"Sorella, mio unico amore" di Joice C. Oates

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Stordisce questo pezzo di bravura della nostra Oates. Ci devi mettere impegno, mente, cuore, e una forza fisica che ad oggi poche letture francamente suscitano ancora, per sondare ogni lettera, ogni parola, ogni sfumatura nel linguaggio, ogni collegamento nascosto. Occorre scavare a viva forza e violentarne la lettura; ma che risultato. Il libro è un tutto contro tutti magnifico e potente, una lettura di metatesto che spinge ad una fruizione attiva a partecipe, pressante, instancabile, indefessa. Non puoi mollare, non puoi rassegnarti, non puoi lasciarlo a metà. DEVI continuare, malgrado la fatica di una prosa volutamente difficoltosa e in alcuni momenti così simile ad uno “stream of consciousness” tra i più classici e riusciti, una consecutio temporum complicata da repentini flashback & forward, una dimensione monumentale.
Un libro contro i libri, quelli da spiaggia, quelli da thriller facile, quelli scritti “grandi” e la sovraccoperta rigida con tanto di fascetta pubblicitaria di grido. Un libro contro la massificazione della letteratura, della stampa e in generale della parola scritta; contro la desensibilizzazione sensoriale prodotta dal sensazionalismo cinematografico di stampo holliwoodiano.




E che strano, ci si può domandare se questi libri-contro siano sempre esistiti oppure se siano un bel prodotto di questa new economy, di questa crisi evidente, di questo si-ricomincia-da-capo.




Ci piacciono i virgolettati sulla sintassi “degli altri” contrapposta a quella di Skiler, tutti una citazione di frasi fatte, molto presenzialiste, molto da cerimonia, molto glamour così vicine al metatesto di Yates (ricordi, tutti gli “adorabile”, “magnifico”, “meraviglioso” di Easter Parade). E’ sufficiente aprire il libro a caso: “pittoresco”, “storico”, “traumi non superati”, “completamente isolata”, “in compagnia” (di un’altra donna).
Un libro contro il successo ad ogni costo che cela, nasconde e all’occorrenza dimentica gli orrori dell’esistenza, tutti infilati poi a forza nel nostro subconscio o, peggio ancora, costretti, morti e insanguinati, in un buio, muffoso locale caldaia di una “meravigliosa” villa di provincia in stile neo-pseudo qualcosa che più artefatta di così non si potrebbe.
Un glorioso contro-inno venefico, un’esaltazione al contrario di quella psichiatria da spettacolo il cui unico scopo è il voler ravvisare patologie del tutto immaginarie per giustificare poi la sperimentazione e la somministrazione di qualsivoglia farmaco dagli effetti collaterali non ben specificati; un’invettiva mal celata verso le multinazionali caterpillar, verso la ricerca genetica disgiunta dall’etica, verso l’affermazione sociale che va a discapito della famiglia e della vita di coppia. Curioso e sottile, in un duplice gioco di specchi, il fatto che la Oates attribuisca il ruolo di “paladini della famiglia e della cristianità” (e dei valori conservatori legati alla casata Bush) proprio a coloro che meno incarnano, con le loro azioni, il ruolo di Padre e Madre.
E che dire del povero Skyler, così lontano dal figlio che il buon padre di famiglia (WASP così buono, così onesto, così fedele, così affermato, così INTEGRATO – ? – ) vorrebbe possedere e mostrare agli altri quale simbolo della sua ascesa sociale, economica, culturale: accusato di omicidio, depresso, impasticcato, esautorato dalla vita e dalle scelte che essa impone, trasandato, irrimediabilmente alterato nella psiche e nel fisico.
E ad evidenziare l’alterazione mentale di chi, da genitore, non riesce più a verificare lo scarto tra l’ideale e il reale, ci pensa la Oates, descrivendo il figlio perduto prima attraverso i rimproveri della madre (al momento della foto per le cartoline di Natale: sta dritto, non stare curvo, per dio non zoppicare, non fare smorfie), poi attraverso le sensazioni del figlio (eppure, a Skyler NON sembrava di zoppicare o di fare smorfie) e infine attraverso il magico specchio della medesima fotografia perduta e ritrovata: un ragazzo esile, timido, sorridente, “quasi sereno”, come Skyler 19enne vede se stesso.
Eppure, forse (non lo sappiamo), al contrario di ciò che succede ai personaggi di Yates, Skyler ce la farà. Come nel finale del magistrale “The Truman Show”, la vita si Skyler si chiude proprio nel momento in cui vorremmo sapere “cosa ne sarà di lui”. La sua vita, vissuta per anni sotto i riflettori di una notorietà indesiderata, sondata in ogni suo più intimo dettaglio dalle dita umidicce di un pubblico morboso, viscido, insistente, scandaloso, impuro, dal momento dell’epifania in poi ci sarà sconosciuta: lo spettacolo è finito, le luci, sul palcoscenico, finalmente si spengono.


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