l’emergenza climatica credo dovrebbe dire più o meno queste cose. «Scusateci. Abbiamo fatto un casino senza senso. Un po’ perché non sapevamo quello che facevamo un po’ perché ce ne siamo allegramente sbattuti. Avete ogni ragione di lamentarvi. Da qui in avanti facciamo tutto il possibile per sistemare le cose o, almeno, limitare i danni. Poi, al più presto e senza fare tante storie, vi passiamo le leve del comando.» (pag194)

Note: 1. Dal momento che queste testimonianze sono per lo più tratte da conversazioni, interviste, scambi di email, messaggi diretti tra l’autore e l’interlocutore o da conferenze e interventi in public speaking, in calce al volume è assente la parte bibliografica (nel caso in cui Scaglione si riferisca a delle pubblicazioni, esse sono citate direttamente nel testo) – e non sono nemmeno presenti le note a piè pagina: approccio che personalmente apprezzo molto, perché a mio parere questo sistema da una parte motiva ex silentio l’autorità in materia delle controparti interpellate e dall’altra evita quel fastidioso “vedete quanto ho letto, vedete quanto ne so” che spesso affiora da certe bibliografie, più pretenziose che utili. 2. Il volume è accompagnato dalle belle illustrazioni di Ginevra Rapisardi (che firma anche la copertina) e sull’Instagram dell’autore potete trovare i video, opere di Segheij Dell’Orso, usciti a complemento del libro. 3. Ringrazio Daniele Scaglione per l’invio della copia, una bella lettura che ho potuto condividere anche con i bambini.