"Un bambino prodigio", di Irène Némirovsky

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Nel corso di una piacevolissima conversazione con uno dei “Signori Giuntina”, alla Fiera del Libro di Torino, la persona in questione ci raccontava, tra le varie curiosità, di come in realtà fossero stati loro a pubblicare per la prima volta L’Irene Némirovsky (e anche Aharon Appelfeld, per la cronaca), e di come poi i possessori dei diritti di pubblicazione fossero emigrati verso altre case editrici di più vasto respiro. Occorrerebbe sentire le ragioni di tutti, e analizzare nei dettagli i perché di questa scelta; però, comunque peccato, perché a noi piacciono queste edizioni in cartonato ruvido, senza foto in copertina, la carta spessa e la tinta che vira all’avorio. Ci piaceva l’idea. 

Ad ogni modo. 

L’Irene non è una scrittrice, è una pittrice di atmosfere. Paesaggi perduti, descritti così come affiorano dalla memoria e dalla malinconia. Malinconia per un mondo perduto, infelicità profonda e taciuta verso una terra “nuova”, che non appartiene, e verso un passato “vecchio”, da cui si è stati definitivamente esclusi. 

I personaggi di questo racconto giovanile (ma che di giovanile ha francamente ben poco) hanno ormai abbandonato la loro dignità di uomini dal carattere fermo e coraggioso, seppure provato da una delle più indicibili sofferenze dell’animo – l’esilio dalla propria terra natìa – per diventare nulla più che poveri esuli disperati, alla vana ricerca di una pace interiore che mai arriverà, almeno in vita. 

“L’Irene”, all’epoca di questo racconto, era una ragazzina di appena 22 anni, figlia dell’alta borghesia russa, la famiglia espatriata a Parigi perché di religione ebraica; la ragazza è bella, coltissima come la classe sociale prevede; divisa tra gli studi e le amicizie, la sua è la vita agiata di una ragazza benestante, scandita da cocktails e partite al gioco del tennis. Eppure, ecco ciò che ha saputo partorire il suo animo (troppo) agitato e (troppo) sensibile. Un racconto perduto, di una bellezza struggente, un momento di speranze cercate e mancate che termina con un velatissimo – ma impossibile da non cogliere – terribile elogio al suicidio come termine ultimo per una, soltanto ipotetica, redenzione dell’animo. 

Ecco, noi lo consiglieremmo tra le letture scolastiche questo libello, rischiando la censura preventiva. Prova evidente di un’adolescenza difficile, che è difficile per tutte indipendentemente dal periodo storico e dalla classe sociale; dimostrazione di un talento precoce tutto da sondare, idee magistrali e realizzazione ancora meglio nonostante qualche scivolone nel banale che perdoniamo volentieri. Lettura critica, attenta, e cerebrale, molto lontana dalla prosa “cinematografica” che spopola così tanto, ultimamente, nelle nostre librerie “della lettura facile”. 

Ultimi appunti di carattere prettamente tecnico. L’aggettivazione, da alcuni considerata un po’ leziosa, è invece per noi, filologi impenitenti, quasi paradisiaca (merito anche della traduzione, suppongo). Finalmente qualcuno che di qualitativi per ogni sostantivo ne mette due… e non uno soltanto, come fosse sparato così a casaccio. Se metti un aggettivo, vuol dire che ci hai pensato (forse, tendenzialmente); se ne metti due, vuol dire che le cose, quelle che scrivi, te le sei davvero immaginate. Le hai sentite con le orecchie, viste con gli occhi, annusate con il naso, toccate con i polpastrelli delle dita e assaggiate con la lingua. 

Come la descrizione dolce e violenta e immediata della fetta del cocomero, o dell’inverno siberiano, o delle stole di seta e diamanti che rivestono gli abiti della “principessa” (un esempio per tutti, a metà libro – pag. 38 – il paragrafo sulla fine del ballo, con le luci che si spengono ad una ad una e gli specchi “umidi”, un’immagine così vivida, precisa nei suoi contorni fisici e tattili). 

Nessun commento sulle cinque righe (pag. 41) dedicate alla tappezzeria consunta del villino di campagna: sfido chiunque a riuscire a riempire cinque dicasi cinque righe con la descrizione di una tappezzeria vecchia, umida e mangiucchiata senza scivolare nel drammaticamente insulso. E lei ci riesce. Come? Descrivendola attraverso i deliri che i giochi delle ombre sui muri provocano nella mente di un ragazzo solo e disperato, costretto a letto da una febbre cerebrale. 

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