La meravigliosa e tragica storia di Snegurocka, la bambina di neve, declinata in tutte le sue alternative regionali, dalla Russia ai paesi Scandinavi, è una fiaba antica e misteriosa che ha la capacità di mostrarsi nel suo significato principale, pregnante – eppure senza clamore, nel più completo silenzio e riserbo (fiocchi di neve piccoli e delicati, pronti a sciogliersi e a svanire al primo sole di primavera) – soltanto ai bambini molto piccoli.
E per far sì che l’epifania abbia luogo in tutto il suo essere occorre sottostare inoltre ad un tacito, ferreo rito di iniziazione: il narratore delle vicende, così tenere e drammatiche, della bambina di neve (parole sussurrate durante una fredda sera di inverno, al chiarore tenue della lampada che illumina una stanza da letto calda e sicura) deve essere soltanto uno: colui che sia – oppure sia stato – genitore a sua volta.
Perché soltanto così, dal sangue diretto, sarà mitigata la violenza della favola: dal ripercorrere attraverso le parole – ovvero, identificando tramite le codifiche rassicuranti del linguaggio e della narrazione – ciò che il proprio corpo e il proprio spirito hanno affrontato, inconsapevolmente, in un passato vicino, o anche lontano. Una catarsi maieutica, un percorso di conoscenza che riporta al significato allegorico principe delle fiabe antiche.
Il miracolo della nascita, affrontata dalla madre tra il sangue e il dolore (e pure nella bellezza di un concepimento che non passa di necessità dal ventre materno ma che può essere anche soltanto immaginato, sognato, plasmato nella neve); quel primo momento di contatto tra il viso della donna e la pelle calda del neonato, la cui temperatura rimarrà impressa, marchio di imprinting animale, tra le pieghe della memoria e guiderà quel gesto antico, di tutte le madri del mondo, quando posano le labbra sulla fronte di un bambino – non solo del proprio – a riconoscere senza tema di errore le prime tracce di una febbre incipiente.
La fatica del bambino, a trovare la propria strada verso il seno e il latte materno, identificando quell’odore dolce e denso che, per paradosso, costringerà la madre ad affidarlo alle braccia di altri, quando non occorrerà nutrirlo, per far sì che il piccolo, attraverso l’allontanamento e poi la successiva riconciliazione fisica, impari a percepire la differenza tra se stesso e la madre e nel contempo si abitui alla presenza del padre e dei familiari.
Il genitore, raccontando la vicenda – infinita, circolare, sempre diversa eppure sempre identica – della bambina forgiata dalla neve interpreta, attraverso il figlio in ascolto, la propria, personale storia alla luce della verità dell’esistenza fatta di nascita e crescita ma anche di abbandono, morte e disperazione.
Perché soltanto la presenza del figlio (gli occhi sgranati in ascolto, le guance arrossate dall’emozione, la mano calda stretta in quella del genitore), nel caldo conforto della cameretta lievemente illuminata, potrà rassicurare la madre che altrimenti, da sola, non possederebbe né la forza né il coraggio necessario per continuare la lettura fino alla tragica conclusione della storia (un vecchio libro dalla copertina in pelle azzurra, abbandonato sugli scaffali alti di una libreria polverosa, mai più aperto da anni); perché soltanto la figura della madre, china sul letto del bambino, potrà confortare il figlio che percepirà, sempre chiara ed evidente, la presenza salvifica del genitore nel momento del bisogno, della malattia, della disperazione (una madre ammantata di neve, accoccolata al capezzale improvvisato di una figlia in agonia) e lo aiuterà nell’interpretazione – attraverso l’allegoria della fiaba – del mondo circostante.
La verità però a volte è molto più semplice della letteratura. Il bambino che, mentre tu leggi Eowyn Ivey, dorme nella stanza di là – un piedino umido e scalzo a penzolar dal materasso – non è tuo figlio. E’ una creatura fatata, ali di folletto o di angelo, che qualcuno ha posato nelle tue mani, in una mattina di primavera inoltrata il cui ricordo, in te, è così vero e chiaro, ma di cui – al tempo stesso – non conservi memoria cosciente alcuna. Quella creatura non ti appartiene, non è tua, ti sussurra Snegurocka – ed è per questo che la lettura è tanto difficile.
Ti è stata solo data in prestito, per quanto tempo non sai. Un giorno seguirà la sua strada e tu non potrai più tenerla con te.
Perché l’amore per un figlio non è una coperta di lana pesante che copre e riscalda. E’ un malestrom che ti lascia naufrago e nudo, esposto ad un vento freddo di tempesta che non smetterà mai di soffiare.
La ricontestualizzazione della fiaba di tradizione popolare è un processo letterario di attualizzazione della narrazione tradizionale che sta prendendo piede specificatamente oltre oceano e che in questo caso ha il merito di gettare luce, in particolare, su quel mondo misterioso e sommerso, perché spesso taciuto, della maternità dolorosa.
Se n’era già parlato a proposito di “Quando la notte“.
E’ il lato più profondo e buio del libro, quello che forse risulta più ostico da comprendere per chi genitore non ha avuto (ancora) l’occasione di diventarlo: il dolore fisico del parto e dell’allattamento (non permettere al bambino di mordere il capezzolo, o te ne pentirai), il senso di colpa nel momento del distacco, la scabrosità orribile di quel desiderio così intimo e violento che, anche una volta soltanto, ogni puerpera del mondo ha percepito chiaro in sé: abbandonare la creatura a cui ha dato la vita, per salvare se stessa.
A questo proposito vorremmo accennare alla raccolta poetica “L’innocenza perduta” di Michela Miti edita da Mondadori e presentata, tra l’altro, qualche settimana fa, al programma tv La Compagnia del Libro. I brani presentati dal conduttore – e interpretati dall’autrice – ci hanno affascinato per il profondo e attento interesse della poetessa verso le tematiche della maternità: attesa e desiderata, ma anche, e molto più frequentemente, subìta o negata.