"Abbiamo sempre vissuto nel castello", di Shirley Jackson

Più riguardo a Abbiamo sempre vissuto nel castello L’ultimo fine settimana di agosto va celebrato. E per farlo degnamente, vi consiglio Shirley Jackson.
Valente giornalista (The New Yorker) e scrittrice, nasce a San Francisco nel 1916 e muore nel 1965 per un improvviso attacco cardiaco. Effetto collaterale, forse, degli psicofarmaci di cui si serviva.
Un personaggio piuttosto particolare, un’anima di talento ed estro notevole, esemplificato nei suoi lavori letterari che, pur focalizzati su temi e generi ben precisi, non mancano in versatilità, spaziando dalla narrativa per bambini (Nine Magic Wishes), al racconto lungo (i più noti: La Lotteria – 1958; L’incubo di Hill House – 1959; Abbiamo sempre vissuto nel castello– 1964), al teatro. Tutte opere che l’hanno resa, per stessa ammissione dei diretti interessati, musa ispiratrice di Stephen King, Neil Gaiman, Richard Matheson.
Che cos’è “We Have Always Lived in the Castle”. Per gli amanti delle classificazioni, lo si potrebbe ascrivere in primis tra gli horror di ispirazione gotica, perché gli ingredienti ci sono tutti: dal delitto principe, ossia quello della camera chiusa (per altro tanto attuale nella narrativa di genere, anche se declinato con modalità differenti) al maniero in decadenza, simbolo di antiche vestigia e fortune sperperate. Potremmo pensare anche al mystery e al paranormale: la narrazione strutturata secondo le linee guida del punto di vista interno, aderentissime alla norma, aiuta assai.
Eppure tutte le classificazioni scivolano, lasciando insoddisfatti. Questo accade per un semplice fatto: perché “We Have Always Lived in the Castle” è l’opera zero, quella da cui, in un certo senso, tutto parte.
Abbiamo una narrazione che da subito inquieta, un incipit folgorante in cui la protagonista, prendendo perentoriamente la parola, spiega se stessa ai commensali (ops) invitati al banchetto letterario offerto dall’autrice; e lo fa con una tal grazia rovente di leggiadria letteraria da sminuzzare in un solo colpo tutte le descrizioni violentemente cinematografiche a cui ci siamo un po’ assuefatti ultimamente:
“Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leon e l’Amanita Phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.” (p9)
Shirley Jackson non necessita di grandi invenzioni o effetti speciali. Si limita ad esercitare la raffinatezza della sua arte narrativa, focalizzata sull’analisi psicologica. Sottogenere: la malattia mentale, argomento del quale probabilmente non è digiuna.
La forza della scrittura della Jackson è tale perché dell’argomento principe, l’analisi di una psiche corrotta e dei suoi effetti (ecco perché autrice così cara a SKing, che le dedica “L’incendiaria”) ce ne rende partecipi fin dalle prime battute, adottando il punto di vista della protagonista che, da interno qual è, resta per definizione stessa imparziale, profondamente inattendibile.
Ci troviamo prigionieri di un castello di ombre e specchi dentro cui la scrittrice/protagonista si muove da padrona: nella camera chiusa di una cucina antica, in un maniero in rovina, e in parallelo, tra i meandri di una narrazione in cui il lettore è soltanto spettatore. Vittima di un refrain inquietante e surreale, il lettore affronta a poco a poco il dramma e l’incubo della malattia mentale, aiutato da una struttura volutamente a-temporale che trascina verso uno straniamento e una dissociazione dal reale sempre più evidente e profonda. La dimensione dello spazio tempo è dichiaratamente distorta e incongrua: l’azione è sicuramente ambientata negli Stati Uniti, ma il periodo storico ci rimane ignoto, come rimane ignoto agli occhi di Mary Katherine. Ci sono automobili e frigoriferi, ma parliamo di una casa di campagna vecchio stile, ricca di broccati e passamanerie nei cui bei salotti i membri della famiglia, vestiti di tutto punto, si ritrovano per cena o per essere intrattenuti dal dolce suono dell’arpa della bella figlia maggiore Constance. Le stagioni vanno e vengono e profumano di natura, ruscelletti limpidi di campagna, erba di giardini e sole estivo, che illumina la bella villa dei Blackwood e i terreni fertili che la circondano: un non-luogo che solo alla fine si rivelerà in tutta la sua crudele e tragica realtà.
E’ in particolare la psiche infantilead essere oggetto di analisi (nota a margine, siamo sempre al grado zero, ripreso anche ultimamente): dalla figura della protagonista fino al gruppetto dei monelli del villaggio, autori del ritornello di cui sopra, che conficcano a cuneo (come nei migliori SKing d’annata) nella mente e dei personaggi del dramma, e in quella del lettore:
“Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo mi avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire” (p27 et al.)
Atmosfere anni ’30 che ci ricordano un testo un po’ più recente, ma egualmente inquietante: “La casa per bambini speciali di Miss Peregrine, di Ransom Riggs.
D’altra parte, cosa ci si può aspettare dall’autrice di una piece teatrale dal titolo “The Bad Children”, adattamento della favola di Hansel e Gretel?
Buona lettura 🙂

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