"Tokyo Orizzontale", di Laura Imai Messina, e "Corpi di Gloria", di Giuliana Altamura

(Sembrano così gracili, questi giovani moderni. Forse lo eravamo anche noi, ma nessuno se ne accorgeva). 

“Ovunque cumuli di vita fragili e dispersi, ammassati in luoghi così distanti da non incontrarsi mai” (GAltamura, #CorpidiGloria, p172)

“Tokyo Orizzontale” e “Corpi di Gloria” sono due romanzi esemplari nel genere che rappresentano e non mancano di rivelare come il giudizio non smetta mai di dipendere oltre che da considerazioni oggettive e imprescindibili su forma e contenuto anche dall’approccio soggettivo e personale all’argomento proposto. In questo caso, verrebbe quasi da scomodare l’obsoleto e polveroso tema dello “scarto generazionale”. Ma tant’è.

Laura Imai Messina (Roma, 1981) e Giuliana Altamura (Bari, 1984) nelle loro opere prime sembrano confrontarsi – vien da dire rifacendosi al giornalismo sensazionalistico più tradizionale e scontato – con il tanto citato “disagio giovanile”.

LIMessina racconta l’esperienza alienante della mutazione tardo-adolescenziale del corpo e dell’anima, del sovraffollamento antropico e dell’iperstimolazione sensoriale. E lo fa prendendone a paradigma Shibuya, uno dei 23 quartieri di Tokyo, con una densità pari a 13mila abitanti/Km per un totale, in estensione, di 15Km circa, attorno al quale in un crescendo di casualità concatenate si snoda il fine settimana di quattro giovani di età appena post-universitaria: Sara e Carmelita, che si sono ritrovate a condividere l’esperienza di expatried, e poi Hiroshi e Jun, due Tokyoti dai caratteri e dalle esperienze familiari completamente differenti; il fato farà interagire tra loro queste quattro persone segnandone per sempre il destino.

GAltamura invece, anziché far esplodere la narrazione attraverso un susseguirsi di esperienze diversificate e altre, la fa implodere dall’interno – con le stesse, devastanti, conseguenze – attraverso l’antonomasia di Riva Marina, esclusivo resort pugliese, immutato e immutabile centro turistico villette-a-mare-con-piscina (di eccezionale e immediata Ballardiana memoria, per altro) all’interno del quale i ventenniGloria, Cristina, Nic, Dave, Andrea e Michael si ritrovano con le rispettive famiglie a trascorrere la consueta, rovente estate mediterranea, confrontandosi con l'(apparente) immobilità del reale e con l’horror vacui che da questa inerzia scaturisce.

Entrambe le scrittrici, attingendo a piene mani dal proprio vissuto, si misurano con quello che forse impropriamente si era definito “disagio giovanile”: patimento che a quanto pare (ad occhio adulto, almeno) non è ormai più prerogativa di una piccola minoranza di adolescenti e young adults ma di tutta un’intera generazione, senza limiti né di geografia né di estrazione sociale.

A far da padrona, declinata in modi e ambiti differenti, è l’angoscia per l’ignoto del futuro e per l’inconsistenza anaffettiva del presente, esorcizzata attraverso l’abitudine a comportamenti estremi capaci di offrire una sempre maggiore assuefazione adrenalinica o l‘illusione di un sentimentofinalmente condiviso e ricambiato: si va dall’abuso di alcool e di sostanze psicotrope al sesso promiscuo, occasionale e non protetto, all’inclinazione al bullismo e agli atti vandalici o di cyber-pirateria. Tormenti di medesima entità, espressi o nelle forme di un elegante e prestigioso zoo-resort in cui, tra piscine dall’acqua immobile e cristallina e spiagge bruciate dal sole si consumano esistenze “tirate a campare”, o nel chiasso e nella densità corporea della più estrema metropoli asiatica, tra atti erotici consumati a distanza di poche ore dal primo incontro e sbrigati in fretta in un love-hotel o nella toilette di un bar – in una dimensione atemporale in cui giorno e notte non hanno più alcun significato – drink ultra-alcolici tracannati d’un fiato, travestimenti sgargianti di paillettes, parrucche fluorescenti e violenze da bullismo di gruppo.

Elemento comune, l’entusiasmo per le infinite possibilità di realizzazione personale, professionale e affettiva che il mondo offre, o potrebbe offrire, irrimediabilmente inficiato dall’ossessione per il molteplice e per la naturale eterogeneità delle esperienze: diversificazione che dovrebbe condurre per natura ad un principio necessario di scelta consapevoleed altrettanto cosciente criterio di rinuncia ma che al contrario viene sostituita dall’inedia senza fine di giornate identiche l’una all’altra, sulle quali si innesta facilmente il germoglio del godimento adrenalinico. Da una parte, gli atti vandalici nelle ville dei vip condotti dalla banda di Riva Marina capitanata dal teppista Nic, che pochi sopportano ma che nessuno ha il coraggio di evitare. Dall’altra, la creazione del cliccatissimo website #TokyoOrizzontale ad opera di Jun, figlio viziato di un ricco imprenditore locale; una collezione di scatti notturni che impietosi (e in barba a qualsiasi regola sociale o norma etica) ritraggono decine di businessmen giapponesi sfatti dall’alcool: chi crollato a terra sulla banchina del metro, chi accasciato su una panchina di un parco, chi riverso in una pozza di vomito sul marciapiede di fronte ad un pub.

Ciò che spicca – sempre ad occhio adulto (ritorniamo all’incipit della nostra osservazione) – è la relazione problematica con il nucleo familiare di origine, sia nella presenza sia nell’assenza. I legami con i genitori e/o con i fratelli si rivelano in entrambe le opere intricati e di difficile gestione e non esiste alcun momento di difficoltà in cui il genitore venga eletto a figura di riferimentoné per un aiuto eventualmente pratico né per un conforto emotivo.
Parimenti, sembra totalmente assente anche il concetto della consequenzialità degli eventi e delle azioni: il nesso causa-effetto è sradicato dal suo originale contesto perché le azioni compiute valgono per il “qui e ora” e qualsiasi conseguenza è consegnata ad una riflessione da farsi in un “domani” che non si vorrebbe vedere mai trasformato in “oggi”, salvo poi ritrovarsi impreparati e smarriti di fronte allo svolgersi di un destino che viene subìto come inatteso – e talvolta immeritato – ma che invero porta le tracce di una facile prevedibilità, stanti le premesse che lo hanno generato.

Insomma, una formula per il buon esito dell’impresa pare non esistere affatto.
Semplicemente, c’è chi si salva e chi invece soccombe ad una giovinezza che – sembra – di bellezza e poesia ne ha ben poche e che assomiglia più ad una lottaper la sopravvivenza combattuta con violenza estrema e senza esclusione di colpi.

Se nell’opera di LIMessina si apprezza lo stile asciutto e cesellato, l’ampiezza raffinata del punto di vista e la coralità poetica dell’immagine, da cui traspare una profonda e sostanziale fiducia nell’Uomo e nelle sue creazioni, nel romanzo di GAltamura prevalgono i toni cupi, sia di forma, attraverso le descrizioni dell’estate mediterranea, brucianti, dense ed evocative, non prive di echi letterari, sia di contenuto, in uno scritto che non è soltanto romanzo di formazione ma anche thriller psicologico il cui finale aperto lascia spazio a riflessioni mai banali né scontate.

Buona lettura 🙂 

"Gli sdraiati", di Michele Serra

E’ inutile stare qui a raccontarci delle storie. Diventare genitori è come sopravvivere a un maelstrom tropicale, che ci lascia nudi e infreddoliti, tremanti di paura, sulla spiaggia neanche tanto ospitale di un’isola sperduta chissà dove. Probabilità di essere recuperati in tempi brevi da una motovedetta di soccorso: zero.


“Quante volte invece di mandarti a fare in culo avrei dovuto darti una carezza. Quante volte ti ho dato una carezza e invece avrei dovuto mandarti a fare in culo” (p12) sintetizza magistralmente MSerra.

Per non parlare di colui che, avventatamente, anela a un po’ di meritato riposo da godersi, pregustando il momento, una volta che i figli abbiano passato l’età infantile (basta notti insonni, basta malanni dai nomi sconosciuti e dalle eruzioni cutanee ancora più misteriose, basta età dei perché e dei percome): ahinoi, clamoroso errore. Perché allo struggimento del fisico, provato da anni di malattie esantematiche, otiti e streptococchi di qualsiasi calibro e misura che la prole ha avuto il merito di passare, potenziati a mille, al genitore sistematicamente immunodepresso, farà seguito lo struggimento dell’animo. E per quello non c’è antibiotico che tenga.

“Ho la nitida sensazione che questo – esattamente questo – sia l’ultimo istante della tua infanzia. Scomparirà per poi riapparire sempre più raramente, nel corso degli anni, quel bagliore infantile che perfino nei vecchi ogni tanto rivela le tracce dell’inizio. Ma in questo momento il tuo volto addormentato ha una tale purezza di lineamenti da sembrare mai più eguagliabile, e dunque definitiva: contiene il suo addio agli anni (pochi) dell’innocenza” (p20)

“Non so cosa darei per potermi sedere con te, in un momento qualunque della nostra vita, davanti allo stesso paesaggio, e condividerne in silenzio la forma e l’ordine” (p45)

“Ho temuto di avere abdicato, come padre, e di averlo fatto per comodità e pigrizia. Ma al tempo stesso valutavo l’insincerità che mi sarebbe stata necessaria per fingermi depositario di un ordine vero, articolato in regole ferree e punizioni esemplari. Tra simulare un’autorità ben strutturata ma finta, ed esercitarne una gracile e fluttuante, però autentica, che cosa è peggio?” (p88)

Fare il genitore è, in sostanza – e a parte rari momenti di un qualcosa che potrebbe (potrebbe) accompagnarsi a sostantivi tipo: serenità, soddisfazione, gioia, appagamento e finanche felicità (uh) – una questione di coperte troppo corte; quelle che se ti copri la testa poi passano fuori i piedi e che sono pure un po’ mistolana sintetica: non scaldano quando fa veramente freddo ma se ti ci arrotoli troppo dentro fai delle sudate da guinnes.

Nella speranza di arrivare un giorno, guardando i nostri figli, a dire: finalmente posso diventare vecchio.

Buona lettura (e buon anno) 🙂

Post scriptum: questo post è per una cara amica il cui nome inizia per I.
Io sono sempre stata convinta che i libri belli non capitano per caso. Se ne trovi uno sul comodino, e non sai come sia piovuto in casa, allora quello è il Libro Giusto. E’ il Grande Demone Celeste dei libri, a parlarti. Sussurra, bisbiglia, devi stare pronto ad ascoltarlo perché passa solo ogni tanto e nemmeno a cadenza regolare, altro che SantaClaus. Quindi, grazie. E a buon rendere. (Le chiacchierate sull’inadeguatezza ci salveranno).  

"Wool", di Hugh Howey

Più riguardo a Wool Il guilty pleasure della fiction distopica rapisce sempre, non ci sono scuse. 
Poi, che questo particolare tipo di science-fiction abbia a sua disposizione oggigiorno un ventaglio di possibilità narrative praticamente infinito e multiforme per quantità e qualità – virando verso il mondo letterario sottile e stratificato dello steampunk o declinandosi, come in questo caso, attraverso la più classica spettacolarizzazione dell’inquadratura cinematografica di matrice post-apocalittica, questo è altro discorso.

“Wool” è interessante per almeno due motivi: l’ambientazione fortemente claustrofobica e il tema ecologico ad essa sotteso.
A seguito di una catastrofe di dimensioni planetarie naturalmente (ancora) non ben identificata – alcuni indizi rivelano comunque una responsabilità quasi certamente umana – e a causa dell’inabitabilità del suolo terrestre corroso da terribili sostanze tossiche rilasciate nell’aria, da centinaia di anni i sopravvissuti sono costretti a vivere prigionieri di immense città sotterranee contenute in giganteschi silo. Il senso di pesante e continua claustrofobia – che deriva  da un world-building francamente ben congegnato – non è così scontato e offre un’alternativa interessante alle consuete (e forse ormai un po’ abusate) ambientazioni della distopia classica, tra scenari cittadini di grattacieli diroccati e lande deserte spazzate dai venti tossici dell’inverno nucleare. 
L’autore dipinge così un’enclave sufficiente a se stessa, per il cui sostentamento è necessaria la costante attenzione, da parte di tutta la comunità stessa, nessun escluso, all’utilizzo consapevole delle risorse energetiche a disposizione: acqua, combustibili, cibo, energia elettrica. Un mondo in cui il concetto di “nuovo”, quasi inesistente, è soppiantato da quello di “riciclo” e sopratutto di “riparazione” (questione, questa del riparare, tanto cara ai nostri nonni… un po’ meno  a noi). Un mondo in cui ogni individuo è responsabile – più o meno attivamente a seconda delle singole capacità tecniche – del benessere della comunità: dal bambino piccolo a cui si insegna a riutilizzare, in un continuo sforzo di re-invenzione, tutti gli oggetti del quotidiano al meccanico esperto in grado di servirsi di ogni materiale e attrezzo disponibile – e di ogni conoscenza acquisita con gli anni – per costruire macchinari utili al sostentamento e riparare quelli già esistenti, ideati e assemblati da altri venuti prima di lui.

“Wool” vince col passaparola del self-publishing di Amazon: l’autore, autopubblicatosi direttamente sul sito nel 2011 con una narrazione breve e unica, ben presto acquista popolarità e viene esortato dal pubblico ad ampliare il plot, fino ad arrivare a concepire una serie composta da ben nove uscite, in cui non mancano neppure gli spin-off. L’opera è aiutata da una trama varia e ben organizzata e da un ritmo narrativo, come già detto, fortemente cinematografico (non a caso i diritti sono stati acquisiti da una major americana): se piace il genere, l’unica perplessità sta forse proprio nella serialità, che pare ormai d’obbligo in questi casi. Sono previste infatti altre due uscite (“Shift” e “Dust”) e il dubbio è che si incorra ancora una volta nelle difficoltà più classiche proposte da trilogie simili: varietà eccessiva di personaggi e  di situazioni difficoltose da seguire anche a causa dei fisiologici tempi di attesa tra un volume e l’altro, per non parlare dei naturali “cali” di stile. Forse “Wool”, trasformandosi da stand-alone short story a “Silo trilogy” ha perso l’occasione di distinguersi nel mare magno delle narrazioni del suo genere da cui, con un colpo di reni ben assestato, era riuscita ad emergere – e con salto doppio, contando anche gli esordi in autopubblicazione. 

Buona lettura 🙂

"La cena di Natale", di Luca Bianchini

Più riguardo a La cena di Natale di Io che amo solo te (Si sa, Natale non è per i cuori deboli. Né per quelli troppo felici, né per quelli troppo tristi). 

LBianchini si inventa un Christmas Carol tutto all’italiana che se da una parte si affida, per ambientazione e ritmo narrativo, al classico, evocativo racconto natalizio dall’altra strizza elegantemente l’occhio niente meno che …al cinepanettone nostrano.

I protagonisti che ritroviamo attorno al desco di Matilde per il cenone della Vigilia [che a Polignano non si festeggia mai, ma quest’anno ci sta bene, “come fanno a Bari” (p26)] sono quelli che abbiamo imparato a conoscere leggendo #iochamosolote: Ninella e don Mimì, la First Lady, i due figli Damiano e Orlando, Nancy e Chiara, e poi ancora zia Dora e zio Modesto, Pascal il truccatore dei vip, Tony il latin lover e tutti i co-protagonisti che avevano reso l’opera quel caleidoscopio di mirabolanti avventure che tanto ci avevano divertito – e fatto riflettere.

Troviamo questa commistione di registri fin dal principio, nella poetica delicatezza di una nevicata sul mare:
«Mamma mè… nevica» disse, e per un attimo tornò bambina. Si ricordò di quell’anno in cui la scuola aveva chiuso una settimana e lei se n’era restata in casa a guardare la finestra dicendo: «Ma al mare non si appiccica» (…). Per Ninella era quella la neve. Certo negli anni successivi non si sarebbe messa in macchina per andare a vederla a Monopoli, come avevano fatto alcuni compaesani. Lei si spostava a Monopoli solo per Mondo Mocassino” (p9-10)

Mondo Mocassino. La chiave di lettura sta tutta qui, come per l’opera precedente. Perché non ce n’è di storia: l’italiano medio vorrebbe de-provincializzarsi, fare l’internazionale, vivere la globalizzazione. Ma non gliela fa, per quanto ci si metta di impegno. Col risultato unico di de-strutturarsi e de-personalizzarsi, senza riceverne alcun guadagno, né arricchimento personale.

Così, il biondo-Kidman che Lucia Coiffeur (no, pardon, Lucia hair-designer, dopo il corso di aggiornamento fatto a Bari) convince Ninella a mettersi in testa, su di lei fa soltanto “una di quelle belle russe che vanno a Forte dei Marmi” (p89). Il bidè quadrato nel bagno padronale a casa di Chiara, novella sposina, sarà pure di gran design ma è di uno scomodo pazzesco per non parlare dei rubinetti a fotocellula di palazzo “Petruzzelli” (NB: piano alto condonato), che non ce li ha nessuno a Polignano ma poi a parte il fatto che ci vuole una laurea in ingegneria aerospaziale per imparare ad usarli, ogni volta “ti sembra di entrare in autogrill” (p99). E la cena di Natale? Ah no, nessun dettaglio, qui vi lasciamo intatta la suspance!

Una mercificazione della “roba” (pure all’opposto: zia Dora riciclerebbe pure un cewingum masticato se potesse) che ad un certo punto si pretende di applicare anche ai sentimenti, specie all’amore, tra biechi ricatti straboccanti livore, cadeaux esagerati che rigurgitano, colpevoli, affetto tardivo e postumi sensi di colpa, baci clandestini di mani strette sotto ai tavoli e cornini malcelati che tutti sanno ma che nessuno vuole vedere.

Per fortuna ci pensa il Natale a farci diventare tutti un po’ più buoni.
O forse alla fine buoni lo siamo sempre, solo che delle volte ce ne dimentichiamo.

Buona lettura 🙂

ps. prestate attenzione alla colonna sonora. Che non si vede (molto), ma c’è.

"La morte delle api", di Lisa O’Donnell

Più riguardo a La morte delle api Ci aveva pensato anche JKRowling, in questi ultimi anni, a entrar nei panni di una moderna Cassandra mai creduta ma noi, belli caldini nel nostro bozzolo di densa nebbia Harrypotteriana, così magica e naive, non ci avevamo fatto troppo caso: Dolores Umbridge e la villetta suburbana dei coniugi Dursley erano così lontane. Poi, ovviamente non sazia anzi spinta da sacro furore e puntiglio, per tentare di aprirci gli occhi rincarò la dose parlandoci della lieta e ridente cittadina di Pagford. E finalmente anche il suo message in a bottle arrivò a destinazione.
 
Con “La morte delle api” Lisa O’Donnel, un’altra scrittrice UK (almeno di origine – scozzese: ora vive a LA) si imbarca nella difficile avventura del raccontare il Grande Impero alle giovani generazioni. Non di come lo si vorrebbe che fosse (ancora), o di come lo si immagina che sia (ancora), ma di come in effetti è. Sono molti i tratti che accomunano i lavori degli scrittori che si cimentano in una simile impresa (da Zadie Smith a Nick Hornby) e su questi tanti uno spicca in particolare, ben presente anche nell’opera della O’Donnell: l’assoluta lucidità di giudizio, che grazie al fatto di essere sostenuta da una profonda cultura letteraria, storica e antropologica, non scade mai né nel romance sentimentale né, al contrario, in un didascalico e asettico naturalismo. 
 
Una storia a tre voci, narrata in prima persona pezzo per pezzo (come la camminata del gambero, due passi avanti e uno indietro) da tre punti di vista diversi e complementari: quello delle sorelle Marnie e Nelly Doyle – rispettivamente di quindici e dodici anni – e dell’anziano vicino di casa Lennie.
 
“Oggi è la vigilia di Natale. – ci illumina Marnie nell’incipit, con quel misto di rudezza e spavalderia a cui presto ci abitueremo – Oggi è il mio compleanno. Oggi compio quindici anni. Oggi ho seppellito i miei genitori in giardino. Non mancheranno a nessuno”. (p9)
 
Si perché la provincia suburbana in cui Lisa O’Donnell ci proietta tutto d’un colpo non è quella pittoresca dei cottage ottocenteschi, degli inner-pub cari ai turisti di tutto il mondo, dei golosi cupcakes burrosi e della Royal Family in abiti confetto. E’ il regno di Mark, Spud, Sick Boy, Tommy e Francis: un mondo lontano, fatto di villette fatiscenti circondate da giardini-discarica dentro le quali adulti quarantenni, disoccupati, perennemente ubriachi e strafatti giocano a fare i genitori occupandosi alla bell’e meglio di figli appena preadolescenti e già corrotti dalla delinquenza, dall’alcool e dalle pasticche, nella più assoluta indifferenza generale che regna sovrana all’interno di questi quartieri-dormitorio.
“Adesso ci sono immigrati con lauree che si prostituiscono, vendono droga e fanno tutto quello che devono per sopravvivere all’inferno che chiamiamo asilo politico. Immagino che i veri eroi siano quelli che vengono qui e sopportano i buoni alimentari, gli abusi della gente, i vestiti di seconda mano e le case diroccate, per non parlare delle montagne di scartoffie necessarie per farsi accettare in un Paese che non conosce neppure la tua lingua” (p18-19)
 
“Insegnano persino il gaelico, anche se non capisco a che diamine serva. (…) Dovrebbero insegnare lo spagnolo e il francese, e anche il tedesco, le lingue del mondo (…) e invece devi pensare alla Scozia (…) sempre a rimestare nel passato, con un Parlamento che dà la priorità alla lingua parlata in posti senza nessuna opportunità lavorativa, piccole isole dove allevano mucche e si sposano tra parenti” (p52)
 
Un girone infernale di una banlieue multietnica all’interno della quale Marnie non si dimostra eccezione: a quindici anni fa sesso non protetto con chi le capita a tiro – e con chi la costringe a farlo – e si è già sottoposta ad un aborto; beve, prende pasticche (quando capita le smercia anche), è sboccata e fa di tutto per non piacere a nessuno – e per la verità all’inizio non piace neppure al lettore. E’ irritante e sgradevole, questa ragazza-bambina che avrebbe tutte le carte in regola per emergere (una su tutte, la passione per lo studio e per la scuola che la porta ad ottenere sempre i voti migliori della classe) e che invece fa di tutto per perdersi, vittima di una disperazione profonda e inenarrabile:
 
“Noi siamo qualcosa che le era accaduto e anche se ci teneva le mani e ci baciava la fronte e qualche volta ci rimboccava le coperte, noi suoi occhi c’era sempre un battito, come se pensasse *Che ci faccio qui*” (p56-57)
 
“L’intelligenza dovrebbe essere la ricompensa per le vergini non fumatrici di questo mondo, non per un’adolescente moralmente corrotta con due tossici sepolti nel giardino di casa” (p33)
 
La trama è tutta qui, poche parole messe in fila da Marnie, un pugno di briciole che una ragazza interrotta ci lancia sotto al tavolo, come dar degli avanzi a un cane di casa un po’ disprezzato. Eugene e Isabell sono morti – in che modo lo sapremo poi – e le due ragazze ne hanno seppellito i corpi in giardino, terrorizzate all’idea dell’arrivo dei servizi sociali. Sì, perché tempo un anno e Marnie avrà sedici anni e diventando maggiorenne potrà occuparsi per legge di se stessa e della sorella Helen – detta Nelly. Ragazza bellissima, dal talento musicale perfetto, e affetta da una grave forma di autismo. E’ una corsa contro il tempo quella di Marnie e Nelly, che si impegnano con tutte le loro forze per nascondere la verità dei due corpi distesi sotto pochi centimetri di terra dura e incolta, in un crescendo di bugie e inganni costruiti ad arte per celare l’orrore scavato nel giardino e nell’anima.
 
Siccome però il diavolo, come si dice, fa le pentole ma non i coperchi, ecco lo zampino dell’imprevisto che fa cu-cu dalla porta sul retro, impersonato da tutta una congrega di comprimari che regalano alla trama la varietà di cui necessita per sostenersi fino all’epilogo della vicenda.
Abbiamo Lennie, il vicino di casa, ora vecchio e malato, che si prende l’onere di accudire le due ragazze fintanto che i genitori non torneranno (partiti, a quanto dice Nelly, per un lungo viaggio in Turchia) nel tentativo di salvare se stesso purgandosi del male commesso in passato. Mick, il proprietario del carretto dei gelati, alias lo spacciatore a cui Eugene deve una cospicua somma, più che mai deciso a recuperare il bottino visto che Vlado, il pusher della zona, un quarantenne di origini russe che di segreti ne nasconde più d’uno, lo stringe d’assedio e lo minaccia di morte nel caso in cui non riesca a consegnare la cifra dovuta. E poi ancora, come se non ne avessimo già a sufficienza, il nonno MacDonald, ubriacone di vecchia data, che riemerge dal nulla dopo decenni di latitanza illuminato – pare – dalla luce divina della conversione religiosa e convinto più che mai a riallacciare i rapporti con la figlia Isabell; le amiche di Marnie, Kimberly “Kimbo” e Susie; e infine il giovane Kirkland, di buona famiglia, innamorato di Marnie o forse soltanto delle pastiglie che lei ogni tanto gli vende.
 
Se Marnie è il buio che inghiotte, Nelly è la purezza del sentimento e dell’innocenza che rimane tale anche nell’orrore, ma non per consapevole sforzo e presa di posizione quanto per un puro atto di inconscia follia. Ti stringe il cuore questa bambina spaurita ignara delle brutture del mondo eppure così presente a se stessa, pronta a tutto pur di difendere le persone amate – Marnie su tutti.
 
“La morte delle api” è una fiaba horror da leggere tutti insieme, nonni e nipoti, papà e figli, nella notte di Halloween; ma è anche, e soprattutto, un dipinto crudo e veritiero del mondo che ci circonda. L’abilità dell’autrice, che non per nulla con questa opera ha vinto il Commonwealth Prize 2013, è la grande sensibilità mostrata nell’affrontare temi difficili attraverso una narrazione sempre lieve e delicata eppure scevra da qualsiasi emendamento di carattere censorio. Una scrittura precisa che senza tanti giri di parole ma mai in maniera cruenta e gratuita racconta alle giovani generazioni quel qualcosa di “meno buono” che esiste in quella parte di mondo allo specchio in cui le api muoiono.
 
Buona lettura 🙂

ps. Domande, domande, domande. La trama non vi è nuova? Perché qui noi si parlava di “grado zero”? CVD.

"Io che amo solo te", di Luca Bianchini

Più riguardo a Io che amo solo te (Ovvero – elogio della nota in parentesi).

In un mondo in cui sempre più spesso parlare di “nazionale” equivale a dire “provinciale”, #iocheamosolote ci ricorda, un po’ controcorrente, che la regionalità – sia di abitudini, sia di lingua – è caratteristica peculiare della nostra penisola (non fosse altro che per un paio di avvenimenti storici passati) e andrebbe salvaguardata e difesa con la stessa cura che il WWF riserva all’Ailuropoda Melanoleuca.

Per non parlar poi, appunto, della questione linguistica, uno dei tratti più caratterizzanti della letteratura italiana del Novecento: questo fatto del bilinguismo endogeno, che ci portiamo dietro al pari delle nemesi storiche di cui sopra e che ha influenzato la produzione letteraria di tutti gli esponenti del mondo della cultura italiana del secolo.

Sicché la cronistoria dello sposaliziodi Chiara e Damiano – lei, la figlia venticinquenne della sarta più brava del paese, lui, il rampollo di Don Mimì Scagliusi, “re delle patate” (si, proprio campi e campi di patate, esportate in tutto il territorio nazionale e pure oltre): un banale matrimonio (sempre che possa esistere, poi, un matrimonio “banale”) contemporaneo (italianissimo fino al midollo, per di più, data la “piena …regionalità” dell’evento) pieno zeppo di tutte quelle implicazioni, trame sottese, imprevisti, fraintendimenti, commedie degli equivoci, scoop rivelatori etc etc che caratterizzano le nozze di chiunque – diventa un pretesto leggero e sottile per parlar di tutt’altro.

Delle bellezze un po’ selvatiche dell’Italia che muore, per esempio, naufragate nel mare magno e senza vento dei tour organizzati:

“(…) era convinta che solo a Polignano ci fosse quella luce fatta di rocce e di blu” (p32)

“Chi è nato su uno scoglio lo sa: il mare ha sempre una risposta e una carezza per te” (p207)

“Non c’erano strappi al paesaggio, interrotto qua e là solo da qualche muretto a secco. L’unico elemento belligerante era il vento, (…) Da un lato, gli ulivi si attorcigliavano su se stessi con le loro storie secolari” (p63)


“(…) poi lunedì finalmente si parte per la crociera. (…) C’imbarchiamo a Bari e facciamo tutto il Mediterraneo. Io volevo andare alle Maldive ma Damiano sulle tratte lunghe ha troppa paura dell’aereo, mannaggia a lui, che i suoi ci pagavano il viaggio anche in Australia, se volevamo andare” (p87-88)

Delle tradizioni locali perdute e sostituite da accrocchi internazional-popolari mal digeriti (cielo, in tutti i sensi!) che lungi dal nobilitare il desco, lo rendono pacchiano e stucchevole, omologante e omologato:

“Grand Buffet di Antipasti: Crudo di Mare / Cozze Gratinate / Sushi Rivisitato / Ostriche al Gratin, Tempura di Verdure / Gamberi Croccanti / Calzoncini di Ricotta / Rombini al Groviera / Polpettine / Mozzarelline alla Milanese / I salumi del buongustaio con delizie del casaro / Caponatina leggera di zucchine / Crudité di verdure.

Il gran buffet di antipasti era un trionfo di abbondanza e varietà, frutto di una trattativa quasi più estenuante della scelta della sala (…) L’unica scelta all’unisono era stata il Crudo di Mare, perché dava prestigio al menu. Il resto fu il risultato di lunghe meditazioni, in cui misero bocca tutte. (…) Ognuna ebbe la sua piccola vittoria: Matilde portò a casa le polpettine; Ninella le mozzarelline alla milanese per impressionare zia Dora; Chiara il sushi rivisitato perché le piaceva l’idea della rivisitazione; Nancy le crudité di verdure per avere qualcosa di francese e ipocalorico. Il risultato fu un menu ^un po’ incoerente^ come provò a dire il direttore di sala, che appena vide le loro facce subito si corresse: ^Incoerente ma decisamente interessante!^” (p167)

O degli effetti della globalizzazionespecie sulle nuove generazioni – lungi dall’autore l’intento didattico / moralista, per carità – oramai assuefatte a una certa mitologia spiccia di eroi da tubo catodico – dal Grande Fratello a XFactor, passando dal (N)espresso Clooneiano – tanto da non riuscire più a costruirsi addosso una propria identità in primis personale, ma poi neanche culturale.

“Mi sono arrivate le cialde con tutti i gusti. (…) All’amaretto o alla vaniglia speziata?” (p77)

“Regàle, come gli aveva consigliato lui: – Pensa sempre a Kate Middleton -” (p148)

“Nella sua mente, il presentatore gridava al microfono: – Viene da un piccolo paese della Puglia… ma ha conquistato l’America… con il suo disco d’esordio ha scalato tutte le classifiche… ha venduto milioni di dischi nel mondo… Aretha Franklin l’ha definita la sua unica erede… ecco a voi la nuova regina dell’R&B… la Whitney Houston del Tavoliere… ladies and gentlemen… Nancy Casarano! -” (149)

“Nancy Casarano, per te Xfactor finisce qui” (p149)

“Il bacio al ralenti sugli scogli venne interrotto da un grande Hip Hip Hurrà!, che coprì il sottofondo di My Heart will go on” (p192)

Salvaguardare e difendere, va detto, deve funzionare come con la pratica del retwitt – which is not endorsement. Se da un lato la così vituperata provincialità italiana regala cammei che ci strappano un sorriso lieve di delicato affetto, autoironia e disincanto, e che raramente troviamo in altri luoghi e in altri laghi (mi viene in mente soltanto quel genio della Rowling, al momento), dall’altro ci ricorda, sempre attraverso le parole di LBianchini, qualcosa di più profondo e meno romance:

“Se nella vita non vorrai avere problemi, gli uomini lasciali comandare, o almeno lasciaglielo credere. L’amore è innanzitutto non rompere i coglioni” (p25-26)

Così, il sorriso che ci prende leggendo le prime pagine di #iocheamosolote si tinge di amaro. Ma è un amaro che fa bene, perché spronandoci a fare meglio, attraverso anche una sana autocritica, profuma (ancora e nonostante tutto) di speranza.

Buona lettura 🙂

Official hashtag: #iocheamosolote
E se vi fa piacere, continuate a seguire le nostre #LBianchiniquotes, che tanti amici (che ringraziamo) hanno retwittato

"Abbiamo sempre vissuto nel castello", di Shirley Jackson

Più riguardo a Abbiamo sempre vissuto nel castello L’ultimo fine settimana di agosto va celebrato. E per farlo degnamente, vi consiglio Shirley Jackson.
Valente giornalista (The New Yorker) e scrittrice, nasce a San Francisco nel 1916 e muore nel 1965 per un improvviso attacco cardiaco. Effetto collaterale, forse, degli psicofarmaci di cui si serviva.
Un personaggio piuttosto particolare, un’anima di talento ed estro notevole, esemplificato nei suoi lavori letterari che, pur focalizzati su temi e generi ben precisi, non mancano in versatilità, spaziando dalla narrativa per bambini (Nine Magic Wishes), al racconto lungo (i più noti: La Lotteria – 1958; L’incubo di Hill House – 1959; Abbiamo sempre vissuto nel castello– 1964), al teatro. Tutte opere che l’hanno resa, per stessa ammissione dei diretti interessati, musa ispiratrice di Stephen King, Neil Gaiman, Richard Matheson.
Che cos’è “We Have Always Lived in the Castle”. Per gli amanti delle classificazioni, lo si potrebbe ascrivere in primis tra gli horror di ispirazione gotica, perché gli ingredienti ci sono tutti: dal delitto principe, ossia quello della camera chiusa (per altro tanto attuale nella narrativa di genere, anche se declinato con modalità differenti) al maniero in decadenza, simbolo di antiche vestigia e fortune sperperate. Potremmo pensare anche al mystery e al paranormale: la narrazione strutturata secondo le linee guida del punto di vista interno, aderentissime alla norma, aiuta assai.
Eppure tutte le classificazioni scivolano, lasciando insoddisfatti. Questo accade per un semplice fatto: perché “We Have Always Lived in the Castle” è l’opera zero, quella da cui, in un certo senso, tutto parte.
Abbiamo una narrazione che da subito inquieta, un incipit folgorante in cui la protagonista, prendendo perentoriamente la parola, spiega se stessa ai commensali (ops) invitati al banchetto letterario offerto dall’autrice; e lo fa con una tal grazia rovente di leggiadria letteraria da sminuzzare in un solo colpo tutte le descrizioni violentemente cinematografiche a cui ci siamo un po’ assuefatti ultimamente:
“Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leon e l’Amanita Phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.” (p9)
Shirley Jackson non necessita di grandi invenzioni o effetti speciali. Si limita ad esercitare la raffinatezza della sua arte narrativa, focalizzata sull’analisi psicologica. Sottogenere: la malattia mentale, argomento del quale probabilmente non è digiuna.
La forza della scrittura della Jackson è tale perché dell’argomento principe, l’analisi di una psiche corrotta e dei suoi effetti (ecco perché autrice così cara a SKing, che le dedica “L’incendiaria”) ce ne rende partecipi fin dalle prime battute, adottando il punto di vista della protagonista che, da interno qual è, resta per definizione stessa imparziale, profondamente inattendibile.
Ci troviamo prigionieri di un castello di ombre e specchi dentro cui la scrittrice/protagonista si muove da padrona: nella camera chiusa di una cucina antica, in un maniero in rovina, e in parallelo, tra i meandri di una narrazione in cui il lettore è soltanto spettatore. Vittima di un refrain inquietante e surreale, il lettore affronta a poco a poco il dramma e l’incubo della malattia mentale, aiutato da una struttura volutamente a-temporale che trascina verso uno straniamento e una dissociazione dal reale sempre più evidente e profonda. La dimensione dello spazio tempo è dichiaratamente distorta e incongrua: l’azione è sicuramente ambientata negli Stati Uniti, ma il periodo storico ci rimane ignoto, come rimane ignoto agli occhi di Mary Katherine. Ci sono automobili e frigoriferi, ma parliamo di una casa di campagna vecchio stile, ricca di broccati e passamanerie nei cui bei salotti i membri della famiglia, vestiti di tutto punto, si ritrovano per cena o per essere intrattenuti dal dolce suono dell’arpa della bella figlia maggiore Constance. Le stagioni vanno e vengono e profumano di natura, ruscelletti limpidi di campagna, erba di giardini e sole estivo, che illumina la bella villa dei Blackwood e i terreni fertili che la circondano: un non-luogo che solo alla fine si rivelerà in tutta la sua crudele e tragica realtà.
E’ in particolare la psiche infantilead essere oggetto di analisi (nota a margine, siamo sempre al grado zero, ripreso anche ultimamente): dalla figura della protagonista fino al gruppetto dei monelli del villaggio, autori del ritornello di cui sopra, che conficcano a cuneo (come nei migliori SKing d’annata) nella mente e dei personaggi del dramma, e in quella del lettore:
“Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo mi avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire” (p27 et al.)
Atmosfere anni ’30 che ci ricordano un testo un po’ più recente, ma egualmente inquietante: “La casa per bambini speciali di Miss Peregrine, di Ransom Riggs.
D’altra parte, cosa ci si può aspettare dall’autrice di una piece teatrale dal titolo “The Bad Children”, adattamento della favola di Hansel e Gretel?
Buona lettura 🙂

"Niceville", di Carsten Stroud

Più riguardo a Niceville Il 28 settembre 2011, poco meno di due settimane prima dell’annuale kermesse di Francoforte, tutti gli editori presenti all’evento culturale simbolo della “Mainhattan” europea ricevono via email il primo capitolo di un romanzo intitolato “Niceville”, a firma anonima. Il giorno successivo arriva il secondo capitolo, e poi il terzo.

Il passaparola dirompente – perché i tre capitoli sono davvero interessanti – produce una reazione a catena che fa del titolo una delle novità più contese dalle case editrici europee (ma non solo) e il successivo battage pubblicitario(compreso booktrailer e website dedicato) lo rende uno dei casi letterari più commercializzati dell’anno. Mistero anche sull’autore, che si rivela soltanto dopo più di un mese dall’exploit di Francoforte: Carsten Stroud, di natali tedeschi ma residente in Canada, già scrittore, sia da solo sia insieme alla moglie, di racconti e romanzi vincitori di diversi premi letterari.


Gli ingredienti per il successo – o per lo meno, per la creazione di un caso letterario – ci sono tutti, e tutti compresi in quei primi tre capitoli che l’autore aveva circolato con incontestabile abilità e un pizzico di furbizia.

Ci troviamo (pare) di fronte ad un thriller di stampo moderatamente classico. 
Siamo a Niceville (Nic-EVIL-le), tranquilla cittadina del profondo sud degli Stati Uniti. Prati verdi e curati, edifici in stile, antiche famiglie fondatrici (nota a margine, pare in voga ultimamente l’ambientazione urbana circoscritta, una sorta di “camera chiusa” socialmente allargata dentro cui nulla è così come appare). Il detective Nick Kavanaugh, ex militare dell’esercito, coadiuvato da una squadra ben fornita – e ben dettagliata – di colleghi e subalterni indaga sulla sparizione di un ragazzino di dieci anni, Rainey Teague, misteriosamente “svanito” a metà del tragitto tra casa e scuola.

Peccato che le telecamere di sicurezza di un negozio di anticaglie presso la cui vetrina si era intrattenuto alcuni secondi mostrino delle sequenze inquietanti che poco hanno a che fare con un rapimento “da protocollo”. Peggio ancora quando il bambino viene ritrovato dopo alcuni giorni nel cimitero cittadino, vivo ma in stato di shock, sepolto dentro una cripta che appare incongruamente sigillata da decenni.

Un anno dopo, il detective viene chiamato ad indagare su altre due sparizioni che presentano tratti inquietanti perché comuni al caso Teague.

Nel frattempo, due poliziotti corrotti si organizzano per rapinare la filiale di una nota banca nazionale, per un bottino di oltre due milioni di dollari e quattro omicidi a carico. Intanto, dall’altra parte della città il tale Tony Block, marito violento e misogino, appena condannato per stalking nei confronti di moglie e figlia, si appresta a compiere la propria, personale vendetta “against the world”.

Tutti avvenimenti soltanto a prima vista scollegati l’uno dall’altro.


CStroud osa quel che pochi hanno tentato – e ancora meno sono gli autori riusciti a colpire nel segno (uno su tutti, SKing) – : ossia mescolare il genere del thriller (sottogenere: poliziesco) con quello dell’horror (sottogenere: ghost story).

Ne risulta un ibrido fortemente instabile, piegato com’è a metà strada tra una risoluzione della trama che passa attraverso la spiegazione logica del reale e la morale comune (nel caso del sottogenere poliziesco impersonata dai tutori della legge e forte di una struttura consecutivamente chiara e riconosciuta), e tra, al contrario, una mescolanza di avvenimenti paranormali che hanno come obiettivo proprio il disallineamento della struttura narrativa di partenza e l’accettazione di ben determinati codici propri della narrativa fantastica.

I puristi di entrambi i generi potrebbero storcere il naso – e l’hanno fatto, visti i giudizi sul web, specie quelli italiani (che sono stati i primi, visto che Longanesi si era aggiudicata per prima i diritti di pubblicazione). Eppure è innegabile l’estrema funzionalità del testo: lineare ed equilibrato, riesce a mantenere sempre alta la tensione senza sacrificare le parti descrittive, strizzando naturalmente più di un occhio alla cinematografia, in puro stile USA. 
Non ultimo il fatto che in certi punti CStroud stupisce per l’acuto senso ironico (la scena del padre ubriaco che sistema in mano al figlio un tosaerba, vista con gli occhi di uno dei protagonisti, è magistrale) e per la profonda (pare) conoscenza di autori e opere, sia letterarie sia cinematografiche, di spy-thriller.

Chiaramente il testo va affrontato senza pretesa di immedesimazione: siamo di fronte a un divertissement estivo, per altro neppure così leggero, data la quantità di rimandi interni e personaggi (nota a margine: munitevi di un taccuino o inviate una email alla casa editrice con preghiera di un summary a inizio testo) cui dovrete prestare la massima attenzione. Eh sì, perché non ve la caverete così, sforzandovi di arrivare alla fine (e ci arriverete, non riuscirete comunque a mollare prima): perché, what a surprise, non stiamo parlando di un romanzo autoconclusivo, ma di una trilogia: il secondo volume, “The Homecoming”, è già pronto, e il terzo, “The Departure”, in lavorazione.


D’altra parte, chi ci provò a fare il mischione cinematografico, con gran successo, fu Chris Carter, “già” nel 1993. Che dire poi del duo David Linch / Mark Frost? Il tormentone, se ve lo ricordate, è datato 1990.

Buona lettura 🙂

"I Dodici", di Justin Cronin

Più riguardo a I dodici Io ve lo consiglio, il sequel di “The Passage”, semplicemente perché Cronin riesce nell’impresa e sarebbe un peccato perdersela, l’opera di questo dotato discepolo di Stephen King.
Il testo affascina: per impianto narrativo, trama, linguaggio.
Cronin ama immergere il lettore in una orchestrata trama di piani temporali sovrapposti che intreccia e organizza con abilità, guidandolo sapientemente tra rimandi di luoghi, tempi e protagonisti le cui correlazioni tra loro sono o rese subito evidenti o – molto spesso – lasciate in sospeso, affidate all’abilità del fruitore del testo che Cronin rende quindi parte attiva all’interno del processo narrativo.
La tecnica del flashback (e del flashforward) offre la possibilità, sia all’autore, sia al lettore, di gestire lo sviluppo dei personaggi e i conseguenti collegamenti, mentre l’espediente narrativo della narrazione esterna, utilizzata a tratti, attraverso l’inserimento di stralci di finta documentazione ufficiale risalente ad un periodo successivo a quello in cui si sviluppa la narrazione e di piccoli spoiler relativi ai personaggi principali, aiuta il lettore nella gestione della trama distopica creando coinvolgente aspettativa e suspance.
La narrazione trova un suo valido equilibro tra scene di azione ben congegnate e parti descrittive. Queste ultime dimostrano l’inconsueta abilità di uno scrittore evidentemente a proprio agio all’interno di quella sub-parte della narrativa fantascientifica più specificamente apocalittico-distopica che necessita, per mantenere credibilità e struttura, di una parte narrativa forte e particolareggiata, ma equilibrata e strategicamente ben sviluppata: in questo, Cronin ha imparato la lezione, studiando non solo Matheson e McCarthy ma anche il più datato Ballard, creando un mondo distopico dalle caratteristiche concrete e reali, mai eccessive, ridondanti o inutili per l’economia della trama, e per questo coinvolgenti e appaganti per il lettore che non se ne sente infastidito.
I personaggi sono tutti, protagonisti e comprimari, ben delineati e traspare evidente l’attenzione, per non dire il fascino, dell’autore nei confronti della parte negativa rappresentata dai dodici individui, le creature frutto dell’esperimento militare drammaticamente fallito le cui conseguenze devastanti Cronin ha immaginato, e raccontato, nel primo volume. Fascino che non si limita ad un superficiale apprezzamento “cinematografico” ma lo travalica nel nome di un’intima com-passione verso il genere umano e le sue debolezze.
Nota di merito alla traduzione di GL Staffilano: si apprezza perché, mai anonima, rende appieno la dinamicità della narrazione senza perdere in compostezza e varietà, in un crescendo di aggettivazione sempre attenta e puntuale, e fluidità nell’organizzazione e nel mantenimento della struttura sintattica originale.
Nota a margine: il perché dell’etichetta #booksformums, nonostante la mole: perché in #ereader funziona. La lettura scivolerà e grazie alle numerose suddivisioni tra capitoli e paragrafi si adatterà agilmente a tempi ristretti. Provare per credere.

Buona lettura 🙂

"La nemica", di Irène Némirovsky

Più riguardo a La nemica Luglio 1928. Tra una pagina e l’altra di David Golder, Irène Némirovsky scrive e fa pubblicare sotto lo pseudonimo di Pierre Nerey il racconto lungo “L’Ennemie”.
D’obbligo, per non rimanerne delusi, avvicinarsi a questo testo, inedito in Italia e ora proposto (Febbraio 2013) da Elliot, più con intento squisitamente letterario che con pretesa di immedesimazione, impregnato com’è di elementi autobiografici e ingredienti evidentemente melodrammatici, data l’epoca e il contesto storico-sociale nel quale risulta inserito.
Il rapporto violento e distruttivo di una figlia con la propria madre è al centro della trama e rispecchia pienamente la relazione travagliata di Irène con Fanny: “Raffinata e autoritaria: così doveva restare Fanny nella memoria familiare, e così l’ha dipinta la figlia nel romanzo della propria infanzia amara [Le Vin de solitude, I 7]: Alta, ben fatta, con un portamento regale. In realtà era piccola, un metro e sessanta al massimo. Sempre incipriata anche in tarda età, sempre timorosa che i baci della figlia potessero rovinarle il trucco e sempre allegra, perché la tristezza invecchia e sciupa il viso (…) Ma Anna Margulis era una donna, oltre che lasciva e bugiarda, anche venale” (OPhilipponat / PLienhardt, La vita di Iréne Némirovsky, Adelphi 2009 p34)
Il titolo dell’opera, che è tratto da un sonetto di Baudelaire: “Fu la mia giovinezza un uragano cupo: | improvviso splendeva di tanto in tanto un raggio. | Fulmini e pioggia han fatto un tale scempio | che solo nel giardino qualche frutto rosseggia” (Op. Cit. p149) si riferisce chiaramente all’“innocenza devastata da Fanny, più rivale che madre” (ibid.). 
Effettivamente, molti gli episodi raccontati che paiono autentici, per i particolari vividi e la crudezza della descrizione accurata: la scena in cui la figlia sorprende la madre in compagnia dell’amante, oppure ancora: “Nei loro primi soggiorni parigini, i Némirovsky non potevano ancora permettersi alberghi di lusso. (…) Irocka e la governante vennero alloggiate altrove, quasi sempre in albergo di seconda categoria. La romanziera avrà così tutto il tempo di costruirsi in uno dei suoi primi romanzi, l’Ennemie, un’infanzia bohemienne. “Sapeva che non sempre era opportuno andarsi a ficcare tra le gonne di mammina quando costei passeggiava lentamente sotto gli alberi con un signore sconosciuto” (L’Ennemie I 1). La sua fu peraltro un’esistenza quasi da orfana” (Op. Cit. p31-31).
Ancora, la scena del suicidio della protagonista Gabri: “E’ quasi certo che all’età di vent’anni sia stata sfiorata dalla medesima tentazione” (Op. Cit. p125) o quella della violenza carnale, che rispecchia – secondo quanto raccontato da Irène stessa in una lettera all’amica Madeleine – un episodio della vita stessa della scrittrice, fortunatamente uscita illesa dall’esperienza grazie all’intervento di alcuni amici (Op. Cit. p123-124). Oppure la descrizione di Biarriz (“Una novella Sodoma” – Op. Cit. p138) e dell’Hotel du Palais, frequentato con regolarità dalla famiglia Némirovsky:
http://it.wikipedia.org/wiki/Biarritz
e anche – da qui il nome “Génia” (l’amante violento di Gabri) – la maledizione dell’ereditarietàdel sangue (Irène non fa mistero delle sue avventure di gioventù, specie durante gli anni della Sorbona passati tra amicizie, divertimenti, balli e notti insonni).
Eppure a Iréne questa vendetta truce e sadica non porta alcun benessere: nel racconto, il complesso rapporto tra la figlia e la madre viene ridotto ad una semplice rivalità amorosa e ciò che rimane più impresso è il sentimento negativodell’odio e dell’autodistruzione (che più che distinguere le due donne, le avvicina e le pone allo stesso livello) piuttosto che l’orgoglio della superiorità morale. Questione spinosa che verrà risolta tra le pagine di Le Bal, uscito nel febbraio del 1929 sempre a firma Nerey: “In esso IN abbandona il tono a volte patetico dell’Ennemie per soffocare i suoi singhiozzi in una feroce risata. Quei sarcasmi, quell’arte di scrivere dialoghi grossolani ma senza compiacimento, (…) la base morale di quella violenta satira sociale saranno l’impronta del suo stile fino alla metà degli anni Trenta” (Op. Cit. p154).
Ma le due opere, pur così differenti l’una dall’altra, continueranno ad in intrecciarsi tra loro in una fitta rete di echi e rimandi, non solo sulla carta, ma anche nella trasposizione cinematografica: “Nel film (Le Bal) Rosine Kampf si fa chiamare Jeanne, uno dei tanti nomi dietro cui ama camuffarsi Anna Némirovsky. E come nell’Ennemie, è l’irruzione di un amante a provocare la vendetta di Antoniette. E’ la prima volta che Irène osa sfidare così apertamente la madre, e sul grande schermo” (Op. Cit. p206).
http://www.voirunfilm.com/fiche-film/Le+bal-61305.html
Buona lettura 🙂