"La sesta estinzione", di Elizabeth Kolbert

Dovete sapere che il Pulitzer per la non-fiction (ossia la categoria che raggruppa quei “distinguished and appropriately documented book[s] of nonfiction by an American author that [are] not eligible for consideration in any other category”) è stato assegnato quest’anno a Elizabeth KolbertGiornalista statunitense, nata nel Bronx (1961) e laureata a Yale, per anni ha collaborato con il New York Times e dal 1999 è firma stabile del The New Yorker per il quale scrive – ormai con una certa autorevolezza riconosciuta anche a livello internazionale – di ecologia e temi ambientali

Salita alla ribalta nel 2008 pubblicando “Field Notes from a Catastrophe: Man, Nature, and Climate Change” (Bloomsbury 2006), in “The Sixth Extinction” la Kolbert raccoglie in volume i reportage sul campo da lei stessa effettuati nel corso degli ultimi cinque anni. Il filo rosso che accomuna tutte le spedizioni a cui la giornalista decide di aggregarsi, dalla foresta Amazzonica all’Australia, dalla Barriera Corallina fino all’Italia, centinaia di chilometri percorsi a seguito di scienziati, naturalisti, antropologi e colleghi columnists impegnati in vari progetti di caratura internazionale, è l’intenzione di approfondire gli esiti delle ultime ricerche scientifiche relative ai cambiamenti climatici e al ruolo che, nel loro sviluppo quanto mai rapido, ricopre la presenza umana sul pianeta Terra. Un’ingerenza “infestante”, quasi mai pacifica, che ha modificato radicalmente i delicati equilibri che da milioni di anni regolavano, tra estinzioni lentissime e altrettanto lentissime speciazioni, la vita animale e vegetale del nostro mondo. 

Basti pensare alla rana d’oro di El Valle de Anton, Panama, specie endemica dell’area, simbolo di fortuna, stampata addirittura sui biglietti della lotteria, estintasi in natura nel giro di dieci anni (ora è presenza, sempre a rischio, soltanto in cattività) a causa del Batrachochytrium dendrobatidis, un fungo introdotto nelle Americhe probabilmente attorno agli anni ’60 del Novecento dalle rane africane, che venivano importate perché utilizzate – udite udite – nei test di gravidanza (umani) – (Cap.1).

Oppure al rinoceronte di Sumatra, che ha camminato sulla Terra, indisturbato e pacifico, giusto per quei banali venti milioni di anni e che oggi sopravvive solo nelle riserve, ridotto a poche centinaia di esemplari a seguito del disboscamento del suo habitat naturale cominciato alla fine dell’Ottocento, e che riesce a riprodursi in cattività solo grazie alla devozione di un coraggioso manipolo di studiosi (Cap. 11). 
Naturalmente, come si può ben intuire, il problema non si limita soltanto alla scomparsa di alcune specie qui e lì ma alle reazioni a catena che nascono da queste sparizioni improvvise, sempre più frequenti e tutte originate dall’intervento umano. Ad esempio la disgregazione della barriera corallina e, in conseguenza, di tutto il suo habitat faunistico a causa dell’acidificazione degli oceani – questione che va a braccetto con l’innalzamento delle temperature (Capp. 6 e 7) – o la moria di ben 6 milioni di pipistrelli nordamericani Myotis lucifugus sterminati in pochi anni da un fungo importato dall’Europa (Cap.10, intitolato per l’appunto “La nuova Pangea”).

Elizabeth Kolbert riesce nell’impresa di costruire un’opera che, come indicato dalla giuria del premio: forces readers to consider the threat posed by human behavior to a world of astonishing diversity” grazie prima di tutto alla completezza e alla specificità della documentazione. Proprio per questo motivo il testo, solidissimo nella bibliografia e nelle fonti, risulta credibile e fortemente sconcertante mentre l‘impostazione di chiaro intento divulgativo, che comunque quasi mai (s)cade nella trappola della cronaca sensazionalistica, rende “The Sixth Extinction” una lettura accattivante e scorrevole.

Qui di seguito i twitts che hanno accompagnato questa lettura estiva e i links ai vari approfondimenti (solo alcuni tra i tanti) che la stampa nazionale ed estera ha dedicato all’argomento e che ADC ha segnalato nel corso di questi ultimi mesi. Ringrazio @NeriPozza per i retweets e per il supporto nella ricerca bibliografica e Riccardo Staglianò per la gentilezza nel segnalarmi la sua intervista all’autrice, che non ero riuscita a recuperare sul web.


Buona lettura 🙂

"Le mani della madre", di Massimo Recalcati

L’ultima opera di Massimo Recalcati ha portato con sé, come fiume in piena, una quantità non indifferente di ritorni. Plausi e giudizi venuti non solo dalla comunità scientifica ma anche a mezzo di chi, pur intendendosi poco della materia, ha voluto comunque dire la sua, dal columnist generalista agli interventi degli utenti sui forum dedicati alle cure parentali.
Sì perché se con “Cosa resta del padre” e “Il complesso di Telemaco” lo psicoanalista milanese aveva indagato il “tramonto dell’autorità simbolica del Nome del Padre” e la necessità, da parte del figlio, di una sua reinterpretazione – tenendosi in sostanza ben alla larga dalla questione del materno – con “Le mani della madre” nella tana del serpente ci si ficca consapevolmente e pure di prepotenza. 
Si capisce quindi la levata di scudi, da una parte e dall’altra (ché si sa, guai a toccare certi argomenti), tanto più per il fatto che Recalcati sceglie di offrire al lettore non un’interpretazione del materno sociologicamente rassicurante seppure di rottura, con buona pace di chi da questo saggio si aspettava l’ordinario, confortante collage di casi clinici con relativo commento, ma una serie di riflessioni aperte e declinate in chiave quasi esclusivamente psicanalitica, attraverso uno stile che di necessità si fa, specie nei punti salienti, più accademico che divulgativo. 

“Bisognerebbe non ridurre la madre a un appetito di morte, a una spinta a divorare il proprio frutto, a diventare proprietaria esclusiva e incestuosa della vita che ha messo al mondo. 

Bisognerebbe non dimenticare che il bestiario che accompagna immancabilmente la sua figura (la piovra, il coccodrillo, la chioccia, il vampiro) fornisce solo il suo lato in ombra, patologico abnorme, che non fa giustizia della sua forza positiva che oltrepassa di gran lunga quel bestiario. 

Bisognerebbe non identificare la madre con il virus di ogni malattia psichica”. (pagg.183-184) 

Chiosa Recalcati nelle conclusioni al volume. Una excusatio non petita, puntano il dito alcuni; una doverosa precisazione, rammentano altri, vòlta a evitare le solite generalizzazioni non tanto per quel che riguarda il vecchio e caro clichè della madre apprensiva e sacrificata che tutti conosciamo (o meglio, che pretendiamo di conoscere) quanto rispetto al punto saliente e più contestato del saggio:

“Alla madre dell’abnegazione si è sostituita una nuova figura della madre che potremmo definire madre narcisistica. Questa madre è figlia (legittima?) dell’ideologia della liberazione sessuale del ’68 e del ’77; è una madre che ha conosciuto su di sé, come figlia, l’artiglio sadico della madre-coccodrillo e che ha giustamente lottato per emanciparsi da una versione solo cannibalica del desiderio materno. La ricaduta di questa istanza – critica nei confronti del modello patriarcale della madre cannibalica – può però sfociare in una nuova patologia della maternità. Si tratta dell’alterazione ipermoderna della madre-coccodrillo(*)” (pagg.125-126)

Studi tassonomici a parte, Recalcati – che, va detto, con onestà intellettuale non fa mistero di alcuni suoi passati convincimenti poi disattesi dalla pratica psicoanalitica – punta, più che sulla classificazione sociologica, a dimostrare la tesi secondo cui paradossalmente ogni ordinamento troppo stretto quando si affronta la questione del materno sia foriero di interpretazioni limitanti se non decisamente deviate:

“Il problema non è correggere i comportamenti delle madri, ma verificare l’esistenza di un desiderio non-anonimo, capace di un “interesse particolareggiato” per il proprio figlio. La madre più solerte, più attenta e precisa nello svolgimento delle sue mansioni ma priva di desiderio può essere un incontro assai più nocivo di quello con una madre semplicemente assente. Le risposte della madre non sono buone perché corrispondono a comportamenti corretti o scorretti, ma in quanto espressioni del suo autentico desiderio” (pagg.77-78)  

Ciò significa, a conseguenza logica, indagare non soltanto gli aspetti più degradati della “divorazione reciproca” (pag.116) ma anche, e con il medesimo approccio critico, quelli derivati dalla “difficoltà per una donna a conciliare le esigenze della maternità con quelle della propria legittima necessità di affermazione personale e professionale” (pag.126) nonché le dinamiche che vengono a crearsi all’interno di famiglie allargate o mono-genitore (ad esempio quelle composte da madri single). 
Da qui ad affermare che Recalcati sia vittima di un’impostazione vòlta al ripristino della famiglia tradizionale asservita, si è detto anche, alla morale cattolica, tanto ce ne vuole e occorre attenersi con scrupolo al testo, evitando l’abbaglio di quegli specchietti per le allodole dai quali lo psichiatra mette in guarda il lettore – ma su cui è complicato e non necessariamente utile soprassedere.

E’ da apprezzare in Recalcati la varietà della bibliografia e degli spunti suggeriti, specie riguardo alla cinematografia: “La madre di Torino” di Gianni Bongioanni, “Changelling” di Clint Eastwood, “Anni felici” di Daniele Lucchetti, “Tacchi a spillo” di Almodovar o “Sinfonia d’autunno” di Ingmar Bergman sono soltanto alcuni dei titoli proposti dallo psichiatra quali esempi illuminanti di un certo modo, acuto e in certe pellicole addirittura rivoluzionario, di intendere la maternità.

(Dicotomia presunta tra Morante e Ferrante a parte, tirata in ballo dalla scrittrice Silvia Avallone in un articolo apparso quest’estate su La Lettura. Ferrante che, en passant, non sappiamo ancora se sia femmina o maschio, quindi c’è caso che la Avallone abbia pure preso un bel granchio quando sostiene la grandezza dell’autrice della Quadrilogia nel descrivere la dimensione del materno [oppure lei SA qualcosa che noi non sappiamo], supponendo che – come per la Morante – sia frutto della sensibilità particolare data dall’essere donna – no che poi la domanda qui sorgerebbe spontanea: madre o non madre? Perché pare che, sempre secondo la Avallone, anche questo faccia la differenza – per altro con anni di ritardo sulla critica letteraria internazionale che già ne aveva trattato, ma appunto anni fa).

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Buona lettura 🙂 

(*) Mica tanto ipermoderna in verità, come giustamente fa osservare Giovanna Pezzuoli dalle pagine della 27ora: “(…) nemmeno mi sembra una novità dell’oggi la versione della mamma narcisistica (…). Basti ricordare la celebre canzone italiana del periodo interbellico <>” a cui mi permetto di aggiungere, solo a titolo di esempio, l’opera di Irene Némirovsky (1903-1942), che del rapporto conflittuale con la madre assente ha fatto il punto nodale di molti suoi scritti.

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"Germania anni dieci", di Gunter Wallraff

Gunter Wallraff (Burscheid 1942) è giornalista e scrittore tedesco, noto a livello internazionale per i suoi reportage basati per la maggior parte sul metodo della notizia di prima mano ricavata da un’esperienza sotto copertura.
Figlio di un meccanico della Ford, appassionato di scrittura e giornalismo fin da ragazzo, operaio in gioventù e attivista politico – subì anche la reclusione in Grecia tra il 1974 e il 1976 – cominciò presto ad interessarsi al mondo del servizio di inchiesta testimoniando a soli vent’anni le difficili condizioni di lavoro degli operai della fabbrica ThyssenKrupp presso cui lavorava e raggiungendo poi la notorietà a seguito della pubblicazione di queste inchieste. 

Da qui, un escalation di narrazioni di impegno sociale e politico – sempre ottenute dall’esperienza diretta sotto copertura – volte a documentare alcune delle più difficili realtà professionali del Paese.
Si va dall’inchiesta Bild-Zeitung, nota rivista scandalistica che, secondo la testimonianza del giornalista, adottava metodi discutibili per ottenere il materiale desiderato, che poi veniva per altro pubblicato in maniera volutamente distorta, all’incredibile reportage “Faccia da turco” – divenuto un testo di valore internazionale – che riferisce dei due anni trascorsi alle dipendenze di un McDonald’s prima e poi della stessa Thyssen sotto il camuffamento di un emigrato turco.
Nel volume “Notizie dal migliore dei mondi” sono raccolte invece alcune delle inchieste a sfondo prettamente sociale (condizione degli immigrati, verifica delle realtà assistenziali di emergenza per senzatetto etc) che Wallraff realizzò per il settimanale Die Zeit a partire dal 2007.

In questo “Germania anni dieci” sono raccolte cinque storie di “ordinario malcostume tedesco” in fatto di lavoro e politiche sociali ad esso collegate. Wallraff, fattosi assumere come operaio (mentendo sulla sua età – da 70 a 50 anni – senza che nessuno si prendesse la briga di controllare seriamente documenti e referenze) presso un panificio industriale fornitore del colosso Lidl, testimonia una realtà disperata fatta di stipendi minimi, precarie condizioni igieniche, inesistenti misure di sicurezza tra esalazioni tossiche, piastre bollenti e panini ammuffiti. Medesima realtà ritratta ascoltando le numerose rivelazioni, anonime e no, dei dipendenti (baristas e Store Managers) degli Starbucksnazionali, vittime di turni h0-24 non stop (con relativo “pisolino” tra i sacchi del caffè nel momento in cui, in barba alle norme vigenti, non ci sia il tempo per tornare a casa) e mobbing aziendale nel caso di assenza per malattia o infortunio. Altro livello professionale ma identica condizione di sudditanza pratica e psicologica per i dirigenti delle ferrovie statali tedesche, o meglio per quelli tra loro non allineati con la recente politica di estrema espansione adottata attraverso la privatizzazione e l’esternalizzazione dei servizi core e delle infrastrutture, messa in atto dagli amministratori delegati e dal CDA di gruppo: si va dal mobbing professionale e personale (ottenuto anche attraverso lo spionaggio di emails e pc), alle minacce, ai demansionamenti. E su tutto, i ritardi sempre più frequenti – e gli incidenti, anche gravi – di cui sono vittime le migliaia di ignari (?) passeggeri che ogni giorno salgono su un treno DB o su un convoglio della metropolitana. Per non parlare del capitolo riservato al corriere GLS, i cui autisti, tra cui l’infiltrato Wallraff, assunti spesso attraverso subappalti in odore di criminalità, conservano nel cruscotto dei fatiscenti furgoni che sono costretti a guidare (e che lanciano a velocità folli lungo tutte le strade del Paese) casse intere di energy drinks e analgesici senza i quali non riuscirebbero a sostenere il peso psicologico e fisico di 15 ore di turni ininterrotti.

“Tutto quello che i colleghi in questo periodo mi hanno raccontato, la devastazione di corpo e anima che questo lavoro gli ha provocato… Credevo che dal primo capitalismo in poi cose del genere non esistessero più, o che si verificassero solo in quei continenti che noi definiamo <>” (p175: “Il Fardello dell’altro – autista e fattorino per il corriere GLS”)

Una Germania inedita, dunque, lontana dallo stereotipo di buona condotta a cui siamo stati abituati: perché se è vero che – ma altri dati sembrano smentire i comunicati ufficiali – il tasso della disoccupazione teutonica è il più basso di sempre e i numeri della produttività sfiorano il massimo europeo, è anche ormai assodato che l’obolo pagato per ottenere simili risultati ha la forma dei mini-jobs (lavori con uno stipendio massimo di 450eu/mese e con un monte ore – teorico naturalmente – di 15/week), del subappalto in mano a criminalità più o meno organizzata, di condizioni di lavoro precarie non solo dal punto di vista contrattuale ma anche da quello della sicurezza, dell’igiene e di stipendi medi che si aggirano sulla cifra limite di 4-5eu/h.

Realtà che Gunter Walgraff testimonia con lucidità e coerenza, certificate proprio dal metodo utilizzato, quello dell’esposizione in prima persona, che ne garantisce la veridicità. Un giornalista d’assalto che tuttavia, mantenendo il piglio del letterato, mai scade né in un facile paternalismo né in uno scontato populismo legato con filo doppio a contesti eccessivamente politicizzati – e da show televisivo.

Buona lettura 🙂

"Nel Giappone delle donne", di Antonietta Pastore – "Il coperchio del mare", di Banana Yoshimoto

More about Nel Giappone delle donne More about Il coperchio del mare Antonietta Pastore, studi in pedagogia e docente universitaria, attraverso la sua personale esperienza di expatried, durata quasi 20 anni, con delicatezza ed estrema competenza ci racconta in punta di piedi l’universo femminile giapponese: dall’adolescenza al matrimonio, dall’educazione dei figli alla vecchiaia, passando per lavoro, tradizione e femminismo. 
Scopriremo cos’è un omiai e perché non sia soltanto visto di buon occhio dalle famiglie ma addirittura richiesto dalle giovani giapponesi (50%) che dopo una certa età (ndr 26.7 anni, di media) corrono verso il matrimonio, d’amore o di convenienza che sia, semplicemente perché terrorizzate dall’idea di entrare a far parte della ormai folta schiera delle parasaito shinguru (ove shinguro sta per “zitella” e parasaito… beh, per “parassita”), perché l’obiettivo perseguito “non è il lieto fine ma l’interesse del gruppo” (p28). 
Attraverso la testimonianza di giovani spose e mature madri di famiglia scandaglieremo il misterioso, conflittuale rapporto tra la nuora e la spesso tirannica suocera a cui la giovane sposa deve obbedienza cieca e assoluta e che di frequente, se il figlio sposato è il primogenito, viene accolta in casa quando anziana e non più autosufficiente, nell’ottica di una relazione coniugale definita all’insegna dei più rigidi canoni tradizionali: l’uomo guadagna per la famiglia, la donna bada ai figli e alla casa. 
“Fin da bambina alla donna giapponese viene inculcato che la pazienza e il sacrificio di sé sono, più che un dovere della donna, l’essenza stessa della femminilità” (p38). Remissività, abitudine a servire il marito, che le mogli non chiamano per nome ma con un anonimo anata (tipo il vous francese) stesso pronome che viene utilizzato per interloquire con un collega sul lavoro; marito da cui sono apostrofate con un banale kimi (“tu”) o peggio ancora con un bell’ohi! “che non ha bisogno di traduzioni” (p38). 
E non potremo non stupirci, di fronte al potere autoritario della donna, in special modo quello che deriva dalla capacità di negoziazione interna ed esterna alla famiglia, tipico e specifico della donna giapponese. Donne che scattano in piedi se il marito ordina una birra ma che amministrano in completa autonomia tutte le finanze di casa, poche o molte che siano: dall’acquisto dei mutandoni di lana per tutti i membri maschi della famiglia, alla gestione di un esercizio commerciale, alla pianificazione delle spese. Direttamente responsabili del vitto quotidiano, finanche all’acquisto di beni mobili e immobili, non esitano a redarguire aspramente il consorte nel momento in cui osi accendersi una sigaretta in casa o uscire senza il cappotto, per poi riferirsi a lui, in presenza di terze parti, con il termine shujin (“il mio padrone”), malgrado la lingua abbia a disposizione anche otto, medesimo significato privato però dell’idea della sottomissione. Regine dell’economia domestica e target goloso del marketing più sfrenato, sono sempre impegnate nell’attività principe della donna nipponica: quella del maru maru, “del tondo tondo” (p49), ossia “mantenere la pace e l’armonia”; quando non accettino per sé addirittura il ruolo di kyoiku mama, ossia una madre che fa dell’educazione e della riuscita scolastica dei figli l’unico scopo della sua vita. 
Parleremo dei movimenti femministi, che pure ci sono stati e ci sono tuttora, frutto dell’occidentalizzazione di massa, ma che tuttavia hanno modificato solamente gli aspetti esteriori della società giapponese, grazie anche a innegabili vantaggi pratici (elettrodomestici, abiti comodi, tecnologia – pena la perdita di tradizioni raffinate e millenarie) ma non certo quelli più profondi, in un’orgia di risultati di dubbio gusto e scarsa utilità sul lungo periodo. 
Dall’analisi delle complesse tematiche familiari viene di conseguenza quella sulla vita della donna fuori casa: giovane o anziana che sia, non può esimersi dalla cura della casa e della prole (l’utilizzo di una otetsudai-san, la domestica, è socialmente concesso e accettato solo nel caso di famiglie molto facoltose) e quindi, ove scelga di portare avanti un’attività lavorativa, si tratta per forza di scelte professionali dalle caratteristiche ben specifiche. Ci inoltreremo quindi nel sottobosco multistratificato delle occupazioni professionali dedicate tipicamente al mondo femminile. Faremo la conoscenza delle tipiche Office Ladies, l’esercito delle segretarie che affollano qualsiasi multinazionale nipponica; ragazze spensierate, buona famiglia, buona istruzione, buono stipendio che viene per la maggior parte speso in accessori alla moda o viaggi all’estero. Comprenderemo un po’ meglio i delicati meccanismi di selezione e di accesso al mondo professionale (che spesso prendono il via dalla scuola elementare): divisi in due categorie, quelli con possibilità di carriera e quelli senza, ambiscono sulla carta alle agognate pari opportunità ma poi, nella pratica, non fanno altro che accelerare l’ascesa del lavoratore maschio a scapito della donna che normalmente, dato il suo impegno in famiglia, una volta sposata non potrà consacrare tutta se stessa alla ditta e al lavoro. E infine scenderemo nel mondo sommerso dei mizu shobai, i negozi “dell’acqua”, tra mama-san, hostess, entraineuses, pink parlour, fino ai famigerati toruko (“bagni turchi”, poi per ovvie ragioni ribattezzati col più politically correct soapland) passando addirittura dai no-pants kissa. Con buona pace della geisha che per secoli ha incantato oriente e occidente con la sua cultura, la sua grazia e il suo mistero. 
Ad integrazione di questo competente e appassionante saggio vorremmo consigliarvi una delle numerose opere di Banana Yoshimoto, di cui vi lasciamo qualche stralcio. Racconto lungo per altro adatto all’occasione, giacché nell’opera si parla, tra l’altro, di quella dolcezza un po’ malinconica che precede l’arrivo dell’autunno nelle cittadine turistiche di una costa nipponica che potrebbe ben assomigliare ad una qualunque delle nostre spiagge tirreniche. La trama è scarna, semplice: Mari, appena laureata, torna nel suo paese di origine decisa ad aprire una piccola attività commerciale, un chiosco di granite. Assieme a lei arriva inaspettata un’amica di famiglia, Hajime, provata da da un grave lutto: la perdita dell’amata nonna che viveva in famiglia. Le due coetanee trascorreranno insieme l’estate, per poi separarsi al principio dell’autunno. 
(…) ero felice all’idea che non dovevo fare niente di strepitoso. L’unica cosa che mi era concessa era prendermi cura, riempiendolo di fiori, del piccolo vaso che portavo dentro di me. Di certo non potevo credere di cambiare il mondo con le mie idee. Dovevo solo essere me stessa, una persona in grado di godersi la vita. (…) L’unica cosa che dovevo fare era arrivare alla morte dopo aver trascorso una vita a contemplare le cose belle del creato, tenendomi alla larga da ciò che mi avrebbe costretta a distogliere lo sguardo. (p. 63) 
(…) per la verità mi chiedo perché gli uomini vadano continuamente alla ricerca di cose sempre più complicate, sempre più oscure” (…). Gli uomini si spingono sempre più lontano, in posti estremamente tristi, oscuri e remoti. E lo fanno di loro libera iniziativa. Forse sentono la necessità di vedere le cose più in profondità, oppure è la razza umana che è fatta così. (p.70) 
Io a volte penso che non sia colpa loro, che sono fatti così. Mentre gli uomini si addentrano nei loro mondi bui e tristi, noi donne cerchiamo sempre di accendere una piccola luce nella vita di tutti i giorni. Le ruote della vita cominciano a girare solo se succedono entrambe le cose (…). Suppongo ci siano anche donne capaci di lavorare fino al tracollo, stacanoviste che vanno in profondità nelle cose esaurendo tutta l’energia fisica che hanno a disposizione, di solito, però, c’è qualcosa che ci ferma prima, no? A noi piacciono le zone d’ombra, preferiamo mangiare qualcosa di buono e farci una bella dormita, consapevoli che subito arriva un nuovo giorno. Sono davvero convinta che, fondamentalmente, ci siano delle piccole differenze nei ruoli dell’uomo e della donna. Il fatto che i nostri corpi siano diversi significa che anche i nostri ruoli sono in qualche modo diversi. Di sicuro gli uomini riescono a fare anche cose estreme, perché hanno un posto dove tornare. Che sia dalla moglie o dalla madre, non importa. Possono continuare a esplorare i loro mondi, possono anche andare nello spazio, solo perché sono legati a questa corda di salvataggio (…). Noi siamo fatte in modo che ci bastano i piccoli piaceri della vita quotidiana per andare avanti. (p. 70-72) 
Le cose avvengono proprio nel momento in cui stai per convincerti che non ci sia più niente da fare. Se, invece, aguzzi l’ingegno senza darti per vinto, la soluzione arriva all’improvviso, da un luogo del tutto inaspettato, sotto una forma quasi ridicola. (p. 77-78) 
C’era una cosa che mia mamma mi diceva spesso: “Le persone non vogliono soffrire né tantomeno vivere nel terrore, desiderano soltanto essere felici. Siamo tutti fatti così, per cui se ti rendi conto che un tuo comportamento potrebbe ferire qualcuno, devi modificarlo”. (p.58) 
Come a dire, la teoria e la pratica delle cose. 
Buone letture 🙂