Estetica, Ecologia, Biodiversità

Foto di Dan Meyers su Unsplash

C’è questo ciclo di seminari al quale ho partecipato, fra aprile e maggio: una serie di lezioni interdisciplinari organizzate dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze vòlte ad approfondire il rapporto tra estetica ed ecologia. Vorrei lasciarne qui una breve traccia.

Persistenze: contemplazione, distanza, giudizio, gerarchia / Nell’analisi dei modi che abbiamo di concepire le relazioni fra noi, esseri umani, e lo spazio che occupiamo sta la riflessione sulla centralità del paesaggio (1) e il rapporto di quest’ultimo con ciò che, invece, definiamo ambiente. Se con “ambiente” intendiamo, nella maggior parte dei casi, il generico di una non ben esplicitata natura, dentro a “paesaggio” inseriamo osservazione e rappresentazione, all’interno di un sistema di pensiero dualistico che include la mediazione operata dalla cultura alla quale apparteniamo. Proprio qui, nella ricerca sul paesaggio – ciò che esso ha sempre significato per la nostra civiltà occidentale e come dalla nostra civiltà occidentale è stato rappresentato (2) – si rende evidente come la crisi ecologica non possa più restare disgiunta dalla crisi dei saperi umanistici e nemmeno da quella dell’estetica. Paesaggio-pittura ed eccezionalismo, escapismo e feticizzazione dell’esperienza, neutralizzazione dei conflitti e pratiche colonialiste: durante il seminario ci si è domandati cosa si intenda con “percepire ecologicamente“, come si possa recuperare la natura sostanziale del paesaggio come “infrastruttura vivente all’interno della quale resti vivo il nesso fra comunità, giustizia, natura ed egualità” (3) e in che modo fruirne in senso estetico.

La risonanza nell’esperienza estetica: assottigliare l’ego, nella memoria di cinematiche motorie / Cosa si intende per estetica relazionale – o ecologica? Cosa significa “percepire nella corrispondenza“? Forse tornare a “riaprirci alla ricettività”: un certo “atteggiamento disposizionale”, si diceva, che nella sospensione del giudizio si ri-orienta in senso riflessivo e mira ad accogliere l’esperienza nell’ottica di una “postura espansiva di accoglienza e compassione” (4). Se il punto di crisi dell’estetica è proprio la perdita della “risonanza” (all’interno di un “piano di comunanza”), e se lo spazio architettonico nasce come “evocazione di cinematismi motori” (5), in che modo le neuroscienze possono contribuire a un approccio più umanocentrico di architettura, urbanistica e disegno del paesaggio?

Pesci, uccelli, talpe, coccodrilli e altre bestie che popolano cieli e sogni suburbani / Se ci venisse posta la domanda: what is nature in the city – a cosa pensi, quando pensi alla natura nel contesto urbano – probabilmente risponderemmo: piante, aiuole, spazi di verde incontaminato, poche persone, tranquillità. (E gli animali? Dove sono finiti?) Se ci venisse posta la domanda: what is culture in the city – a cosa pensi, quando pensi a ciò che significa cultura nel contesto urbano – probabilmente risponderemmo: musei, monumenti, edifici storici, cinema, forse librerie e biblioteche. (E la dimensione intangibile? Dov’e che ce la siamo persa?) Cosa significa quindi conservare oggi natura-e-cultura all’interno di un contesto urbano? (6) Ma anche, ci si domanda cosa significhi per il benessere di una persona avere a che fare con un certo ambiente, perché il tema della qualità della vita afferisce a più discipline, compresa la filosofia (7), e tocca non solo argomenti sociali e politici ma anche quelli relativi alla conservazione della biodiversità, alla coesistenza e convivenza di esseri viventi umani e non umani, all’etologia (8) fino alle pratiche del rewildening e le punte più estreme del conservazionismo (9).

Labelling necesse est: dal canone agli strumenti di immaginazione / Che cosa hanno da dire la letteratura e le arti riguardo la crisi ecologica? Malgrado parlare di canone sia questione spesso fuorviante, si riconosce la necessità di alcune linee guida: Giulio Ferroni, Enza Biagini, Serenella Iovino, Anna Re e poi via via chi di ecologia letteraria si è occupato ancor prima dei testi fondativi, da Ortese a Meneghello (10). Il punto tuttavia è altro ancora: come e cosa comunicare, relativamente all’Antropocene, a bambini e ragazzi, nell’eterna alternanza, che da sempre esiste nella letteratura per i piccoli, fra l’attitudine “franca e di verità” e quella “protettiva” (11). Se da una parte occorre limitare i sentimenti di ecoansia (l'”ecocidio irreversibile”) dall’altra bisognerebbe anche star lontani da una certa estetica del disastro che, di fatto, elimina dalla conversazione l’analisi politica, reiterando l’idea di una distopia neoliberista all’interno della quale siano preponderanti gli scenari di sopravvivenza elitaria (11). Dal tema della “salvezza ingegnerizzata” a quello del lutto, dal paesaggio sintetico agli spazi dell’assenza (12), fino alle riflessioni sull’antispecismo, anche il canone della narrativa “del dopo”, in specie per i bambini, ha bisogno di una ridefinizione. Andiamo insomma dotati di “strumenti di immaginazione” (11) che nella fondazione scavalchino l'”educazione di massa al meno” (meno risorse, meno diritti, meno democrazia) e ci aiutino a sviluppare uno sguardo nuovo, contaminato, su un linguaggio che deve di necessità sistemarsi all’interno di una visione post-coloniale.

Non è certo possibile riassumere in poche righe tutti gli interventi proposti dai singoli relatori. Qui mi sono permessa di sistemare solo alcune, brevi e di fatto non esaustive note a riguardo, tra le tante pagine di appunti presi durante le lezioni. Ringrazio Mariagrazia Portera e Vincenzo Zingaro di UniFi per la disponibilità e l’accoglienza: gli strumenti di partecipazione on line sono così preziosi.

Note: (1) Qui i dettagli e il programma del seminario, sul www. della facoltà di Lettere e Filosofia (DILEF) di UniFi. Le lezioni sono parte delle attività del National Biodiversity Future Center, all’interno del progetto EUniWell «Human and non-human well-being in the Anthropocene city: Guidelines for interdisciplinary research and sustainable policies». / (2) e (3) Dall’intervento di Alberto Siani (Università di Pisa) “Dall’ambiente al paesaggio: estetica ed ecologia” – 18/04. cfr Landscape Aesthetics: Toward an Engaged Ecology / (4) Dall’intervento di Nicola Perullo (UNISG Pollenzo) “Estetica senza (s)oggetti. Pensiero relazionale e percepire ecologico” – 7/05. / (5) Dall’intervento di Davide Ruzzon (IUAV Venezia) “Tuning Architecture With Humans” – 9/05. / (6) Dagli interventi di Elisa Martinelli “Human and Non-Human Well-Being in the Anthropocene City. Guidelines for Interdisciplinary Research and Sustainable Policies”, Mariagrazia Portera “Conservare natura e cultura – la dimensione immateriale della conservazione e il ruolo dell’estetica”, Elena Buonafede “Firenze come caso di studio per la conservazione di natura e cultura: i primi risultati di un’indagine qualitativa” – 23/05 / (7) Dall’intervento di Andrea Coppi (BIO – UniFi) e Matteo Galletti (DILEF – UniFI) “Benessere e biodiversità: una ricerca interdisciplinare” – 23/05 / (8) Dall’intervento di Alessandro Cini (BIO – Università di Pisa) “Etologia e Antropocene. Capire il comportamento animale in un mondo che cambia” – 23/05 / (9) Dall’intervento di Elena Tricarico (BIO – UniFi) “Bellezza problematica: attrattività estetica e invasioni biologiche” – 24/05 / (10) Dall’intervento di Diego Salvadori (FORLILPSI – UniFi) “Ecologia letteraria a Firenze: stato dell’arte e progetti in corso” – 23/05 / (11) Dall’intervento di Matteo Meschiari (Università di Palermo) “L’Antropocene dei bambini. Scritture del dopo e Territà” – 24/05 / (12) Dall’intervento di Marco Malvestio (Università di Padova) “Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene” – 24/05.

#adcNorthPole: un viaggio al Nord (intro)

Certo, a chi non sarebbe piaciuto cominciare così?

Kit Harrington/John Snow – Game of Thrones (David Benioff – DB Weiss).
“Cronache del ghiaccio e del fuoco”, George RR Martin (Ita: Mondadori)

O anche così:

Tobias Menzies/Commander James Fitzjames, (27/07/1813 – 1848?) alto ufficiale britannico che partecipò alla famosa “Spedizione Franklin” in qualità di comandante della HMS Erebus, a servizio dell’Ammiraglio Sir John Franklin – TheTerror, (David Kajganich – Ridley Scott) tratto dell’omonimo “The Terror” del romanziere Dan Simmons (Ita: Mondadori), fictional drama che racconta in maniera romanzata (quanto? nessuno lo può dire) il destino della sfortunata spedizione Franklin (cfr. Fergus Fleming, “I ragazzi di Barrow”, Ita: Adelphi)

La tentazione m’era venuta, davvero. Sarebbe stato altamente evocativo raccontarvi di come il cinema di questi ultimi anni (a partire dalla letteratura, ovvio) si sia profondamente nutrito e sfamato di Artico, di come ce lo abbia mostrato, servito, dato in pasto, e di come sia riuscito a renderlo uno dei nostri desideri proibiti, tradurlo in evidente bisogno creandone poi la dipendenza.

Però l’amara verità è che quell’Artico lì, quello a cui John Snow strizza l’occhio e quello ricostruito da Ridley Scott, per dire, ecco proprio quello non esiste più. Finito, chiuso, punto: di-men-ti-ca-te-ve-lo.

Sicché a rievocarlo così, da principio, avrei vinto facile; solo che a me vincere facile non è mai piaciuto e per altro penso che i lettori di ADC si meritino sempre qualcosa in più. Rischiandola grossa quindi ho pensato di mostrarvi le diapositive 3 e 4 al posto degli addominali di John Snow. Perdonatemi se potete, e guardatele bene.

Artic multi-year sea decline (fonte: NASA)
Wikipedia

Si tratta di due rappresentazioni cartografiche che mostrano il ritirarsi dei ghiacci artici nel corso degli ultimi 20-30 anni. La seconda immagine in particolare mostra la dimensione minima raggiunta nel 1984 confrontata con la dimensione, sempre minima, raggiunta nel 2012. Si badi: dimensione MINIMA. Proprio da qui, Signore e Signori, da queste due AGGHIACCIANTI CARTINE ho deciso – pur con qualche nostalgia per l’amato Tobias Mendiez, va detto – di cominciare il nostro viaggio nel Grande Nord.

Lo so, sarebbe stato bello partire da dove forse ci piace di più. Dal punto in cui si fa meno fatica, dal punto in cui lo spirito di critica lascia spazio alla fruizione dell’immaginario. Dalle terre estreme, dall’idea del freddo, dell’avventura, della meraviglia, dell’inesplorato. Sarebbe stato accattivante, non convenite? Affondare le mani negli archetipi di una narrazione confortevole e priva di sorprese sgradevoli. Una narrazione che ci avrebbe solleticato vista e udito, che ci avrebbe fatto star caldi sotto i nostri piumini, l’abat-jour accesa e la tisana bollente sul comodino. Una narrazione d’impatto, una cosa da Instagram insomma, bella nel volto, pur con tutta la sua crudezza (lontana, inarrivabile – ah menomale, che sollievo), ma priva di strascichi nell’argomento.

Corpo di mille balene, dobbiamo pure divertirci un po’, giusto? Pensare ad altro, immaginare, e-va-de-re!

Spiace davvero, ma non sarà così. Verrà il tempo per questi racconti, spazio per loro ce n’è  – ma non è ora. 

Sembrerà banale ma la trovo una questione di rispetto – e ci sono arrivata per gradi, mentre procedevo con le mie letture: leggendo di Artico, ho capito che l’Artico esige riguardo. Lo chiede non soltanto per sé ma anche nei confronti di chi scrive davvero di Artico, per chi nell’Artico ci lavora, ci vive o ci ha vissuto e ne è scappato. L’Artico in sé – riguardo per come è ora – e non per come vorremmo che fosse, per come lo pensiamo, per come lo evochiamo. Insomma deferenza per quello che è stato e per quello che ora non è più

Questo viaggio di ADC sarà lungo. Preparatevi, fate i bagagli ma partite leggeri, con voi solo lo stretto indispensabile: ci occuperemo di narrative non-fiction e di forme ibride, nuove, per raccontare il presente; parleremo di geografia, di antropologia, di climatechange, di economia e di politica, perché non si può parlare BENE di Artico senza tirare in ballo la NATO, la guerra fredda, il genocidio degli Inuit, l’antica Via della Seta, la febbre bianca (l’ossessione dei Sovietici per il grande freddo). Troverete diversi post, sparsi qua e là, che utilizzerò un po’ come un taccuino di esperienze di lettura – così come ADC è nato tanti anni fa, recuperandone il senso: pagine di appunti.

Ci saranno citazioni, note, rimandi, asterischi, elenchi di pensieri. E’ quello che fa parte delle mie letture – quello che a me è piaciuto leggere, non quello che voi dovreste leggere perché è cool o appena uscito in libreria o perché lo consiglio io – tutto questo potrà arrivare dopo, a vostra scelta. #AdcNorthPole è un cammino non ancora concluso, che mi sta portando da un libro all’altro e che, seppur nato da un caos imperscrutabile fatto di caso e fortuna (come quasi tutti i miei progetti di lettura), chissà come – quasi miracolosamente – poi sta trovando un suo equilibrio fatto di tanti sassolini minuscoli, uno in fila all’altro, a mostrarmi la via da seguire. 

Come al solito si tratta di un percorso aperto: benvenuti tutti coloro che vorranno segnalare e condividere testi, articoli link. Evviva, si parte.

Buona lettura 🙂

Anteprima: l’onore di aprire il prossimo post spetterà ad “Artico – la battaglia per il Grande Nord“, di Marzio G.Mian, edizioni Neri Pozza – e in accompagnamento “Artico Nero – la lunga notte dei popoli dei ghiacci“, di Matteo Meschiari, edizioni Exorma. Due testi che vi stupiranno per la loro potenza e la capacità degli autori di raccontare il presente.

“Neghentopia”, di Matteo Meschiari – con illustrazioni di Rocco Lombardi

 

Neghentopia_Cop_DA_STAMPARE.qxp_Layout 1

“Siamo in un lago salato di origine oceanica. E’ asciutto da quarant’anni (prima rumore di vento, poi musica, qualcosa come A una rosa di Ernst Reijseger). Navi arenate come gusci di aragoste. I carapaci piegati su un fianco. O dritti e leggermente impennati. Sono decine. Fermi in un’onda interrotta. Contratti nel bollore salino. Non vive più nessuno da queste parti. Solo i trafugatori di rottami” (pag.15)

Il debito di “Neghentopia” nei confronti di certa narrativa distopica – uno tra tutti “La guerra invernale nel Tibet” di Friedrich Dürrenmatt – è enorme. Eppure il risultato a cui l’antopologo Andrea Meschiari riesce ad arrivare è molto lontano da qualsiasi esperimento di semplice emulazione.

Si tratta piuttosto di convergenze evolutive. “Neghentopia” infatti è la prova tangibile di quanto il genere distopico (se ben pensato e ben scritto) abbia ancora da dire al proprio pubblico nonostante si trovi a gestire un’eredità di tutto rispetto, qualche volta ingombrante. E questo miracolo accade quando, scrivendo distopie, si punta alla conservazione dell’essenziale e all’eliminazione del superfluo, in tutte le sue forme.

Diciamocelo. A molti è già venuto il dubbio che il declino della fiction seriale (fantasy e distopica) sia alle porte. Prova ne è la quantità di progetti a spiccata vocazione seriale che le case editrici continuano a sospendere dopo un certo numero di uscite (se non ci credete, cliccate qui). Ci ha provato Jeff VanDerMeer a recuperare il concetto di narrazione seriale, costruendo un prodotto (la Trilogia dell’Area X) composto da tre volumi in pubblicazione ravvicinata; ma come ben sappiamo, la Trilogia dell’Area X è un’opera a sé che dei canoni distopici se ne appropria per così dire in background, senza aderirci totalmente.

La trilogia dell’Area X in verità possiede un altro pregio che ci viene in aiuto per “Neghentopia”: la quantità minima di personaggi in azione (sarà un caso che nel film  tratto da “Annientamento” il regista abbia sentito il bisogno di aggiungerne uno in più, di fantasia…) e la presenza di un’ambientazione contestualizzata ma indistinta, dato che uno dei punti cardine del #NewWeird proposto da Jeff VanDerMeer è proprio la rappresentazione dell’incapacità umana di esprimere se stessa e il mondo circostante attraverso il linguaggio. Difatti non è una novità nemmeno il declino – certo, sarà un processo lungo – di una certa abitudine alla contestualizzazione massima, che nella sua ipertrofia ha portato inevitabilmente a testi complessi, dalle digressioni ridondanti o ricolmi di incomprensibili tecnicismi, popolati da una serie quasi infinita di protagonisti e comprimari le cui avventure – o backstories – possono prendere addirittura l’aspetto di veri e propri spin-off (provate un po’ a leggere “The Passage” di Justin Cronin e poi mi direte. By the way, anche questo fermato, da Mondadori, alla fine del secondo tomo, pubblicato più di due anni dopo il primo. Nota a margine: il terzo volume, “The city of Mirrors”, è ancora inedito in Italia: l’edizione in lingua originale, annunciata per il 2014, uscì solo tre anni più tardi…).

Ci troviamo quindi di fronte a una nuova generazione di testi distopici che puntano sulla linearità della trama e sull’autoconclusione (o sulla pubblicazione ravvicinata), ma anche – altro punto – sulla fruizione cross- mediale. (L’ha fatto ad esempio Simon Stålenhag con Loop, di cui vi parlerò presto in un post dedicato, anche su IG). Ciò però non significa creare delle storie semplici, di facile lettura, cinematograficamente adattabili ma modificare in sé l’esperienza della lettura distopica, senza snaturarla ma arricchendola attraverso A) l’eliminazione del superfluo e del ridondante (con un effetto ben preciso, lo vedremo poi, se avrete pazienza di arrivare fino alla fine) e B) l’introduzione di elementi visivi – e uditivi – nuovi.

Questo è il lavoro che sta sotto “Neghentopia”, una bed-time story post-apocalittica, dai toni lugubri e poetici – ancora più truce perché ha per protagonista un ragazzino neanche adolescente, il cui testo si fonde con l’arte dell’illustrazione e della sensazione uditiva data dai suggerimenti all’ascolto che l’autore consiglia a mezzo di parentesi e Italic Font.

Ciò che colpisce è l’essenziale equilibrio fra le tre forme espressive, nessuna delle quali prevarica l’altra.

  • Il testo, a base paratattica, è composto da dialoghi stretti, limati sino all’essenziale e alternati a pause di respiro descrittivo, di carattere naturalistico e contestualizzante, ad argomento wilderness. Il linguaggio è violento, metaforico, ricco di similitudini e analogie.

  • Le illustrazioni, opera di Rocco Lombardi, sono nervose e accuratissime pennellate di inchiostro nero e vivono di dettagli minimi spingendo di contro verso una raffigurazione di insieme che non toglie spazio all’immaginazione del lettore, anzi.

  • La colonna sonora spazia da Johnny Cash a Shoenberg: pezzi che hanno il merito, con le loro sonorità ricercate, di accompagnare il lettore costringendolo a una lettura ponderata.

slide_Neghentopia-1

Un tipo di struttura molto simile al “trattamento” – la parte più letteraria del processo di scrittura di un film che precede la sceneggiatura vera a propria – che permette, sempre limitandosi all’essenziale, di raccontare la vicenda presente in “scaletta” in maniera narrativa e offrire una prima caratterizzazione dei personaggi fornendo loro anche un contesto e una backstory. Parimenti, nel “trattamento” è approfondita anche la parte dell’ambientazione e non da ultimo è possibile aggiungere commenti personali o valutazioni etiche ed emotive – processo che segue anche l’autore di “Neghentopia” avvalendosi per la narrazione del tempo presente e di un punto di vista interno collettivo, un “noi” che abbraccia tutti gli spettatori e non solo il singolo lettore.

“Una lingua glaciale che scivola dall’entroterra montuoso e si allarga a ventaglio nelle acque di una baia (Verklarte Nach, Op.4 di Schoenberg). Da enorme distanza come se fossimo appesi a un aquilone da guerra cinese vediamo polvere di gabbiani roteare laggiù e tra le acque striate di malachite una mandria di trichechi minuscoli come briciole di sughero abbandonarsi unanime e schiumosa alla rapina di correnti invisibili” (pag.121)

Leggere “Neghentopia” non è semplicemente affrontare una favola distopica che, come tutte le favole distopiche che si rispettino, non contempla il lieto fine. E’ attraversare un’esperienza dei sensi che ha un grande merito: tramite essa, infatti, la narrativa distopica per una volta si riprende di imperio quello che ha ceduto, con gli anni, alla serialità e alla moda dell’iperconstestualizzato, ossia la capacità di sviluppare nel lettore quel processo di immaginazione attiva, intima e individuale, che soltanto la buona lettura ha il potere di generare.

Matteo Meschiari è professore di antropologia e geografia all’Università di Palermo. Con Exorma ha pubblicato, nel 2016, Artico Nero”, una raccolta di sei long-form che documentano in forma di fiction il disastro ambientale e sociale che da anni colpisce l’Artico e la sua popolazione. Vari altri suoi saggi sono apparsi per Sellerio, Liguori e Quodlibet. Si discute ormai molto delle modalità attraverso cui scrivere di ambiente e Natura. Amitav Ghosh (*) Nella sua raccolta di saggi/lezioni universitarie intitolata “La grande cecità” alcuni anni fa si poneva proprio la domanda del perché della limitatezza degli scrittori di narrativa nel parlare di wilderness, di tematiche ambientali e del rapporto complicato tra l’uomo e l’ambiente naturale che lo circonda (o che, ormai, non lo circonda più).

Ecco, sono forse le opere come “Neghentopia” a indicarci quale sia la strada nuova per parlare di spazio naturale e della percezione che di esso ha l’uomo, perché riescono a penetrare la dura cortina di indifferenza e di sovraesposizione a cui il lettore è ormai sottoposto, attraverso l’utilizzo di referenze cross-mediali e di canoni letterari ibridi.

Buona lettura 🙂

(*) Ne approfitto per segnalare che Amitav Ghosh sarà presto in Italia e terrà una conferenza sulle connessioni tra migrazioni e cambiamenti climatici dal titoloThe Great Uprooting: Migration and Movement in the Age of Climate Change” presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca il prossimo 30 Maggio. Qui tutte le informazioni. Andate a sentirlo!

Nota: #neghentopia è stato uno dei libri scelti da ADC per il progetto Twitter / IG Stories #leggoinmensa. Come di consueto si ringraziano tutti i lettori sociopatici che di fronte alla domanda del collega: “Andiamo a pranzo?” fingono micidiali coliche renali. Senza di loro, la rubrica #leggoinmensa non avrebbe ragione di esistere.