“Sud”, di Mario Fortunato

Storia di copertina: “The Diagonal”, uno dei lavori più noti di Euan Uglow (UK, 1932-2000). Pittore con predilezione per le figure umane, aveva lo sguardo rivolto alla scultura di cui fissava nel dipinto i tratti, i modi, le strutture. Questa donna (?) mi ha conquistata: nuda, sotto un sole estivo, fuori campo – stampa lucidissima a contrasto anche tattile con la cornice bianca – rappresenta l'involucro del corpo, mi pare, che dà forma ai nomi della storia.

“I decenni volano mentre certi pomeriggi non passano mai” (pag194)

Di questi tempi il rapporto che abbiamo con la “nostra memoria” si tinge di complessità. Se da una parte è concreto il bisogno intrinsecamente umano del ricordo, dall’altra è pur vero che il nostro passato storico, specie novecentesco, ci chiama alla necessità di una rielaborazione e ri-contestualizzazione, esigenza a cui occorre dar voce e che va collocata in quel preciso, nevralgico momento che sta tra l’accettazione acritica di una realtà avvenuta, e in un certo modo raccontata, e la tentazione della damnatio memoriae.

Con questo spirito mi sono avvicinata a “Sud” di Mario Fortunato, che ho domandato a Bompiani per via della mia bolla su Twitter – all’interno della quale questo racconto “bi-familiare” girava da qualche settimana. Sul palcoscenico di un mai chiaramente identificato paese del sud Italia, Fortunato mette in scena una saga familiare – in realtà doppia, perché comprende due nuclei distinti, quello “del Notaio” e quello “del Farmacista” uniti dal vincolo di matrimonio tra Tamara, figlia del Farmacista, e “l’Avvocato”, figlio del Notaio – che si snoda dagli albori del fascismo sino al 1970 circa. A far da perno della vicenda, che è strutturata attraverso una godibilissima narrazione svelta, a episodi (all’interno dei quali poi si creano rimandi e ritorni quasi stessimo assistendo a una sorta di intricata Spoon River calabrese), è la figura del “Notaio” attorno al quale ruotano decine di comprimari: l’amante di gioventù, le due mogli (Vita e poi Elvira), i sette figli tra cui “l’Avvocato” (non conosceremo mai il suo nome di battesimo), le persone di casa (le domestiche/balie Cicia e Rosa, la cuoca Maria-la-pioggia, l’autista-confidente dell’Avvocato, Ciccio Bombarda), i nipoti tra cui Valentino – figlio dell’Avvocato, da cui prende avvio tutto il racconto – la nuora Tamara con i consuoceri (il padre “Farmacista”, la madre Lea), i fratelli di lei Maria, Giorgio e Nina, i figli Picchio, Erri, Vita e appunto Valentino. Parrebbe faticoso seguire le vicende di ognuno; tuttavia dopo poche pagine e l’aiuto di un paio di alberi genealogici all’inizio del testo ogni linea narrativa si dipana evidente, tanta è la varietà di vita e di esperienze diverse contenute in ciascuna.

In numerose interviste, tra cui per esempio quella a Fahrneheit e Rai Cultura, Mario Fortunato racconta la genesi di questo “romanzo familiare” che se da una parte ha l’intento, come ogni romanzo storico, di mettere insieme “la dimensione personale e quella collettiva” dall’altra si impegna a creare una narrazione di un sud alternativo, perché liberato dagli stereotipi relativi al modo in cui comunemente viene trattata la questione meridionale e da quel binomio quasi “folkloristico” miseria/nobiltà che per una volta resta ai margini, con i suoi colori privi di sfumature. Il mondo che Fortunato infatti attrezza è quello della borghesia – di cui era ricchissimo il sud Italia – quasi mai rappresentata a favore di una narrazione sovente archetipizzata; un mondo nel quale era forte il senso di avvicinamento tra le classi sociali, al cui interno la quotidianità era imbrigliata in una rete di rapporti fittissimi, raramente di malanimo, più spesso di profonda fratellanza – e sorellanza. “Sud” non è un libro sulla questione meridionale ma è, di fatto, un libro che si occupa anche di politica e critica sociale nella misura in cui spinge alla riflessione su quel procedimento di rimozione che ha caratterizzato spesso la raffigurazione del sud novecentesco. Il tema dell’ “ubi sunt”, da cui il romanzo parte (il “dove sono” di un Valentino ormai adulto che, emigrato in Inghilterra, si trova a ricevere la notizia della morte dell’ultima zia) porta con sé prima di tutto la riflessione sul proprio passato – perché il momento di guardarsi indietro arriva sempre e per tutti (in proposito, qui potete trovare il bell’articolo di Sandra Petrignani uscito per Il Foglio) – e poi spinge a un’analisi profonda su quel sud Italia fecondo, ricco di aspettative, culturalmente e politicamente attivo, ben radicato nella terra e nelle tradizioni ma aperto alle novità di un presente in rapido cambiamento. Dalla militanza del Notaio nelle fila dell’antifascismo regionale, latitanza compresa, alle lotte partigiane delle quattro giornate di Napoli a cui prende parte il figlio Vincenzo fino all’impegno politico locale dell’Avvocato, di idee socialiste, Fortunato mostra come la borghesia del sud Italia, di base colta e istruita presso le migliori scuole, abbia sempre rappresentato una parte fortemente attiva e influente della vita politica italiana pre e post-bellica.

Sicché si capisce, ritornando al principio, come il significato di memoria vada ben oltre la questione del ricordo poiché viene a identificarsi più con il concetto di appartenenza che con quello della rimembranza. Quel che si perde, sembra dire Fortunato, non è tanto il ricordo quanto la consapevolezza di quel qualcosa con cui siamo in relazione, e se si perde questo vincolo si perde il senso stesso della Storia.

Il realismo magico presente in tutto il romanzo è un altro elemento con cui occorre fare i conti leggendo “Sud”: mai come nel Novecento, racconta Fortunato, è stata così concreta e pervasiva la vicinanza tra il sud e il mito – che non solo viene dall’esperienza dell’antico ma anche dal fatto che la formazione culturale (che, si badi, coinvolge allo stesso modo maschi e femmine, vecchi e giovani) era continua e profonda: le famiglie borghesi amavano l’opera, che veniva ascoltata, cantata, recitata; si leggevano i quotidiani, si condivideva l’interesse per la lettura di prosa e poesia e la “memoria del mitico” che va dai poemi epici al culto dei morti, sempre percepiti come entità non-separabili dal mondo dei vivi. Fantasmi, visioni notturne scaturite dalla bellezza struggente del paesaggio marino o dall’arsura dei campi in agosto, voci misteriose, echi di violini e musiche risalenti alla Shoa e allo sterminio nazista riecheggiano tra i corridoi bui e freschissimi delle case di famiglia modellando un presente che si fa realtà ma anche sogno, fantasia, immaginazione.

Un sostrato ricco di elementi nutritivi che comprendevano anche, per esempio, l’apertura verso l’emancipazione femminile e un sistema-famiglia che, nonostante non potesse far altro, dati i tempi, se non relegare le donne al ruolo di figlie, mogli e madri, creava una rete di rapporti pressoché paritari, finanche di stampo matriarcale; o ancora, ad esempio, l’accettazione dell’omosessualità, riguardo alla quale di fatto non v’era scandalo. Oppure l’approccio aperto, improntato all”accoglienza e alla condivisione delle cure, nei riguardi dell’assistenza agli anziani di casa e della malattia mentale.

Sostrato di cui, con la creazione dell’Italia unita e ancor più col dramma dei due conflitti mondiali, s’è andata perduta la tradizione in nome di nuove condizioni di vita e nuove opportunità che, private del filtro ipocrita di una narrazione “strabica”, acquistano tutt’altro sapore. Opportunità che – sostiene Fortunato – in qualche modo favorirono, non del tutto ma almeno in parte, il dilagare di quella rete malavitosa locale che poi travalicherà il microcosmo del paese per trasformarsi nella ‘ndrangheta.

“Certo, i sacrifici a cui i maschi meridionali sono sottoposti in pieno miracolo economico sono paradossalmente molti di più del passato, quando facevano i contadini: lasciando il lavoro nei campi ci hanno guadagnato in denaro e in regolarità salariale, ma ora vivono ammassati in poche stanze in affitto nelle periferie più grigie del Settentrione e del Nuovo Mondo, hanno turni di lavoro estenuanti alla catena di montaggio, sperimentano la privazione del sesso e dei sentimenti, sono oggetto di discriminazioni e di razzismo” (pag154)

Di questi tempi si lamenta una certa ridondanza di temi nella letteratura italiana contemporanea – tra cui, si dice, spicca anche il “romanzo borghese”. Viene invocato il bisogno di novità: occorre aria fresca, si dice. Però io penso che sia la nostra stessa storia, culturale e letteraria, a richiamarci sempre indietro, al romanzo storico: in fin dei conti non si tratta di dover per forza inventare qualcosa di nuovo quanto di saper leggere in maniera nuova il nostro passato; utilizzando, perché no, le medesime forme con cui ci siamo confrontati fino a ora.

“La linea del colore”, di Igiaba Scego

“Lo spagnolo Quevedo – in quel 1887 appena iniziato Lafanu Brown stava scoprendo la prosa del Seicento spagnolo – nei suoi sonetti scriveva con il suo solito sarcasmo: “In Roma cerchi Roma, o pellegrino. E proprio in Roma Roma non ritrovi”, ma era in quel cercare Roma, proprio in quel non trovarla, che alla fine lei, la pellegrina Lafanu Brown, si era imbattuta improvvisamente in se stessa. Ma questo Hillary non lo poteva capire, era bianca, tutto le era dovuto, gli onori, le bellezze, persino le stravaganze. Lei era Hillary in America ed era Hillary a Roma. Ma Lafanu poteva essere Lafanu solo a Roma, e nemmeno sempre. In America era solo una negra, un incrocio bastardo tra una nativa americana Chippewa e un haitiano dalle strane idee sovversive” (pag26)

Ho domandato a Bompiani “La linea del colore” per capire meglio certe questioni.

Avevo iniziato tempo fa, con quello sta’ in silenzio e ascolta che mi è sempre parso, sin da tempi non sospetti, l’unica maniera d’imparar qualcosa; sicché avevo letto articoli, visitato il web, seguito alcuni profili su Twitter – insomma, come si dice, ho cercato di informarmi. Il fatto è che a un certo punto ho cominciato a non trovarmi più a mio agio con forme d’espressione che percepivo come specialistiche e talvolta anche polarizzate, finanche escludenti. Lo so, il problema è mio o, dicendola in altro modo, “sono io a essere parte del problema”. Tant’è; e mi parrebbe ipocrita omettere pure che il mio è anche un problema di linguaggio: guardo troppo alla forma, sono poco incline a uscire dalla mia zona di conforto letterario, ho un cattivo rapporto con tante parole nuove tra cui, per esempio, privilegio o rieducazione, perché per me – per il mondo antichissimo da cui provengo – non sono affatto parte di un “nuovo lessico”, anzi.

Possibile che non si fosse già pensato – mi chiedevo – a come rendere evidenti certe questioni attraverso una tecnica espressiva disgiunta da un particolare tipo di narrazione, magari per mezzo di un sistema codificato, già in uso, in maniera da creare come un ponte, un ancoraggio tra il passato e il presente? Creare cioè una familiarità stilistica che producesse empatia, e non respingimento, senza tuttavia eliminare la realtà dei fatti, né edulcorarla, né separare il linguaggio dalle persone che quel tipo di linguaggio dovrebbero essere le uniche ad avere il diritto di maneggiarlo?

Ebbene, il linguaggio giusto io l’ho trovato nella tradizione del romanzo vittoriano. Stupefacente, forse, ma anche una conferma del fatto che il nostro passato letterario riesce sempre, per il solo fatto di esistere, a passarci qualcosa di buono. Con “La linea del colore” Igiaba Scego conclude la sua “trilogia della violenza coloniale” (“Oltre Babilonia” – 2008 e “Adua” – 2016), un romanzo storico che affonda le radici nello stile di Dickens, Goethe, Wharton, James e tanti altri (Forster, Stendhal, Byron, M. Shelley: tutti citati dall’autrice nella parte finale del libro). Lo fa mettendo in scena le vicende di Lafanu Brown, pittrice vissuta nella seconda metà dell’ottocento: figlia di una chippewa e di un haitiano, Lafanu viene adottata, poco più che bambina, da una mecenate abolizionista che ne fa la sua protetta curandone – non senza una gran parte di autocelebrazione e autocompiacimento – istruzione e inserimento in società; a causa di episodi di razzismo e violenza di cui è vittima, la giovane donna viene mandata in Inghilterra, sempre in qualità di protégé, e poi in Italia, dove finalmente riuscirà a seguire la vocazione di artista. La figura di Lafanu Brown è finzionale ma strettamente ispirata a due donne realmente esistite: Sarah Parker Remond (morta a Roma nel 1894), l’ostetrica nera, attivista e femminista, in servizio presso l’ospedale di Sant’Antonio, e l’artista statunitense Edmonia Lewis (1844-1907), divenuta una grande scultrice dopo una vita in equilibrio tra il desiderio di indipendenza artistica e la necessità di sottostare ai precetti del mecenatismo.

La storia di Lafanu è un racconto di crinoline e miseria, di nebbie e salotti fumosi, di boccoli, forcine, abiti sontuosi; di serve, analfabetismi, violenze, stupri; di passioni struggenti e infelicità profonde come l’oceano su cui Lafanu si troverà a navigare e nelle cui onde getterà le ciocche dei capelli dei figli di coloro che in quelle onde persero la vita, durante le traversate di morte e catene a cui erano sottoposti. A riportare Lafanu nel nostro presente – attraverso lettere, testimonianze, taccuini – è Leila, giovane romana di origine italo-somala, attiva nel mondo dell’arte, che una volta venuta a conoscenza delle vicende di Lafanu si propone di esporre i lavori della pittrice alla Biennale di Venezia. Grazie a questo espediente letterario, Igiaba Scego riesce a creare, come Lafanu con le sue tele, uno sfondo che accoglie e rende evidente, proprio perché costruito attraverso la pittura, la più immediata delle arti, i temi fondanti del libro: dalla questione sulle migrazioni alla necessità di una riflessione post-coloniale che prima di tutto sviluppi una sguardo libero dall’eurocentrismo, fino al dibattito politico-artistico che si compone di due parti fondamentali, il rapporto con il nostro passato e quella spinta verso la cancel culture che non è possibile ignorare. Come non è possibile ignorare la domanda che già covava nascosta dietro le beneficenze delle mecenati di Lafanu: quanto si mettono in discussione le persone bianche quando parlano di razzismo?

Nelle pagine finali del libro Igiaga Scego racconta la genesi di questo suo romanzo e definisce un’altra questione secondo me importantissima – ed è proprio questo punto ad avermi spinto alla lettura: “Anche se parlo di una donna afroamericana – scrive l’autrice – questo non è un romanzo afroamericano. Non scimmiotto l’America. Il mio intento è stato fin da subito costruire una storia che parlava di Italia, una storia quindi afroitaliana. (…) Non si tratta di appropriazione di cultura, ma della costruzione di un personaggio-ponte”. Ecco, qui per me sta il punto: io credo, forse a torto, che non sia possibile, o quantomeno non utile, utilizzare i medesimi costrutti per lo studio di fenomeni che, di fatto, hanno interessato e interessano aree geografiche e contesti storici molto differenti tra loro. Ciò non significa affatto che non sia necessario attenersi a linee guida comuni: al contrario, la mappa deve esistere. Allo stesso tempo però penso che occorra costruire un sistema fluido – forse …intersezionale? – all’interno del quale sia possibile modulare gli interventi in modo da evitare la generalizzazione nei riguardi di realtà diversamente complesse.

Avrei ancora molto da scrivere, per esempio sull’approccio profondamente pedagogico che percorre tutto il libro, un intento spinto sempre all’apertura – che ho amato moltissimo (“Fu allora che il futuro mi apparve chiaro. In quel momento decisi, ma ne fui consapevole solo nei giorni seguenti, che avrei aiutato le persone a guardare meglio. Ad andare oltre la superficie, a decodificare i dipinti, i bassorilievi, le statue che avevano attorno” – pag62); oppure sulla capacità che ha l’autrice di dipingere senza ipocrisie un panorama femminile vastissimo. Ma come si sa, un blog a certi testi molto lunghi non si presta volentieri.

NB: l’apparato iconografico citato dall’autrice è immenso e tutto da scoprire. Vi invito a tenere sotto mano internet per recuperare via via tutte quelle immagini di dipinti, affreschi, architetture, che rendono “La linea del colore” oltre che un romanzo appassionante ricco di spunti di riflessione anche un puntualissimo trattato d’arte. Le pagine finali del volume sono dedicate inoltre al progetto “NOI NELLA PIETRA”, con le fotografie di Rino Bianchi che immortalano alcuni dei luoghi e delle architetture più importanti citate nel libro.

“Città sommersa”, di Marta Barone

“Chi ero io? Non me lo chiedevo mai. (…) E poi non sentivo alcun bisogno di chiedermelo. Vedevo il tempo dietro di me come una sorta di unica, lunga giornata, nella cui luce chiara e piana tutto quello che era stato la mia vita sembrava avvenuto poche ore prima e totalmente evidente” (pag18-19)

#CittàSommersa è uno scritto molto onesto perché parte da una domanda intensa: fino a che punto possiamo spingerci per difendere la nostra zona di conforto. Non è solo un romanzo (le parti effettivamente “romanzate” sono poche, relegate nel mondo onirico dell’illusione), non è soltanto un memoir che ripercorre i momenti più bui della nostra Repubblica, quelli degli anni di piombo torinesi e della lotta armata di Prima Linea; è soprattutto un percorso (auto)biografico di formazione, il racconto del diventare adulti. L’onestà sta nella limpidezza con cui l’autrice non si fa scrupoli nel dichiarare la propria inadeguatezza: “Non sapevo, ma nemmeno cercavo: ero cieca come il mio nuovo padre morto e senza occhi”. Mi pare un fatto raro questo, che certe *giovani generazioni* si interroghino su alcune questioni con tale trasparenza d’animo, cioè partendo dalle proprie mancanze: mi dà l’impressione che nella narrativa contemporanea si prediliga il racconto del sé esperienziale, enfatizzando chi il proprio vissuto nelle sue presunte peculiarità, chi le proprie opinioni sui fatti del mondo, date spesso per inconfutabili. Ecco, Marta Barone da questi subdoli tranelli si tiene bene alla larga.

Non è un caso che “Città sommersa” cominci proprio con la descrizione di una vita sospesa. Non è un caso che Marta Barone parta proprio da questo suo vivere dentro l’acquario (la luce, il vetro, la città, l’assenza di confronto: quel senso di cose che scivolano via e non si riescono ad afferrare, una luminosità diffusa che appena cerchi di catturarla sparisce).

“Abitavo in un monolocale al terzo piano di un palazzo degli anni venti. Aveva il pavimento di legno e una piccola cucina bianca incastonata in un angolo ed era invaso dalla luce fino a sera – una cosa che più tardi avrei trovato opprimente”. “Poteva passare un’intera giornata senza che parlassi con qualcuno”. “Tutto in verità sembrava riguardarmi assai poco. Avevo un po’ di denaro a disposizione (…), il che mi permetteva di vivere ancora per qualche mese senza uno stipendio fisso (…) La crisi era un’entità astratta, fumosa, certo irritante ma che non poteva avere davvero un effetto a lungo termine sulla mia vita”

C’è il senso del precario, il non sapere quale sia il proprio posto, e c’è l’idea del crescere, la sensazione avvertita della necessità – come un cambiar pelle che a un certo punto deve arrivare.

(NdR: che poi io sia di Ballardiana memoria con la questione del sommerso, è un altro conto. D’altra parte anche Ballard aveva il pensiero per la luce che si specchia sulle rovine di quel che siamo, su quello che di nascosto, sott’acqua, c’è ancora: scheletri di animali preistorici, mutazioni genetiche, palazzi annegati, il nostro passato, il germe del futuro – alla fine i protagonisti del Mondo Sommerso sono *esploratori* – cadaveri, piante enormi, calore e luce immensa, ma crepuscolare)

Il percorso di crescita dell’autrice comincia intorno ai ventisei anni, poco dopo la morte del padre – uomo complicato e sfuggente. La ricerca del padre comincia dal ritrovamento quasi casuale di alcune carte processuali. Il vecchio scatolone, dimenticato per anni in fondo a un armadio, viene aperto all’improvviso; novello vaso di Pandora non rigetterà chissà quale verità nascosta: al contrario si libererà di un unico, piccolissimo seme, quello del dubbio. Marta Barone si mette così sulle tracce di quel padre che, a mano a mano, corrisponderà sempre meno alla figura del genitore e sempre più allo sconosciuto “L.B.” (il “nuovo padre”). “Città sommersa” racconta un cammino parallelo, nel presente e nel passato; due dimensioni, quella del padre e della figlia separate dal tempo, che si incontrano nel ricordo e nel recupero della Storia e delle storie individuali; nel meccanismo dello “svegliarsi” – che vale per entrambi – dall’intorpidimento della quotidianità; del prendere coscienza, del chiamarsi fuori da certi sistemi. Un percorso all’interno del quale si rimescola l’idea di un confronto – le età che corrispondono, uguali, non è un caso – che spinge all’azione, intesa anche come percezione del senso di colpa, sia conseguenza sia motore della riflessione.

Questa strada per Marta Barone comincia proprio con l’apertura al dialogo fuori dalla zona di conforto. Marta srotola gli anni, consulta archivi, cerca numeri di telefono, chiede colloqui con amici di suo padre fino a quel momento sconosciuti, si rivolge da Milano a Torino. Il percorso della figlia è il risveglio del sé, si fa strada lentamente come l’idea della consapevolezza – che non può piovere dall’alto, ma deve essere cercata e invocata – ed è chiaro, non si può pretendere indolore.

Marta Barone è figlia del suo tempo, quel tempo in cui noi figli venivamo educati al silenzio: di certe cose, semplicemente, non si parlava. Sicché è finita che noi figli di un certo tempo (io e Marta Barone, curiosamente, per ragioni che più opposte di così non si potrebbe) certi eventi li possiamo vivere soltanto attraverso il recupero delle nostre percezioni – quelle che durante l’infanzia ci erano negate. Il problema è il modo in cui avviene questo recupero, ossia attraverso il ricordo: che per stessa definizione è soggettivo, spesso unilaterale, frammentato, incompleto e corrotto. E se da una parte ci sentiremo per sempre rovinati da uno sciocco senso di colpa (“Possibile che non avessi visto su di lui nessun segno, mai, del passato? Cosa avevo ignorato, cosa avrei potuto chiedergli? Avrebbe cambiato qualcosa? Forse non ero stata abbastanza attenta”) dall’altra non perderemo mai l’urgenza di capire. Per via del fatto che abbiamo a che fare con questioni di cui ormai si sta perdendo la memoria; bisognerebbe sbobinare i ricordi eppure non si riesce, protetti come sono da quell’abitudine al non dire; si conservano sotto chiave scatole di cartone piene di storie e sale la paura del momento in cui riusciremo a trovarle, e ansiosi come avessimo scoperto un tesoro ricchissimo le apriremo e le troveremo ormai vuote. “Città sommersa” in questo significato è un medicamento e io mi auguro che l’autrice continui, nel suo cammino professionale e personale, a vivere out of comfort zone.

NdR: di tutto qui non si riesce a scrivere, per ovvi motivi di spazio. Ad esempio sul Twitter si è parlato dello stile e della metrica di #CittàSommersa – e anche di tante altre cose. Ringrazio l’editore per l’invio della copia.

“Il giro dell’oca”, di Erri De Luca

giro oca

Risposte letterarie, si vede che hai un buco al centro e lo ricopri a frasche. Non te la caverai con le storie, lo sai?” (p43)

Quasi nulla o nessuno a parte i figli e, purtroppo, i grandi imprevisti non sempre forieri di buone notizie riescono nell’impresa di costringere un adulto all’ “Esame di Coscienza“(*). E’ un fatto: prima c’è tempo, a premere il lavoro, la vita attiva, le cose da fare, il “si vedrà”. Poi di tempo si scopre che ce n’è sempre meno e che qualcosa, o qualcuno, ti sta tirando insistentemente per la manica della giacchetta.

Per quanto riguarda i figli non è l’idea in sé, che so, del proteggerli e del difenderli, del “tirar fuori le unghie” o viceversa dell’educarli e del lasciarli andare per “abituarli al mondo”. Non è questo il meccanismo. E’ proprio che loro ti guardano. Ti fissano. Iniziano a fissarti da che nascono e il problema è che se li lasci fare non la smettono più. Ti denudano con gli occhi. Ti spogliano dei vestiti e poi della pelle, dei muscoli e delle ossa, ti scrutano dentro: lucidi, spietati. E poi arrivi a un certo punto che non sai se era meglio o peggio quando ti guardavano perché ti ammiravano, quando ti guardavano per disprezzarti, o quando ti guardano adesso, per compatirti – si, non sempre, ma assicuro che di tanto in tanto accade (ed è lo stesso sguardo di noi figli adulti nei confronti dei nostri genitori anziani. Non sempre – ma di tanto in tanto, questo sì).

Insomma “Il giro dell’oca” di Erri De Luca affronta quell’aspetto lì, dei figli che guardano i genitori. E lo fa a suo modo, attraverso un racconto in atto singolo.

In una sera illuminata soltanto dalla luce del camino a causa di un calo di corrente, lo scrittore – novello Ebenezer Scrooge – riceve una visita per cena. E’ suo figlio: il figlio ormai adulto che non ha ma che avrebbe potuto avere poiché frutto di una relazione avuta in gioventù e conclusasi con un aborto di cui lo scrittore era stato messo al corrente a cose fatte. Un figlio mai nato, insomma.

“Sei adulto, non so niente di come eri prima. Non ti ho rimproverato per un gioco rischioso da bambino, né toccato la febbre sulla fronte. Ci troviamo stasera a tavola, per cena. Una donna in gioventù mi disse di avere abortito. Stetti zitto, non contavo niente nella sua decisione presa e fatta. Stavamo insieme dentro una folla di coetanei. Era un amore e un tempo che non si poteva e non si badava a vita privata” (p11-12)

In questo monologo che piano piano si fa dialogo (“Sto parlando da solo? Sto inventando la tua compagnia?”), con l’immagine del figlio che si fa sempre più concreta Erri De Luca condivide la sacralità del pasto: pane e olio, un bicchiere di vino. Un primo appuntamento che si fa ultima cena; e che scivola dall’imbarazzo ingessato di chi si trova ma non si conosce, alla complicità della confidenza, all’intimità rubata che viene dal giudizio più critico.

“Finché i muri reggono, i miei ospiti esistono. Li tengo qui con me e li riporto alla loro vita di prima”.

Non è un’immagine nuova. In letteratura le visite dei fantasmi, specie all’ora di cena, sono meno rare di quanto potremmo pensare. Questa sopra per esempio non è citazione tratta da “Il giro dell’oca” ma da “Cade la terra“, il romanzo di esordio dell’abbandonologa Carmen Pellegrino (Giunti 2015) che ben appunto mette in scena, nella parte conclusiva dell’opera, una cena tra vivi e morti “come fra le quinte di un teatro in disfacimento”.

Ogni fantasma, però, di per sé ha libertà di far ciò che vuole. Se Mr. Scrooge viene visitato dal defunto amico e socio in affari Jacob Marley grazie al quale opererà un cambio di rotta significativo, i fantasmi di Carmen Pellegrino invece, vecchi abitanti di un paese abbandonato, franato su se stesso, di cambiare un futuro ormai spacciato non ne hanno pretesa; semmai appaiono desiderosi di recuperare una voce e farsi sentire attraverso la conversazione con Estella, unica sopravvissuta, colei che la cena, ogni anno, la apparecchia.

Qui, ne “Il giro dell’oca”, l’apparizione del figlio per Erri De Luca sembra più vicina ai fantasmi dickensiani, fatto salvo che non sappiamo bene come andrà a finire. Quel che ci interessa è che Erri De Luca si trova a parlare di Erri De Luca, e lo fa in un modo poco incline all’autoassoluzione. Ci racconta, col pretesto di narrare al figlio, della sua infanzia all’ombra di una madre potente, difficile da compiacere, e di un padre distante ma a modo suo punto di riferimento da cui svincolarsi, perché troppo impegnativo. Ci racconta degli anni dell’impegno politico – verso i quali, sia per fini sia per metodi, il figlio resta scettico:

Cosa volevate fare, prendere il potere? Perché se si trattava di questo, avete fatto fiasco completo” (p70)

Ci racconta della dimensione mistica da cui l’autore si è sempre dichiarato lontano, all’interno della quale le domande del figlio risultano da una parte accettazione infine acritica dell’altro, dall’altra ricerca, forse, di un altro (o nuovo) se stesso:

Questa è una dichiarazione mistica. Non sei credente in una divinità creatrice, ma sei credente in un vocabolario. Nel cambio ci rimetti parecchio. Preferisco credere all’operato di un creatore, autore di particelle nucleari e di galassie. Sai che l’universo si espande? Non ti sembra geniale che la vita esiste perché va alla deriva insieme alla Via Lattea? Non è geniale che il nostro corpo è composto di idrogeno, il gas più diffuso dell’universo? Che siamo fatti dello stesso elemento? Arrivati alla soglia di queste evidenze, non è meglio applaudire il capomastro?

E via così, attraverso il tema della famiglia, delle donne, della vita privata fino alla letteratura e al mestiere di scrittore.

E’ un’immagine curiosa, quella che viene fuori dal ritratto del figlio che ne fa Erri De Luca. Inevitabilmente, ci si domanda di che genere: se sia uno di quei figli della notte, idealizzati, immaginati come li immagina la madre quando ancora stanno nella pancia. O se Erri De Luca se lo figuri come una (brutta?) copia di se stesso, meno intransigente, meno polarizzato, più addentro nelle cose del mondo, più integrato – e per questo meno corroso, più …felice, verrebbe da osare.

Il figlio (perché poi, declinato al maschile? Questo domanderei, all’autore – se abbia mai pensato a una donna, se poi abbia accantonato l’ipotesi, se non ci abbia nemmeno fatto caso, all’idea – chi lo sa) sono i dubbi che vengono a visitarci di notte. “Succede in una sera d’inverno a uno che sbanda tra un’epoca passata e un frattempo presente”. Succede a un padre che china il capo e permette ai bambini di guardarlo negli occhi, succede a una madre nel mezzo delle sue insicurezze, nel tornado dei sentimenti che si accavallano subito dopo la nascita del primogenito quando ancora nel letto di ospedale, con la creatura in braccio, si domanda ce la farò, condannandosi automaticamente al senso di colpa. Come finirà, forse nessuno lo può sapere. E’ un lancio di dadi.

“Non conosco questa gioventù e per difetto mio non la riconosco simile a nessuna del passato.

Aspetti da loro un calco della tua

No, mi aspetto un’arroganza nuova, che non sia guapperia verso il più debole. Mi aspetto verbi all’imperativo, un atto di dolore. Non li vedo piangere neanche al cinema.

Che stai facendo? Scrolli il capo, disapprovi? Fruga invece nei crepacci, nelle fenditure, nei talloni dove c’è la spinta a sollevarsi sulle punte. Si allenano in disparte a inaugurare un tempo di ripensamenti” (p87-88)

“Tieniti le immagini e fai finta di credere alle cose che dici. Sei uno che racconta storie, ma non a chiunque. Le racconti a chi le vuol sentire” (p120)

Buona lettura 🙂

Note: si ringrazia Feltrinelli Editore per l’invio del volume.

(*) se così si può ancora chiamare – io lo faccio: amo il rischio.

#Paesologia: (2) “Abbiamo fatto una gran perdita”, di Alberto Cellotto – e altre storie

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“Provo a vivere ricercando quello che non è più uno spettacolo, ora che tutto ambisce a esserlo. La realtà che rimane fuori è pulviscolare e piena di una farragine che non posiamo osservare, ma è quello che resta fuori dal perimetro degli spettacoli (ed è poco, sempre meno); ho care le persone che avvicinano con un silenzio o con la parola quello che è vero a quello che è vivo. (p20)

Chi sia davvero Martino Dossi, noi non lo sapremo mai. Siamo condannati a un’informazione parziale, corrotta dalla soggettività delle fonti.  E tanto ci deve bastare.

Tra le mani abbiamo difatti solo una quarantina di lettere, più alcune cartoline, che Martino scrive durante un viaggio lungo la penisola, intrapreso giusto i primi giorni di autunno; le notizie su di lui le dobbiamo cercare scavando con le unghie tra le sue carte, saltando avanti e indietro, cogliendo i rimandi tra una lettera e l’altra, dissotterrando i piccoli, irregolari frammenti di vetro che compongono il mosaico della sua esistenza. Nessun interlocutore, nessuna controparte, nulla a cui aggrapparci fatti salvi i fogli che, in qualche modo, sono giunti fino a noi.

Del quarantenne Martino veniamo a sapere che si è da poco licenziato — ma non si capisce bene per quali ragioni – dalla ditta presso cui aveva posto fisso, che ha una moglie e dei figli ancora piccoli e che prima di ripartire alla ricerca di una nuova occupazione (che forse desidera ma forse anche no) si è concesso un periodo sabbatico – una sorta di ritiro spirituale, verrebbe da pensare – per un giro in solitaria che lo porterà da Monselice, in Veneto, sino a Cortona passando per Ravenna, Ancona, Roma, Catania, Perugia, Piombino.

“Ho perso quel lavoro che facevo da anni e credo di aver fatto in modo di perderlo. Prima di mettermi a cercarne uno nuovo, ho deciso di andare verso sud” (p38)

Di Martino verremo a sapere che non si fermerà nello stesso albergo quasi mai per più di una notte e che visiterà luoghi appartati, spesso lontani dalla rotte turistiche, fuori stagione, per la maggior parte dei chilometri alla guida di un’auto sgangherata.

Durante queste soste – specie la sera, in albergo – Martino scrive.

“Da quando ho lasciato casa sabato scorso scelgo i posti dove sostare con gli occhi che devono ave avuto gli antichi mentre sceglievano un altipiano, un tratto di costa o una valle per fondarvi una città o una colonia. Mi vergogno molto di questo procedere. E ogni camera d’albergo diventa un impluvio provvisorio, dove raccogliere l’acqua di un giorno, in parole per amici, compresi quelli che da anni non vedo. Anzi, soprattutto per quelli. Fondo una religione che non dura più di una notte e un giorno, io che ho sempre creduto alle religioni come giganti custodi del tempo, un tempo che non è diverso dall’immagine di un vecchio che sale arrancando per la salitina di una città di mare” (p44)

Scrive agli amici, a una donna incontrata per caso, alla moglie, a non sappiamo chi, ad alcune amanti virtuali e reali: Marco (due lettere), Sara (due lettere), la signora Halima, Lucio (due lettere), Luisa, Giorgio (tre lettere), “cara” (una lettera), Sergio (due lettere), Alessandra, Luca, Adele, Giulia, Milena (due lettere), Davide, Marianna, Stefano (tre lettere), Anna, Costanza, Serena, Enzo, Giulio, Luca, Ester, Veronica, “Signora Elsa”… potremmo continuare così fino alla fine della serie.

Pensieri che assomigliano a versi poetici, lettere lunghe a occuparsi di politica e società civile – in tono sommesso, uno sguardo verrebbe da dire esterno, ormai trascorso, per nulla polemico, come se il tempo dell’azione fosse ormai passato e concluso, ma con il cuore sempre gonfio di sentimenti: l’ardore disperato alla ricerca di amicizie che non siano convenienza ma compenetrative – simbiotiche, la febbre per l’arte, l’amore per i figli, la passione per le donne (quante amanti hai avuto, Martino? Tua moglie sa, delle tue frequentazioni?).

“In realtà sto scrivendo a tante persone, a chi ha mancato con me tanti giorni di vita. Provo rammarico e quanto lontani sento tutti quei discorsi sul non avere rammarichi o rimpianti: io ne sono pieno, divorato” (p50)

Il viaggio fisico si fa viaggio dell’anima, a indagare – uno per uno, con meticolosa lucidità – gli aspetti più profondi di se stesso: le cattive abitudini prese con gli anni, l’ignavia, la difficoltà sempre più evidente a uscire dal ruolo che, in fin dei conti, ci si è per la maggior parte autoimposti.

“Lo sai che sono il solito coglione: un vigliacco, uno che non ha saputo immaginare la propria vita al di là di un lavoro qualsiasi che non ha mai amato, una donna e tre figli, tutti più belli di me. Io sono uno che ha assecondato il pensiero di dipingere, suonare e provarle tutte per restare un pressapochista dell’infinito desiderio di fare più quel che sapeva fare. E sapeva fare ben poco perché io sono uno, non zero, non mille. Nessun noi abita in me, solo indulgenze del mondo e della Storia che cadono come neve, ogni giorno, nella mia testa e che con me si scioglieranno, ma che per ora mi impacciano il cammino” (p49)

Ci si immedesima in Martino, specie se con lui si condivide l’età anagrafica – il giro di boa dei quarant’anni a dirti che, c’è caso, ormai dietro di te hai più tempo di quanto ne resta davanti e quindi è inutile, forse perfino dannoso, procrastinare gli esami di coscienza – perché di tempo per migliorare ce n’è ancora, e forse abbiamo capito come fare, e cosa dire – ma non è che ne resti poi così tanto, e questi pensieri bisogna in qualche modo passarli, farli conoscere, con urgenza, specie ai propri figli. Ma forse anche no, forse meglio se ce li teniamo per noi. Chi lo sa.

“La tortura è quella che mi porto in serbo da troppi anni, è essere attorcigliato tra dire e non voler dire più nulla. (p15)

“Da oggi questa idea di essere uno potrebbe placare le inquietudini in modo definitivo e scaraventare la maledizione della differenza dagli altri e quella di una realtà accolta solo attraverso contenuti e impauriti spostamenti dello sguardo” (p49)

E’ un po’ un limbo, questo dei quarant’anni: l’adolescenza dell’età adulta, in cui spiace lasciare qualcosa che è ovvio, non fa più per noi, e nel frattempo si desidera dare un’occhiata a quel che c’è oltre perché ci si sente in grado, ma non così tanto coraggiosi da tentare il tuffo di testa. Ed è curioso che questo guardar oltre sia in certi casi più un ritrarsi, rinunciando consapevolmente a determinati aspetti del vivere – cose che prima ci piacevano, cose di cui, ci pareva, non potevamo proprio fare a meno. E curioso, poi, che così d’improvviso (ma davvero, è quel che accade) si affacci la speranza, che più che fiducia nel mondo tangibile, diviene – quasi – un atto di fede.

“Il cinema non mi manca però. Quando entravo in sala ogni film mi aggrediva come la dimostrazione di un teorema perfetto in sé conchiuso, definitivo: il cinema è molte volte costruito sui dialoghi, ma non è affatto dialogico oppure non lo è più. Il cinema pretende di scrivere una gigantesca didascalia per leggere il mondo, ma non ce la farà e il suo tentativo è sempre meno attraente” (p66)

Chi sia davvero Martino Dossi, noi non lo sapremo mai. Un flaneur? Un uomo tormentato dai demoni della depressione? O dell’arte, o tutti e due? Non è possibile andare oltre nel racconto della trama, per capirne un po’ di più dovremo arrivare fino in fondo, all’ultima lettera – o a quella che forse è l’ultima lettera, noi non lo sapremo mai.

“Il fatto è che qui, di nuovo, alla bella vista in valle, si è incollato per un istante quel pensiero del tutto che proviene da una convinzione di un nulla, un sentore di niente. E solo questo momento, quando accade, è bilanciato dalla vista di un paesaggio di fede (qualcosa di così vicino alla speranza, non dirlo meglio) allora succede quell’aggancio vertiginoso tra tutto e niente. Non si chiede altro: si sta bene come al varco di un confine celeste, privati del pensiero che si sottrae a sé e anche dell’istinto. Alla fine anche un infelice è un apprendista felice” (p98)

Nota: ringrazio l’autore, Alberto Cellotto, per avermi proposto la lettura di “Abbiamo fatto una gran perdita”.

Qui se ne parla: Poetarum Silva; Matteo Giancotti La Lettura; blog dell’autore

A volte, come in questo caso, ho l’impressione che l’identità di ADC, che cerco continuamente di tener viva e perfezionare, sia più evidente agli occhi di chi legge il blog che ai miei – e che qualche autore e/o qualche casa editrice conosca questo blog, nelle sue parti strutturali, molto meglio di come, alla fine, lo conosco io. Il che è, di fatto, un grande conforto e un bel traguardo professionale. Grazie.