“Quando ormai era tardi”, Claire Keegan

Nel 2022, Claire Keegan dona al suo editore parigino il racconto “So Late in the Day“, apparso sulle pagine del New Yorker alcuni mesi prima. A tradurlo per la lingua francese è Jacqueline Odin e Sabine Wespieser éditeur, che con questa e altre pubblicazioni celebra i propri vent’anni di attività, lo intitola “Misoginye“.

L’intestazione deriva da un passo della storia offerta in dono, frammento in cui si assiste a uno scontro verbale fra una giovane donna – franco-britannica residente a Dublino per lavoro – e il findanzato irlandese, proprio riguardo ad argomenti di maschilismo e, potremmo dire, di interiorizzazione del patriarcato. [Anticipazione: la discussione accade a pochi giorni dal matrimonio e la celebrazione alla fine non avverrà, come si evince sin dalle prime righe del racconto, ma la motivazione non è strettamente connessa al diverbio di cui sopra, che risulta piuttosto esplicitazione di non-detti].

Nella versione originale di Keegan la scelta del titolo appare all’apparenza più sfumata – ma anche più provocatoria e meno scontata rispetto a quella della casa editrice. In “Quando ormai era troppo tardi” (nota: per mano di Einaudi una modifica di non poco conto, anche – ma di significato altro) la scrittrice irlandese difatti racconta non tanto le dinamiche patriarcali quanto il cosa accade all’interno di una coppia pervasa da una specie di sottesa e inespressa tension cruelle, prendendo come punto di vista quello del protagonista maschile. SW éditeur ribalta invece il punto d’osservazione, consegnandolo al giudizio di una parte del tutto femminile.

Anche tanto Internet di lettori e lettrici dichiara necessaria una presa di posizione netta, che vede nel dualismo oppositivo maschio-femmina, carnefice-vittima, il nucleo della rappresentazione, senza all’apparenza curarsi della questione del punto di vista, che invece Keegan definisce con atto programmatico fin dal titolo: il so late in the day, infatti, si riferisce sia al contesto agito – il viaggio di ritorno dall’ufficio che l’uomo intraprende nel giorno in cui invece avrebbe dovuto sposarsi – sia alle riflessioni del protagonista riguardo a delle supposte mancanze nei confronti dell’ex-fidanzata, sia anche all’irrevocabile decisione della donna di lasciare il compagno (ecco la focalizzazione di Einaudi, che nel taglio secco del riferimento alla giornata particolare decide di tagliar via tutta la parte allacciata allo spazio-tempo di cui sopra).

Offrono riscontro a questo sistema di pensiero, mi pare, due punti interni al testo, a dire fondamentali – di struttura e di argomenti, che prendono forma nell’edizione 2023, in cui la casa editrice Grove Press NY unisce il sopracitato pezzo ad altre due narrazioni brevi: “The Long and Painful Death”, del 2007, e “Antarctica”, uscito nel 1999. Il primo punto è che i testi si trovano sistemati alla rovescia cronologica, con il più recente “So late in the day” in apertura a far da specchio all’ultimo, “Antarctica”; il secondo punto è che il titolo dalla raccolta – in inglese originale – rende l’idea di una rinuncia di fondo a qualsiasi tentativo di confronto, mediazione, finanche riparazione.

Nel mezzo di questo trittico dell’amore maligno il posto centrale è occupato da “The Long and Painful Death”. “Una morte lenta e dolorosa” – che, va detto, potrebbe benissimo vivere da sé, al di là della contestualizzazione temporale (questione invece piuttosto importante per il terzo racconto) – è dedicato a quella ben specifica repulsione per le donne che da sempre alberga all’interno di certi ambienti letterari. Se in “So Late in the Day” Sabine si libera dal fidanzato oppressore lasciandolo appena prima delle nozze, ecco in “The Long and Painful Death” una giovane e talentuosa scrittrice ospite di una residenza per artisti che cerca di evitare l’ira di un collega anziano tramite la blandizie della cucina, in un crescendo di suspense e angoscia per quella visita imprevista che potrebbe trasformarsi in una brutta avventura della stanza chiusa, (questo dei tre è per me il pezzo più raffinato, nel recupero del gesto tutto femminile e antico del nutrire, come al piegare la materia del materno, manipolarla a forza rientrandola nel solco da dove in qualche modo era stata in grado di rigurgitare fuori); infine in “Antartica”, il terzo racconto, il più antico dei tre, una donna-felicemente-sposata resta vittima di stupro, nel suo desiderio di emancipazione e trasgressione. Quindi, a considerare questa raccolta come un banale manifesto di lotta al patriarcato le si farebbe, ho idea, un torto.

“E poi, giusto giusto un mese prima, era arrivato il furgone del trasloco con tutte le sue cose: una scrivania e una sedia, una libreria, scatoloni di libri e dvd, cd, due valigie piene di vestiti, una grossa riproduzione di un quadro di Matisse con un gatto che infilava la zampa in una vasca di pesci rossi e delle foto incorniciate di persone a lui sconosciute che lei aveva sistemato e appeso qua e là, spostando altre cose, come se la casa adesso fosse anche sua. Una buona parte dei libri era in francese, e lei aveva un aspetto diverso col viso struccato, mentre si aggirava in tuta, sudando e sollevando questo e quello, costringendolo a sollevare e spostare le sue cose, spingendo i mobili, con la faccia tesa per lo sforzo. E c’erano pentole e padelle, un tappetino da yoga, gonne e camicette, grucce di legno, un filtro per l’acqua, scatole di tè, un macinino da caffè.”(*)

” – Credi che i soldi mi escano dalle orecchie? – aveva detto lui, e subito aveva sentito l’ombra lunga del linguaggio di suo padre passare sopra la sua vita, in quella che avrebbe dovuto essere una bella giornata, se non una delle più felici.”

Cathal, il protagonista di “So late in the day”, è in concreto un omino un poco gretto, figlio anche inconsapevole di una certa Irlanda di paese, taccagna e retrograda, ma la compagna Sabine di contro non sembra brillare, né per intraprendenza né per sentimento. Quasi trascinata dagli eventi (alla proposta di matrimonio risponde con quella che appare una vaga noncuranza e passano settimane prima di un tiepido convincimento), si rende soggetto attivo unicamente all’interno di una specie di dinamica del trasbordo, nel rovesciare in casa del compagno vita e pensieri al di là, sembrerebbe suggerirci Keegan, di una contezza d’intento, per quello che significhi traghettare se stessi dal singolo quotidiano a una dimensione doppia, strutturata nel progetto.

” (…) e si era alzata, decisa a svuotare l’ultimo scatolone, e aveva spinto il rasoio e il dentifricio di Cathal da parte sulla piccola mensola di vetro nel bagno che si apriva sulla camera, per far posto alle sue cose. E c’erano anche creme, balsamo per capelli, contraccettivi e una busta piena di cosmetici, scatole di tamponi.”

Sono convinta dell’intento di Keegan: far risuonare nelle orecchie del lettore quel lieve tintinnio di bottigliette da bagno. Come non si sia notato questo gesto di mano spessa, del riempire casa d’altri, mi resta un mistero – impossibile sia stato casuale, per via dello spazio fisico, di numero delle righe intendo, che occupa nella dimensione strutturale del racconto. La verità è che dobbiamo fare i conti con l’ipotesi che Keegan con “So late in the day” abbia voluto a bella posta rendere nullo il dualismo della colpa nei sessi. Il “voi” al maschile collettivo che Sabine utilizza nella reprimenda al compagno in questo senso appare più un adesivo appiccicato a sottolineare l’artificioso di certe affermazioni che una reale e concreta presa di posizione intima, sociale e politica. Come a domandarci dove possa davvero arrivare il femminismo, se poi nel pratico si risolve in un allargarsi di spazio col deodorante su una mensola da bagno. Così come sono precisamente sicura che in “Antartica” quelle righe – chi legge con me ha portato in regalo un aggettivo primario: di evento “esiziale” – siano da Keegan state sistemate lì per contezza, a ricordarci, ancora e ancora, di questo fatto così dololoso e tagliente del momento in cui si sceglie:

“Lei non era in vena di fare sesso. Nella sua mente se ne era già andata, era già davanti a suo marito alla stazione. Si sentiva pulita, sazia, al caldo; tutto quello che desiderava adesso era una bella dormitina in treno. Ma alla fine non riuscì a trovare un motivo per non andare, e cedette come se fosse un regalo di addio. Disse di sì.”

/ Claire Keegan, “Quando ormai era tardi”, traduzione di Monica Pareschi, Torino 2024 / ricevuto in regalo – unospazio

(*) in originale: “And then, this time last month, the moving van had arrived with all her things: boxes of books and DVDs, CDs, a table and chairs, two suitcases filled with clothes, a large Matisse print of a cat with its paw in a fish tank, and framed photographs of people he did not know, which she placed and hung about the house, pushing things aside, as though the house now belonged to her, too. A good half of her books were in French, and she looked different without her makeup, going around in a tracksuit, sweating and lifting things and making him lift and move his own things, rearranging furniture, the strain showing so clearly on her face. And there were pans and a wok, a yoga mat, skirts and blouses, wooden hangers, a water filter, cannisters of tea, a coffee grinder, lamps.

“Una vita prima di questa”, di Fernanda Trìas (trad. Massimiliano Bonatto)

Nella sua lingua, Fernanda Trìas (Montevideo, 1976) racconta di un terrazzoLa azotea appunto – unico punto di contatto con la realtà del mondo esterno per Clara, una giovane donna che vive rinchiusa in casa insieme al padre, alla figlioletta Flor e a un canarino. Alle finestre dell’appartamento, un caseggiato popolare che tuttavia per alcuni tratti sembra piuttosto conservare le vestigia di un lusso decaduto, Clara ha applicato dei drappi, lo spioncino della porta reso cieco da un pezzo di carta assorbente, la porta legata con giri di chiavistelli; sullo stoino la spesa è lasciata da una donna straniera, badante e mammana, pagata per questi servizi, le medicine vengono consegnate da un trafficante prezzolato. A nessuno è dato sapere del perché di questa che pare una scelta. Mentre il genitore è allettato e si consuma inerme dentro una malattia non meglio precisata e la bambina – nata in casa e mai uscita dal perimetro domestico – conserva il segreto di una paternità forse proibita, la giovane donna, licenziatasi dal lavoro, impiega il tempo delle proprie giornate nell’accudimento, in un delirio crescente e ossessivo di onnipotenza e autodistruzione.

“Credo che Julia si sentisse protetta all’ombra di quel muro. Non andava mai a messa la domenica, le piaceva stare in chiesa da sola e preferiva andarci all’ora della siesta, quando tutti si dimenticano dei santi. Si sedeva sui banchi in fondo e guardava nel vuoto; immagino fosse in attesa che succedesse qualcosa di speciale. Il suo era un avvicinamento fisico: stare il più vicino possibile alla schiena di Dio. Forse pensava che accanto a quel muro non le sarebbe successo niente di brutto. Però si sbagliava. A volte l’accompagnavo. Gattonavo sotto i banchi finché la calzamaglia diventava tutta nera e si bucava sulle ginocchia. Mi piaceva l’odore di vernice fresca, soprattutto se potevo staccarne delle palline indurite e succhiarle come una caramella. Julia pregava e guardava davanti a sé. Che strana l’aria delle chiese. Densa, appiccicosa, colma di presenze.”

Con il trascorrere dei giorni, dei mesi, finanche degli anni, tutto si incrina: i risparmi messi da parte vengono a esaurirsi, l’amministratore di condominio per via delle spese insolute taglia le fonti di approvvigionamento in un susseguirsi cadenzato e ineluttabile: gas, luce, acqua; le stagioni si avvicendano l’una sull’altra, feroci (e rovesciate, siamo nell’emisfero australe), i quattro abitanti della casa come a rimpicciolirsi rispetto non solo alla parte del fuori ma anche alle necessità, ridotte all’essenziale – vestirsi come si può, lavarsi quando si riesce, nutrirsi con ciò che si recupera, parlare nel silenzio – nella parte del dentro di un’abitazione le cui mura si stringono attorno ai quattro corpi ancora vivi, una stanza chiusa dopo l’altra, porte sprangate a proteggere dal freddo tremendo o dal caldo insostenibile, polvere sotto i letti, il buio della notte abitato da candele e fantasmi e dalle risate di una bambina molto piccola che – con i capelli agghindati a trecce sopra una crosta lattea persistente, che nessun medico ha mai avuto modo di esaminare – balla nelle macchie di luce di quei piccoli fuochi fatui. Unica aderenza con l’ambiente esterno è per Clara la notte, durante la quale la donna sgattaiola fuori dall’appartamento; infagottata nei maglioni smessi della matrigna, sotto i quali non porta biancheria, Clara sale le scale del palazzo, descritte come labirintiche, paurose e insondabili – luogo di poliziotti corrotti, puttane e travestiti, vecchie inacidite e delatrici, complotti di Stato per rapire la figlia -, fino ad arrivare al terrazzo e a ciò che questo spazio vuoto e pericolante, sferzato dal vento gelido o bruciato dalla canicola, vuole significare, nella percezione di Clara e nel senso del romanzo.

Racconto d’atmosfera, horror, romanzo d’introspezione psicologica, analisi sociale, scrittura sul dramma psichico – stupiscono i 23 anni dell’autrice uruguaiana al momento della stesura. Precedente a Melma rosa, ne contiene già quasi tutti i temi, come in embrione ma già definiti nelle cellule che li comporranno: il mistero della triplice essenza: figlia, moglie e madre; la tempesta emotiva della maternità; il ruolo del maschile, l’eredità dei padri; e ancora: indifferenza sociale, crisi economica, degrado urbano. Melma rosa in questo senso non costituisce un prosieguo e nemmeno una ripetizione, quanto più il concretizzarsi di questi temi all’interno di un recipiente diverso, ricerca tematica e stilistica che si affina, in specie nella caratterizzazione dei personaggi e nella precisissima indeterminatezza del contesto, a trovare nuove strade – il distopico nel caso di Melma rosa – per esprimersi al meglio.

“Da un’estate all’altra la casa all’angolo si trasformava. Non erano grandi cambiamenti e agli occhi di un’altra persona sarebbe parsa una semplice casa abbandonata, ma per me era diventato l’unico concetto comprensibile di cosa significasse invecchiare. Pensavo che un giorno sarei tornata e non avrei trovato più nulla. Non perché l’avessero demolita, ma perché si era disintegrata da sola e di lei non restava altro che un mucchietto di calce in mezzo alle erbacce del prato. Quando chiesi a papà perché non ci vivesse nessuno, mi rispose che la casa era così vecchia che ormai non ci si poteva fare più niente.”

Nelle righe scritte da Trìas non esiste menzione di una vita di prima di questa o per lo meno quella vita precedente, sicuramente esistita, rimane nell’ombra, solo accennata – una professione d’ufficio per Clara, la passione del padre per le passeggiate al mare, le vacanze in famiglia, la morte improvvisa dell’insopportabile matrigna Julia, per un incidente di cui non si rivelerà dettaglio – e non viene mai a rappresentare la parte focale dello scritto. A peccar di precisione occorre definire La azotea come un lungo flashback, all’interno del quale Clara – sdraiata a letto, nell’ultima notte che presumibilmente trascorrerà con il padre e la figlia, per via dell’intervento dei servizi sociali – rievoca dall’inizio il processo di hikikomori; questo strumento stilistico tuttavia non pare atto a recuperare il dettaglio sul prima quanto, dicendo banale, a creare e a mantenere attiva la tensione narrativa. Annie McDermott nella traduzione inglese mantiene il titolo originale e anche le copertine delle varie edizioni in spagnolo (la prima uscita risale al 2018) recuperano più o meno tutte, con qualche differenza attribuibile a variabili di spazio e di tempo (e di gusto), i fondativi tematici del testo.

“La sindrome di Ræbenson”, di Giuseppe Quaranta

Durante una cena a casa di amici, nel chiarore lunare che rischiara le cupole della città eterna mentre l’odore dell’antizanzare si sparge in terrazza, il quarantenne psichiatra Antonio Deltito è preso da un grande spavento: all’improvviso si rende conto di non rammentare la presenza stessa del collega Berra, congedatosi in anticipo dalla tavolata perché vittima di uno sfogo di pianto dovuto al divorzio appena ratificato. La figura stazzonata del Berra, sul quale gli amici stanno spettegolando, gli si è come cancellata dal ricordo. A questa repentina amnesia seguono confusione mentale e tremori; nella notte si aggiunge l’emicrania, che necessita del pronto soccorso. Attacco di panico, sentenziano i medici. Eppure, all’atterrito Deltito sorge il sospetto – dopotutto è medico – che la questione non sia derubricabile a certe forme cliniche. La serie di analisi a cui ossessivamente comincia a sottoporsi non rivela tuttavia alcuna patologia fisica, eccetto una lieve disfunzione alla vista e uno stato generale di stress acuito dalle pratiche compulsive che Deltito mette in atto al fine di prevenire nuovi attacchi.

“Ebbe la sensazione che qualcosa di molto importante fosse successo nella sua vita senza che lui ne avesse più memoria, e che le pareti la stessero per sussurrare. (…) Ricordare qualcosa che forse non aveva mai vissuto: era mai stato formulato un paradosso più assurdo di quello?”

Come stabilire, con quali strumenti misurare la circonferenza della propria sanità mentale?” chiede Deltito al migliore amico, compagno di studi universitari, anch’egli psichiatra di reparto – ovvero il narratore senza nome che per quasi trent’anni continuerà a indagare l’insieme di sintomi che a cadenza via via più stretta e invalidante affliggeranno il collega per tutto il resto della vita e sino alla morte, che per Deltito arriverà nella forma del suicidio. Sintomi riconducibili alla misteriosa Sindrome di Ræbenson di cui Deltito stesso, in conclamata autodiagnosi, a un certo punto dichiara di essere sicura vittima.

“Io ho sempre avuto l’impressione, in quei momenti di sconvolgimento dei sensi, che qualcosa di fortemente malvagio lo stesse attraversando, come una spada.”

La caratteristica principale di questa fantomatica affezione è la perdita del ricordo, la cui consapevolezza arriva naturalmente a cose fatte. Immaginiamo cosa significhi renderci conto di aver dimenticato intere fette della nostra vita, dall’amico d’infanzia a un importante traguardo professionale, fino alla cancellazione totale degli anni trascorsi insieme a un’amatissima fidanzata. Queste prese di coscienza portano Deltito a un progressivo sgretolamento mentale e fisico ([come se] “lo scompiglio creato da un disordine mentale fosse solo il capriccio di un bambino che mette a soqquadro una stanza, e non un terremoto che lascia crepe nei muri, pavimenti vacillanti e detriti”) sia per la violenza dirompente degli attacchi sia perché nessun piano terapeutico, dalle medicine all’elettroshock, pare in grado di risolvere la questione. Amnesia dissociativa, “brain fog, stato di assenza”, demenza precoce, epilessia, disturbo dell’attenzione con iperattività: per il Deltito vengono tirate in causa le ipotesi più pertinenti, anche sulla base di alcuni episodi giovanili riconducibili a disturbi di questo genere e per una certa allure svagata di cui Deltito non ha mai fatto mistero. L’eziologia della sindrome di fatto però resiste: pare che la malattia ne escogiti sempre una nuova per scappar via dalla propria definizione. Deltito perde il lavoro, i contatti con il mondo professionale, gli amici; anche la relazione con la compagna Delia comincia a scricchiolare: la fragilità mentale – a cui Quaranta non si permette di concedere il guilty pleasure d’una stranezza affascinante – distrugge non solo chi ne soffre ma anche chi le gravita intorno. (1)

“Tutti concepiscono a un certo punto dei loro giorni che se c’è qualcosa che rende vivi è sentire di avere dei ricordi che sono propri e di nessun altro. Pensiamo che il tempo passerà e lo farà all’infinito, ma nulla toccherà quei ricordi, niente li violerà. Noi resteremo una traccia, per quanto flebile, irripetibile.”

Durante gli attacchi, Deltito sperimenta gravissime manifestazioni dissociative, il cui carattere depersonalizzante (l’uscire da sé) diventa, nell’economia del romanzo, il filo rosso a legare i temi sui quali Quaranta intende ragionare. “La sindrome di Raebenson” infatti gioca su due livelli paralleli, lavorati separatamente sia sulla trama sia nella forma. Da una parte, si tratta di un romanzo di ricerca all’interno del quale il protagonista, il narratore senza nome, racconta della propria vita professionale spesa – fra visite, convegni, papers, conferenze tra colleghi – a documentare lo stato clinico dell’amico e nell’analisi della sindrome; dall’altra, ci troviamo di fronte a una narrazione a scatole cinesi in cui il protagonista stesso si trova a indagare una serie di flashback temporali relativi alla vita e alle memorie non solo dell’amico ma anche di tutti coloro – familiari, colleghi, amici, compagne – che della vita di Deltito hanno fatto parte.

“E io stia sicuro che, se avessi il minimo dubbio di scrivere a un fantasma, userei tutte le accortezze del caso. Le ombre che ci hanno preceduto meritano che si usi con loro il massimo rispetto.”

“La realtà aveva un frastuono che la notte e i sogni mal sopportavano.”

Al primo livello si accompagna uno stile narrativo pulito, che accarezzando con un’ironia misurata, mai fuori luogo, la forma del saggio accademico lascia trasparire competenza professionale e conoscenza del contesto, pur senza scivolare nei tecnicismi. Qui si innesta la riflessione che mi pare più significativa per Quaranta: mettere a tema l’incapacità di accedere alla piena conoscenza di un fenomeno, nel caso in cui il sistema di indagine dipenda esclusivamente da un metodo a classificazione.

L’analisi sulla sindrome di Deltito ne è esempio paradigmatico – e provocatorio: in psichiatria il tema della diagnosi, difatti, è di grande rilevanza e complessità, poiché dipende per tanta percentuale da ciò che il paziente è in grado di comunicare di sé e del suo disturbo; è concreta la possibilità che la diagnosi, pur corretta e utile a dare un nome al proprio disagio, sia di fatto insufficiente (perché limitata ai sintomi classificati) a rendere totale evidenza della dolorosa fragilità esperita da molti pazienti, come concreto il rischio che per varie motivazioni lo specialista operi pericolose inversioni di metodo.

Ad ampliare il senso di straniamento c’è il divertissement di Quaranta, che a suffragio delle tesi esposte dal narratore senza nome produce una serie di documenti bio-iconografici in una voluta e caleidoscopica mescolanza fra testi, scatti fotografici realmente esistenti ma re-interpretati (quanto è facile talvolta far dire a uno scritto unicamente quello che si vuole che dica!), scampoli di conversazioni estrapolate e manipolate.

“La realtà aveva un frastuono che la notte e i sogni mal sopportavano.”

Al secondo livello corre parallelo il viaggio di tenebra conradiana che il narratore senza nome compie all’interno della memoria dell’amico. Nutrendosi di ricchi riferimenti letterari l’autore costruisce una propria cornice di conforto formale, a metà strada fra romanzo gotico, thriller psicologico e realismo magico (suggestive le pagine sul viaggio a Taranto, per esempio) all’interno della quale il narratore senza nome si muove fisicamente alla ricerca delle origini della sindrome, per le parti che appaiono legate a questioni genetiche. In una serie sempre più articolata di matrioske, i capitoli scivolano l’uno dentro l’altro nel recupero delle testimonianze familiari, fra racconti di prima mano e aneddoti di bisnonni centenari, anomalie scheletriche, gravidanze gemellari, sparizioni improvvise, gesti anticonservativi e terrori di complotto.

“Ho avuto come la sensazione di essere un aereo che decolla e rimane a pochi metri dal suolo. Ho iniziato a immaginare i rettangoli degli appezzamenti di terreno che si vedono dagli oblò, solo che tutto rimaneva così poco distante. Non c’era decollo, non c’era volo. A un certo punto, anziché vedere attorno a me i colori brillare nel pulviscolo, o le immagini impreziosirsi di riflessi argentei, ho cominciato a percepire in maniera più densa, non so come esprimerla, l’oscurità della notte dietro le cortine. Mi è sembrato di vedere, se non suona troppo paradossale come espressione, l’oscurità, quel buio visibile (a darkness visible) di cui ha parlato Milton. E’ stato come concepire il vuoto.”

“Cos’è, dunque, mi sono chiesto, la sindrome di Ræbenson, è davvero un’epifania demoniaca? Una torre oscura e una prigione del dolore senza fine? O è, piuttosto, la maschera per celare una menzogna, un sistema per occultare una verità ai limiti del terrore?”

La sindrome di Raebenson possiede infatti altre due caratteristiche: sembra donare a chi ne soffre una longevità inconsueta – tanto da sfiorare l’immortalità (2), nonostante le terribili sofferenze fisiche che questo progressivo decadimento produce, e pare oggetto di studio di una setta di scienziati maledetti, i Ræbensonologi, che impiegano ogni sforzo nel tentativo di rintracciare e studiare chi è affetto dal male e che, per qualche oscuro motivo che qui non si può anticipare, non hanno intenzione di rendere pubblici i risultati delle ricerche. E’ Deltito stesso a rivelare all’amico – confessione che al principio viene derubricata a delirio maniacale, come ovvio – di sentirsi braccato da alcuni di questi studiosi.

Nel momento in cui il narratore senza nome riuscirà nel compito di assegnare alla sindrome di Raebenson una propria definizione, e quindi a renderla reale, inserendola all’interno del DSM-7 – aggiornata e distopica versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – ecco allora l’umanità si troverà nella condizione di avere a che fare con un sé inedito – forse davvero altro.

“La maschera che indossiamo è la scelta della nostra rappresentazione agli occhi del mondo. Forse la vecchiaia, con il suo corteo di corruzione, non è altro che questo lento calare del velo, dell’immagine fittizia che siamo soliti portare.”

Note a margine: (1) all’inizio del libro pensavo che la sindrome fosse un tentativo a giustificazione di certe fragilità mentali ancora insolute o dal quadro complesso – come un pensiero consolatorio; solo poi ho capito che di mezzo c’era l’idea dell’accettare l’inspiegabile, dello sforzo per arrivare a toccare certi punti che però restano comunque sospesi, per quanta fatica e struggimento si impieghino; una lotta titanica d’equilibrio fra l’assumersi l’obiettivo di tirar fuori senso, soluzioni e cure ed educarsi all’osservare, come un tirarsi indietro, prender distanza – senza abbandonare. (2) Credo che la riflessione dell’autore non sia tanto sul modo in cui parlare di salute mentale (al limite, sulla sua definizione) quanto su temi filosofici dell’identità, a cui si aggiungono i pensieri  sull’invecchiamento. E’ questo in realtà secondo me il tema che forse ha più affascinato l’autore, su cui rivela tratti di una particolare tenerezza e compassione: cosa accade quando l’essere umano smette di crescere e comincia a modificarsi, una trasformazione che agli occhi appare come un ripiegamento (tornare bambino, retrocedere in sé, chiudersi al mondo tramite la sospensione dei sensi e l’immobilità fisica) ma che, in un’ipotesi suggestiva quanto misteriosa, potrebbe definirsi come la preparazione a un salto ulteriore, che esiste già ma che ancora non siamo in grado né di vedere né di spiegarci. Ps. “La sindrome di Raebenson” va letto con impegno, di notte, tutto in fila.

“L’immortalità, ma chi potrebbe mai volerla? Il solo pensiero di non morire in tutto e per tutto, corpo e anima, mi farebbe impazzire. Che io continui a essere qui mentre tutto il resto passa. È una cosa che proprio mi annienta.”

“Il cerchio perfetto”, di Claudia Petrucci

Roma/Milano, 2035. Irene Sartori è un’immobiliarista di successo, specializzata nella vendita all’asta di proprietà storiche e di lusso. Si occupa di rilevare palazzi sontuosi appartenuti a nobili caduti in disgrazia, beni pubblici abbandonati, lasciati a marcire nella muffa, penthouse ricolme di opere d’arte – proprietà di sconsiderati investitori di cui si sono perse le tracce, che poi rivenderà al miglior offerente.

La guidano, oltre all’abilità negli affari, la passione per l’architettura e un inspiegabile, curioso intuito per il genius loci, “la percezione della natura della casa, del sentimento con cui è stata costruita e poi abitata. Il ricongiungimento con lo stato originale”. Nulla di strano, quindi, nella richiesta di contatto che così all’improvviso le arriva da un misterioso e raffinatissimo imprenditore milanese: l’anziano uomo d’affari le domanda una perizia su un’abitazione che ha ricevuto in gestione da alcuni anonimi investitori. Si tratta di una casa padronale, su più piani, progetto davanguardia che si incastra in quel triangolo di silenzio assoluto dell’alta borghesia milanese che è il retro di Brera, al confine con viale Gadio: al margine di via Saterna dormono di sonni inquieti le camere appartenute a Lidia Castelli, ventenne rampolla della Milano bene, morta suicida in una notte di bagordi del 1986. Si gettò dalla terza e ultima rampa di scale – racconta la cronaca, sul quotidiano dell’epoca – forse sotto l’effetto dell’alcool, forse vinta dal dolore per il padre appena mancato, forse traumatizzata dall’improvvisa rottura con il promesso sposo: dritta filata sino al piano terra, non un grido, non un rumore, la testa spaccata contro la materia solidissima che compone la vasca rotonda che fa da corrispettivo al lucernario centrale di questa casa avveniristica.

“Roma, lunedì mattina. Nelle ultime ore il cielo si è tinto di un giallo denso. La nube tossica proviene dalle campagne aride di una provincia meridionale a centinaia di chilometri dalla capitale, dove, da giorni, un incendio sta consumando i resti di una acciaieria: stando agli esperti, le polveri resteranno imprigionate nell’atmosfera fino alla prossima pioggia.”

“Sullo sfondo, la base nera del Duomo si distingue come il ventre di una nave madre in attesa; i profili sono sfocati, e la facciata è dissolta.”

Irene Sartori non esita dunque a imbarcarsi da Roma per Milano, sua città natale; questa consulenza le porterà una cospicua parcella e l’ennesimo giro di referenze ma sarà anche l’occasione per una visita ai genitori e alla sorella, ancora residenti a Milano malgrado le condizioni proibitive del luogo, offrendole allo stesso tempo il pretesto per prendersi una pausa dalla relazione con il fidanzato. Forse, pensa Irene, potrà anche esserci modo di un riavvicinamento col padre, anziano, e allettato, con il quale da tempo non va molto d’accordo. Naturalmente nulla andrà come preventivato: la casa di via Saterna spalancherà le porte e inghiottirà Irene nell’inferno di un racconto nero, di fantasmi e scambi di persona, intrighi familiari, vendette, spettri e – come ovvio – di un amore illecito e feroce. Sullo sfondo è dipinta una Milano cupissima, assediata da orde di tanaturisti, furgonati della polizia, bande di disperati rivoltosi e avvolta nella nebbia di una catastrofe climatica irreversibile.

“Le transenne si distinguono solo da vicino, somigliano a una recinzione: si chiudono sull’affaccio al Duomo e si perdono nella nebbia, muri di metallo alti tre o quattro metri, sorvegliati dai militari – quattro camionette parcheggiate da entrambi i lati, soldati a pattuglia.”

Sulla trama ci è concesso dir poco: siano sufficienti alcune domande. A chi la giovanissima Lidia Castelli diede mandato per costruire quell’abitazione, riguardo alla quale nacque l’irrecuperabile dissidio con il fidanzato? Perché il progetto fu modificato così all’improvviso, passando dalla linearità schietta della tradizione borghese a una visione d’estetica pura, tra strutture concentriche e panopticon, marmi e smalti, intarsi di pavimenti, gallerie, vetri e giochi di luce? Cosa c’entra in tutto questo l’anziano procacciatore dell’incarico – e cosa significano i silenzi del padre, al quale Irene appare come un’arrivista prezzolata, ignara del senso ultimo di ciò che significa casa, pagata per offrire a miliardari senza scrupoli preziosissimi beni immobili, privati e pubblici, a cui, per causa della sua azione, mai più nessuno riuscirà ad accedere?

“Com’è tremendo il futuro senza una casa. Per quanto sia ormai rassegnata, per quanto sia cosciente di far parte del trend negativo inevitabile della mia generazione, e per quanto è certo che noi, un numero imprecisato, milioni di individui nel pieno delle forze della vita non potremo mai permetterci di comprarne una, per quanto la flessibilità, la condivisione, l’abbandono della tradizione borghese, la libertà, la libertà di viaggiare, di spostarci, per quanto tutta questa narrazione nauseante miri a farci sentire meno soli, meno dispersi, parte di un insieme di milioni di individui pronti alla fuga, per quanto la nostra giovinezza ci venga raccontata come una dote irrinunciabile lo sento di aver perso tutto. Lo dico con pace, cons serenità, e senza alcun rancore, perché era inevitabile: abbiamo perso tutto.”

Claudia Petrucci costruisce un giallo in puro stile milanese, all’interno del quale tutti gli elementi di genere, pur presenti – dalla narrazione d’atmosfera al gioco degli equivoci – sono rivisitati in chiave contemporanea. E così, la scighera compatta, che rende il silenzio invernale della notte meneghina così denso che quasi si trattiene il respiro per paura di rovinarlo, non è più fenomeno atmosferico tipico della pianura padana ma il risultato di un non precisato, drammatico cataclisma che ha reso Milano una città in costante penombra, dove i pedoni circolano armati di speciali occhiali da vista, maschere e luci lampeggianti atte a segnalare la propria presenza e a evitare incidenti. E così, le domande esistenziali che nascono nella protagonista Irene prendono la forma di una società di consulenza per la procreazione assistita a cui la donna si rivolge, nell’ansia incipiente del tempo che sfugge. E così, i panni dell’antagonista vengono indossati non da un genio del crimine o da un assassino ma da una ragazzina timida e minuta, una squatter che abita di frodo le stanze appartenute a Lidia, che si immerge nella sua vasca da bagno, che indossa i suoi vestiti, che dorme fra le sue lenzuola di seta pregiata, che insomma ne assume l’identità fantasmatica. E così, infine, la crisi delle generazioni più giovani è identificata con l’incapacità di trovare radici, in un continuo andare e venire, un affitto dell’abitare che al senso dello sradicamento pone come alternativa quello della ri-occupazione.

Il cerchio perfetto simboleggia la pozza nell’oculus in cui Lidia specchiava sé stessa, il corpo nudo e bianchissimo e un’ombra accanto, racchiusa in una foto sgualcita. Ma è anche il passato che torna a bussare alla porta del giardino d’inverno, lì dove Lidia usava lasciare la chiave di scorta, nello sguardo di una ragazzina spaurita. Ed è anche il destino di Irene, compiuto per mano di altri, a guidarla come marionetta proprio al centro di quell’inspiegabile che lei non si attende. Sono le cifre che compongono le proporzioni all’interno della casa di via Saterna: inusuali, precisissime, a voler dirci qualcosa: come una celebrazione, una lettera d’amore, forse un testamento (“La casa è austera nella struttura, sensuale nelle finiture. Alcune stanze sembrano essere state progettate come degli scrigni.”)

La trama di questo giallo raffinato (si perdona volentieri l’unico difetto: un po’ di accelerazione improvvisa nel finale) potrebbe irritare – per l’ardire del chiamare in causa addirittura Buzzati, a far da rimpiazzo a una presunta mancanza di inventiva. Ma non ci si deve trarre in inganno: “Il cerchio perfetto” è un omaggio lieve e sentito alla leggenda di via Saterna e a certi spicchi di Milano. È il rendere onore ai luoghi della memoria individuale, alle storie sui misteri di periferia che abbiamo ascoltato da ragazzi, a quella luce dorata che emanano certe stanze milanesi, nel buio delle sei e mezza, quando la minestra è già sul fuoco e il parquet scricchiola al calore del termosifone.

“La desolazione di Milano Ovest, durante i brevi ritorni per le visite familiari o le trasferte, non si era mai sedimentata nella sua coscienza. Per Irene, tornare a vivere nella casa della sua adolescenza, compiere tutti i giorni lo stesso tragitto fino a via Saterna, ha significato essere costretta a soffermarsi sulla percezione dell’assenza.”

Lo scarto nello sguardo di Irene è familiare ed estraneo insieme: cammina parallelo a quello dell’autrice, milanese ma da tempo residente in Australia – come un’occhiata fuori fuoco, dentro ancora ma nello stesso tempo già al di là dell’esperienza, ormai ancorata al ricordo. L’escamotage dell’ambientazione distopica esalta queste modalità di osservazione, creando anche nel lettore l’impressione di un mondo al contrario in cui tutto pare identico al prima, ma completamente diverso. (NB: le parti relative alla torre Velasca e a villa Necchi sono piccoli gioielli, dedicati – davvero – a noi milanesi).

“In via Saterna nella città vecchia / esiste una villa con un grande / giardino da moltissimi anni / apparentemente abbandonata / dalla strada / però non / si vede / che il muro / di cinta e / il culmine / della casetta del custode.” Dino Buzzati, Poema a fumetti, 1969

“Estate caldissima”, di Gabriella Dal Lago

La particolarità di “Estate caldissima” è che ognuno riesce a recuperare da queste pagine l’aspetto che più insiste nell’esperienza individuale. Dalla soddisfazione di una curiosità socio-antropologica fino all’attivazione di un personale triggering point (nel linguaggio nuovo: tutto ciò che, in senso esteso, è in grado di innescare una reazione emozionale non positiva), la struttura dell’enigma a stanza chiusa aiuta nella rappresentazione di una scena teatrale fissa: ciascuno dei personaggi interpreta un sé che finisce per diventare superficie riflettente rispetto alla platea dei lettori, pubblico in sala in qualità di individuo singolo e di entità collettiva.

L’approccio non è nuovo: da Boccaccio all’Isola dei famosi, dal noir di Poe alla speculative fiction di Ballard, la formula è quella della cornice narrativa all’interno della quale un gruppo di persone, ciascuna con proprie caratteristiche e idiosincrasie, viene osservato durante lo svolgersi di una situazione imprevista. Il romanzo breve “Estate caldissima” costruisce la propria impalcatura su questo canovaccio: figuranti posizionati all’interno di un presepe, per affrontare un’emergenza che, in questo caso, si vuole esterna.

Nove le statuine: Gian, quartacinquenne capobranco, capelli lunghi e brizzolati agghindati a cipolla, e i sei colleghi che compongono il team Bombagency – la trentenne Greta, compagna di Gian e socia fondatrice dell’agenzia pubblicitaria; Laura, bella e atletica art director; i due social media specialist Tommi lo svagato e la gigantessa Alma; in coda gli account Vic e Carlo: lei emo-“cyberspazio” ventenne neoassunta, lui disperato cocainomane. Chiudono l’armata il piccolo Leo, otto anni, figlio di Gian, e Lily, la gatta di Greta. Come luogo d’elezione (“location“), l’elegante ma sobrio cascinale-ristrutturato-con-piscina, di proprietà della famiglia di Gian, perso nell’arsura di una campagna estiva, potremmo pensare al piacentino o alla collina toscana. L’emergenza: un progetto da consegnare a un cliente di alto livello, durante un’estate post-pandemica che si preannuncia rovente, apocalittica. Una necessità di brainstorming che però nasconde e rivela allo stesso tempo l’urgenza di una fuga escapista alla quale ciascuno dei protagonisti, per proprio interesse (ed è qui che si incarna l’immedesimazione), ha motivo di guardare con favore.

“Estate caldissima” quindi come racconto generazionale, perché descrive con precisione la vita liquida della generazione Millennials, quel professionale che continuamente si sovrappone all’intimo in una caratterizzante commistione di fuori e dentro in un luogo del mestiere – tipicamente nel terzo settore creativo – che si mescola, agile e fluido, al momento del privato. Recensioni e approfondimenti on line si sono concentrati proprio sugli aspetti dell’ambito professionale: il linguaggio specifico, i titoli, le professioni, la maniera di vestire, gli oggetti, le attività, tutto è parte di un modo di percepire il reale che in certi momenti diventa altro rispetto al reale stesso, con le immancabili questioni che vediamo descritte anche in altri contesti di fiction e saggistica: precarietà come stile di vita, perdita di contatto con le famiglie d’origine, difficoltà nelle relazioni di coppia, attivismi che scivolano nell’ossessione, controllo sul corpo e sulla mente al limite del fanatismo – insomma come si vede ce n’è per tutti.

“…un sorriso che sembra una presa in giro ma che Alma legge come un’alleanza, la sicurezza che tra loro c’è qualcosa, un patto, una sintonia – e questo è il problema di leggere nei gesti degli altri quello che noi vogliamo leggere, e in definitiva questo è il problema di amare male”.

Un punto che tuttavia differenzia “Estate caldissima” da altri racconti simili è la presenza costante del motivo della necessità di interpretazione, per via dell’esistenza di uno scarto fra il reale e il pensato. L’autrice utilizza perfino il verbo “sovrascrivere” in relazione al meccanismo di sovrapposizione fra la persona reale e quella immaginata, identificando questa visuale come una delle criticità generazionali: l’ondeggiare fra la necessità di rivelarsi (io sono così e fattelo bastare, non cambierò) e quella inconscia, si potrebbe dire fisiologica e ancestrale, di tutelare i propri spazi di vita personale e pensiero. La paura di impegnarsi in una strada di scoperta dell’altro è parte fondamentale del sistema che governa l’incontro e che, di fatto, ne determina il fallimento. Questo è un punto importante, che spinge l’analisi sui Millennials di “Estate caldissima” un po’ più avanti, raffinandone l’osservazione perché si lega non solo a una lettura del reale non stereotipata – figurine da presepe, non caricature – ma anche al rapporto dei protagonisti con un tema che fino a ora era stato analizzato solo di sfuggita: quello del diventare adulti, con particolare riguardo alla genitorialità.

“Leo è abituato a interagire con persone molto più grandi di lui, perché da figlio di separati che hanno l’ansia di dimostrarsi reciprocamente di essere in grado di badare a lui senza ricorrere in misura eccessiva a genitori, baby-sitter o aiutanti di vario genere, ha passato gran parte della sua vita immerso nei contesti amicali dei propri genitori, trascinato a cene di compleanno, pranzi di lavoro, feste aziendali e sì, ora anche a ritiri creativi come questo.”

Poco analizzato perché erroneamente interpretato, verrebbe da dire, da molti ma non da Gabriella Dal Lago che ne coglie il nodo centrale: genitorialità legata non tanto e non per forza alla riflessione sul materno quanto a un approccio complessivo nei riguardi del mondo adulto, all’interno del quale la caratteristica fondamentale dovrebbe essere un atteggiamento di cura sociale, collettiva.

Per paradosso e per provocazione queste riflessioni sono consegnate a Leo. Il cui padre, a esser chiari, non brilla per competenza. Il fatto che sia divorziato non è dirimente nella misura in cui il romanzo non possiede intento moraleggiante ma ci interessa, ancora una volta, per la questione dei figuranti. Gian, maschio adulto di quarantacinque anni – professore universitario e amministratore di una realtà consolidata che si presenta e viene conosciuto unicamente tramite nomignolo – si impegna certamente nel ruolo genitoriale ma allo sforzo, dichiaratamente titanico e sottomesso a interi Eoni di iperboliche seghe mentali, corrisponde invero il parto di un topolino. Non sono migliori, nella gestione dell’età adulta, né le performance di Greta che ovviamente con Leo ha un rapporto complicato (per anagrafe potrebbe eventualmente corrispondere al ruolo di sorella o giovane zia: di sicuro non matrigna) né quelle degli altri membri del gruppo all’interno del quale nessuno a parte forse Tommi, che difatti nel finale del libro è l’unico a essere rappresentato in un modo ben preciso, rivela la benché minima capacità o voglia di interazione col ragazzino.

Come registra il bambino stesso, nel corso di alcuni capitoli a lui dedicati tramite punto di vista interno, Leo risulta non tanto in-curato quanto piuttosto abbandonato a sé stesso nell’uso e nella percezione della realtà che lo circonda; non visto (proprio uno dei suoi giochi preferiti: il ragazzino invisibile) il bambino assiste, privo di quella protezione comunitaria che invece dovrebbe essere riservata all’infanzia, al teatro della vita adulta senza filtri e, ancora peggio, senza che gli vengano forniti strumenti per localizzarne in senso: litigate di coppia, promiscuità, consumo di alcol e stupefacenti, fisime e scenate, workaholism, ritmi di sonno/veglia alterati, routine inadatta alle esigenze di un bambino; niente di ciò gli è precluso, in un senso di estraneità, disallineamento di percezione col reale e solitudine che si acuisce col procedere della narrazione. La tensione narrativa sulla figura di Leo è palpabile e nel lettore inevitabilmente nasce il sospetto che gli elementi “bambino di otto anni + giochiamo a essere invisibili + piscina incustodita” potrebbero non andare proprio così d’accordo fra loro.

Ciò che fa specie è l’incapacità del gruppo di uno sguardo di comunità; il che, come si è detto, non implica per forza la riflessione sulla maternità quanto l’esperienza del senso di famiglia: nello sguardo che percepisce la presenza di un bambino e nella consapevolezza della propria posizione di adulti ecco dovrebbe identificarsi lì, la capacità di mettere da parte sé stessi, se valutato necessario. Cosa che invece non accade poiché tutti e sette i protagonisti adulti sono concentrati unicamente sull’analisi e sulla risoluzione dei propri psicodrammi esistenziali.

Questo punto, della mancanza di cura (o di consapevolezza, o di contatto con il reale, la si metta come si preferisce), si rivela anche nell’allusione allo scenario distopico all’interno del quale ruota la vicenda. A un periodo di gravissima siccità seguiranno anni di inondazioni e marcescenze: con buona pace di Amitav Ghosh, che ormai parla da pagine antiche (“La grande cecità” è del 2017 e non sta invecchiando benissimo), la scelta di ambientare “Estate caldissima” a cavallo fra il reale del post- pandemico e una catastrofe climatica globale di sapore distopico – sebbene molto realistica – apre lo sguardo al tema del motivo-clima all’interno della narrativa italiana di fiction contemporanea, creando un buon precedente con cui le narrazioni successive dovranno per forza confrontarsi. Il tutto si incarna grottescamente, però, nella figura di Greta, (nomen omen) che si autodefinisce attivista ambientale ma che appare di fatto più vicina a un’invasata fuori controllo, con le sue crisi isteriche alle due di notte per una confezione di insalata in busta trovata in frigorifero, che a un’adulta consapevole di certe dinamiche, pronta a condividere le proprie conoscenze e consapevolezze con la comunità o con i più giovani (di lei).

“Ogni tanto si trovava a provare una cocente invidia per la conflittualità tra genitori e figlie che vedeva raccontata da film, serie TV, saggi, come se l’accondiscendenza e la comprensione estrema dei suoi genitori l’avessero privata di un passaggio cruciale, fondativo della sua identità come essere umano: la lotta.”

Gabriella Dal Lago non fa molti sconti alla generazione che dipinge. Ogni personaggio in scena incarna uno dei tanti punti di cui si parla spesso quando si parla dei trenta-quarantenni e di quando essi stessi si raccontano. Sembra, ci dice l’autrice, che il tutto si possa definire come una discrepanza fra ciò che si sente (a cui viene dato il credito dell’assoluto) e quello che è. Sarebbe troppo facile associare questo modo di interpretare il reale alla maniera in cui dai social pensiamo di dedurre la vita personale dei nostri following. È più che altro, invece, un difetto di lettura, un inciampo per qualcosa andato storto dove, chi lo sa – forse durante l’apprendimento scolastico, in famiglia, nelle amicizie (il tema dell’amicizia ricorre spesso), forse negli studi (altro tema ricorrente: università come buco nero di nozionismi iper-strutturati, determinati da una feroce corsa a chi arriva prima, legami sociali e dibattito contraddittorio ridotti al minimo).

Cosa succede alla fine? Sta qui l’equilibrio di queste pagine: chi lo dice, che debba per forza capitare qualcosa di drammatico per scuoterci, nei libri che leggiamo? Cos’è il fascino che abbiamo, per il contenuto, per l’inizio e la fine, per la conclusione che ci si aspetta: pure questa attesa del qualcosa, ci racconta l’autrice, non è che parte del problema.

“Il figlio del Direttore”, di Piersandro Pallavicini

“Ero felice. A dieci anni desideravo la protezione dell’oscurità. Ora, a sessanta, ho preso un appartamento in Costa Azzurra inondato di sole.”

A metà strada fra il giallo sociale, la commedia degli equivoci e il romanzo generazionale, “Il figlio del Direttore” indaga, con disincanto scrupoloso e urticante sarcasmo, le pieghe della più esclusiva Late Boomers generation nostrana.

A questa enclave d’élite appartiene Michelangelo Borromeo: neosessantenne pavese, proprietario della centralissima libreria antiquaria “Da Recalcati Libri e Gusto”, single, abitudini raffinate e conto corrente di pregio. Fanatico della boutade sapida (per mezzo della quale s’arrabatta sin dall’adolescenza a mascherare una patologica timidezza), cultore degli abiti di sartoria, dei ristoranti stellati e delle macchine sportive, Michelangelo Borromeo – nomen omen a svelare una nobiltà farlocca, indizio della pesante eredità familiare toccatagli in sorte – è insomma, diciamolo, uno di quei boomer del cavolo che, pieni di soldi, seconde case e colonscopie in regime di libera professione, da giovani affollavano di villette monofamiliari la provincia lombarda e che ora troviamo ritirati, complici età e divorzi tardivi, fra le mura di sontuosi quadrilocali ztl in quel triangolo delle Bermuda casereccio rappresentato da alta Brianza-varesotto-pavese.

“Da Recalcati Libri & Gusto, oltre alle prime edizioni di Sereni, Montale, Pavese, D’Arzo, ho quindici diversi prodotti al tartufo, colature di alici, bottarghe, creme di pistacchio, nocciola, fava tonka, tè cinesi esoterici, caffè campani artigianali, per non parlare degli champagne, solo grand cru, e dei vini di Bordogna, soltanto grand cru pure loro, e su ogni barattolo, scatoletta, bottiglia ci metto dei ricarichi semplicemente criminali. Ma la radice di follia del collezionismo librario, evidentemente, corrisponde alla medesima folle radice dell’estremismo gourmet.”

Il Borromeo, insomma, ne ha così tanti che un po’ fatica a immaginarne l’uso e a parte qualche momento di inquieta solitudine, speso a immaginarsi un personale futuro distopico di malattie neurodegenerative o navigando sui siti pornografici, se la passa discretamente bene fra il negozio, la residenza pavese e l’appartamento di proprietà al Mer Azur, un condominio di lusso affacciato sul boulevard de la Garoupe, ad Antibes. Il modo in cui Pallavicini racconta la raffinata decrepitezza della Côte d’Azur fuori stagione mi porta quel piccolo e noto conforto che viene dal leggere pagine scritte bene – tra piscine svuotate, pioggia che batte le strade quasi deserte, arenili inselvatichiti, odore forte di mare e aghi di pino, café solitari frequentati unicamente da persone del luogo e da qualche sparuto turista nordeuropeo. È un paesaggio lunare di cui Michel – come il Borromeo viene chiamato qui – si nutre avidamente; uno scenario che rimanda il lettore non soltanto agli anni gloriosi di Aly Khan e Rita Hayworth ma anche, in maniera più sinistra, all’Eden-Olympia di ballardiana memoria – il finzionale, paradisiaco complesso residenziale nizzardo all’interno del quale si svolge uno dei più truci romanzi della fantascienza occidentale.

Se sotto la penna di Pallavicini (come fosse un rivoltare d’involucro) i cultori dell’antiquariato librario si trasformano da stimati intellettuali a gente in sostanza anche simpatica e piacevole ma un poco gonza – e per questo finanziariamente necessaria, in un gioco di sapiente miniaturizzazione caricaturale, così i residenti del Mer Azur, allontanati a forza dalla gloria dei tempi passati, assumono sembianze a metà strada tra i fantasmi del tempo che fu e i protagonisti di un parco dei divertimenti a tema “benvenuti sul pianeta Terra”. Da Agathe, la svagata, autoctona proprietaria di alcuni appartamenti al Mer Azur, a rigore ricchissima ma scroccatrice seriale di opulente colazioni, a Madame Kirsten Østergaard, la turista danese affittuaria di Agathe che con l’assoluta incultura per la lingua italiana, le forme sinuose e il nudismo integrale sul terrazzo per lo yoga notturno al sottofondo di campane tibetane sconvolge gli ormoni del Borromeo e gli riporta a galla un’antica parafilia assolutamente politically incorrect, fino a Gualtiero, uno zerozerosette nazionale invischiato in non si capisce che traffico notturno – Gualtiero che ovviamente non si chiama Gualtiero e che per modi e piglio assomiglia non tanto a Daniel Craig quanto alla guardia del corpo di un boss mafioso.

“Il raggio del faro sulla cima del Cap taglia il buio ogni pochi secondi, un aereo che si prepara ad atterrare a Nizza attraversa il cielo stellato. Sotto le suole, mentre stropiccio i piedi sull’asfalto crepato, scricchiolano gli aghi dei pini. In questo momento mi sento come sempre mi sono sentito in questo angolo di mondo: non felice, che è una condizione implausibile per qualunque essere umano sopra i quarant’anni, ma vagamente euforico, sollevato anche se non si sa bene da cosa, diciamo in tregua col mondo. Ed è adesso, mentre l’angoscia della morte, della catastrofe e della rovina sono lontane, è ora, mente rimiro l’oscurità del mare con i gomiti appoggiati alla balaustra, che il cellulare si mette a suonare.”

I fantasmi del Borromeo però non finiscono qui perché, come in ogni giallo che si rispetti, a un certo punto ci scappa il morto – nella persona, addirittura, di Luca “Luchino” Borromeo, altrimenti detto il Signor direttore – nonché padre di Michelangelo; quel rinomato banchiere di provincia assurto fra gli anni ’70 e ’90 alle glorie di direttore di filiali per il Banco Italico tra Vigevano, Milano, Cantù e Busto Arsizio, quel padre smargiasso e burino, razzista, omofobo e cornificatore seriale, mancato due anni prima per causa di un brutto male che al posto di redimerlo lo aveva reso ancora più iracondo, menefreghista, cafone e stronzo. Nella pace della passeggiata serale sulla spiaggia nizzarda, insomma, una sera il cellulare del Borromeo comincia a squillare; il numero di telefono da cui arriva la chiamata è quello del padre – passato a miglior vita, come si è detto, due anni prima. La linea si interrompe appena Borromeo clicca sul tasto verde. Chi sta utilizzando il telefono del morto, quindi? Chi dunque si è introdotto nella casa di famiglia? Chi è colui che si sta appropriando dell’identità del Signor direttore?

La telefonata notturna scoperchierà il vaso di Pandora e la villeggiatura fuori stagione del Borromeo si trasformerà in un rutilante viaggio nel passato perché niente, come è ovvio, è come appare; in costante equilibrio fra i colpi di scena di un noir dai tratti hard-boiled e la farsa comica, Borromeo sarà costretto a precipitare non solo nell’abisso della propria giovinezza – un luogo della memoria infido e crudele dal quale aveva avuto ben cura di tenersi lontano – ma anche nel passato dei genitori e nel ricordo di Marcella, l’amore perduto.

Il viaggio di Michelangelo Borromeo però sarà anche un po’ nostro, perché “Il figlio del Direttore” è non solo la storia della famiglia Borromeo ma anche il racconto del sentirci boomer: se difatti alla tal generazione appartengono di diritto solo i nati tra la fine della guerra e la metà dei favolosi Sessanta va però detto che noi, un poco più giovani, quell’aria lì l’abbiamo respirata quotidianamente, insieme al fumo passivo in pizzeria – e non è che certi sistemi di pensiero si possano scardinare con facilità. “Il figlio del Direttore”, poi, significherà per molti il ritorno alla provincia lombarda – regno di piccoli ricordi acuminati, dolorosissimi – e per molti altri invece un volo radente sopra una terra che, lo si voglia oppure no, ha significato moltissimo per la società e per la politica italiana.

Ah, non dimenticate la FFP2, mi raccomando; ché tra le altre cose “Il figlio del Direttore” è anche un romanzo post-pandemico – forse il primo che s’azzarda a recuperare la dimensione comica della tragedia, fra ipocondriaci atterriti, svagati cronici che del Covid quasi nemmeno si sono accorti, incoercibili no-vax equipaggiati di bottigliette di gel igienizzante incartapecorito e mascherine putrefatte.

È possibile, si domanda Michelangelo Borromeo, godersi la vita dopo che la vita è passata? Forse no, ma forse anche sì.

“Membrana”, di Chi Ta-Wei (trad. Alessandra Pezza)

(progetto grafico NERO, illustrazione di copertina Lucrezia Viperina)

“Sciocchina, i trattamenti cutanei curano l’esterno, non l’interno.”

La fantascienza transumanista di Mary Shelley cresce tra le inesauribili declinazioni del cyberpunk da Gibson a Sterling, s’aggrappa al fertile terreno dei manga (Akira, Ghost in the shell, per dire), semina dubbi nel ventre dei supereroi a stelle e strisce toccando proprio il cuore della vigorosa supremazia occidua – come ci raccontano i Tre millimetri di Matheson, il Jedi rinnegato Darth Vader, l’affaire Wolverine. Il superamento del corpo, punto riguardo al quale gli esseri umani, va detto, stanno in fissa perpetua, nella speculative fiction viene raccontato principalmente attraverso il controverso rapporto carne-macchina, precisamente nel momento in cui la tecnologia assume la funzione di strumento di sorpasso. La varietà di soluzioni è infinita a livello pratico ma ben codificata nei sottesi principi generali, in quello che per certi versi può essere interpretato come un crescendo di soluzioni ad hoc, dipendenti non solo dal livello dello sviluppo tecnologico ma anche dal grado di agiatezza economica del singolo (individuo o gruppo sociale): si comincia con le protesi esterne per passare agli innesti – del tutto meccanici o ibridi uomo-macchina -, sino ad arrivare all’interfaccia neurale impiantabile (la pila corticale di Altered Carbon, che può essere prelevata da un corpo, non a caso definito custodia, e inserita in un altro, rendendo così di fatto possibile l’immortalità, certo a patto di avere mezzi sufficienti per comperarsi un nuovo …contenitore).

“(…) a quanto pareva non era così semplice rimuovere a piacimento le parti del corpo indesiderate… Non avevano più giocato a mangiarsi. Gli adulti però se ne erano già accorti. La dottoressa notò dal monitor che ad Andy mancava un dito. Domandò cosa fosse successo e, stranamente, anziché sgridare Momo la mise in guardia. «Divertitevi quanto volete. L’operazione si avvicina e allora rimpiangerete di non aver giocato abbastanza. Però non mangiatevi, altrimenti non sapremo come fare», spiegò, «Momo, sarai tu ad andarci di mezzo per aver mangiato il dito di Andy».

Città di T., anno 2100: l’umanità si è ritirata nelle profondità degli oceani per sfuggire ai cambiamenti climatici innescati dall’inquinamento. L’incredibile sviluppo tecnico ha permesso la sopravvivenza della nostra specie ma il mondo sommerso è governato dalle industrie ipertecnologiche che oltre a contendersi i fondali marini continuano a rivaleggiare anche sulla terraferma, ormai ridotta a un parco archeologico cotto dai raggi ultravioletti, tramite guerre per procura combattute da macchine e androidi. Nella città di T. – in cui dominano asettici colori pastello e giardinieri strapagati, metà umani e metà robot, curano la preziosissima vegetazione – vive Momo, famosa estetista della pelle. Momo è divenuta una celebrità nel ramo dei trattamenti cutanei, professione molto ambita poiché l’inquinamento sulla terraferma e le atmosfere modificate nei fondali sottopongono la pelle umana a stress e malattie. La trentenne però non approfitta della notorietà e anzi vive una sorta di eremitaggio autoimposto, con il computer a fare da unico strumento attraverso cui interagire con l’esterno – a parte le sedute con i clienti durante le quali, tuttavia, mantiene un riserbo divenuto ormai leggenda. In occasione del suo trentesimo compleanno, però, alla porta si presenta sua madre, da cui si è separata vent’anni prima. Questa improvvisa apparizione darà il via a una serie di riflessioni che culmineranno in un completo stravolgimento di punti di vista, legato al fatto più importante della vita di Momo: un’operazione salvavita, subìta quando aveva dieci anni (che aveva per altro compreso anche il cambio di sesso), rispetto alla quale la madre non ha mai voluto fornire dettagli.

“Nel discolibro, Amleto diceva: «Potrei vivere nel guscio di una noce e credermi re d’uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni».”

Per molto tempo ci siamo nutriti di fantascienza occidentale pensandola unica opzione possibile e focalizzandoci di conseguenza su un certo tipo di antagonismi e storytelling (dal quale però, va detto, alcuni autori e autrici avevano tentato di metterci in guardia); grazie però al lavoro di piattaforme di nicchia e al più recente investimento delle case editrici nella traduzione da lingue non anglofone s’è reso evidente quanto il futuro della fantascienza sia legato a esperienze diverse da quelle della scifi occidentale. L’opera divulgativa, sia dell’originale sia in traduzione dalla lingua madre non mediata dall’inglese, ha il merito di aprire al panorama non anglofono il pubblico mainstream e, allo stesso tempo, di facilitare il recupero dei testi da parte di chi s’interessa di scifi più nel dettaglio: afrofuturismo e fantascienza asiatica non sono esattamente fenomeni emergenti quanto un sistema di declinazione della materia presente da tempo e su cui qui da noi manca ancora, in tanti casi, lo sguardo d’insieme. Esempio lampante di tutto questo discorso è, appunto, “Membrana“, pubblicato a Taiwan nel 1995 e scritto dal prolifico Chi Ta-wei (scrittore, studioso di storia letteraria sinofona, esperto di temi LGBTQ, professore associato di letteratura taiwanese presso la National Chengchi University di Taipei), un romanzo breve che nella costruzione di uno scenario distopico si impegna ad affrontare temi di natura prettamente locale.

Lo scenario distopico scelto è quello della catastrofe post-apocalittica di matrice ecologica: in particolare, l’autore si riferisce all’assottigliamento dell’ozonosfera, uno dei primi veri segnali dell’inquinamento a opera umana, questione che tanto aveva colpito noi della X Gen. Tuttavia, l’indeterminatezza delle specifiche tecniche dimostra il sostanziale interesse dell’autore per lo sviluppo della parte speculativa più che per la creazione di una distopia mirata. Le considerazioni di Chi Ta-Wei difatti si inseriscono all’interno dell’analisi del sé e della critica sociale, con specifico riguardo alla realtà asiatica. Per esempio, uno dei punti cardine è l’integrazione di persone fuori canone nella rigida società ipernormativizzata orientale, il che non vuol dire solo temi LGBTQ ma anche la riflessione sulla realizzazione personale della donna quando non comprenda la tradizione del matrimonio e della maternità. Un altro argomento di forte interesse è l’analisi degli effetti dei vecchi e soprattutto nuovi colonialismi (di cui è metafora la battaglia per la conquista degli oceani) e la questione delle guerre per procura, nonché l’argomento dell’appartenenza sociale, culturale e politica alla sfera d’influenza cinese.

Membrana è tutto ciò che ci avvolge, in un continuo gioco di specchi e rimandi: è la pelle su cui scivolano gocce d’acqua e raggi di sole, baci di amanti e sbuffi di vento, ma è anche la delicata carta della stratosfera che riveste il nostro pianeta; è “il confine invalicabile tra il nostro corpo e le cose esterne”, è il luogo in cui risiede la “frattura visibile” provocata dai conflitti interpersonali, l’ “ironia bruciante” della cicatrice quando è frutto di una sottrazione. Da rifletterci.


In pianura .2: “Génie la matta”, di Inès Cagnati (trad. Ena Marchi)

“Se la gatta o la cagna aveva fatto i piccoli, le dicevano: «Génie la matta, intanto che fai una pausa, va’ ad ammazzare i gattini». O i cuccioli. Lei metteva i gattini o i cuccioli in un sacco con dei sassi e andava a gettarlo nel fiume. Io la inseguivo a distanza, perché ogni tanto si girava e diceva: «Vattene». In certe fattorie gattini e cuccioli li seppellivano vivi nel letamaio. Mi ricordo di cagne che cercavano i piccoli piangendo. Correvano da ogni parte, chiamavano, cercavano, puntando il naso, per ore intere. Alla fine si accucciavano in un angolo della casa e piangevano. Gli preparavano frittate con il prezzemolo per asciugare il latte e le cagne piangevano.”

Continuo a seguire la strada della pianura. Sono briciole di pagine che riesco a recuperare lentamente e però vado avanti perché più di tutto mi interessano le corrispondenze. Sul filo sottile che separa quel che la pagina dice da quel che vogliamo farle dire – è come camminare lungo la sponda buia e scivolosa di un fosso! – cerco impronte di piedi scalzi, orme di stivali e linee di sguardi, qualcosa che è passato da lì prima di me, a cui voglio andar dietro.

“Tornando da scuola, prendevo scorciatoie, correvo nel fango, negli artigli dei rovi, nel richiamo rosa dei meli cotogni. Sguazzavo nei pantani.”

C’è lo scrivere di Natura, quel modo laterale di vedere il non umano che ha la caratteristica di un riguardo poco meno che sacro, emendato da qualsiasi personale compiacimento – con l’uomo incastrato nel mezzo, nella consapevolezza di un significato inaccessibile. Questo cerco, un sistema di scrittura libero dallo sguardo consapevole e interpretato:

“Dopo il pasto di mezzogiorno, nelle fattorie, si faceva una pausa, in genere di un’ora, a volte di più, a volte di meno, a seconda della stagione o della fattoria. D’estate, durante la pausa le gente spariva nelle camere da letto, i cani nella paglia dei fienili o verso i ruscelli. D’inverno, le donne rimanevano accanto al fuoco senza far niente o a sferruzzare, gli uomini e i cani andavano nei fienili a fare non so che.”

E poi c’è il Male, la brutalità che a volte, se viene dalla pancia vuota, consuma l’animo. L’invidia corrode il pensiero, gelosia dei bisogni primari: l’acqua corrente, le conserve di frutta per l’inverno, i vestiti nuovi per scuola, un amore, dei figli, continuare a studiare, la compagnia di un animale domestico. È un veleno che scorre nelle vene di tutto il paese, un virus che le persone si passano l’una con l’altra, nel continuo specchiarsi di una reclusione di gruppo a cui non sembra possibile sottrarsi, pena il disconoscimento. Nei paesi della provincia accade spesso: la necessità del falò, il fantoccio bruciato che assume le sembianze della strega – donna bellissima e lasciva, di famiglia nobile e prestigiosa, che ammalia per sortilegio gli altrimenti probi e purissimi membri del concilio sociale. “Génie la matta” non fa eccezione e non perché ci si diverta a costruire nuove varianti di una medesima leggenda così, per penuria di idea ma perché, come racconta Cagnati in coda al libro, lo schema dell’investitura del matto si ripete sempre secondo una precisa convergenza, al di là del luogo e del tempo.

“Penso che il comportamento nei confronti del «matto» si possa spiegare così: da un lato il matto è l’indemoniato, posseduto dallo spirito del male, dal diavolo. È quindi colpevole di tutti i mali, dal momento che le terribili punizioni che il cielo infligge (pesti, carestie, epidemie varie) sono dirette contro i malvagi. Come le streghe, gli ebrei, gli eretici, gli stranieri, il matto è responsabile dei mali subiti da tutti e merita, perché i flagelli abbiano fine, persecuzione e morte. Il matto dà ragione dell’esistenza dei mali che conducono alla morte e, al tempo stesso, lascia sperare a coloro che si reputano virtuosi, rispettosi della religione o dell’ideologia dominante, di potervi sfuggire. Dall’altro lato il matto è colui che ci rassicura su noi stessi. Ogni essere diverso da noi è matto, perché se siamo quello che siamo c’è una ragione. L’altro è matto perché noi siamo normali, e affinché noi possiamo esserlo. Ne è il garante.”

Come è naturale il congegno secondo cui lo scemo del villaggio in “Pontescuro” si ritrova accusato dell’omicidio della bella Dafne, così Génie, che matta non è (ha solo scelto la via del silenzio, l’unica percorribile), viene riconosciuta adatta a far parte della comunità, sempre con le dovute cautele e limitazioni, si intende, sino a quando accetta di incarnare – ovviamente in maniera consapevole – il ruolo a cui è stata promossa.

“Raccontavo la storia delle belle principesse che salgono su torri merlate così alte da fermare le nuvole, torri dove le notti si addensano di grida, dove i giorni coprono di polvere le ombre dei sentieri, giorni di deserto in cui quelli che aspetti arrivano troppo tardi. Raccontavo soprattutto la storia di Penelope che si consuma gli occhi nelle cupe caverne, e quella di Lorelei che sale sulle rocce più alte e tende la braccia verso il tumulto delle acque del Reno, di Ofelia, innamorata delle ninfee, che fugge, distesa nell’acqua lattiginosa dei fiumi e dietro di lei resta solo la scia dei suoi capelli d’oro.”

Anche la fine della storia è nota, un’altra di quelle orme di gatto che vado a cercare, la terra smossa sempre nel medesimo punto in cui l’animale affonda le zampe, giro dopo giro: contrariamente a quanto il coro del popolo crede, cavarsi fuori dall’ingranaggio è difatti possibile ma, come ci insegna il fattore, tutto perirà nella violenza da cui è nato e nulla verrà elargito in dono.

“Erosione”, di Lorenza Pieri

“Qui tutto mi rassicurava, era sempre estate, era come se il buio non esistesse. Tutta la luce che mi circondava, gli alberi, le cicale, il vento, il ritmo ipnotico della risacca da cui provavo a farmi incantare nelle notti in cui non riuscivo a prendere sonno, facevano pensare che niente di brutto sarebbe mai potuto accadere finché ero lì.” (Scatola N°2. Geoff)

“Le dispiaceva per esempio non ricordare l’ultima volta che con i fratelli si erano abbracciati “a pinza di granchio”, agganciandosi tutti e tre per le braccia come facevano da piccoli” (Scatola N°1. Anna)

Sabato sera ci siamo ritirate presto, io e il gatto, e abbiamo finito “Erosione”. Che è un romanzo a tre voci – anzi a pensarci forse pure di più, ma partiamo dall’inizio. Tre fratelli ormai adulti, Anna, Geoff e Bruno, in una giornata di tempo brutto e freddo si ritrovano a Cape Charles, amena località turistica adagiata sulla Chesapeake Bay, in Virginia, per dare l’ultimo saluto alla villa di famiglia appena passata nelle mani di nuovi proprietari. Anna ha avuto l’idea di portare con sé anche la madre, Margaret, trascinando la carrozzina dalla casa di riposo sino al soggiorno della villa e sistemando l’anziana donna, ormai quasi del tutto incosciente a causa dell’Alzheimer di cui soffre da tempo, di fronte al panorama costiero.

[Un passo indietro.] Se ci si prende la briga di curiosare sui siti di promozione turistica della Chesapeake Bay si potranno ammirare decine di queste tipiche abitazioni a disposizione per l’affitto stagionale: grande folklore statunitense – tanto legno, veranda rialzata, colori brillanti alle persiane, tradizionale pianta quadrata, due piani, arredi d’epoca, in alcuni (ormai rari) casi accesso diretto alla spiaggia con pontile riservato – e una “storia da raccontare” che risale, di solito, ai primi del ‘900. “Per i turisti che intendono passare le vacanze a Cape Charles una casa in affitto è una popular choice“, recita la caption di un sito di intermediazione immobiliare (dove con “popular” si intende una cosa che sta a metà strada fra il “lo fanno tutti” e lo “stai sereno, è sofisticato”: potremmo tradurlo con di tendenza, forse). La scelta è vasta, costruita per assecondare le necessità di diverse tipologie di fruitori: si va dall’intimo e isolato cottage per coppie alla “massive beach mansion” che può accogliere agevolmente anche le famiglie più extended. L’importante è che si possa “apprezzare la storia senza rinunciare a tutte le comodità moderne”.

[Riprendiamo.] Non fa eccezione la casa di nonno Joe, arrivato a Baltimora da bambino insieme al padre e allo zio – muratori e titolari della “Amenta bros.“, impresa di costruzioni – e poi imprenditore di successo nel commercio delle automobili durante la ripresa economica dei Sixties. “Aveva fiuto per gli affari e una discreta prepotenza, ma più di tutto un’innata capacità di convincere gli altri.” (Scatola N°1. Anna)

“Il nonno andava pazzo per tutto quello che lo affrancava dal suo status di migrante italiano. Era orgoglioso delle sue radici ma si vergognava della povertà. Del resto era cresciuto tra gli americani, in un posto dove essere poveri veniva vissuto come una colpa.” (Scatola N°1. Anna)

Sicché, ecco la casa sulla punta del promontorio: completa di veranda, terrazzo, vasche per i fiori e pontile a cui erano attraccati il motoscafo Siracusa e il barchino in vetroresina Tender to Siracusa con cui i fratelli usavano spostarsi per raggiungere le ville degli amici. Ed ecco il rito del trasloco estivo, con la nuora – mamma Margaret, rimasta vedova in giovane età – che stipava in macchina i fiori nuovi da trapiantare in giardino e i figli, a cui consegnava ogni anno tre scatole di legno di cedro all’interno delle quali i fratelli dovevano infilare tutto quello che ognuno intendeva portarsi dietro per i due mesi al mare, “imparando l’arte della selezione e a provare la soddisfazione tutta cattolica della rinuncia.” (Scatola N°1. Anna)

[Un passo di lato.] Non so se avete mai sentito parlare del “blight”. Di solito si rende con morìa, o anche decomposizione, e indica, come spiega bene Cal Flyn in “Isole dell’abbandono”, quel particolare stato di degrado urbano progressivo tipico della città di Detroit in seguito al tracollo dell’industria automobilistica. Il termine in realtà viene dall’agricoltura ed era utilizzato nel XVI secolo per indicare la morte improvvisa e devastante di un raccolto. L’Oxford English Dictionary, racconta Flyn, traduce “blight” come influsso malevolo: “[è] un malessere socio-economico che aleggia per le strade come un miasma, insinuandosi attraverso le finestre o negli spazi sotto alle porte, dilaga nei quartieri come l’influenza, in certi posti, come la peste.” Ecco. Se nel deterioramento tipico di Detroit c’entra la (de)industrializzazione, nella casa di nonno Joe quel che ficca il naso tra le crepe è il lento e inesorabile dilavamento delle coste dovuto alla cementificazione dell’estuario del Susquehanna, ai cambiamenti delle correnti atlantiche e infine all’uragano Floyd – il primo di molti altri successivi – che si è portato via tutta la fetta di spiaggia accessibile, pontile compreso.

[Riprendiamo.] La questione, in sostanza, è che la casa di nonno Joe, nel frattempo mancato per infarto, non assomiglia più – come sta capitando anche tante altre, vittime del “blight” – né a quelle in foto sui siti di renting on line né all’immagine impressa nella memoria dei tre nipoti che, chi per una ragione chi per un’altra, da tempo hanno smesso di frequentarla e non possono o non vogliono più accollarsi le cifre astronomiche che occorrono per amministrarla, anche perché fra loro i rapporti non sono idilliaci e ciascuno ha della propria infanzia e degli eventi successivi un ricordo personale alquanto differente (“[…] la memoria degli altri è un mezzo di persuasione difficile” [Scatola N°1. Anna]). Dunque, il legno dell’impiantito è ora impregnato di umidità, la vernice degli infissi è scrostata, lenzuola e coperte odorano di muffa, il caminetto è ingolfato, l’approdo precluso da un terrazzamento d’emergenza, fatto costruire dall’azzeccagarbugli Bruno non tanto per limitare i danni delle maree quanto per ottenere una copertura assicurativa meno onerosa.

“(…) ormai. Un avverbio italiano che ci ha insegnato il nonno e di cui in inglese non esiste un corrispondente preciso. Significa che da questo punto non si può più tornare indietro. Dentro ormai c’è ora e al suo interno è entrato il mai. In genere quando nonno lo diceva voleva dire che per me era ormai troppo tardi per evitare una punizione.” (Scatola N°3. Bruno)

Bruno, il maggiore, Anna, la figlia di mezzo, e Geoff, il minore sembrerebbero a prima vista rappresentare, ciascuno per proprio conto, una delle forme tipicamente americane in cui può prendere sostanza l’adultitudine. Anna è la quarantenne fricchettona ecologista, fissata con la mistica, maestra di scuola e madre di una figlia melting-pot, concepita a quindici anni con un dipendente scapestrato – e nero – di suo nonno, in un momento di ribellione-illuminazione. Bruno è avvocato di successo, in banca un patrimonio folle derivato dal suo mestiere (vincere in maniera spregiudicata cause di divorzio miliardarie e particolarmente audaci) e dai beni della moglie, rampolla di una delle famiglie più in vista di Cape Charles, conosciuta sin dall’infanzia (“due ciliegie di plastica” che le fermano le treccine bionde – [ndr: ricordi anche tu quel suono? Quel cloc che facevano le due biglie rosse?]. E infine abbiamo Geoff, l’unico di nome americano a testimonianza dello sgretolamento che rovina anche l’eredità linguistica, il self made man che non ce l’ha fatta, nel più puro spirito a stelle e strisce che vuole l’incompetenza personale come unica causa dell’insuccesso: sfigato padre single di un novenne mezzo irlandese-mezzo italiano cresciuto senza madre, si arrabatta fra lavori precari e stagionali, giri di scommesse clandestine, debiti e richieste di asilo presso la madre.

Dico sembrerebbero perché in realtà nessuno dei tre fratelli obbedisce pedissequamente al proprio cliché, dal momento che l’acqua del Susquehanna si infila non solo fra le assi del pavimento in cucina ma anche nelle fessure della personalità di ognuno, rendendo evidente la vacuità dello stereotipo – procedimento manifesto nella struttura stessa del romanzo, organizzato su un arco temporale di un’ora, tre capitoli e altrettante …scatole. L’idea di Anna infatti è quella di radunare la famiglia consegnando a ognuno dei fratelli, lei compresa, la medesima scatola di legno di cedro utilizzata durante l’infanzia; il compito però sarà all’inverso: le scatole non verrano svuotate in casa, all’arrivo, ma riempite, prima della partenza definitiva, con gli oggetti che ciascuno riterrà più opportuni. È proprio qui, nell’elenco delle cose, nel modo in cui i tre fratelli, separatamente, vagano per le stanze che hanno segnato infanzia e giovinezza (Anna guidata da luminosi spiriti invisibili; Bruno con la fretta nei nervi e l’auricolare all’orecchio, al telefono con l’amante; Geoff strascicando i piedi, anima pesante di nostalgia) – recuperando coltellini a serramanico, scialli tarmati, fumetti scoloriti, ciondoli e tappetini scendiletto, una scatola di fiammiferi, delle tazze spaiate – che si evidenzia lo scarto tra personaggio e individuo, nel risaltare della discordanza tra apparire ed essere, fra atti decisionali e ragioni sottese.

Ecco perché per me “Erosione” non possiede solo tre voci ma decine: quelle degli oggetti – umidi, ammuffiti, scoloriti, polverosi, abbandonati, inutili che improvvisamente riprendono vita fra le mani dei fratelli e nei loro ricordi.

E Margaret? Che fine ha fatto la sua, di voce? Perché l’erosione non mangia solo la sabbia delle fondamenta e le stecche delle persiane ma anche la mente, trascinando via con sé le ricette di cucina, oralità di misure e gesti irrecuperabili, le citazioni dai Vangeli, la memoria della lingua e del padre. Eppure – La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei. I fiori.

[Nota – a proposito di voci. Giovedì sera, per una coincidenza fortunata tra amici, ho incontrato Lorenza Pieri; abbiamo parlato di tante cose (figli, traslochi, scuola, mal di testa ricorrenti, il freddo di Milano) e di una questione mi sono stupita, perché è preziosa e capita poche volte: dentro a “Erosione” c’è proprio anche la sua, di voce.]

“Il figlio delle sorelle”, di Leonardo G. Luccone

“Nella testa hai solo sbucciature. Nella testa hai solo trucidature. Nella testa hai solo mancature. Solo troncature. Smangiucchiature, tramature, stancature, sbavature, sporcature, strozzature, smerigliature, annaspature, sgommature, abbandonature. Abbandonature.”

“Il figlio delle sorelle” sfregia in faccia, amabilmente e si spera con cicatrice duratura, il modo falso onnisciente di svolgere il romanzo familiare. Se i ricordi sono per definizione lacunosi, imperfetti, modificati e modificabili e se altrettanto evidentemente il romanzo familiare racconta il ricordo, allora va da sé che l’unico modo per avvicinarsi alla materia della famiglia in maniera verosimile, onesta e coerente sia farla raccontare da un pazzo.

Il matto in questione è proprio il protagonista senza nome di questo romanzo breve a firma Leonardo G. Luccone (il secondo dopo “La casa mangia le parole“): un uomo comune, personaggio senza particolari pregi o difetti, che la moglie Rachele – con cui condivide una vita tranquilla e il mestiere nel negozio di proprietà – spinge a una paternità tardiva. Il figlio tuttavia non vuol palesarsi e la ricerca, dalle diete alle pratiche del santone, dal sesso calendarizzato fino alla procreazione assistita, è così tortuosa che l’arrivo di questo bambino (che poi è una bimba, Sabrina) destabilizza il protagonista sino a farlo ammalare. In realtà, come sappiamo e come sa bene anche Luccone, il disturbo psichiatrico, quello vero, qui raccontato finalmente libero cioè senza patetismi né tentativi di celebrazione dello straordinario, ha origine ben anteriore all’evento materiale che spesso lo scatena.

“Cammina gattoni sul prato sparito, sul verde striato di scie biasimate. Tu della coppia solitaria gattoni sul prato di lenzuola rimbalzato, sul prato rimboccato e candeggiato, il prato della coppia solitaria, il prato inanimato della coppia amidata, il prato soggiogato, il prato paralizzato per la coppia imbambolata, la coppia baciata dalla cicogna sparata, la coppia legata nel prato pregato per la coppia mutata, il prato scavato per la coppia strozzata, mutilata, rintanata, la coppia gattonata, sul prato spugnato la coppia mutilata rintanata gattona sul prato imbellettato.”

Tant’è che il tema della diagnosi nemmeno ci deve interessare: sappiamo solo che il protagonista senza nome sente voci ed è vittima di ossessioni e paranoie sempre più invalidanti. A un certo punto si ricovera addirittura in una clinica psichiatrica e di lui la piccola Sabrina perde le tracce, salvo poi ritrovarle molti anni più tardi, all’avvento della maggiore età e del tutto casualmente, per una serie di algoritmiche amicizie su Facebook che le fanno incontrare Carlotta, figlia della nuova compagna del padre. Di nascosto da Rachele, Sabrina si mette in contatto con il papà nella speranza di riannodare i fili, recuperare la storia della famiglia, ottenere risposte alle molte domande che la assillano da quando era bambina: perché mamma e sorella si fingevano gemelle? E perché questa cara zia, così presente nell’infanzia di Sabrina, a un certo punto viene allontanata dalla casa di famiglia? Perché Rachele ha sempre zittito con sdegno la figlia quando domandava dettagli sul suo concepimento e come mai dei nove mesi di gravidanza non esistono fotografie? Come si vede, di ombre sulla nascita di Sabrina ve ne sono effettivamente parecchie: ombre che il racconto del padre, con le sue ossessioni complottiste, non sarà d’aiuto a dissipare (saranno poi solo i vaneggiamenti di una persona instabile o c’è dell’altro, derubricato dall’inganno di una sorellanza disturbata?).

“Anch’io ho le mie colpe, perché pretendo di diluire il passato. Non lo faccio perché spero di migliorare il presente. Voglio sfumare qualche pezzo, voglio che gli altri mi dicano che l’hanno sempre vista dall’angolatura sbagliata.”

Il punto del romanzo di Luccone non è l’analisi della malattia mentale, che nella sua precisa e scientifica dimostrazione risulta in realtà il pretesto-contenitore per parlare ancora una volta (come era stato per “La casa mangia le parole” ma da un’ottica diversa) di famiglia tradizionale, del suo disfacimento e dei problemi legati alla figura genitoriale contemporanea. In specie paterna quando, per cause esterne e interne, essa dismette l’abito di pater familias senza aver ancora pienamente recuperato una bella cesta di vestiti nuovi e finisce per restare nuda (e figlia), come l’imperatore della favola. Non sfuggirà il dettaglio del protagonista quale unico maschio all’interno di un gineceo (Rachele, Sabrina, Silvia sorella di Rachele, la compagna Gilda, Carlotta, Rebecca sorella di Gilda, Corinna figlia di Silvia) che ribalta la prospettiva patriarcale mainstream consegnando al lettore un racconto familiare di sostanziale agentività femminile, all’interno del quale però ciascun membro conserva responsabilità individuali e proprie, coerenti ragioni. A dimostrazione di ciò, Luccone adotta tecniche di narrazione mista: il punto di vista si mescola in un continuo gioco di specchi, perché un medesimo episodio viene ricordato e raccontato da mani diverse ciascuna delle quali ritrova un dettaglio, una parte, un luccichio, un’ombra – nell’inevitabile impossibilità di poter recuperare un tutt’uno organico. D’altra parte, si diceva, raccontare di famiglia significa spolverare cimeli e spesso anche appropriarsi di impressioni: quasi mai un ricordo è frutto di un’operazione oggettiva e condivisa.

“«Perché non sei mai venuto a prendermi se lo sapevi?» «Così è difficile, Sabrina». «Oggi dobbiamo fare un bel passo in avanti, l’abbiamo detto». «Questa cosa possiamo riprenderla la prossima volta?» «Va bene». «…» «Che sei diventato papà, lo senti?» «…» «Che ci sono io, ora lo senti un po’ più di prima?» «Sì». «Però voglio sapere cosa sentivi prima». «Non lo so». «Come non lo sai, papà? Uno lo sa se è padre. Lo sa, no?» «…» «Lo sa?»”

Lo strumento scelto dall’autore per approfondire il dipanarsi di questo nuovo riconoscersi tra padre e figlia è il dialogo, messo in scena alla maniera teatrale: senza orpelli e abborracciato all’apparenza, è frutto degli incontri clandestini tra il protagonista e Sabrina che costruisce all’interno dell’abitacolo dell’automobile una sorta di stanza delle parole in cui il padre cercherà di rispondere alle tante domande che gli rivolgerà la figlia ritrovata: domande il cui scopo non sarà tanto quello di far luce sul passato familiare (bravo chi ce la fa – ma è questione che niente vien via semplice come vogliono farci credere i romanzoni, suvvia) quanto di mettere a fuoco, paradossalmente, l’inutilità del linguaggio in certi momenti di relazione.

Sono pagine sfidanti, perché se da una parte spingono alla sospensione dell’incredulità di fronte a una trama del tutto verosimile, dall’altra orientano il lettore verso il dubbio, perché è sempre rischioso dar credito al matto del paese. D’altro canto la tensione narrativa spinge a una risoluzione (ecco il danno del romanzo familiare tradizionale, sembra suggerire Luccone: vuole il chiarimento, la spiegazione, il consolatorio ricucirsi dei fatti) che non può prescindere dall’interlocuzione con i diretti interessati. La malattia mentale, questo è il fatto, è esemplare – non di un significato ma proprio della nostra impossibilità a recuperarlo, narratori o protagonisti poco importa. Non possiede afflato divino né capacità di comprensione privilegiata e per una volta è trattata per ciò che è: non una a-normalità un poco bizzarra ma tutto sommato interessante e romantica ma un demone che distrugge mondi, avvelena relazioni, sconcerta, indispone, allontana. Ciò non significa che il matto non sia capace di sentimento o di acuta osservazione: tuttavia, all’interno di una percezione distorta, e non saprà mai fino a che punto tale, in un non-luogo di spazi e tempi che non appartengono al ritmo comune, il matto risulterà sempre scarto, fastidio e irraggiungibile.

Questa decostruzione dei fatti a cui segue poi la loro re-interpretazione, d’altra parte, è anche una delle tracce fondative del mito, a cui l’autore per propria ammissione attinge sia nell’impianto narrativo sia nella struttura formale: la seconda parte del testo, “La discesa”, è interamente costruita sulla mitologia di Persefone dominatrice mentre i brani di delirio che racchiudono le voci, dalle quali il protagonista è ossessionato, per ritmo e virtuosismi linguistici ricordano l’entrata in scena del coro tragico – a cui, guarda il caso, almeno sino all’età della tragedia greca classica il tragediografo affidava le proprie riflessioni morali e finanche lo status di …personaggio.

“Dove si torna quando non c’è più né infanzia né casa, quando non ci sono più le persone? Abbiamo bisogno d un posto dove concentrare qualcosa. Per me il presente è solo il passato in prima approssimazione. Il tempo si ripiega dentro di me, mentre le onde della sofferenza i sparpagliano indisturbate, la memoria avvelenata agogna un passato di comodo.”

Nota: interessante il tema del Doppelgänger suggerito già dalla foto di copertina, scatto di Anka Zhuravleva.