"Lacci", di Domenico Starnone

Napoli, 1962. Aldo e Vanda, vent’anni, si sposano: giovanissimi, come vuole la convenzione. Nel 1965 nasce il primogenito Sandro, tre anni dopo viene Anna.
Vanda si dedica alla casa e ai figli, mette le pezze alle attenzioni svagate di un uomo non ancora adulto che arranca nel lavoro e che coi bambini ha un rapporto sconnesso:
“Finché ero vissuto con loro ero stato un padre distratto che per riconoscerli non sentiva il bisogno di conoscerli” (pag.80)  

racconta Aldo, ormai anziano.

“Ero giovane, mi sentivo attratta, non sapevo quanto è casuale l’attrazione. Per anni non sono stata felice, ma nemmeno infelice. Ho capito tardi che mi incuriosivano gli altri né più né meno di quanto mi avevi incuriosito tu. (…) Credevo di dover amare solo te per sempre e quindi guardavo da un’altra parte, stavo dietro ai capricci dei bambini. Che stupidaggine. Ammesso che io ti abbia mai amato – e oggi non se sono sicura. (…) Sicuramente per me non sei stato niente di unico, niente di intenso. Mi hai solo permesso di considerarmi una donna adulta: vivere in coppia, il sesso, i figli. Quando mi hai lasciata, ho sofferto soprattutto per quello che di me ti avevo inutilmente sacrificato. E quando ti ho riaccolto in casa, l’ho fatto solo per farmi restituire ciò che ti eri preso” (pag.104-105)


così di rimando una Vanda ultra settantenne apostrofa il marito.

La trama è tutta qui, in quest’ultimo capoverso: c’è che il trentenne Aldo all’improvviso se ne va di casa; abbandona moglie e figli e scappa a Roma con Lidia, maggiore età appena superata. Non si fa né vedere né sentire per quattro anni; si dedica all’amore (quello vero, quello mai provato con nessun’altra) e alla carriera professionale di autore televisivo che finalmente riesce ad intraprendere con profitto e riconoscimenti sociali.

“Hai sragionato con tranquillità saccente sui ruoli dentro cui c’eravamo imprigionati sposandoci – il marito, la moglie, il padre, i figli – e ci hai descritti – me, te, i nostri bambini – come ingranaggi di una macchina priva di senso, costretti a ripetere per sempre gli stessi movimenti insulsi” (pag.7)


scriveva Vanda al marito, in una delle tante lettere rabbiose e disperate che gli inviava durante gli anni della separazione, e rincara:
“Tu non stai affatto lottando contro un’istituzione opprimente che riduce le persone a funzioni. (…) Tu vuoi sbarazzarti di Sandro, di Anna, di me proprio in quanto persone. Ci vedi come un ostacolo alla tua felicità” (pag.14) 

“Mi era sembrato piacevolmente avventuroso sposarmi ancora ragazzo, senza aver finito gli studi, senza un lavoro. Avevo avuto l’impressione di tagliar via da me e l’autorità di mio padre e mettermi finalmente a capo della mia esistenza. (…) I primi anni erano stati belli (…). Poi l’avventura si era piano piano trasformata in una consuetudine imposta dai bisogni dei bambini. (…) Essere sposato, avere una propria famiglia in giovanissima età, era diventato non segno di autonomia, ma di arretratezza. A meno di trent’anni mi sentivo vecchio” (pagg.58-59)


Ribatte ora Aldo, a distanza di quarant’anni, chiuso nello studio – un grande e lussuoso appartamento di famiglia affacciato sul Tevere – leggendo quelle lettere che mai all’epoca si era sognato di aprire.

Potremmo continuare all’infinito citando passi interi di questo dialogo a distanza che da una parte riporta il testo delle missive inviate da Vanda ad Aldo negli anni dell’allontanamento e dall’altro ripercorre i pensieri solitari di Aldo ormai anziano nel momento in cui si trova, a causa di un evento drammatico e imprevisto, ad affrontare il proprio passato sepolto sotto decenni di consapevole oblio.

“Lacci” è la storia di un matrimonio come tanti, luminoso di nuovi inizi ed entusiasmi e poi via via sempre più spento e infine devastato dagli accadimenti brutti della vita, un po’ fortuiti, un po’ cercati; la storia di tutto quel disastro che la mancanza di sentimento porta con sé trascinando nel gorgo chiunque capiti a tiro, bambini compresi.

Di questo sfacelo coniugale si vorrebbe dare la colpa a qualcuno. Poi, a pensarci, vien fatto di non sapere da chi iniziare. Aldo, marito adultero e padre degenere. Eppure…

“Mi allontanai da mia moglie e dai miei figli andando dietro a ciò che mi appassionava. (…) Una nebbia secca copriva il passato in cui mi ero sentito lento e inconcludente” (pag.74)


E che dire di Vanda: casalinga frustrata, isterica scribacchina di lettere minatorie, che ora – agiata ottuagenaria – si prende il lusso, inacidita, di una vendetta tardiva fatta di musi lunghi e labbra strette. Sì, ma di che vendetta stiamo parlando?

“Ora che sono vicina agli ottant’anni posso dire che della mia vita non mi piace niente. Non mi piaci tu, non mi piacciono loro (NdR: i due figli), non mi piaccio io stessa” (pag.106)

L’amante Lidia, che muta e bellissima attraversa tutta la narrazione, prima presenza viva e poi, ancor peggio, ricordo soffuso di dolce nostalgia? Lei che non ha avuto rimorsi a prendersi un uomo più vecchio, sposato, e nemmeno un ripensamento poi nel mollarlo, dopo anni, quando lui accenna a un ricongiungimento coi figli. Ecco però cosa pensa Anna, di Lidia:

“In quell’occasione io guardai quella ragazza attentamente (…). Pensai: com’è bella, com’è colorata, da grande voglio essere identica a lei” (pag.130)

Sandro e Anna, appunto. Di cui sappiamo poco o nulla, riflessi nello specchio deformante dello sguardo genitoriale.

“Hanno faticato a trovare lavoro, lo perdono di continuo, si rivolgono a noi per i soldi, hanno vite disordinate” (pag.89)


Quante domande. Andiamo oltre, per il momento.

Leggere Starnone è tuffarsi nella lingua italiana, utilizzata in tutta la sua versatilità. Lessicale, prima di tutto, attraverso la varietà puntuale dell’aggettivazione. Nella struttura della sintassi modulata a misura del personaggio, una paratassi scarna e limpida a illuminare la praticità schietta di Vanda, un via vai di subordinate serpeggianti nel pensiero di Aldo. Mediante la poliedricità degli stili narrativi utilizzati: epistola, monologo, dialogo serrato.

L’unica debolezza dell’opera sta forse nelle parti in cui l’autore dà voce ai due figli ormai adulti. Se gli anziani coniugi vengono descritti accuratamente complice anche il sistema a flashback che dona alle immagini una piena tridimensionalità, i due figli sembrano cristallizzati nel momento presente e poco definiti.
Su Sandro l’autore si sofferma un po’ di più (forse grazie al fatto che comunque si tratta di un soggetto maschile, cosa che rende più facile il meccanismo di identificazione) offrendo un dipinto parziale ma abbastanza convincente, per deduzione: un bell’uomo di mezza età, colto, istruito ma poco incisivo nella vita professionale e ancor meno in quella sentimentale, costellata da numerose relazioni e altrettante paternità vissute a singhiozzo.
Con Anna, Starnone è invece più sfuggente: non sappiamo nulla di più se non quanto ci riporta lei stessa ma è un quadro distorto dai cattivi sentimenti che la donna prova verso di sé. Si vede brutta, sciupata, in sovrappeso:
“Sono grassa, mi si moltiplicano le rughe e i capelli bianchi” (pag.122)

Attribuisce gran parte delle esperienze negative della propria vita alla situazione famigliare, in un crescendo di recriminazioni che – onestamente – rivelano non tanto le mancanze dei genitori ma una particolare immaturità di pensiero. Un po’ banali e forse poco credibili perché tese all’esasperazione anche le riflessioni di Anna nei riguardi della decisione di evitare matrimonio e maternità: una scelta lecita, certo, che tuttavia ci si aspetterebbe un po’ più motivata, specie da una donna di più di 40 anni.

La totale assenza di pars construensriferita ai due figli adulti è ciò che più di tutto genera il pessimismo di fondo che pare insito nell’opera: non solo i genitori non si sono salvati dal disastro coniugale ma neppure i figli riusciranno a staccarsi dal proprio passato liberandosi dall’ereditarietà della colpa.
A questo punto occorre quindi da parte del lettore una decisione personale; se eleggere l’opera a paradigma assoluto di un esperienza drammatica di per sé atemporaleo se storicizzarla: i due giovanissimi sposi hanno vissuto il loro dramma personale e di coppia in un’epoca turbata da profondi cambiamenti sociali (la liberalizzazione sessuale, l’istituzione del divorzio, il crollo dei valori della famiglia italiana tradizionale) e per certi versi non avevano a disposizione il bagaglio culturale ed esperienziale volto a sostenere uno tzunami emotivo di queste dimensioni; forse non così si può dire per Sandro e Anna che dalla loro parte avrebbero l’esperienza e le conoscenze con le quali affrontare se stessi.

Occorre quindi decidere se considerare la situazione di Sandro e Anna come una condizione imposta e immutabile oppure, semplicemente, una scelta di vita (inconscia, di pigrizia, per comodo etc). Bisognerebbe domandarlo a Starnone.


Buona lettura 🙂

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