Impensabile l’idea di affrontare il testo come un’opera compiuta, conclusa, fatta e finita. Perché gli interinali del reattore, un inizio e una fine non ce l’hanno: se ne vanno da una parte all’altra, senza continuità alcuna, né di ruolo, né di tempo. “La centrale” è un buchino di serratura, e questo ci deve bastare. Un qualcosa da cui sbirciare, spiraglio di una porta mal chiusa da un bambino distratto. Un film già iniziato e il buio in sala.
La vita di Yann, per il lettore, non ha né un inizio né una fine. Dobbiamo accontentarci di episodi accennati, di storie a metà, di persone che incontriamo e che poi, così quasi per caso, vengono abbandonate, perse, e poi magari ripescate dall’oblio del ricordo e del tempo. Persone di cui non sappiamo nulla di più di quello di cui l’autrice ha voluto metterci a parte, pace all’anima nostra.
E che ci possiamo aspettare, dal lavoratore interinale del Moloch-centrale che tutto inghiotte, fagocita, tritura e poi sputa. La “carne da atomo” non ha residenza alcuna, visto che i luoghi di domicilio sono quelli votati, per definizione stessa, alla precarietà dell’esistenza: campeggi, roulottes, case prefabbricate, container, motel, finanche sedili posteriori delle auto. I coinquilini poi sono individui sconosciuti, che oggi ci sono, e condividono con noi schiscetta, chiacchiere, silenzi e radioattività, e domani non ci sono più, inghiottiti dalla strada interstatale lunga e dritta verso una nuova (e sempre vecchia, come già vissuta) opportunità professionale, o dal Moloch. E’ la condizione del lavoratore moderno e precario, aggravata dalla particolare situazione carica di rischi, sottintesi e inquietudine. Non troppo diversa, per la verità, dall’inquietudine che attanagliava la mente (e i polmoni) del bis-prozio “Gigetto” (all’anagrafe, Pierluigi Maria), emigrato in Germania, lavoratore stagionale nelle miniere di carbone della Rhur (mandare soldi a casa, buttar giù due righe al mese per moglie e figli, fare il possibile per rimanere in salute). E’ che si sperava che 60 anni di industralizzazione di massa e progresso condiviso ci avessero cambiato la vita ma a quanto pare non è così.
Con un’aggravante. Quello dell’immagine e della focalizzazione. Diversamente dal mondo nero ed evidente, sassoso e ferrigno dei bacini siderurgici della Ruhrgebiet, descritto nella sua immediatezza di vista, udito, tatto e olfatto nelle lettere del bis-prozio, fogli striminziti a righe di scuola, piegati e ripiegati con accuratezza quasi maniacale, quello della Centrale è un mondo asettico, intangibile, ingannevole. Tutto è bianco latte, pulito, quasi sterilizzato. La centrale rifulge sotto il sole della campagna. Dalle ciminiere, un filo di fumo quasi trasparente, innocuo. L’acqua delle piscine di raffreddamento è azzurra. Di un azzurro puro, trasparente, brillante, sintetico, perfetto. Vien voglia quasi di farsi un bagno, lì dentro.
Si indossano tute pressurizzate, caschi, occhiali, doppi, tripli guanti. Involucro spesso, guscio di tartaruga, che dovrebbe proteggerci dall’atomo e dal sentimento. Solo che la cosa non funziona, in nessuno dei due contesti. La permeabilità inevitabile al sentimento si rispecchia nella vita nomade che solo all’apparenza è libera e scevra da qualsiasi vincolo: in realtà il pegno si paga con lo sradicamento dalla propria terra, dalle famiglie, dai figli, dagli amici, dalle tradizioni. Della permeabilità all’atomo neanche a parlarne, simboleggiata qui non dall’intangibile (troppo facile), ma da un qualcosa di fisico, sensibile, evidente ai sensi, eppure così inerme nella sua minuzia: un dado di acciaio staccatosi da chissà quale alloggio.
Al di là delle impicazioni politiche, per le quali vi rimandiamo alla rassegna stampa sul web, la Filhol ci catapulta, controcorrente rispetto a tanta parte della letteratura moderna, nel mondo (così umano) dell’imprevedibile e consegna nelle nostre mani una verità che vale la pena considerare: per quanto l’Uomo (moderno) pianifichi, coordini, definisca, concretizzi ciò che considera il Mondo, quello in cui ritiene degno e necessario vivere, attraverso procedure rigide ed efficaci, sistemi di controllo e verifica, non sarà mai in grado di eliminare del tutto, malgrado gli sforzi, l’area dell’UNCONFORTABLE, quella zona d’ombra del non calcolato, dell’imprevisto, dell’inatteso.
Ps. Sentiti ringraziamenti al “signore riccio” dello stand Fazi (Torino 2011) che ci ha aiutato nella ricerca di “quel libricino francese con la bella foto in bianco e nero in copertina e l’autore che ha il cognome che inizia per F”. A lui, i complimenti per la pazienza degna di un santo, a noi l’award “il bibliotecario perfetto 2011”.
Un libro disordinato, senza trama, minuziosamente dettagliato per gli avvenimenti di contorno e scarno e impreciso per tutto il resto.
Il peggiore libro che ho letto negli ultimi 10 anni.
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Ciao Stefano, caspita, ci spiace che non ti sia piaciuto. Non è che forse l'hai letto troppo in fretta, o con tante aspettative? Va guardato un po' “da fuori” …accettando quel che viene, senza pretesa di completezza. E' una finestra, un racconto senza fine e senza inizio.
Cosa ne pensi?
A presto
ADC
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