Ovvero, se proprio vuoi sognare, almeno fallo in steampunk, che di certo non te ne pentirai.
Un po’ di storia. Il termine steampunk nasce (così pare) negli anni ’80 ad opera dello scrittore JWJeter, impegnato nella ricerca di qualcosa che, al pari del neologismo cyberpunk, definisse nella sua unicità le opere sue e di alcuni altri suoi colleghi autori che, contestualizzate nell’epoca ottocentesca, e in particolar modo vittoriana, seguivano i topoi della fantascienza al secolo contemporanea – da HGWells a Conan Doyle.
Da qui alle ambientazioni del video You&I di Lady Gaga, c’è da dire che lo steampunk ne ha fatta di strada, andandosi a definire, nel corso degli anni, nella sua interezza (di nicchia): ovverosia, quel filone della narrativa fantastica, e anche fantascientifica, che ha come caratteristica base, e sine qua non, l’ambientazione storica futura – di caratteristica prettamente Ottocentesca – in cui viene introdotta a forza una tecnologia del tutto anacronistica per l’epoca.
A far da padroni, il vapore (steam) al posto dell’energia elettrica, il magnetismo, i grandi meccanismi frutto dell’energia meccanica e i congegni ad orologeria. E tanti saluti al cyberpunk elettronico.
Il significato del termine si è a mano a mano ampliato arrivando a definire tutta quella serie di narrazioni fantastiche (talvolta pure extra-terrestri) ambientate anche in momenti diversi, successivi, all’Ottocento, momenti che tuttavia conservano in sé evidenti tracce del secolo di cui sopra. Si parla anche, in alternativa, di speculative fiction quando si voglia dare particolare enfasi all’attenzione specifica che il genere riserva alle tematiche della rivoluzione industriale e della ricerca scientifica (anche anatomica e medica), e quando si parla di steampunk occorre tenere ben presenti – almeno per i prodotti letterari dagli anni ’90 in poi – anche le caratteristiche horror e gotiche che il genere ha assunto.
Parlando di steampunk non si può evitare di far riferimento ad altri due concetti precipui del genere: la distopia e l’ucronia. In breve. Con il termine distopia si intende riferirsi, nello specifico, al concetto di utopia negativa: al posto di una realtà ideale, idilliaca, viene proposta un’altra realtà certo sempre fittizia, ma di carattere totalmente opposto, ovvero indesiderabile. Si va dalla rappresentazione di scenari post-apocalittici (ne avevamo parlato anche qui, con “The Passage” , uno degli ultimi più riusciti esempi di fantascienza post-apocalittica appunto) alla ricostruzione di una società futura (come nel caso di Vampire Empire) in cui particolari tipi di corporazioni o gruppi di potere hanno preso il sopravvento sul consueto vivere civile, minandone le caratteristiche salienti (libertà di culto, espressione, movimento, circolazione delle merci etc) e favorendo la nascita e la proliferazione di società segrete, riti dell’occulto, teorie del complotto.
Il termine ucronia – più conosciuto come “alternate history” soprattutto nel mondo anglosassone, identifica quel particolare processo di finzione letteraria (di genere chiaramente fantascientifico) che vede la rappresentazione in scena del “cosa sarebbe successo se”: cosa sarebbe successo se Hitler avesse vinto la guerra, cosa sarebbe successo se Cristoforo Colombo non avesse scoperto l’America e via di seguito.
Ebbene, in Vampire Empire tutto questo c’è. E per nulla infilato così alla bell’e meglio.
La narrazione, sostenuta da un ritmo sufficientemente incalzante, alterna in maniera convincente:
- l’avventura nella sua essenza più pura e spregiudicata (esemplificata, da una parte, dal personaggio dello “Spadaccino Mascherato”– che pare uscire direttamente da un libro di favole per bambini di inizio ‘900, tra cappa, spada, onore da difendere, fanciulle da salvare e marrani da sconfiggere a suon di duelli all’ultimo sangue [sangue, per l’appunto – ndr] – e dall’altra dal capitano sbruffone, poco cervello e tutto muscoli bombe navi e spari sonanti)
- la caratterizzazione steampunk, distopica e ucronica (evidente è l’ambientazione ottocentesca, tra una Londra fumosa e inquietante e le terre fertili dell’Egitto, una delle mete preferite, esoticamente ed esotERicamente più connotate, che caratterizzavano i “Grand Tour” dei giovani della Upper Class inglese all’apogeo dell’Impero. Puntuale è la descrizione degli strumenti meccanici in uso e non mancano accenni alla scienza e alla medicina – vedi il manuale di anatomia vampira che circola tra le pieghe delle pagine, sempre presente, sempre nascosto. Altrettanto ben identificata è la tematica della società piegata alle corporazioni e alle lobbies – sia umane, sia vampire – e la presenza dell’occulto e delle società segrete, nonché la parte relativa alla religione e al misticismo)
- la love story (che c’è, eccome se c’è)
- e last but not least la tematica vampiresca.
Spendiamo una parola per questi vampiri steampunk che per una volta tanto tornano ad avere i canini ben affilati: non frequentano le high schools, non partecipano ai prom, non hanno la patente e, non c’è alternativa veg che tenga, necessitano di una dieta ferrea per il proprio sostentamento.
Il vampiro di VE riprende, con scostamenti minimi, l’iconografia classica del genere, quella tipicamente nord-europea, corredata da tutto il kit di sopravvivenza che include ferocia, crudeltà, spargimento di sangue, lotte per il potere, disinteresse (quasi) totale nei riguardi della sopravvivenza del genere umano.
Eli, nostra prima e unica, viscerale passione vampiresca, non è poi così lontana.
Per altro – nota a margine – quando ci si mettono, i vampiri di VE si impegnano a salvare donzelle (umane) che per loro stessa natura non avrebbero assolutamente bisogno di essere salvate da alcunché – dato che se la cavano benissimo anche da sole. Fanciulle che hanno ben evidente il proprio ruolo nell’economia del mondo e non esitano di fronte a quello che potrebbe essere meramente identificato come “sacrificio di se stesse” ma che invece è da interpretarsi come (certo, stiamo parlando di fiction, teniamolo sempre a mente) responsabilità verso il vivere sociale ed etico.
La scena che ci è piaciuta di più? Il taglio dei capelli alla mohicana. Perché ha il merito di racchiudere in sé, in un unico fotogramma, la magia assoluta del ricordo, della referenza e della ricontestualizzazione: Edward Mani di Forbice e Tim Burton, l’estetica dello steampunk fatta di gothic Lolita, abiti vittoriani a brandelli, corsetti, fibbie e lacci, occhiali da esploratore, anelli e piercing, e, non per ultima, la tenerezza di un gesto intimo che nasconde in sé il germoglio di un nuovo sentimento.
Chapeau.
Nota a margine: il post di cui sopra non si arroga il diritto di aver risolto, in poche righe, l’analisi di un fenomeno in realtà così complesso quale lo steampunk, che al contrario di quanto possa sembrare condensa in sé tematiche varie e degne soltanto di un’analisi approfondita e di ampio respiro che deve toccare, per raggiungere un buon livello di struttura, anche il cinema, la musica e il fashion, oltre che la letteratura. Per cominciare, ecco a voi i link a Wikipedia che racchiudono una prima biografia essenziale (anche qui in parte utilizzata) per un approccio quanto meno “scientifico” al fenomeno.
Buone letture a tutti!
ADC Team