L’estate sta finendo (“Lux”, di Eleonora Marangoni e “Mr Rochester”, di Sarah Shoemaker, trad. A. Zabini)

“Quella notte ci addormentammo tutti e tre immaginando di essere seduti a pranzo e di udire il fragore terribile della terra che si spaccava, eruttando soffocanti fiumi sulfurei come se l’inferno affiorasse alla superficie, mentre le strade crollavano nel porto e il mare si gonfiava in onde possenti a strappare i bastimenti dagli ancoraggi e catapultarli nell’entroterra, oltre le rovine della città sprofondata” (“Mr. Rochester”, Kindle pos410)

“Nelle sue narrazioni il mare non era popolato soltanto di pirati, bensì anche di serpenti marini e di sirene, e parecchi marinai perdevano il cuore per quelle ammaliatrici dai capelli d’oro, oppure perdevano la vita, divorati dalle bestie emerse all’improvviso dagli abissi caraibici” (“Mr. Rochester”, Kindle pos417)

“La gente oggi non fa che dire che ha bisogno di esotismo, che sogna di spostarsi lontano dalle città, via da tutto e da tutti, che se potesse oh se solo potesse se ne andrebbe in campagna o su un’isola remota, ma dopo un numero di ore tutto sommato contenuto o anche solo alla minima contrarietà, in quelle città non vede l’ora di far ritorno, per ritrovare finalmente la banda larga, le sedute di depilazione laser, il pesce crudo abbattuto dei ristoranti e tutto quello che spergiurava di voler abbandonare” (“Lux”, Kindle pos3264)

“Cerchiamo nei libri quello che non capiamo della vita, e nella vita quello che leggiamo nei libri. Forse è questa, la nostra condanna all’infelicità: cercare risposte e trovare solo commozione” (“Lux”, Kindle pos1264)

“Quanto si deve essere immaturi e ignoranti per pensare di poter apprendere lezioni di vita dai romanzi!” (“Mr. Rochester”, Kindle pos2052)

Mi perdonerà Neri Pozza se sistemo in un unico post due titoli che per forma e per trama hanno poco a che fare l’un con l’altro. Ad accomunarli qui su ADC è stato quel meccanismo della celebrazione delle stagioni che vanno e che vengono. L’idea di mettere un punto, ritualizzare un passaggio, lasciar andare e nello stesso tempo trattenere il necessario.

“Lux”: dire addio all’estate, e alle cose perdute

“Avevano un odore complicato, quelli, di umido e acqua di rose, zucchero filato e naftalina: l’odore del tempo che passa indisturbato senza che nessuno lo veda, dentro alle cuciture, attraverso le asole, in fondo alle fibre del lino e tra i capricci del falpalà” (Kindle, pos1332)

Se volete cullarvi ancora un po’, in quell’idea d’estate di mare fuori stagione, quello che dà principio alla fine di maggio, o ancor meglio a questo, di coda, coi cieli saturi e stanchi di agosto a far presa su un settembre ancora a venire – bene, allora leggete “Lux”. Che è un romanzo di piccole cose e grandi questioni: l’amore un po’ stanco e scipito di due non più adolescenti alle prese con l’adultità al cui arrivo non ci si può opporre; un anziano scrittore che deve far fronte alla vecchiezza irrimediabile – quella che vien dall’anima prima che dal corpo; una serie di altri personaggi irrisolti, femmine e maschi, adulti e bambini, a cui vorremmo costantemente suggerire come comportarsi salvo il fatto che poi alla fine si capisce che più perfetti di così, nelle loro totali imperfezioni, non potrebbero essere e che ognuno alla fine la propria vita se la fa un po’ come vuole perché le scelte, quelle profonde e da farsi in completa solitudine, sono sempre possibili checché uno ne dica (“Alla fine la vita è solo questione di scegliersi la bugia giusta”). Viceversa però, sta a guardarci – dalla lontananza siderale di un tavolinetto da tè in legno di teak appartenuto a chissà quale signora della nobiltà inglese – la famigerata tazzina sbeccata: a ricordarci che a ogni azione corrisponde una conseguenza; una volta caduta a terra, la tazzina mai più tornerà come prima – e però potrà essere rattoppata, mani sapienti e arte antica dell’oro, a crearne una nuova, stoffa di passato e futuro cuciti insieme. Su tutto domina l’elenco – di comodini in legno di cedro, servizi di porcellana cinese, stoffe e tendaggi, tappeti e suppellettili, animali impagliati e copricapi ammuffiti – che per chi come me è cresciuto a cataloghi (delle navi, dei guerrieri, degli eroi, degli dei, degli scudi, delle battaglie, dei consoli, degli imperatori, dei condottieri, dei capitelli, delle metope, degli esametri, delle opere, dei versetti del Dhammapada), rappresenta non tanto un catalizzatore di facili nostalgie quanto un mezzo espressivo potentissimo attraverso cui catturare la memoria del lettore, la sua capacità di ricordare, recuperando quel vizio tutto indoeuropeo di imparare attraverso l’oralità degli aedi – e di tutti coloro che sono capaci di inventare storie. (*)

“Eppure a lui, soltanto a lui aveva dedicato pensieri, stagioni, e chissà quante altre cose ancora si sarebbe preso senza che lei lo volesse, senza che potesse farci nulla. Non era forse assurdo affannarsi, allora? Cosa pensavamo di dimenticare davvero, se passavamo la vita a ricordare? cosa ci ostinavamo a voler salvare, se poi smarrivamo tutto?” (Kindle, pos2345)

“Mr. Rochester”: salutare l’autunno – di mettere punti e creare mondi

“Bisogna giocare con le carte che si hanno” (Kindle, pos588)

La prima fu Jean Rhys, scrittrice inglese di origini caraibiche, che ci raccontò di Antoinette Cosway, la folle ereditiera creola data in sposa a Edward Rochester con l’inganno. Romanzo postcoloniale dai tratti decisamente femministi e di critica sociale, dalla questione della schiavitù alla condanna del contesto fortemente misogino e patriarcale dell’epoca (nb: il romanzo è del 1966) “Il grande mare dei Sargassi” è di fatto la prima fanfiction canon (di lusso) a base Jane Eyre. Venne poi Bianca Pitzorno che con il suo “La bambinaia francese” (2004) prese le parti di Sophie Gravillon, la tata che la cantante d’Opera Céline Varens assume per occuparsi della figlia Adele – come tutti ben sappiamo la pupilla di Edward Rochester, convinto ad occuparsi di lei per spirito di carità, nel dubbio che sia sua figlia. Anche qui, un’opera di fiction (OOC “out of character” – per l’esattezza) che pur partendo chiaramente dal testo di Charlotte Bronte se ne discosta sia per l'(in)fedeltà all’originale (si parla in questo caso di un “what if” ucronico), sia per il forte intento di rottura con il personaggio femminile “passivo” di Jane Eyre, e infine per il target giovane a cui il romanzo è dedicato.

Di Edward in realtà avevano scritto entrambe ma a tirare per bene le fila ci pensa infine Sarah Shoemaker, americana dell’Illinois, costruendo una narrazione parallela volta a gettar luce, almeno un pochetto, sulla figura maschile per eccellenza della romance fiction britannica. Uno scorcio di notevole interesse storico su ambienti, società e psicologia dell’epoca: dalle industrie tessili della fumosa e poverissima periferia londinese al crescendo delle lotte operaie, dai rapporti non sempre pacifici tra élite aristocratiche ed emergente classe mercantile fino all’esotica Giamaica, in un turbine di colori e sentimenti. Avviene però solo a tratti e mai del tutto (come è giusto che sia) la rivalutazione dell’operato di Mr. Rochester, che da tempo è necessaria – sia perché Charlotte Bronte è sempre stata davvero parca di dettagli, sicché di fatto ne abbiamo saputo sempre ben poco, dei trascorsi di Mr. Rochester, sia perché questo personaggio così come mostrato dalla Bronte rischia col tempo di perdere quel fascino poliedrico che indubbiamente possedeva nella testa della sua creatrice, sacrificato sull’altare dello stereotipo vittoriano nel quale talvolta Charlotte indulge.

Già. Perché su tutto e dentro a tutti, come ha fatto ben capire nel 2011 Cary Fukunaga, con quelle inquadrature a campo lungo che rimarranno iconiche e definitive, dominerà sempre – e incontrastata – la brughiera: coi suoi autunni precoci e meravigliosamente colorati, i tramonti d’oro, le eriche piegate dal vento, le candele alla finestra, le serate buie e interminabili, gli spifferi da sotto le porte, le stanze segrete di Thornfield.

“Arrivate al vespro, come un sogno o come un’ombra” (Kindle, pos5624)

Buona lettura e buon autunno 🙂

(*) Per la lettura di “Lux” ringrazio l’amico @LukeAlb: ero scettica, mi ha convinto lui – e menomale.

#Paesologia: (2) “Abbiamo fatto una gran perdita”, di Alberto Cellotto – e altre storie

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“Provo a vivere ricercando quello che non è più uno spettacolo, ora che tutto ambisce a esserlo. La realtà che rimane fuori è pulviscolare e piena di una farragine che non posiamo osservare, ma è quello che resta fuori dal perimetro degli spettacoli (ed è poco, sempre meno); ho care le persone che avvicinano con un silenzio o con la parola quello che è vero a quello che è vivo. (p20)

Chi sia davvero Martino Dossi, noi non lo sapremo mai. Siamo condannati a un’informazione parziale, corrotta dalla soggettività delle fonti.  E tanto ci deve bastare.

Tra le mani abbiamo difatti solo una quarantina di lettere, più alcune cartoline, che Martino scrive durante un viaggio lungo la penisola, intrapreso giusto i primi giorni di autunno; le notizie su di lui le dobbiamo cercare scavando con le unghie tra le sue carte, saltando avanti e indietro, cogliendo i rimandi tra una lettera e l’altra, dissotterrando i piccoli, irregolari frammenti di vetro che compongono il mosaico della sua esistenza. Nessun interlocutore, nessuna controparte, nulla a cui aggrapparci fatti salvi i fogli che, in qualche modo, sono giunti fino a noi.

Del quarantenne Martino veniamo a sapere che si è da poco licenziato — ma non si capisce bene per quali ragioni – dalla ditta presso cui aveva posto fisso, che ha una moglie e dei figli ancora piccoli e che prima di ripartire alla ricerca di una nuova occupazione (che forse desidera ma forse anche no) si è concesso un periodo sabbatico – una sorta di ritiro spirituale, verrebbe da pensare – per un giro in solitaria che lo porterà da Monselice, in Veneto, sino a Cortona passando per Ravenna, Ancona, Roma, Catania, Perugia, Piombino.

“Ho perso quel lavoro che facevo da anni e credo di aver fatto in modo di perderlo. Prima di mettermi a cercarne uno nuovo, ho deciso di andare verso sud” (p38)

Di Martino verremo a sapere che non si fermerà nello stesso albergo quasi mai per più di una notte e che visiterà luoghi appartati, spesso lontani dalla rotte turistiche, fuori stagione, per la maggior parte dei chilometri alla guida di un’auto sgangherata.

Durante queste soste – specie la sera, in albergo – Martino scrive.

“Da quando ho lasciato casa sabato scorso scelgo i posti dove sostare con gli occhi che devono ave avuto gli antichi mentre sceglievano un altipiano, un tratto di costa o una valle per fondarvi una città o una colonia. Mi vergogno molto di questo procedere. E ogni camera d’albergo diventa un impluvio provvisorio, dove raccogliere l’acqua di un giorno, in parole per amici, compresi quelli che da anni non vedo. Anzi, soprattutto per quelli. Fondo una religione che non dura più di una notte e un giorno, io che ho sempre creduto alle religioni come giganti custodi del tempo, un tempo che non è diverso dall’immagine di un vecchio che sale arrancando per la salitina di una città di mare” (p44)

Scrive agli amici, a una donna incontrata per caso, alla moglie, a non sappiamo chi, ad alcune amanti virtuali e reali: Marco (due lettere), Sara (due lettere), la signora Halima, Lucio (due lettere), Luisa, Giorgio (tre lettere), “cara” (una lettera), Sergio (due lettere), Alessandra, Luca, Adele, Giulia, Milena (due lettere), Davide, Marianna, Stefano (tre lettere), Anna, Costanza, Serena, Enzo, Giulio, Luca, Ester, Veronica, “Signora Elsa”… potremmo continuare così fino alla fine della serie.

Pensieri che assomigliano a versi poetici, lettere lunghe a occuparsi di politica e società civile – in tono sommesso, uno sguardo verrebbe da dire esterno, ormai trascorso, per nulla polemico, come se il tempo dell’azione fosse ormai passato e concluso, ma con il cuore sempre gonfio di sentimenti: l’ardore disperato alla ricerca di amicizie che non siano convenienza ma compenetrative – simbiotiche, la febbre per l’arte, l’amore per i figli, la passione per le donne (quante amanti hai avuto, Martino? Tua moglie sa, delle tue frequentazioni?).

“In realtà sto scrivendo a tante persone, a chi ha mancato con me tanti giorni di vita. Provo rammarico e quanto lontani sento tutti quei discorsi sul non avere rammarichi o rimpianti: io ne sono pieno, divorato” (p50)

Il viaggio fisico si fa viaggio dell’anima, a indagare – uno per uno, con meticolosa lucidità – gli aspetti più profondi di se stesso: le cattive abitudini prese con gli anni, l’ignavia, la difficoltà sempre più evidente a uscire dal ruolo che, in fin dei conti, ci si è per la maggior parte autoimposti.

“Lo sai che sono il solito coglione: un vigliacco, uno che non ha saputo immaginare la propria vita al di là di un lavoro qualsiasi che non ha mai amato, una donna e tre figli, tutti più belli di me. Io sono uno che ha assecondato il pensiero di dipingere, suonare e provarle tutte per restare un pressapochista dell’infinito desiderio di fare più quel che sapeva fare. E sapeva fare ben poco perché io sono uno, non zero, non mille. Nessun noi abita in me, solo indulgenze del mondo e della Storia che cadono come neve, ogni giorno, nella mia testa e che con me si scioglieranno, ma che per ora mi impacciano il cammino” (p49)

Ci si immedesima in Martino, specie se con lui si condivide l’età anagrafica – il giro di boa dei quarant’anni a dirti che, c’è caso, ormai dietro di te hai più tempo di quanto ne resta davanti e quindi è inutile, forse perfino dannoso, procrastinare gli esami di coscienza – perché di tempo per migliorare ce n’è ancora, e forse abbiamo capito come fare, e cosa dire – ma non è che ne resti poi così tanto, e questi pensieri bisogna in qualche modo passarli, farli conoscere, con urgenza, specie ai propri figli. Ma forse anche no, forse meglio se ce li teniamo per noi. Chi lo sa.

“La tortura è quella che mi porto in serbo da troppi anni, è essere attorcigliato tra dire e non voler dire più nulla. (p15)

“Da oggi questa idea di essere uno potrebbe placare le inquietudini in modo definitivo e scaraventare la maledizione della differenza dagli altri e quella di una realtà accolta solo attraverso contenuti e impauriti spostamenti dello sguardo” (p49)

E’ un po’ un limbo, questo dei quarant’anni: l’adolescenza dell’età adulta, in cui spiace lasciare qualcosa che è ovvio, non fa più per noi, e nel frattempo si desidera dare un’occhiata a quel che c’è oltre perché ci si sente in grado, ma non così tanto coraggiosi da tentare il tuffo di testa. Ed è curioso che questo guardar oltre sia in certi casi più un ritrarsi, rinunciando consapevolmente a determinati aspetti del vivere – cose che prima ci piacevano, cose di cui, ci pareva, non potevamo proprio fare a meno. E curioso, poi, che così d’improvviso (ma davvero, è quel che accade) si affacci la speranza, che più che fiducia nel mondo tangibile, diviene – quasi – un atto di fede.

“Il cinema non mi manca però. Quando entravo in sala ogni film mi aggrediva come la dimostrazione di un teorema perfetto in sé conchiuso, definitivo: il cinema è molte volte costruito sui dialoghi, ma non è affatto dialogico oppure non lo è più. Il cinema pretende di scrivere una gigantesca didascalia per leggere il mondo, ma non ce la farà e il suo tentativo è sempre meno attraente” (p66)

Chi sia davvero Martino Dossi, noi non lo sapremo mai. Un flaneur? Un uomo tormentato dai demoni della depressione? O dell’arte, o tutti e due? Non è possibile andare oltre nel racconto della trama, per capirne un po’ di più dovremo arrivare fino in fondo, all’ultima lettera – o a quella che forse è l’ultima lettera, noi non lo sapremo mai.

“Il fatto è che qui, di nuovo, alla bella vista in valle, si è incollato per un istante quel pensiero del tutto che proviene da una convinzione di un nulla, un sentore di niente. E solo questo momento, quando accade, è bilanciato dalla vista di un paesaggio di fede (qualcosa di così vicino alla speranza, non dirlo meglio) allora succede quell’aggancio vertiginoso tra tutto e niente. Non si chiede altro: si sta bene come al varco di un confine celeste, privati del pensiero che si sottrae a sé e anche dell’istinto. Alla fine anche un infelice è un apprendista felice” (p98)

Nota: ringrazio l’autore, Alberto Cellotto, per avermi proposto la lettura di “Abbiamo fatto una gran perdita”.

Qui se ne parla: Poetarum Silva; Matteo Giancotti La Lettura; blog dell’autore

A volte, come in questo caso, ho l’impressione che l’identità di ADC, che cerco continuamente di tener viva e perfezionare, sia più evidente agli occhi di chi legge il blog che ai miei – e che qualche autore e/o qualche casa editrice conosca questo blog, nelle sue parti strutturali, molto meglio di come, alla fine, lo conosco io. Il che è, di fatto, un grande conforto e un bel traguardo professionale. Grazie.

#Paesologia: (1) “Vento forte tra Lacedonia e Candela”, di Franco Arminio – e altre storie

“Sono venuto qui proprio per le cose che non ci sono. In fondo le delusioni, le mancanze, sono le stampelle a cui si sorregge la mia scrittura” 

“Se la poesia è la scienza del dettaglio, direi che la poesia oggi attecchisce meglio dove il mondo è più spoglio”

Quest’estate è passata tra frammenti di letture, troppi pensieri, carrozze gelide di treni a lunga percorrenza, viaggi in macchina nel silenzio di tangenziali torride. Per certi versi, quest’estate non l’ho neppure vista: mi è passata attraverso, con il cielo bianco di Milano e la densità dell’aria – quella collosa che viene su dall’asfalto, alle cinque di pomeriggio fuori dall’ufficio, e quella ghiacciata di cui i colleghi della Bay Area pare che proprio non possano fare a meno. C’è stata la mia incapacità di madre dal cuore di burro a gestire le videochiamate con Skype e l’idiosincrasia nei confronti della casa silenziosa, degli stendibiancheria liberi e del tempo vuoto che quando non c’è lo vorresti e poi quando te lo ritrovi in mano non sai cosa farne.

Io ho provato a fotografarlo, questo tempo vuoto, perché non potevo pensare di averlo ma lasciarlo inutilizzato. Se non riesci a viverlo – mi son detta – almeno forse potresti ricordarlo. Poi, è andata a finire che foto dopo foto ho provato a metterlo su Instagram questo tempo vuoto, non tutto ma tanta parte. A volte l’ho commentato, altre volte anche no perché mi pareva che si commentasse da solo – e poi io a scrivere didascalie non sono mai stata brava.  

Uno dei percorsi che mi sono ritrovata a fare, nella fotografia e nella lettura, è stato quello della paesologia. Che in sé non ha bisogno di presentazioni, specie se si parla di Franco Arminio. La verità forse – ma l’ho capito solo più tardi – è che avevo bisogno di poesia. Ma siccome io e la poesia andiamo poco d’accordo, avevo bisogno di qualcuno che questa poesia me la spiegasse in qualche modo, me la facesse incontrare e ci presentasse a metà strada, come quando la tua amica ti fa conoscere un ragazzo che potrebbe piacerti e vi date un appuntamento in un caffè, una cosa veloce perché poi viene una certa e devo scappare, l’alibi che ci aspetta dietro l’angolo.

In fin dei conti, la magia dei libri è un po’ questa: il potere curativo di alcune letture che arrivano per caso ma poi alla fine non si sa quanto a caso. 

vento

“Forse è il tempo che gli scrittori lascino le città e prendano la via delle montagne e dei posti sperduti. Da questo volontario esilio rispetto alle città-garage potrebbe nascere un nuovo umanesimo in cui l’uomo capisca di essere un animale tra altri animali e non l’ingorda creatura che si sta mangiando il pianeta”

bianco e nero

“Una volta c’era più allegria, una volta c’era più gente. Il tappeto su cui sono disegnati questi ragionamenti è sempre il rimpianto. Nei paesi non ci sono molte ipotesi sul futuro. Sembra che il futuro sia bandito. Tutto è avvitato nella mestizia del presente e nella fantasia del passato. Fantasticare è in genere un’attività rivolta al futuro. Invece nei paesi si fantastica sul passato”

porta

“La paesologia non si occupa di chi parte ma di chi resta. È la disciplina che segue chi non avanza a vele spiegate, ma chi inciampa, chi sente la vita che si guasta giorno per giorno, paese per paese”

 

finestra

“Per questo i paesani che pensano di cavarsela introducendo nella loro vita le uscite tipiche dei metropolitani fanno un errore piuttosto grave: basta tornare dopo due giorni di assenza, basta dormire una notte fuori ed ecco che il luogo natio ti appare assai più mesto di come lo percepisci normalmente.
Andare in un paese è come andare a teatro, un teatro a cielo aperto, con la recita muta dei muri, dei lampioni, delle porte chiuse, con gli sguardi dei vecchi, con le loro parole che nessuno più ascolta, e poi un gatto che attraversa la strada, una macchina parcheggiata: tutte cose singole e spaiate che s’impongono all’attenzione perché non sai che fare, non puoi stordirti con la patina dell’eccezionale”

porta 2

È che lì non ci sono piazze, perché la piazza d’una volta era la stalla, il luogo più caldo. E non ci sono panchine, forse perché la gente non ha l’attitudine mediterranea ad oziare en plein air. Quando si esce è sempre per fare qualcosa. Qui non s’improvvisa nulla. L’ozio, se c’è, è clandestino. Tetra pazienza di restare qui / a morire in casa o lavorando: / non ci sono panchine, / il Nord calvinista quando sta fuori è in piedi”

bianco e nero 2

Forse un giorno non lontano sarà evidente che l’irrealtà con cui abbiamo svuotato il mondo e noi stessi può essere sconfittatornando a vivere in luoghi dimessi e appartati, tornando ad accumulare giornate bianche, giornate in cui accade poco, ma quel poco che accade non svanisce nella girandola che c’è adesso”

Buona lettura 🙂

Agosto in compagnia: longform, reportage, riviste, narrativa

internazionale

La bella notizia è che in Agosto non tutti vanno in ferie – o forse ci vanno pure ma prima di abbassare le serrande si premurano di lasciare noi, longform e reportage addicted, ben equipaggiati.

Questo che segue è il mio personale elenco di letture estive, o meglio, una parte di quello che sta spiaggiato, adesso, sul mio comodino: un’isola di conforto specie per me, che son quella che di notte, quando non riesce a prendere sonno, pensa agli autogrill sparpagliati lungo la A14 e aperti 24 ore su 24, e a chi ci lavora dentro; quella che non riesce ad ascoltare i programmi radiofonici in differita, ma solo in diretta, quella che nei centri commerciali non entra mai dopo le otto di sera. Sono fatta così: una personalità abbandonica.

Sicché non manco mai di comperarmi lo speciale estivo di Internazionale, che quest’anno tra l’altro è dedicato al tema del viaggio: 164 pagine di reportage e foto da tutto il mondo, tra cui – solo per dire:

  • “La Nato gioca alla guerra”, di Alexander Schnell (Svizzera): all’apice della crisi in Ucraina, l’alleanza atlantica ha svolto delle grandi esercitazioni in Baviera. Decine di persone sono state pagate per recitare il ruolo dei civili sul campo di battaglia
  • “Pellegrinaggio sul monte Fuji”, di Magdalena Rittenhouse (Polonia): venerata come una divinità per la forma e le proporzioni perfette, la montagna più famosa del Giappone è un vulcano attivo che non erutta da trecento anni
  • “La grande traversata”, di Elizabeth Weil (USA): nel 2017, a settant’anni, il polacco Aleksandr Doba ha attraversato l’oceano Atlantico in canoa. C’era già riuscito nel 2010 e nel 2013. L’anno scorso è partito dal New Jersey e dopo 110 giorni è arrivato in Francia
  • “La Cina guarda in alto”, di Ross Andersen (USA9: tra le montagne del Guizhou è stato costruito un gigantesco radiotelescopio per cercare i segni di intelligenze extraterrestri. Ma qualcuno spera che non trovi niente

E sono soltanto a pagina 70. Fatevi voi un’idea della vastità della questione, che non finisce qui perché anche on line (nella sezione foto / portfolio) c’è parecchio materiale: ad esempio la presentazione del volume “Un’estate con te” di Claude Nori (una cosa talmente bella che non si riesce neanche a descrivere) o di “Super Extra Natural“, il photobook dal Giappone (16 viaggi, dal 2004 al 2016) della fotografa statunitense Emily Shur.

un estate con te

super extra

Salvati nei preferiti ho anche tutti gli articoli di Studio estate pubblicati fin’ora: Anna Momigliano, Davide Coppo, Clara Mazzoleni, Francesco Longo, Silvia Schirinzi, Letizia Muratori, Teresa Bellemo, Elena Stancarelli scrivono per ricordarci come eravamo (“Il fascino dello stabilimento balneare“), come siamo (“L’abbronzatura, l’ultimo dei tabu” – “Il gelato come illusione“) e come saremo (“I gonfiabili da piscina ai tempi di Instagram“).

Anche la costola on line della rivista “La Ricerca” propone spunti interessanti: Gian Paolo Terravecchia (Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova) riflette su “Cellulare in classe: problemi e prospettive” mentre Mauro Reali (Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica e autore di testi Loescher) firma la recensione al volume “Arcipelago: isole e miti del Mar Egeo” di Giorgio Ieranò (Einaudi, 2018)

E poi, last but not least, i racconti di Inutile: per non perdere il vizio.

Ce n’è abbastanza per un’estate intera? Tecnicamente sì, ma anche no. Se avete altri consigli o suggerimenti, scriveteli qui nei commenti oppure a info@appuntidicarta.it : sarò felice di condividerli.

“Gli schermi sono finestre attraverso cui osserviamo. Davanti a loro siamo spettatori. I libri, invece, sono porte. Il lettore non resta fuori a guardare; deve entrare e costruire il libro via via che lo legge. Forse per questo in treno i lettori alzano spesso lo sguardo al finestrino: come chi s’immerge in apnea e ha bisogno di tornare in superficie per respirare. Quelli che guardano gli schermi somigliano più ai sub professionisti. Non hanno bisogno di risalire spesso in superficie, ma le mute gli impediscono di sentire l’acqua sulla pelle. Guardare dal finestrino del treno è sempre un invito a pensare, a ricordare, a immaginare. Un po’ come leggere.” (“Costruire mondi”, di Cristian Vàzquez, Letras Libres, Messico – Internazionale viaggio, editoriale pag. 11)

Buona lettura 🙂

 

 

 

“Cattiva”, di Rossella Milone

cattiva

“Il tempo da soli con una neonata può essere orrendo. Non passa, è pesante, è pericoloso. Ti fa guardare in faccia chi sei, e alla fine sei qualcuno di solo e inesperto”

Non sono mai stata in grado di apprezzare per intero i racconti auto-ironici sulle disavventure della maternità. Un mio limite, suppongo.

Comunque c’era questo trend alcuni anni fa e va detto, l’operazione ha funzionato: per la prima volta infatti, grazie ad alcune ardite outsider (blogger, giornaliste, madri comuni con un certo talento per la scrittura e l’utilizzo dell’internet) sono venuti alla luce in maniera colorata, divertente e spiritosa tutti quei piccoli e grandi dolori della giovane puerpera che sino a quel momento erano stati come lasciati da parte – dimenticati, ignorati – intenzionalmente o meno. Dimenticati o ignorati senza secondi fini, perché tanto è stato sempre stato così quindi è inutile lamentarsi, dimenticati o ignorati con deliberata pianificazione, perché se non canti inni di gioia ogni volta che una ragade ti spacca un capezzolo, non sei una madre degna.

Quindi ben venga che qualcuno abbia trovato il modo di far sapere al mondo che sì, far figli è proprio una bella storia ma ci sono quei due o tre punti che varrebbe la pena mettere in chiaro. Perché il bodyshaming in gravidanza esiste; esiste pure la competizione tra puerpere, o l’assenza dei padri – sì, anche quella esiste; e da ultimo, udite udite, esiste anche la depressione post-parto e di depressione post-parto soffrono milioni di donne nel mondo, e di depressione post-parto a volte ci si rimane anche secche, o si fa ancora peggio. Ma spesso parlare di questi temi significa(va) fare come nella famosa storiella dei vestiti nuovi dell’imperatore: tutti sapevano che il sovrano era nudo ma nessuno voleva prendersi né la briga né il fardello di farglielo notare.

Detto ciò, per quanto mi riguarda (SPOILER: questo è un post un po’ più intimo del solito, abbiate pietà) sdrammatizzare va bene perché se no sai che pesantezza, ma la verità è che io sono sempre stata più incline al dramma che alla commedia. Sicché mi trovo a fare le tre di notte per finire “Cattiva“: perché Rossella Milone racconta, senza tanto girarci in giro, l’abisso profondo, e ne parla come piace a me: ci si affaccia, lo guarda bene e poi, dando voce a tutte quelle come me, noi che non siamo brave con le parole, lo descrive nella sua crudezza.

“Quando mia figlia piange io so di essere un animale e corro. Non è amore, è corsa; un’impellenza da cui mi devo salvare. Quando mia figlia piange io la devo salvare. A me a salvare qualcuno non me lo ha insegnato nessuno”

In una manciata di pagine, con un linguaggio secco e brutale intessuto di dialetto e materia, la Milone ci parla di Emilia, giovane donna napoletana, e delle settimane successive alla nascita della prima figlia. Sono giornate intensissime, lunghe eppure brevi, in cui l’orologio pare aver cambiato il suo giro consueto, rifiutandosi di obbedire alle leggi dell’alternanza giorno e notte che per tanti anni avevano scandito le nostre attività dentro e fuori casa. Giornate sospese, fatte di riflessioni e spaventi, paure e pensieri, fatica fisica e sfinimenti mentali – perché si sa, l’estrema gioia e l’estremo dolore prostrano allo stesso modo; fatte di suprema, fisica aderenza, e nello stesso tempo di enorme solitudine.

“Se soffri tu soffro anch’io, mamma, e questa fu la prima libertà che persi: la libertà di stare male, ché se il mio cuore perdeva un battito lei ne perdeva due”

“Non ha bisogno di me, ha bisogno di ciò che le so dare. E io non so cosa le so dare, se non il latte”

Sono giornate che trascorrono alla ricerca continua di punti di riferimento vecchi e nuovi: dai nonni che non è detto siano di aiuto anche se presenti – come ben sottolinea l’autrice, al marito che comunque ritorna subito alla propria routine (la quale, va detto, mica è mai cambiata più di tanto), alla vicina di casa che pare sapere sempre tutto, alle amiche che però si dileguano, al lavoro che chissà se si potrà riprendere, alla pediatra che parlare con un divano darebbe più soddisfazione.

“Mentre lei succhia io posso ritornare a essere viva, non per la vita che passo a lei, no: per la vita che devo passare a me. Perché magari un paio di pagine di un libro pescato dalla libreria riesco a leggermele, venti minuti di un film preso a caso in Tv riesco a vedermeli, starmene coi piedi abbandonati sul divano, mentre con una mano faccio le parole crociate, riesco a stare”

“Cattiva” è intessuto di parole vere. E se da una parte mi viene da concordare con il famoso assunto, che chi non ci è passato non può capire, dall’altra permetto a me stessa di pensare che questo libro andrebbe fatto leggere in tutte le medie superiori della nostra penisola – ma d’obbligo però, di programma. In primo luogo, perché è un testo non giudicante e molto oggettivo nei fatti – fatti che, certo, non accadono sempre ma che per il solo fatto che potrebbero accadere e talvolta accadono dovrebbero metterci tutti sul chi va là. In secondo luogo, perché secondo me aiuta nel contestualizzare le esperienze.

Mi spiego (SPOILER II, vedi sopra). Mi sono imbattuta in questi giorni in una polemica molto social che riguardava una delle più famose influencer italiane la quale, divenuta mamma da pochi mesi, è diventata oggetto di feroci critiche per la sua vita poco dedita alla prole – a quanto pare. Quel che mi ha stupito non è tanto l’esperienza della singola persona che comunque, date le contingenze, non credo debba venire presa a misura, quanto la violenza verbale dei commenti pubblicati on line e il messaggio complessivo che viene fuori da questa storia. In primis, un relativismo etico con cui, forse per l’età, faccio fatica a interagire (il corpo è mio e decido io, se ti dà fastidio vai da un’altra parte), seguito a stretto giro dall’aggressività di talune risposte (stai zitta e torna in cucina a fare il sugo in ciabatte e mollettone) a cui si affianca, di contro, la strenua difesa di un ben preciso concetto di maternità autoreferenziata che è quella che poi porta alla competizione tra mamme, intessuta di bugie nella mitizzazione di aspettative francamente inaccessibili.

“Ci sono certe cose che nessuno vuole sforzarsi di comprendere, e in quel momento in cui non vuoi comprendere l’odio si trasforma, non più incandescente e vivo e fertile come l’odio è, ma una cosa morta e inutile, e questa cosa è il disprezzo”

La questione che mi stupisce è, di fatto, la difficoltà nell’affrontare una delle emozioni più potenti e distruttive che esistano: la paura. Da una parte c’è infatti il terrore (esemplificato dall’immagine della donna sciatta, chiusa in cucina a preparare la pietanza per marito e figli) di trovarsi ingabbiate nel piccolo mondo asfittico che in qualche modo fa parte dell’esperienza di chi a oggi è in età riproduttiva. La maggior parte di noi ha per madri donne che dopo il parto hanno rinunciato al lavoro e ai divertimenti, perché figlie a loro volta di un’Italia del passato; madri che a quanto pare sono state capaci di trasmettere alle proprie figlie, ovvero a noi, soltanto la pars destruens della storia, cioè le indubbie fatiche dell’accudimento genitoriale, tralasciando il significato profondo e non scontato della parola “sacrificio” (con tutte le gioie, il senso di liberazione e i cambi di prospettiva che esso porta con sé). Ne viene fuori una donna aggressiva, che in nome di una presunta “libertà” da conquistare e mantenere, accetta acriticamente qualsiasi modello sociale altro – basta che sia diverso da quello di cui ha esperienza, che rifiuta in toto (ma attenzione, rifiutare un costrutto sociale non vuol dire liberarsi automaticamente dal senso di colpa, anzi). Dall’altra parte c’è l’angoscia – che si trasforma spesso in terrorismo psicologico (il tuo CUCCIOLO ne soffrirà, chiamerà ‘mamma’ la tata) – di chi, facendo proprio quel valore rifiutato dalla maggioranza (il senso dell’accudimento esclusivo, il tempo della mutazione, la rinuncia a ciò che era prima) si scaglia contro tutti coloro che, in un modo o nell’altro, cercano di mostrare i limiti intrinseci a questa interpretazione e di dare legittimità a un altro punto di vista. In tutto questo, il buon senso va a farsi benedire e, last but not least, le figure maschili scompaiono: impaurite si fanno da parte, ridotte al silenzio.

Emilia sta nel mezzo. Questa bambina, così desiderata e voluta, è altra cosa dalla figlia immaginata: non dorme, piange sempre, è una bambina ad alto contatto, non dà tregua. Il marito Vincenzo pur attento e premuroso è di fatto distante dalla quotidianità del puerperio. I genitori di Emilia non sono d’aiuto, incastrati tra supposizioni e pregiudizi (e la convinzione che Emilia farebbe bene a togliersi dalla testa l’idea di tornare al lavoro – questa è una delle pagine più belle, più struggenti).

Non funziona nemmeno il servizio pubblico: la culla in camera è una favola che ci si racconta in tante, ma a cui non crede quasi nessuna (“E poi dovevo tenermi le forze per quelle notti con la neonata, lì in ospedale, che in quell’ospedale c’era il rooming-in, come se in inglese suonasse meno faticoso: i bambini li devi accudire da subito, diventi madre da un’ora all’altra, e quando ti accorgi che semplicemente non ne sei in grado, non sai cambiare manco un pannolino, altro che evoluzione, vorresti tanto stringere la mano a Darwin e dirgli Ma vaffanculo”). I pediatri, sbrigativi e poco empatici.

La soluzione a cui arriva Emilia, perché ci arriva, non ve la racconterò: non è una pillola miracolosa, è qualcosa che si trova alla fine di un cammino, e in questo caso il cammino è il processo di fruizione del testo. Una lettura che spesso non scorre né facile né piacevole, perché o non c’è mai stata immedesimazione (figurarsi, che esagerazione), o il testo risulta fin troppo destabilizzante (dallo speriamo che a me non capiti al o Dio mio, ecco cosa mi è successo, non ne voglio sentir parlare mai più), ma che è necessaria, e va fatta.

Io confido molto nell’istruzione. Nella lettura, nell’approfondimento, nella creazione di figure professionali adeguate che riescano ad aiutare le donne a trovare la propria dimensione nella maternità al di là di ogni pregiudizio, convenzione, imposizione. Ecco perché secondo me i libri come questo di Rossella Milone dovrebbero essere letti a scuola.

“Quando sono rientrata Vincenzo era seduto sulla sedia a dondolo di vimini, è lì che li ho trovati: incastrata nell’incavo del suo gomito c’era la testolina di Lucia, il corpo abbandonato nel calore del padre; una coperta di cotone, la tettarella del biberon tra le labbra che lei schifa, che spesso rifiuta. (…) Eppure la bambina lì nel suo grembo, mi pareva, finalmente aveva recuperato un po’ di serenità”

Buona lettura 🙂

“Loop”, di Simon Stalenhag (trad. Luca Di Maio)

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Prestate attenzione a “Loop” – perché è un condensatore di incubi. Qualcuno può pensarla diversamente e affrontarlo con leggerezza; eppure, “Loop” è anche altro.

Parte del fascino di questa graphic-novel, che in realtà è un ibrido a metà strada tra la fiction distopica, il reportage d’invenzione e un silent-book, passa attraverso il meccanismo di immedesimazione che è per molti, ma non per tutti. I più giovani apprezzeranno la qualità delle tavole, l’abilità dell’autore e la trama di una narrazione avvincente che strizza l’occhio alle mode del momento (Twin Peaks, Stranger Things, The Dark). I meno giovani si troveranno di fronte a un magnifico horror apocalittico che tenterà con tutte le forze di portare in superficie tutti quei ricordi di infanzia che si credevano, o si speravano, ormai sotterrati nell’oblio della dimenticanza.

La realtà distopica dipinta dal visionario Stalenhag è un’architettura complessa di piani temporali in cui il presente – attuale, in background – è un mero strumento di recupero di un passato non privo di attrattive (i primi anni ’80) all’interno del quale un gruppo di bambini vive una realtà quotidiana permeata da elementi ancora più remoti, risalenti agli anni Cinquanta. Le commistioni sono moltissime, stratificate, e il fascino per due periodi storici così complessi se per i più giovani ha il sapore di una ri-contestualizzazione fedele e coinvolgente, per i meno giovani acquista un senso diverso, più incline alla malinconia e al sentimento un poco opprimente delle cose perdute.

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“Loop” per noi meno giovani è tornare all’infanzia, specie se vissuta nei campi, nelle periferie, in un paese piccolo dalle attrattive limitate e dall’economia non particolarmente florida. E’ fare i conti con una realtà modesta, con la scarsezza di mezzi pratici, con famiglie all’interno delle quali le difficoltà quotidiane, legate alla durezza fisica di un mestiere pesante, corrompono i sentimenti. Se da una parte qualcuno apprezzerà i rimandi a Sonic The Hedgehog e a Godzilla, dall’altra qualcun altro non farà altro che notare l’ambientazione wilderness, la quotidianità di bambini avvezzi a stare all’aperto e divertirsi col poco che offre l’ambiente, le difficoltà nel rapporto con le figure istituzionali, specie nella scuola, l’impegno indefesso dei genitori nel tentativo di superare lo scarto generazionale, psicologico, culturale ed economico che divide la realtà del cosiddetto boom economico da quella precedente, figlia del periodo post-bellico e della guerra fredda; e l’ingenuità con cui gli adulti, in nome di un progresso che pareva del tutto positivo e inarrestabile, abbracciava acriticamente qualsiasi novità tecnologica e industriale venisse suggerita e proposta, dall’eternit all’atomo.

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Naturalmente a ciò si deve aggiungere il tema distopico che non manca di spunti interessanti: l’utilizzo mal governato di tecniche di fatto sconosciute, l’inquinamento ambientale, la critica sociale e il romanzo di formazione.

Leggendo “Loop” insomma noi adulti di una certa età anagrafica ci ritroviamo ancora lì, col sedere poggiato sulla polveriera del nostro passato: ancora una volta bambini insicuri, incastrati dentro un mondo nuovo ed estraneo che nemmeno i nostri genitori erano in grado di comprendere ma a cui, in nome di schemi precostituiti che pareva irriverente non rispettare, era necessario affidarsi. Un’ingenuità appena venata di dubbio che ci riporta con inquietudine, amarezza e un pizzico di nostalgia a un’età, e una realtà, molto diversa da quella attuale.

Buona lettura 🙂

Note:

  1. La curiosa storia di come ho scoperto Simon Stalenhag l’ho raccontata qui sul blog (il mistero dei libri che chiamano altri libri: in questo caso si tratta di una… partita di poker on line) e anche su IG, negli highlight con tag #percorsi
  2. Restiamo in attesa di “Things from the Flood” (il seguito di “Loop”), uscito a gennaio 2017 e ancora inedito in Italia.

“Il libro del mare”, di Morten A. Stroksnes (trad. di Francesco Felici)

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“Abbiamo mappato il globo e non riempiamo più le macchie bianche con strani mostri o animali fantastici creati dalla nostra fantasia. Ma forse dovremmo. Perché la vita sul pianeta è ben lungi dalla sua completa rivelazione. Poco meno di due milioni di specie animali sono state finora descritte dalla scienza, ma i biologi stimano che al mondo esistano in totale circa dieci milioni di organismi pluricellulari. Le scoperte più grandi aspettano in mare” (p21)

“Tra di noi non è quasi mai opprimente, il silenzio. E questa è una buona definizione, di amicizia, non peggiore di altre” (p237)

Prendete un poliedrico artista norvegese. Pittore, scultore, perfino musicista. Uno che, in spregio alla lunga trazione familiare che li voleva tutti pescatori nell’Artico, figli nipoti e pronipoti, appena adolescente si iscrive a una prestigiosa accademia di design, ne viene fuori col massimo dei voti e per i successivi 30 anni non fa quasi nient’altro se non esporre le proprie installazioni nelle gallerie internazionali più quotate.

Poi mettetegli accanto il suo migliore amico, quello della giovinezza, che nel frattempo ha studiato ed è diventato un acclamato autore internazionale di longform, saggi e reportage letterari.

Bene. Prendete questi due bizzarri individui – che di casa stanno nelle Loften, tra i fiordi norvegesi – dotateli di un po’ di tempo libero, issateli su un piccolo e scalcagnato gommone, dategli in mano una catena da pesca, quattrocento metri di lenza di nylon, ami in acciaio inossidabile lunghi più di venti centimetri, una carcassa di vacca putrefatta come esca e lanciateli alla caccia del Grande Squalo della Groenlandia, un bestione preistorico quasi completamente cieco, che può vivere anche 400 anni, dalle carni tossiche perché contenenti urea e che risulta essere a oggi il più grosso squalo carnivoro del mondo, date le dimensioni.

No, non è la rivisitazione horror di “Three Men in a Boat (To Say Nothing of the Dog)” ma poco ci manca.

Hugo Aasjord (1955) è cresciuto e vive tra le isole Lofoten e il distretto di Steigen. Le sue opere sono per lo più di carattere astratto ma conservano ben evidenti le tracce della materia da cui trae continua ispirazione: i paesaggi della costa norvegese, la natura che circonda le aree costiere, la luce che permea la terra e soprattutto il mare. Parte della storia di Aasjord e della sua famiglia – tra cui l’ultimo suo progetto, il restauro autogestito dell’“Aasjordbruket”, lo stabilimento per il trattamento del pesce che era di proprietà della sua famiglia al fine di trasformarlo in uno spazio espositivo polifunzionale, comprensivo di stanze per il pernottamento e ristorante – è raccontata da uno dei suoi più cari amici, lo scrittore e giornalista Morten A. Stroksnes (1965), nelle pagine di “Shark Drunk: The Art of Catching a Large Shark from a Tiny Rubber Dinghy in a Big Ocean Through Four Seasons” (suona più o meno così la traduzione inglese dal Norvegese “Havboka – eller Kunsten å fange en kjempehai fra en gummibåt på et stort hav gjennom fire årstider”). 

Il volume, vincitore nel 2015 del Brage Prize e del Norvegian Critics Prize for Literature e in corso di pubblicazione in ben 21 Paesi, l’anno scorso è uscito anche in Italia, per Iperborea, con il titolo “Il libro del mare – come andare a pesca di uno squalo gigante con un piccolo gommone su un vasto mare” ed è un fantastico, incredibile, stupefacente zibaldone di cose marinaresche.

Per mezzo di uno stream of consciousness sgangherato ovviamente soltanto all’apparenza, Stroksnes procede seguendo proprio le orme di Jerome K. Jerome: le spedizioni che i due amici intraprendono alla ricerca del malefico pescione (ogni riferimento al capitano Ahab è ovviamente puro caso) si trasformano ben presto in pretesti, più o meno concreti, per prendere il largo, abbandonarsi alla Natura, cazzeggiare, riflettere di ecologia e riscaldamento globale, raccontarsi aneddoti e vecchie storie di famiglia, fare progetti a lungo termine, bere un po’ di più del consentito, ritrovare lo spirito dell’avventura, discutere, bisticciare. Con un’unica differenza: che se George ed Harris pagaiavano dolcemente da una riva all’altra del Tamigi, immersi nell’Austeniana campagna inglese, qui abbiamo a che fare con il Circolo Polare Artico; il che vuol dire mare aperto, tempeste improvvise, onde massicce come mura di pietra, qualche grado sottozero, mostri marini dalle svariate tonnellate di peso e, talvolta, possibilità più che concrete di non riuscire a recuperare la rotta verso casa.

“Il libro del mare” è un libro coltissimo, dalla bibliografia sterminata (che Stroksnes si pregia di inserire tutta in appendice, Dio lo abbia in gloria). Le digressioni sono immense – a opera del “protagonista” Stroksnes – e toccano i più svariati argomenti: trattati di biologia marina, dissertazioni di cartografia, vicende storiche, narrazioni di miti e leggende nordiche. A bilanciare le pagine dotte stanno poi i racconti di Hugo, riportati sempre da Stroksnes, che puntano sulla dimensione intima, personale dei ricordi delle avventure in mare vissute da bambino, quando il pittore accompagnava il padre e i fratelli, o sulle coinvolgenti “storie di pesca” tramandate da generazioni, invischiate di iperboli e superstizioni popolari, ma anche sull’esperienza della pesca in sé – a testimoniare di quanto la vita sul mare abbia permeato il vissuto del pittore nonostante egli se ne sia professionalmente allontanato in giovane età – che mi hanno fatto pensare alle digressioni omeriche sul “come fare”: quella parte dei poemi omerici che, attraverso il canto a uso didascalico, tenevano viva in tutto il mondo greco percorso dagli aedi, dalle corti degli aristocratici alle feste di popolo, la conoscenza dei mestieri: come costruire una barca, come dipingere uno scudo, come intagliare il legno o la pietra.

“Nansen scrisse anche degli iperborei. Secondo la mitologia greca questo popolo viveva *a nord del vento del nord*, in prossimità del mare più settentrionale, dove le stelle andavano a riposarsi e la luna era così vicina che si potevano vedere i dettagli della sua superficie. Gli iperborei potevano mettersi in testa di invitare il dio Apollo a una danza o a una cena. Qualcuno sosteneva che nella loro terra ci fosse un tempio enorme a forma di sfera che fluttuava a mezz’aria, sostenuto dai venti. Gli iperborei erano anche molto musicali, e passavano la maggior parte della giornata suonando il flauto e la lira. Non conoscevano né guerra né ingiustizia, non invecchiavano mai né si ammalavano. Erano, in altre parole, immortali. Quando si stancavano della vita, si buttavano da una scogliera, con ghirlande tra i capelli. Thule, gli iperborei e altre misteriose fantasie sul Nord non sono caratterizzate dalla desolazione, ma da bellezza, purezza, quiete – e da una grande nostalgia per tutto questo. Il Nord sconosciuto era una sorta di riserva o rifugio per qualcosa di elevato, qualcosa di cui noi non potevamo godere, qualcosa di virginale e puro – in un certo senso di immacolato” (p227-228)

“Il libro del mare” è opera di autentico New Nature Writing perché è il racconto, indiscutibilmente personale e lirico, di un’amicizia profonda e duratura – che si sviluppa nel tempo e come tutte le amicizie vere affronta gli alti e i bassi delle circostanze individuali misurando il proprio valore non in giorni ma in anni – racconto che viene inserito all’interno di un contesto prettamente wilderness. Ma è anche un esempio di ciò che al momento la narrative non-fiction può fare per venire incontro a un pubblico di lettori alla ricerca di una saggistica nuova, che porti in sé una facilità di esposizione al di là dell’accademia ma che, di contro, non scada né in raffinatezza di forma né in qualità di contenuti.

Ovviamente non vi starò a raccontare come è finita con lo squalo della Groenlandia. Per saperlo dovrete leggere “Il libro del mare” sino alla fine.

Buona lettura 🙂

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“Orrore”, di Pietro Grossi

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“Se solo. Di tutti i momenti per cui da anni mi maledico, questo è l’unico indipendente da me e da qualunque mia volontà. Dunque, il più immacolato. Di questo posso evitare di domandarmi se sia il frutto di altri fatti o scelte precedenti, ripercorrendo la mia vita all’indietro fino a perdere traccia dei ricordi. No, questo è un momento esatto, libero da qualunque necessità di analisi. Se solo. Tre semplici, striscianti sillabe, capaci di sgretolare esistenze come termiti in una trave di legno” (pag14)

“Orrore” l’ho letto in meno di due ore, accartocciata dentro lo scomodo sedile di un Frecciarossa seconda classe, un venerdì sera di esodi estivi e temporali. Mentre il treno di tanto in tanto rallentava e scricchiolava un po’, per via della grandine, e fuori dal finestrino il cielo si faceva prima giallo e poi color del carbone, io non potevo fare altro se non girare le pagine, una dopo l’altra, di questo racconto nerissimo che ha la capacità di riportare il lettore indietro nel tempo, schiaffeggiando i suoi sensi intorpiditi.

Pietro Grossi (classe 1978, vincitore del premio Campiello Europa 2010 – edizione Gran Bretagna – con la raccolta di racconti “Pugni“) alla sua prima esperienza nel mondo dell’horror utilizza gli archetipi del genere attraverso un lavoro di recupero meticoloso attingendo sia dalla letteratura più nera, da Bram Stoker a Poe, sia a certa, precisa filmografia che evidentemente ha fatto parte della sua infanzia, dati i rimandi presenti nel testo.

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“Superate una zona industriale e una rotonda, prendemmo a salire lungo una bella e larga statale a curve. Attraversammo una piccola valle, passammo qualche paesino e imboccammo una strada a destra. Salimmo e scendemmo un paio di colline. La strada si srotolava in mezzo ai boschi, corteggiata da querce con indosso appena qualche foglia secca. I rami spogli si allungavano intorno ai tronchi come scariche elettriche” (pag32)

Impegno accurato che travalica il fine utilitario per diventare omaggio alla tradizione di quell’horror classico che non ha né nome né volto ma che è, prima di tutto, sensazione, atmosfera, introspezione. E che diviene ancora più convincente per via delle ambientazioni coeve.

L’inverno rigido e nevoso dei boschi umbri, un vecchio mulino isolato e fatiscente, la provincia italiana più profonda. Le luci dell’albero di Natale e la malinconica irrequietezza che il clima delle feste spesso porta con sé; l’infiacchimento di uno scrittore in crisi di identità che nemmeno la nascita del suo primogenito riesce a rianimare, ma che si tutto d’un tratto si esalta di fronte all’insperato dono di una bella storia da raccontare.

L’orrore non ha né nome né volto. Alberga in certe case borghesi, dai corridoi lunghi, scuri e stretti, nelle collane di perle di vecchie signore, nell’odore di flanella dei copriletti. Quasi scaturisce proprio dall’interno degli oggetti stessi: una stanza ammuffita al cui interno giace un tavolino perfettamente tirato a lucido, una porta chiusa a chiave affacciata sul nulla: il topos della casa stregata che, come un animo senziente – il nostro, quello di ciascuno di noi – contiene in sé il germe del male che siamo noi stessi a richiamare al mondo, spalancando la porta proibita.

“Orrore” si attiene ciecamente alla regola del “se solo” come ogni horror che si rispetti. Se solo l’amico Diego non avesse fatto cenno al protagonista (ndr: il racconto è redatto in forma di lunga lettera, scritta in prima persona dal protagonista scrittore e indirizzata al figlio) di quella brutta avventura accadutagli in montagna. Se solo lo scrittore fosse stato un po’ meno sensibile al richiamo di una trama promettente, se soltanto avesse riflettuto un po’ di più sul suo ruolo di padre, così nuovo, così giovane e pieno di ricchezze. Se solo, quel giorno, non avesse preso una decisione che avrebbe cambiato, nel giro di pochi minuti, non solo la propria vita ma anche quella di tutti coloro che lo circondavano.

“Il punto, in fin dei conti e fin dall’inizio, restava sempre lo stesso: valeva la pena stare lontano da casa e da voi per seguire le fumose tracce di quella vicenda?” (pag69)

Ripercorsi in un lampo la mia vita e mi tornarono in mente tutte le occasioni in cui mi ero pentito di essere stato frettoloso. Il mio passo era sempre stato la marcia e – a differenza di altri che dovevano imparare a sveltirsi – la sfida per me era sempre stata imparare ad avere pazienza. Ripensai alle innumerevoli volte in cui mi ero ripetuto questa semplice frase, *nel dubbio, fermati*, a quanto spesso mi ero pentito di non averla seguita e quanto invece mi aveva giovato quando ci ero riuscito.

Eccomi dunque, innanzi alla grande prova: lontano da casa, al freddo, in un inospitale paesino sperso nei boschi, di fronte a una storia grigiastra e con tutti i buoni motivi per andarmene, sarei invece rimasto, e avrei atteso” (pag79-80)

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Buona lettura 🙂

“La casa sull’estuario”, di Daphne du Maurier (trad. di Maria Napolitano Martone) #EstateconADC

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The House on the Strand” è uno dei miei libri del cuore. Il perché sia tornato a casa solo ora, e dopo tanti anni, è uno di quei misteri che riguardano le mie letture: inutile credere di poterne venire a capo.

Se proprio volessimo approfondire, potrei dirvi che lo lessi nella primavera dei miei 12 anni. Ci spesi sopra due pomeriggi che trascorsi in soggiorno, spiaggiata sul nostro rigido e scomodissimo divano color castagna; intanto, fuori dalla finestra, la fine di aprile era incarognita da una pioggia insistente e fredda.

Di quei due giorni mi ricordo il momento in cui scovai quel volume ancora intonso nella libreria dei miei genitori, tra i tanti che facevano parte di una selezione del “Club degli editori” a cui ci si era abbonati all’epoca. E l’insindacabile bruttezza della copertina spingeva a guardarci dentro, per paradosso e puro atto di ribellione preadolescenziale.

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Mi ricordo che la camera da letto dei miei genitori era luminosa ma poco accogliente, perché i termosifoni erano già spenti ma la temperatura non certo primaverile; e che la sveglia sul comodino di mia mamma, un parallelepipedo tozzo, simile a un grosso sapone di cioccolato con le lancette fosforescenti (ebbene sì, in casa mia era tutto marrone, ne avevamo di ogni nuance, purtroppo), segnava le due e trentacinque del pomeriggio. Mi ricordo che quando cominciai a leggere, piantata nel corridoio che faceva da anticamera alle stanze da letto, fui assalita da un terrore così assurdo e potente che l’unica cosa che riuscii a pensare fu che quel libro lo dovevo finire il più in fretta possibile e poi rimetterlo lì, da dove era venuto. Di lasciarlo da parte a priori, ovviamente, nemmeno a discuterne.

La casa sull’estuario” – di Daphne du Maurier, pubblicato nel 1969 – ebbe su di me l’effetto dirompente di un primo contatto: fu il mio primo viaggio nel tempo, il mio primo incontro con un certo modo di scrivere di Natura e di wilderness. Un primo, piccolissimo passo verso il mistero del new-weird. La consapevolezza, per la prima volta, che certi libri inevitabilmente si leggono e poi si perdono, specie se ci sono di mezzo tre traslochi, due città e un matrimonio.

“Le prime cose che notai furono l’aria cristallina e il verde netto della campagna, senza mezze tinte o sfumature morbide. Invece di fondersi col cielo, le colline lontane si stagliavano come rocce, così vicine da poterle quasi toccare, dandomi quel senso di sorpresa e meraviglia che prova un bambino guardando per la prima volta in un telescopio. Anche più da vicino tutto aveva la stessa durezza quasi metallica: l’erba si divideva in singoli steli scaturendo da un suolo più giovane e aspro di quello che conoscevo” (pag.9)

“La marea era bassa, il canale stretto, e ai due lati del nastro azzurro dell’acqua si stendevano strisce di sabbia affollate da ogni sorta di uccelli acquatici che s’immergevano o saltellavano intorno alle pozzanghere lasciate dalla marea che si era ritirata” (pag.130)

“Nevicava. I fiocchi morbidi mi piovevano sulla testa e le mani, e tutt’intorno a me il mondo era diventato a un tratto bianco, senza più erbe estive rigogliose e verdi, e filari di alberi. (…) Faceva un freddo aspro, non la tormenta rapida, tagliente, che spazza le cime, ma il freddo stagnante e umido di una valle dove nell’inverno non penetravano sole o venti purificatori” (pag.235)

Però poi, all’improvviso, ne trovo in libreria l’edizione appena pubblicata da Neri Pozza – Beat: la meraviglia che può venire dalle parole scritte non smette mai di appassionarmi.

Cornovaglia, estate, anni ’60.

Dick Young è un quarantenne insoddisfatto. Si è appena licenziato dalla prestigiosa casa editrice londinese presso cui lavorava da più di vent’anni perché stanco di certi ritmi lavorativi, delle grosse responsabilità che gli vengono affidate e dell’ambiente editoriale.

La moglie Vita tuttavia, (americana ambiziosa, vedova in seconde nozze, due figli ormai grandicelli – nomen omen), vorrebbe convincerlo ad accettare l’impiego offerto dal di lei fratello: lavorare nella parimenti prestigiosa impresa editoriale di famiglia, così da trasferirsi tutti felicemente a New York.

“Lei si girò per affrontarmi nella posa classica della moglie oltraggiata, con una mano sul fianco, una sigaretta nell’altra, stringendo gli occhi nel viso gelido” (pag.139)

Dick prende tempo: il trasferimento non lo entusiasma ma il colpo di testa è stato fatto e ora le alternative non sono molte. Braccato dalla pressioni che sta ricevendo in famiglia, accetta l’invito del suo amico storico dei tempi dell’università, Magnus Lane, diventato nel frattempo uno stimato professore e ricercatore di biofisica, per trascorrere qualche settimana estiva nel cottage della famiglia Lane in Cornovaglia, dalle parti del borgo di Kilmarth.

Peccato che l’invito non sia del tutto disinteressato. Il professor Lane infatti, personaggio di indubbio carisma e di pari furbizia, utilizza il proprio ascendente su Dick per convincerlo a portare avanti alcuni esperimenti nel laboratorio sotterraneo alla cascina. Tra teste di scimmia in formaldeide, alambicchi, cadaveri di animali utilizzati come cavie e boccette di erbe magiche, Dick dovrà testare su se stesso una pozione misteriosa, quasi una droga, che ha la capacità di aprire varchi temporali sul passato medioevale della zona, in special modo sulle vicende delle famiglie di proprietari terrieri Champernoune, Carminowe e Bodrugan.

E lo dovrà fare prima che Vita e i ragazzi raggiungano il cottage per trascorrere insieme il resto delle vacanze. Ma non tutto, ovviamente, andrà come previsto.

“Scesi questa scala e girai la chiave della porta. Il laboratorio non aveva affatto un aspetto clinico. Accanto al vecchio lavandino, sempre al suo posto sul lastricato di pietra, sotto una finestrella a grata, c’era un camino, con uno di quei forni d’argilla che si usavano anticamente per cuocere il pane, contenuto nello spessore del muro. Dal soffitto coperto di ragnatele pendevano ancora gli uncini arrugginiti ai quali venivano probabilmente attaccati una volta carni salate e prosciutti. Magnus aveva disposto i suoi strani esemplari sugli scaffali fissati al muro. Alcuni erano scheletri, altri erano ancora intatti, conservati in una soluzione chimica che li aveva sbiancati.. Non riuscii a decidere che cosa fossero esattamente, se embrioni di gatti o topi. I due soli esemplari che riconobbi, erano la testa di scimmia, dal teschio lucido, perfettamente conservato, simile al cranio calvo di un minuscolo feto umano, cogli occhi chiusi, e accanto un’altra testa di scimmia, da cui era stato asportato il cervello e che si trovava in un barattolo di vetro scurito dalla soluzioni salina in cui era immerso. In altri barattoli e bottiglie c’erano funghi, piante ed erbe con tentacoli mostruosi e foglie sottili e ricurve come lingue” (pag.29)

Discutere sul fascino della scrittura di Daphne Du Maurier sarebbe ridondante. Basti sapere che “La casa sull’estuario” ha in sé tutte le caratteristiche tecniche e tematiche che contraddistinguono le opere di questa poliedrica autrice. L’accuratezza per un’ambientazione coeva affascinante, l’estremo acume con cui vengono tratteggiate le figure femminili (una su tutte, la femme fatale Vita, intelligenza vigile e scattante, agghindata con gonne a tubo, guanti da viaggio, rossetti scarlatti, fumo di sigaretta e generosi bicchieri di gin-tonic), il gusto per la rappresentazione gotica e non ultimo l’interesse per il rapporto tra l’Uomo e la Natura (che di certo all’uomo non è sempre favorevole, basti pensare a “The Birds“, ovviamente).

Prendetevi del tempo per leggere “La casa sull’estuario”. Luglio è il momento perfetto. Non sarà una lettura facile per il semplice fatto che ormai non siamo più abituati a un certo tipo di scrittura che ha tutto tranne che un’impronta cinematografica. Le pagine scorrono lente, in un continuo alternarsi di salti temporali ricchi di personaggi, note, riferimenti.

Ma Daphne du Maurier ha il dono di penetrare nelle cose, come se riuscisse sempre a scattare fotografie in cui una lievissima sovraesposizione riesce a evidenziare dettagli altrimenti invisibili. E poi c’è la paura più pura, quella che viene dal noir e certe atmosfere gotiche che la du Maurier riesce a evocare, a tirar fuori a forza da un passato inglese profondissimo. Quasi come se, in quel passato, lei stessa ci avesse messo piede, in un modo o nell’altro.

Buona lettura 🙂

Nota: in un mondo in cui ultimamente tutti si propongono come “traduttori” basta che abbiano fatto il linguistico e vissuto per un paio di anni in un qualunque paese anglosassone, vi invito a dare un’occhiata alla biografia di Maria Napolitano Martone.