“I ragazzi della Nickel”, di Colson Whitehead (trad. Silvia Pareschi)

“Sono bloccato qui, ma cercherò di ricavarne qualcosa – si disse – e di uscirne in fretta” (pag67)

E’ passato del tempo da quando Colson Whitehead venne in Italia a promuovere “The Nickel Boys”e incontrò quasi tutti quelli che poi di questo libro parlarono e scrissero. Non così tanto se contiamo giorni e mesi – è questione dell’autunno scorso – ma a sufficienza per creare un’opportunità di riesame, o di lettura ex novo come nel mio caso, alla luce di due fatti accaduti nel mentre. Il primo fatto e è che Colson Whitehead con questo libro ha vinto il Pulitzer nella categoria “book, drama & music” sezione fiction; il secondo fatto è il virus pandemico.

Colson Whitehead non è principiante del Pulitzer – e questo punto è notevole. Era difatti stato premiato nel 2017 per “La ferrovia sotterranea“, ottocentesca epopea antischiavista che, seppur romanzata e dai tratti fantastici, attiene a una delle questioni più difficili della storia a stelle e strisce denunziandone le tragiche brutalità mediante un’enfasi e una cura per i dettagli fuori dal comune.

Con “I ragazzi della Nickel” l’autore ripercorre attraverso una narrazione meno onnisciente e più realistica gli anni sessanta del Novecento, il periodo in cui negli Stati Uniti furono più aspri i fenomeni di segregazione razziale e violenza verso i neri. Il protagonista è Elwood Curtis, un ragazzino tirato su dalla nonna materna nei sobborghi di Frenchtown, il quartiere nero di Tallahassee in Florida, che per un caso sfortunato viene condannato a scontare un periodo di rieducazione alla Nickel Academy, un riformatorio vanto della contea – a leggere la brochure di presentazione – per i campus moderni, le proposte educative, la qualità dell’insegnamento.

La storia di Elwood e del suo amico Turner – tra bullismo, razzismo, corruzione, abusi fisici e psicologici, prigionia e torture – è opera di fantasia ma strettamente ispirata alle vicende realmente accadute presso la Dozier School for boys (1900-2011) di Marianna – FL, oggetto d’indagine del dipartimento della giustizia USA sin dal 2000. “I ragazzi della Nickel” insomma, pur conservando la struttura del romanzo, con tanto di flashback e tensione narrativa, si prende di diritto il merito di rappresentare uno strumento imprescindibile per una denuncia sociale e politica che tocca uno dei nervi scoperti di tutta l’amministrazione americana: quella dell’infanzia ai margini, dei modi ipocriti e inefficaci della scolarizzazione, della violenza domestica.

La famiglia è tema caro agli americani di questi tempi e la mole di testi sull’argomento denota per lo meno il tentativo di un’autoanalisi percepita necessaria. Non è un caso che gli altri due finalisti al Pulitzer fossero Ann Patchett (l’autrice di “Commonwealth” – “Il bene comune”) con “The Dutch House“, saga dinastica lunga 50anni, ambientata nei sobborghi postbellici di Philadelphia, e il romanzo “The Topeka School” di Ben Lerner, una storia di famiglia nel Midwest americano degli anni novanta. Sono chiare d’altra parte le motivazioni che hanno spinto alla scelta del vincitore dal momento che innegabilmente “The Nickel Boys” è “a spare and devastating exploration of abuse at a reform school in Jim Crow-era Florida that is ultimately a powerful tale of human perseverance, dignity and redemption” e soprattutto solleva questioni di responsabilità morale che non è più il tempo di lasciar correre – specie perché portate alla luce da uno scrittore che si posiziona in maniera particolare all’interno della società newyorkese da cui proviene (afroamericano, genitori di successo, scuole d’elite, incarichi universitari prestigiosi).

L’altro punto, dicevamo. Sono convinta che occorra pensare alle letture del passato, del prima – perché ormai è chiaro, anche nella lettura ci sarà un prima e un dopo – in questo modo: libri che potrebbero aiutare a dare un senso al poi e libri che potrebbero aiutare a dimenticarsene almeno per un po’, di questo dopo. “I ragazzi della Nickel” per me fa parte del primo gruppo, non tanto per via del confinamento (certo c’è pure quello, ben descritto in tutti i particolari più raccapriccianti di fronte ai quali il nostro Netflix-e-divano miseramente scompare inabissandosi in un oceano di vergogna, com’è giusto) quanto per quella volontà di resilienza, per quello spirito pervicace d’immaginazione e riso ostinato che ha sempre fatto parte del mondo dei bambini, accada quel che accada. E’ questo che muove di “The Nickel boys”, quel che più stringe l’animo del lettore: l’idea dell’infanzia spezzata – il momento in cui noi adulti dobbiamo dirci vedi, occorre un po’ di quel coraggio, nell’adattarci senza lagne, nell’impegnarci a consegnare ai nostri figli un mondo migliore di quello in cui siamo vissuti.

[Nota sulla lingua: non lasciatevi ingannare dall’esiguità del numero di pagine. A me i romanzi brevi piacciono perché significa che sono focalizzati su un modesto numero di personaggi ma brevità delle pagine non sempre significa rapidità di lettura. “I ragazzi della Nickel” va letto preferibilmente tutto insieme o comunque a larghe fette, dedicandogli del tempo: la lingua di Colson Whitehead (sia in originale sia nella precisa e dinamica traduzione di S. Pareschi) è tagliente, asciuttissima e possiede tanti strati di significato e riferimenti che una lettura veloce non sarebbe in grado di recuperare. Date tempo alle parole ma non così tanto da lasciarle andare – sì lo so: equilibrio precario, ma vale.]

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