Per Faletti, Milano è un tempo, più che un luogo. I luoghi, poi, vengono da soli. Milano è quel momento, preciso, perfetto, da cui siamo passati tutti noi, milanesi di origine o di lunga adozione; forse, per scelta o necessità, lo abbiamo soltanto sfiorato, forse invece lo abbiamo vissuto appieno.
Quel momento di sospensione del respiro, in attesa del giro di vento, quando l’alba ha ancora da venire e comincia a specchiarsi nell’acqua del Naviglio, e profuma di aria fresca e cielo chiaro.
Quell’attimo preciso in cui il pomeriggio lascia il posto alla sera, un momento che sa di attesa elettrica, chiacchiere e persone e gente e mete nascoste, da evitare, o da raggiungere.
I luoghi sono quelli di sempre. Brera e le vie intorno, con il Byblos, gli altri locali, la sede del Corriere e quel Classico famoso che qualcuno di noi ha frequentato; i Navigli che sanno di osterie, vino e sapori antichi di nonni operai in fotografie color seppia. I teatri del centro con l’odore di polvere e palcoscenico, i cinema di Corso Vittorio Emanuele quando i multisala erano ancora soltanto un’idea. La Bovisa, i bar malfamati, la periferia più scura e nera.
Questo vorremmo annotarci, di Faletti. Questa esegesi del luogo che rende l’opera quasi privata, dialogo intimo tra scrittore e lettore consapevole. Ma si sa, noi siamo di parte, perché teorici massimi della contestualizzazione assoluta e necessaria, più volte ribadita, e dell’analisi un po’ scolastica – e un tantino antropologica – del testo (anche disgiunto dalla trama).
Sicchè si comprende bene lo scartamento di chi, trovatosi di fronte a un thriller sui generis, così diverso dai precedenti, accusa noia e torpore. Quindi, attenzione all’approccio, perché c’è da rifletterci (e si veda quel che capita digitando su Google “D’Orrico – Faletti”).