"Promettimi che ci sarai", di Carol R. Brunt


Con lievità, ecco come a volte si riesce a parlare della morte.


New York, dicembre 1986. Domenica. Interno – giorno.
June e Greta Elbus posano per un ritratto.

Davanti al cavalletto è seduto zio Finn, pittore di fama internazionale.
E’ un artista poliedrico, eccentrico: il suo appartamento rivela gusto per l”arredamento esotico e di antiquariato, uno stile personale e variegato che deriva dall’esperienza accumulata nel corso dei tanti anni trascorsi in viaggio per le Americhe e l’Europa, gran cultura musicale – specie per la musica classica – ed enogastronomica.

Sarebbe tutto perfetto se non fosse che zio Finn sta morendo. A causa per altro di una malattia orribile, poco conosciuta, che nel 1986 l’America perbenista ancora condanna e stigmatizza a marchio di una ben precisa categoria di individui – che purtroppo hanno come unica colpa di esserne state, al principio dell’epidemia, le vittime più conosciute.

June, che ci racconterà in prima persona tutta questa storia, ha 14 anni. E’ la nipote prediletta di zio Finn, che ama profondamente. Con lui condivide l’estro artistico, la stravaganza e un profondo anticonformismo. Indossa gonne lunghe e calzature (steam)punk, porta i capelli raccolti in acconciature particolari ed è appassionata di storia e arte medievale, epoca in cui avrebbe desiderato vivere.
Al liceo non ha molti amici e conduce una vita selvatica e introversa a differenza della sorella Greta, di 16 anni, perfettamente inserita (o così sembra) nel tessuto scolastico grazie anche alla popolarità raggiunta con il gruppo teatrale, di cui è esponente di riconosciuta bravura.

La morte di zio Finn scardina la quotidianità familiare e proietta coniugi e sorelle Elbus in un complicato labirinto emotivo fatto di sentimenti mai espressi, fraintendimenti di vecchia data e incomprensioni generazionali: tutti nodi che in qualche modo dovranno (e “vorranno”) venire al pettine.

Perché Danielle, mamma di June e sorella maggiore di Finn, da molti anni nasconde a tutti – figlie comprese – il suo innegabile talento artistico (forse superiore a quello del fratello)? Perché Finn, partito per l’Europa appena maggiorenne e nonostante le promesse di un sollecito rientro, è rimasto lontano dalla famiglia per quasi un decennio?

Chi è l’uomo misterioso che i genitori di June accusano di essere addirittura la causa della morte di Finn? E se veramente esiste una persona così vicina al pittore, perché zio Finn non l’ha mai presentata a June? Ciò significa forse che June non è – agli occhi di zio Finn – quello che credeva di essere, ossia la nipote amata e preferita ma soltanto una delle tante, indistinte, persone di famiglia?

E poi che dire di Greta, da qualche tempo distante, scontrosa e vendicativa? Cosa si nasconde dietro quell’aria da ultimate-teen che non manca mai di mostrare al proprio parterre, quasi fosse un costume teatrale di cui vantarsi e dentro cui nascondersi, più che un reale stato dell’animo?

Piccoli e grandi segreti la cui conoscenza segnerà indelebilmente, per June e Greta, il passaggio dalla vita dell’infanzia a quella dell’età adulta.

Carol R. Brunt con questo romanzo di formazione invita i teens (ma non solo) – con una delicatezza di pensiero che non scade mai nel moraleggiante – a mettere da parte quegli occhiali rosa che spesso alterano la verità delle cose: il dramma della malattia e della morte esiste, permea il nostro mondo e a nulla valgono le mediazioni (neanche quelle letterarie…). La gente muore, così è e così sarà. 
Peggio ancora, l’esperienza quotidiana ci dice che spesso siamo tutti vittime di una certa propensione al giudizio, che tuttavia, ci avverte l’autrice, non è altro se non un banale trucchetto messo in atto dalla nostra psiche ogni volta che la mente si trova costretta a cercare una spiegazione logica a quel che di logico non ha nulla.

C’è un unico insegnamento da trarre quando si affronta la morte, specialmente se essa ci sfiora veramente da vicino:

Il sole continuava a scivolare via, e pensai a quante possono essere le piccole cose belle della vita che poggiano sulle spalle di qualcosa di terribile” (p273)

(Un unico appunto: il titolo originale “Tell the Wolves I’m Home” – maiuscole comprese – ci piaceva assai – di più)

Buona lettura 🙂

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...