Data la densità e il vigore dell’opera non stupisce che l’autore – italoamericano di Cleveland classe 1975 (laureatosi in scrittura creativa presso l’Università dell’Iowa e attualmente impiegato presso il Fine Arts Work Center di Provincetown) – con “La Fine” sia arrivato, nel 2008, ad un passo dal National Book Award e poi, l’anno seguente, si sia aggiudicato il Young Lions Fiction Award e il Whiting Writers’ Award. E poi inserito nella prestigiosa classifica del «New Yorker» tra i venti migliori scrittori americani sotto i quarant’anni.
Dieci anni fa Scibona soggiornò a Roma “per imparare la lingua”, quella dei suoi antenati, che non aveva mai parlato (conosceva soltanto un po’ di dialetto malcongeniato). Scese fino in Sicilia per incontrare parenti mai visti e decriptare le loro storie, in un miscuglio di parentele inestricabili, dialetti incomprensibili e memorie perdute di nonni e zii e nipoti scomparsi nel nulla, inghiottiti dal profondo abisso di quell’oceano che venne a separarli, da migranti. Lo incuriosirono soprattutto queste storie di perdita e di abbandono spesso volontario, una sottospecie – per così dire – di tutte quelle vicende di migranti in terra d’America di cui tanti autori ci hanno narrato; come quella della bisnonna, (riproposta poi nel romanzo) che giovanissima aveva abbandonato la casa del padre per seguire l’innamorato statunitense e che non aveva più dato notizie di sé ai parenti lontani.
Epperò, attenzione. Non aspettatevi una delle “solite” epopee italoamericane a cui siamo abituati, con un inizio, uno svolgersi e una fine, tanti comprimari, qualche protagonista eroico e una contestualizzazione di grande impatto emotivo, tra povertà, miseria e desiderio di affrancamento sociale. Lo capiamo già dalla prima pagina, uno stream of consciousness, questo sì, potente e paradigmatico, ad opera di uno dei protagonisti, Rocco il panettiere, che nel giorno dell’Assunta, il 15 Agosto del 1953, mentre nel quartiere italoamericano di Elephant Park, a Cleveland, la folla accaldata intasa le strade e si prepara al passaggio della sacra processione, decide di abbassare la saracinesca del suo negozio (fatto mai accaduto sino a quel momento), e mettersi a riflettere sulla propria vita passata, presente e futura.
Così, in un gioco di relazioni spazio-tempo spesso soltanto intuibili e attraverso esperienze del tutto soggettive Scibona ci presenta tutta una galleria di personaggi in qualche modo correlati, concatenati l’uno con l’altro, che che riflettono, si atteggiano e agiscono in maniera tale da formare un qualcosa che potrebbe (potrebbe) essere identificato come una trama. Ma questa trama, a differenza delle più canoniche epopee di migranti che conosciamo, non è così pregnante per l’economia e la buona riuscita dell’opera: è, in parte, piuttosto anche un prestesto. O meglio, un mezzo.
Di che cosa si parla, qui, alla fine? Si fa presto a dire. Di un padre panettiere (emigrato dall’Italia) abbandonato dopo 15 anni da moglie e figli spariti nel nulla della provincia americana, uno dopo l’altro, alla ricerca di una vita migliore (o di una morte onorevole, a servizio della Nuova Patria). Di una anziana, distinta signora di origini siciliane, scappata in America da giovanissima, per amore, che ora si dedica ad attività illecite per puro spirito di compassione. Di uno stupro. E di molte altre cose, e persone ancora.
Questa densità di materia, incastrata e gestita tra tempi e spazi diversi e intersacati tra loro da continui e perentori flashback & forward, ha due meriti sostanziali: rendere il lettore consapevole di sé e del suo ruolo attivo all’interno del processo di fruizione del testo (leggi: caro lettore, te ne devi fare una ragione, qui si tratta di roba difficile da affrontare) e creare un lavoro letterario che sì certo si basa su fatti reali, poi chiaramente romanzati, ma che non cede in alcun modo né al fascino tentatore del “raccontare gli oggetti” (la via pià facile, per l’autore di epopee generazionali, per ricercare il coinvolgimento del lettore attraverso una contestualizzazione fittizia, perché si basa sulla descrizione maniacale dell’ “accessorio”: oggetti d’uso quotidiano, abitazioni tipiche, abiti, professioni…), né al tono popolare, o moraleggiante, o didascalico, o – peggio – strappalacrime (materiale già visto, già usato, già abusato, non facciamoci distrarre dal particolare, ci farebbe notare Scibona).
E’ questione che la fascinazione del testo non si basa in realtà neanche solo sul mezzo. Eh sì, stiamo parlando dello stile narrativo. Stream of consciousness a parte, che è gestito secondo i più rigorosi canoni del genere, la capacità visionaria di Scibona impressiona, l’ossessione per la purezza liquida della lingua seduce, smembrata di ogni sostanza e attributo e poi ricomposta in un continuo lavoro di lima e cesello che pone il lettore al centro dell’esperienza del leggere: il Lettore, lì a godersi la propria fatica fisica che di necessità gli occorre per rimanere legato alla pagina, malgrado, paradossalmente, non se ne riesca a staccare nonostante l’indubbia asperità del testo.
La forza del testo sta nella capacità che l’autore ha mostrato nell’identificare l’universalità.
I personaggi presi in esame, che narrano le loro vicende private tra molte reticenze, omissioni più o meno consapevoli ed esplicite, punti di vista assolutamente parziali, incompleti, spesso stravolti dall’emotività e distorte nel ricordo dal trascorrere degli anni, sono tutte legate assieme dallo stesso fil rouge: il dolore dell’emigrante, che viene dalla perdita e dall’abbandono delle proprie origini e della propria storia sia personale sia familiare, il senso di smarrimento per una realtà aliena mai del tutto compresa (per senso) e codificata (per lingua), e soprattutto la necessità, un sentimento di dolore quasi fisico, di conoscere – o per lo meno riuscire ad immaginare – identificandolo fra le mille connessioni quotidiane e imprimendolo nella memoria – il proprio futuro, ossia la propria fine. Che, non c’è storia che tenga, deve passare, inevitabilmente, attraverso l’accettazione del sé.
Nota di merito al traduttore Beniamino Ambrosi: “La Fine” deve essere stata una sfida di non facile risoluzione.
Buona lettura 🙂